

Boris Johnson, Emmanuel Macron, Vladimir Putin, Donald Trump, Xi Jin Ping: sono questi i cinque leader che siedono nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU, il destino del mondo è nelle loro mani. Su scala minore, le sorti del nostro paese le abbiamo affidate ad Antonio Conte (il garante del contrasto), a Gigino Di Maio (le decrescita infelice) e al Capitano Selfini (il nostalgico reazionario). L'opposizione è guidata dall'evanescente Nicola Zingaretti, con i leader harakiri dell'estrema sinistra e la borgatara Meloni.
Inquietanti autocrati (o aspiranti tali). Personaggi folcloristici o inconsistenti. Stelle che tramontano prima di sorgere. Almeno dal punto di vista politico, nel 2019 abbiamo un problema. Una leadership efficace dovrebbe condurre verso una meta, raccogliere followers, esercitare il potere e gestire efficacemente. Oggi nelle democrazie occidentali l'obiettivo, quando non è confuso, è il ritorno a presunte glorie passate (“Make America Great Again” oppure “Riapriamo le case chiuse”), i followers sono quelli dei social, il potere reale è nelle mani della finanza, il management governativo è spesso carente, affidato a personalità di scarsa o nulla competenza.
Queste fragilità diventano ancora più evidenti di fronte alla nuova edizione di Leader, giullari e impostori, ripubblicato da Cortina venticinque anni dopo l'uscita. In questo “piccolo classico” Manfred F.R. Kets de Vries, psicoanalista e teorico del management, esplorava le patologie dei rapporti di potere, partendo dal presupposto freudiano che le nostre azioni – a cominciare da quelle dei potenti – non sono solo e tutte razionali. A leggere queste pagine, un anarchico arriverebbe alla facile conclusione che la patologia – o il fattore patogeno – è proprio il potere.
Nella prima frase, Kets de Vries spiega che “qualunque creatura viva in comunità ha bisogno di capi: ogni branco ne ha uno, si tratti di lupi, o di lupacchiotti” (p. 13). Ma, come avvertiva Bertolt Brecht, “quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto: 'È naturale' in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile”.
La riflessione sulla leadership si sviluppa quando i rapporti di potere da verticali (il potere assoluto del sovrano) tendono a farsi (leggermente, apparentemente) più orizzontali. La forza non è più sufficiente (se mai lo è stata), diventa necessario il consenso. Non basta essere sudditi, bisogna desiderarlo.
Da un lato ci sono i leader, con la loro volontà di potenza, dall'altro ci siamo noi, i cittadini, con le nostre debolezze. I potenti e i loro seguaci vivono in simbiosi, in un processo di rispecchiamento reciproco, a volte virtuoso a volte perverso. Sulle attuali patologie degli italiani, si è di recente espresso Vittorino Andreoli. Siamo un popolo di “masochisti nascosti” dietro la maschera dell'esibizionismo, siamo individualisti spietati che amano la recita.
“Noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. È una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo.”
(Stefania Signorile, Lo psichiatra Andreoli: “l’Italia è un paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti”, a questa pagina).
I nostri leader riflettono la nostra patologia, la nutrono e se ne nutrono. Grazie anche alle loro personali patologie e debolezze. Alcune case histories raccontate da Kets de Vries ben si adattano alle nostre figure di riferimento, con una aggravante. Alla base del recente degrado politico istituzionale c'è stata prima l'identificazione del leader e del manager (con Berlusconi): ma il leader non può accontentarsi della gestione (magari pro domo sua), deve avere visione e obiettivi... E poi c'è stata la cojncidenza del giullare e del leader, dal Gabibbo di Striscia la notizia a Beppe Grillo: il comico genovese è stato insieme il re e il fool che avrebbe dovuto “proteggere il re dal rischio di diventare arrogante”, è stato il leader e il buffone che avrebbe dovuto “aiutare il leader a rimanere saldamente ancorato alla realtà”. Il risultato di questi cortocircuiti sono l'arroganza e le fantasie economiche e geopolitiche dei nostri nuovi governanti.
Inutile sottolineare i rischi di una delle principali patologie del potere individuate da Kets de Vries: il narcisismo, oggi ancora più inquietante perché alimentato dai social.
Qui sta forse la maggiore mutazione antropologica che stanno vivendo la leadership e in generale la politica, rispetto a vent'anni fa. Delle quattro dimensioni della leadership, ai nuovi politici ne resta una sola. La prima, la capacità di visione e di indirizzare la collettività verso il futuro, si è appiattita sull'eterno presente della rete: a governarci (e a governare i nostri leader politici) è l'immediatezza dei “Mi Piace” e delle condivisioni. La terza sarebbe il potere: ma quello reale è stato trasferito – almeno in Occidente – dalla politica nelle mani dell'economia e della finanza: non a caso ci sembrano più leader Putin e Xi, che hanno in mano anche le leve del potere economico, attraverso gli oligarchi o tramite il Partito Comunista. I veri leader del nostro tempo sono Bill Gates, Steve Jobs, Brin & Page, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg... Anche costoro vivono molti dei rischi evidenziati da Leader, giullari, impostori, e magari ne esemplificano una quantità notevole, come Elon Musk, il demiurgo di Tesla. Però hanno saputo intuire e realizzare una visione aperta al futuro, su cui hanno costruto aziende che valgono il PIL di qualche Stato-nazione. Questi manager della distruzione creativa hanno saputo interpretare da grandi protagonisti l'ultima qualità della leadership, la competenza tecnica e manageriale. Purtroppo per i nostri governanti, la realtà è diventata troppo complessa per le capacità delle nostre classi dirigenti e per gli strumenti dell'esecutivo nazionale...
Ai politici 2.0 resta una sola delle quattro leve della leadership: l'esercito dei follower. È l'aspetto che avvicina di più la politica allo showbusiness. Ma il consenso sui social è molto volatile, deve alimentarsi di scandali sempre nuovi, di colpi di scena ogni volta più clamorosi. Per qualche tempo l'esercito dei troll può sostenere il profilo del capo e aggredire i dissenzienti, ma alla lunga prevale la stanchezza, il bisogno di nuovi stimoli ed eccitazioni, servono nuovi nemici. Anche perché ogni tanto, nonostante i mezzi di distrazione di massa, la realtà continua a mordere, Godot non arriva e dobbiamo inventarcene ogni volta uno nuovo.
Nel frattempo però questi leader piccoli piccoli, democraticamente eletti, stanno riscoprendo il potere più assoluto: quello di vita o di morte su un altro essere umano. Non uccidono più con il loro pugnale, o usando quello della giustizia, ma per via burocratica. La nuova “necropolitica” (per usare il titolo del saggio di Achille Mbembe pubblicato da Ombre corte) sull'immigrazione condanna a morte chi vuole attraversare il Mediterraneo o il Rio Grande sulla base di regole e norme apparentemente asettiche. Restano apparentemente entro i limiti dello stato di diritto ma lo vanificano.
Ai tempi dell'Impero Romano, furono pochi gli imperatori a morire nel loro letto, di norma venivano fatti a pezzi dalle congiure di palazzo e dai pretoriani. Le democrazie hanno trovato forme meno cruente di alternanza e di spoil system. Oggi in Occidente siamo approdati a una estrema volatilità, con leadership che durano lo spazio di un mattino (salvo poi restare a vagare come zombi politici) ma nel frattempo ritrovano un simulacro del potere assoluto. Una patologia della leadership politica che Kets de Vries non poteva prevedere.