

Il calendario che si sfoglia è al centro: 6 settembre, domenica. A casa Levi lo scrittore riceve la visita di un altro scrittore, Philip Roth. Il fotografo del quotidiano “La Stampa” li coglie davanti alla libreria. Si guardano e sorridono. L’ex chimico torinese sta parlando; la sua mano sinistra accompagna la parola con un breve gesto, il dito indice puntato in avanti. L’americano appoggia invece la mano destra sulla libreria mentre ascolta e tiene la sinistra infilata nella tasca dei calzoni. Levi indossa una camicia a maniche corte, Roth una giacca e la camicia a maniche lunghe. Si sono visti a Londra qualche mese prima, in aprile. È il 1986. A settembre lo scrittore americano, accompagnato da Claire Bloom, con cui vive, è arrivato a Torino. L’incontro ha per scopo un’intervista che uscirà di lì a poco sul “New York Times Book Review”. Confermerà il riconoscimento come scrittore di Primo Levi negli Stati Uniti. Nella fotografia hanno entrambi gli occhiali e la barba.
Quella dell’italiano è bianca e gli contorna il mento, quella dell’americano è su tutto il viso, nera e brizzolata; Roth comincia a invecchiare, finirà per tagliarsela e restare glabro sino al termine della sua vita. Sono due scrittori ebrei, ma questo la foto non lo racconta, lo dicono piuttosto le loro biografie. Non sarà questo il tema principale del loro incontro; piuttosto è la personalità umana e letteraria di Levi che Roth riesce a illuminare con un ritratto da par suo. Per quanto nei ricordi di Claire, attrice amata dall’ex chimico, emergerà in seguito la malinconia dello scrittore torinese, qui Primo sorride. Anche se il taglio dell’istantanea non ci permette di vedere i suoi occhi coperti dalle lenti degli occhiali, si può immaginare che stiano ridendo, esprimendo una gioia che si specchia nel sorriso di Roth.
La felicità è uno stato su cui Levi ha riflettuto a lungo e che ci ha consegnato in un passo memorabile di Se questo è un uomo. Nel vagone che lo conduce ad Auschwitz postula l’inesistenza della felicità perfetta, così come del suo contrario, l’infelicità perfetta; ci dice che la vita umana non conosce questi stati-limite e che le inevitabili cure materiali distolgono da ogni felicità duratura, e insieme anche da un’infelicità che sia tale. Questo è in definitiva un bene, scrive, perché entrambi rendono frammentaria la sventura che ci sovrasta e perciò sostenibile la sua consapevolezza. Tra le tante foto che sono state scattate a Levi questa è quella che ci restituisce quel tratto di felicità che gli appartiene, una felicità fuggevole eppure vera, la felicità che nasce dal suo scrivere, dalla curiosità per ciò che lo circonda, dalle amicizie e dagli incontri come questo. Roth ha saputo riconoscere in lui la natura d’artista nascosta dentro l’abito del chimico di professione e persino dell’ex deportato. Senza quell’artista probabilmente non avremmo neppure lo scrittore, uno scrittore felice di esserlo il 6 settembre 1986.