
Le osservazioni che provengono da un poeta che ammiro, come Umberto Fiori, non possono che essere benvenute. Tanto più mi preme di chiarire un punto importante, che sembra essere sfuggito a Fiori. Il bilinguismo di cui parlo e a cui è dedicata la collana Ardilut non è soltanto quello fra dialetto e lingua, ma è una tensione interna a ogni autentico atto linguistico e segnatamente a ogni intenzione poetica. Nei testi che introducono i volumi della collana questo è detto più volte (“bilinguismo costitutivo di ogni autentica intenzione poetica” – Giusti, Quando le ombre sistaccano dai muri, p.11; “Il bilinguismo immanente in ogni autentica esperienza poetica” – Zanzotto, In nessuna lingua in nessun luogo, p.13; “il poeta è costitutivamente bilingue”, Pasolini, I turcs tal Friul, p.17). Il bilinguismo dialetto-lingua non è che il caso estremo – e, per la nostra tradizione poetica, esemplare – di questo bilinguismo immanente a ogni pratica poetica.
Quando Fiori conclude la sua recensione scrivendo che “il poeta che non ha alle spalle un dialetto – e non sono pochi, nelle generazioni successive a quella di Pasolini e Zanzotto – deve comunque fare i conti con l’“altra lingua”, con la lingua che da sempre resta celata, o rimossa, nell’italiano della tradizione scritta. Questa lingua “altra” può non essere un dialetto in senso proprio, ma nei confronti dell’italiano lingua grammatica svolge la stessa funzione: ricordare e ricercare l’al di là della pagina, della letteratura, il luogo in cui la parola è libera e viva” non fa che esprimere quella che era l’idea che mi ha guidato nel progettare la collana. Si trattava anche per me di ricordare oggi a chiunque scrive poesia che senza la tensione fra due lingue una interna all’altra non si dà poesia e che poesia è innanzitutto questa tensione.