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L’uomo nero


Fame e politica

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«A proposito di politica… non si potrebbe mangiare qualche coserellina?». A parlare è Totò in Fifa e arena, regista Mario Mattòli, anno 1948, esilarante parodia di Sangue e arena di Mamoulian. Una sfilacciata vicenda di passioni, equivoci, travestimenti, inganni, delitti, intrighi, denaro, serenate e canzonacce, sciantose e freaks, altezze e bassezze d’ogni tipo: il tutto perennemente in scena, sul palcoscenico continuo della vita e del suo raddoppiamento d’avanspettacolo. Una battutaccia, lo so, niente a che vedere con le leggende cinematografico-culinarie con cui abbiamo oggi a che fare. Ma forse una strada per ripensare a questo curioso binomio fra cinema e cibo, per il tramite di un inaspettato, imprevedibile ospite qual è la politica. Con la dovuta, seriosa ironia. 

 

 

Proviamo per esempio a chiederci: perché questa battuta fa ridere? Il motivo è semplice: come sempre nelle barzellette, sebbene sia apparentemente insensata essa inverte un modo diffuso di pensare, e cioè la maniera comune di concepire il legame fra cibo e politica. Il grande Totò sapeva esser comico in modo geniale. Lo faceva al modo dello sciocco del folklore tradizionale, dietro la cui patente ingenuità si celava un’arguzia tanto sottile quanto corrosiva. Indicava il re nudo. Domandare del cibo mentre si discute di politica – o, meglio, dato che si discute di politica – può sembrare il gesto incongruo e intempestivo di chi pensa solo allo stomaco, la boutade involontaria di un affamato ancestrale (si pensi all’epica degli spaghetti in molti suoi film). Ma non è difficile capire che, a un altro livello, il senso della battuta è diverso, forse opposto: dato che i politici pensano soprattutto a mangiare (nel senso figurato di “rubare”), e si sta parlando di loro, si potrebbe avere qualcosa da mangiare (nel senso letterale del termine)? Il gioco di sovrapposizioni fra significato metaforico e significato letterale è il meccanismo formale, tanto nascosto quanto evidente, che strappa il sorriso. Ecco emergere una delle migliori espressioni della cosiddetta antipolitica, atavico retropensiero dell’italiano medio di cui Totò, notoriamente, si faceva ironico, ostinato portavoce. Peraltro, a un altro livello ancora, la battuta del Principe della risata funziona grazie a ciò che, presupponendo, ribalta. Se fa ridere, nella sua mal celata verità, è anche perché generalmente si pensa il contrario: una cosa è la politica, un’altra il cibo. Almeno in linea di principio: i politici pensano alla cosa pubblica, o quanto meno dovrebbero; mangiare è faccenda che non li riguarda, o almeno non dovrebbe. In sintesi, la vis comica ha una tripla ragion d’essere: mette in scena la figura ridicola dell’indigente famelico; allude al significato figurato del termine “mangiare” (= “rubare”); rovescia il senso comune che tiene separati cibo e politica.

 

Fin qui la celebre battuta quale circola, estrapolata dal contesto, nel nostro immaginario diffuso, con le mille varianti che la rete, moltiplicatore non filologico di parole e discorsi, le ha fortunosamente donato. Per dirne una, la battutaccia ha un ruolo di primo piano nelle mille raccolte di aforismi che circolano nel web: come a innalzare uno scherzo da Commedia dell’Arte sino ai meandri oscuri della migliore filosofia.

 

Ma torniamo al film, alla ricerca di dove, come e quando questa battuta prende effettivamente corpo. La vicenda, ricordiamolo, ha inizio con dei pesci che decidono autonomamente di entrare nell’olio bollente di una padella. Vanno a farsi friggere: come quasi tutti i personaggi che incontreremo. E termina con un toro che s’incorna da solo, mentre Totò, sopravvissuto alla corrida («Deve avere uno stomaco di ferro», dicono i medici), grazie a un prezioso vassoio d’argento debitamente sottratto a chissà chi e usato a mo’ di scudo, diventa – fuori sede – una specie d’eroe nazionale. Tutta la vicenda spagnoleggiante, fra l’altro, è puntellata dal tema del cibo, o meglio del mangiare («Comer?… Com’è?»), tra paninazzi improbabili, raffinatissime table à thè, aperitivi infocati. 
 

 

La scena in questione è una vertigine di equivoci, e va vista con attenzione. Totò si trova in una stanza d’albergo, a Siviglia, con uno strano signore che aveva incontrato in aereo e che sembra volerlo sedurre. Lui, farmacista e tombeur de femmes, è travestito da hostess perché ricercato dalla polizia. E crede che l’altro, bandito e ricattatore, sia un commissario di pubblica sicurezza. Totò rivela il suo essere maschio; l’altro è convinto d’aver di fronte un assassino, e vuole coinvolgerlo nell’omicidio d’una bella e ricca miliardaria. Il malvivente confessa di non saper uccidere da sé, e ha bisogno della (presunta) competenza di Totò nel farlo: «Io il cervello e tu la forza, io la mente e tu il braccio… Pensiero e azione!». Al che Totò: «... Mazzini e Garibaldi! Ma io lo sapevo che si finiva col parlare di politica! A proposito di politica… non si potrebbe mangiare qualche coserellina?».  E aggiunge: «Tanto per…». Insomma, inquadrata la battuta nel contesto, si capisce che i due non stavano affatto parlando di politica. Il tema della politica, anzi il termine “politica”, viene fuori per ragioni, diciamo così, casuali, e cioè da un ritmo binario del discorso (uno/due, uno/due, uno/due) dal quale emerge, per gag, una deriva semantica da folklore risorgimentale (cervello/forza → mente/braccio → pensiero/azione → Mazzini/Garibaldi). La politica – né quella alta da integerrimo gestore della cosa pubblica, né quella bassa da ladruncolo che pensa solo ad abbuffarsi – non c’entra nulla con la narrazione in corso: è piuttosto una prima deriva di discorso sulla quale se ne inserisce una seconda, quella del desiderio di cibo. Cosa che ingigantisce a dismisura la comicità della battuta. 

 

Tutto il resto è corpo, geniale capacità cinesica di trasformarlo con una gestualità da marionetta. La scena si chiude con un gesto difficilmente traducibile a parole: Totò, seduto su un letto, vestito da hostess, con un improbabile cappellino sul capo, fa una smorfia tra il demoniaco e l’allusivo e, mentre proferisce un «Tanto per…», rotea la dita della mano destra più volte. Che significa questo gesto? Furbizia, appetito, ingenuità, bassezza d’animo, vago desiderio di cospirazione? Sì, certo, tutto questo e altro ancora. Sembra quella “napoletanità” che, narrano le cronache, colpì tanto Wittgenstein, portandolo ad abbandonare il logicismo del Tractatus per la più mite pragmatica delle Ricerche. Che sia questo gesto a meritarsi un posto d’onore nella storia della filosofia?

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“Fifa e Arena”, 1948

Baudrillard e lo spirito del terrorismo

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Il 6 marzo sarà il decimo anniversario dalla scomparsa di Jean Baudrillard. L’editore FrancoAngeli pubblicherà per questa occasione il volume Pornografia del terrorismo, raccolta dei principali saggi dedicati dal sociologo francese al terrorismo. Presentiamo in anteprima un estratto dalla prefazione di Vanni Codeluppi, che ha curato il volume.

 

Le società occidentali hanno costruito il loro successo nei secoli facendo costantemente agli individui delle promesse di benessere e felicità. Ciò le ha portate a tentare di eliminare ogni negatività e soprattutto la negatività più forte di tutte: la morte. Baudrillard ha accuratamente descritto questo fenomeno nel suo saggio probabilmente più significativo: Lo scambio simbolico e la morte. Nel quale però ha anche sostenuto che la morte, e con essa il negativo e il male, non può essere totalmente cancellata dalla società. Riemerge periodicamente affluendo negli interstizi e negli spazi liberi che le vengono lasciati. Perché si tratta di una dimensione ineliminabile dell’esistenza umana. Come il Male, che non può che essere portato a bilanciare la presenza del Bene.

Le società occidentali però, come si è detto, tentano costantemente di rimuovere la presenza della morte e dunque questa, quando si presenta, viene percepita come un oggetto assolutamente inaccettabile e incomprensibile. Proprio per questo i terroristi possono impiegarla per lanciare una potente sfida simbolica contro il sistema sociale. Infatti, «I terroristi sono riusciti a fare della loro stessa morte un’arma assoluta contro un sistema che vive dell’esclusione della morte, che ha eretto a ideale l’azzeramento della morte, la zero-morte» (Lo spirito del terrorismo, pp. 22-23). Questo, secondo Baudrillard, è lo «spirito del terrorismo».

 

 

La morte dei terroristi costituisce un’arma efficace perché più potente di quella reale, in quanto simbolica e sacrificale. Spostare la morte sul piano simbolico comporta di trasferirla in un ambito dove vige la regola della sfida e del rilancio. Dunque, dove a una morte si può rispondere solo con una morte uguale o superiore. Questo intendeva Baudrillard quando scriveva che «La tattica del modello terroristico consiste nel provocare un eccesso di realtà e nel far crollare il sistema sotto tale eccesso» (p. 25). La morte simbolica è una morte che viene portata all’estremo. Una morte anche di pochi individui, ma alla quale non si può rispondere se non con una morte altrettanto intensa, che però comporta inevitabilmente per il sistema occidentale una morte che non può essere perseguita: quella relativa alla sua scomparsa, al suo definitivo crollo. Il terrorismo, insomma, cerca di far sì che il sistema si suicidi in risposta alla sfida del proprio suicidio. Per questo Baudrillard ha scritto che le Twin Towers di New York, nel momento in cui sono crollate a causa dell’attentato compiuto da Al Qaeda, sono sembrate suicidarsi con un atto che rispondeva al suicidio dei terroristi e dei loro aerei. 

 

Le “torri gemelle” sono diventate un bersaglio del terrorismo a causa della loro natura fortemente simbolica. Erano infatti un simbolo del capitalismo economico e finanziario (Wall Street), ma anche un simbolo della cultura occidentale più avanzata: quella del codice binario dell’informatica e della clonazione genetica. Ne Lo scambio simbolico e la morte Baudrillard l’aveva osservato già 25 anni prima dell’attentato che le ha distrutte, interpretandole come un esempio, grazie alla loro natura duplice e gemellare, dell’impossibilità del sistema sociale di rappresentare e di comunicare. Perché, rispecchiandosi l’una nell’altra, rimandavano solamente a se stesse, puri simulacri senza più alcun riferimento a un originale. 

 

Ma con l’attentato alle Twin Towers si è presentato un salto di qualità da questo punto di vista. Perché è apparso evidente che è sempre meno possibile operare una precisa distinzione tra i media e la realtà. Le immagini televisive dei due Boeing che si infilavano nelle torri, come hanno detto in molti, avevano una tale intensità che sembravano direttamente tratte da un film di Hollywood e dunque impiegare lo stesso sofisticato linguaggio della fiction. Apparse infinite volte nelle immagini dei media, le due torri sembravano continuare ad appartenere a esse. Lo spettatore, pertanto, non era più in grado di comprendere se si trovasse di fronte a un evento reale oppure a una sua rappresentazione.

Molti hanno pensato che ciò volesse dire che il reale era ancora vivo e che la tesi di Baudrillard sulla realtà come simulazione e simulacro venisse a essere messa in discussione. Il sociologo francese però ha risposto nel saggio Lo spirito del terrorismo alle accuse ricevute con queste parole: «Ma la realtà supera veramente la finzione? Se sembra farlo, è perché ne ha assorbito l’energia, divenendo essa stessa finzione. Si potrebbe quasi dire che la realtà sia gelosa della finzione, che il reale sia geloso dell’immagine… È una specie di duello tra loro, a chi sarà il più inimmaginabile. Il crollo delle torri del World Trade Center è inimmaginabile, ma questo non basta a farne un evento reale» (p. 37). 

 

A ben vedere, la nuova fase del rapporto di commistione tra i media e la realtà è iniziata prima dell’attentato alle Twin Towers, in quanto già da tempo nelle società occidentali avanzate la realtà tendeva a confondersi in maniera crescente con le sue rappresentazioni. Non a caso Baudrillard ha sostenuto più volte che persino la guerra, nonostante la sua rudezza e la sua fisicità, non è reale. Già nel 1981 ha paragonato un film di guerra alla stessa guerra, cioè a un evento intensamente drammatico e tragico. L’ha fatto nel breve capitolo del volume Simulacres et simulation che ha specificamente dedicato al film Apocalipse Now di Francis Ford Coppola. Tale film infatti si presentava per Baudrillard come una specie di continuazione della guerra con altri mezzi, perché, a suo avviso, «La guerra s’è fatta film, il film si fa guerra, entrambe si uniscono attraverso il loro comune travaso nella tecnica» (p. 89). Tale film cioè, come la guerra, serve a testare la tecnica, a testare la sua potenza d’intervento attraverso l’impiego degli effetti speciali. 

 

All’inizio degli anni Novanta, Baudrillard invece ha scritto che la già annunciata guerra del Golfo non avrebbe avuto luogo perché la guerra è stata progressivamente ridotta a pura rappresentazione mediatica. E più tardi ha anche affermato che la guerra dell’Iraq iniziata nel 2003 poteva essere considerata una specie di film, in quanto era «talmente prevista, programmata, anticipata, prescritta e modellizzata, da aver esaurito tutte le proprie possibilità ancor prima di aver luogo» (Il patto di lucidità o l’intelligenza del Male, p. 111). La mediatizzazione cioè di tutti gli avvenimenti, guerra compresa, rende tali avvenimenti non più necessari, in quanto essi sono già virtualmente realizzati all’interno degli schermi elettronici. 

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Guerre mediatiche

Gianfranco Baruchello, i paesaggi invisibili

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«Scusate se vi disturbo, sono un pittore italiano e vorrei conoscere Marcel Duchamp». Così, ha raccontato a Hans Ulrich Obrist, si presentò un giorno Gianfranco Baruchello ai commensali d’una tavolata in un ristorante di Milano, El Ronchett di ran. Era l’11 settembre del 1962 e quel giorno, al «pittore italiano», cambiò la vita (le foto scattate a Duchamp che fuma il sigaro nella sua casa paterna, per dirne una, saranno il punto di partenza di Verifica incerta: il film di montaggio, realizzato due anni dopo con Alberto Grifi, vero atto di nascita della videoarte italiana).

 

Gianfranco Baruchello, Greenhouse installation view 1, ph Roberto Marossi, courtesy Massimo De Carlo.

 

E fu proprio Duchamp a dire – a Pierre Cabanne – la cosa più importante, riguardo alla pittura del discepolo: «fa dei grandi quadri bianchi, con delle cose piccole piccole che bisogna guardare da vicino». Se fare de visu l’esperienza dell’arte serve in genere ad apprezzarne lo spessore materiale, non è tanto questo (con qualche significativa eccezione) il caso di Baruchello. Andarci di persona significa invece poter avvicinarsi quanto serve, a quelle sue superfici, fino a sfiorarle col naso; e finalmente vederli, quei microscopici non-racconti, quegli «ambigrammi» – come li ha definiti Paolo Fabbri – «al limite dei codici linguistico e visivo» (nel maggio del ’58 l’altro incontro-chiave, Baruchello: alla prima personale europea di Cy Twombly, alla Tartaruga di Plinio De Martiis).

Quei paesaggi invisibili cosparsi di segni misteriosi, inintelligibili in qualsiasi riproduzione, non diventano per ciò meno misteriosi, anzi. Ma a quel punto si entra in una diversa dimensione dello spazio, e del tempo: e, volenti e nolenti, si viene risucchiati nel cosmo di Baruchello.

Proprio Duchamp aveva mostrato a Baruchello – ha scritto Achille Bonito Oliva – come quello dell’arte non fosse più uno spazio, bensì un campo: un «luogo aperto a tutte le possibili relazioni, policentrico e slittante su cui transitano parole, objet trouvé, immagini che vogliono fondare sempre percorsi del molteplice». Per questo il campo deve essere grande, e bianco: un punto zero luogo della massima potenza, atlante di tutti i possibili dove inscenare le proprie «microcosmogonie» (come le definirà Baruchello nel ’75; la Petite cosmogonie portative di Queneau, senz’altro, era fra i suoi livres de chevet: Exercises de style, sempre nel ’62, s’intitola una sua camicia “inutile” incollata col vinavil, alla maniera di Piero Manzoni, anziché semplicemente inamidata). Dirà nel ’63 Alain Jouffroy, il suo più fedele commentatore, che così il quadro «diviene il cantiere intellegibile di un mondo che non è ancora nato». 

 

Gianfranco Baruchello, Exercices de style, 1962, Fondazione Baruchello, Roma.

 

La bellissima mostra Greenhouse (a Milano, negli spazi di Piazzetta Belgioioso della Galleria Massimo De Carlo, fino al 18 marzo), con dodici opere per lo più di grandi proporzioni dal ’68 al ’96, prende il nome da un lavoro del ’77 e illustra nelle sue sorprendenti e polimorfe potenzialità, appunto, questo aspetto architettonico dell’ispirazione di Baruchello. I due lavori più estesi, i due grandi trittici intitolati rispettivamente Nella stalla della Sfinge (del 1980-1981) e Acrobata clandestino (1988), mostrano benissimo il principio “cartografico”, o più precisamente “planimetrico”, che domina il suo immaginario. 

 

Gianfranco Baruchello, Nella stalla della sfinge, 1980, courtesy Massimo De Carlo.

 

Moltissimi dei suoi lavori, infatti, si possono leggere come piante di ambienti più o meno vasti, in quanto tali accompagnati da minuziose legende – glosse, postille, le amatissime liste (ed è sintomatico che quelli bidimensionali siano destinati alla verticalità della parete, mentre i rari esempi aggettanti – i bellissimi Rilievi ideali del ’65, visti alla fondamentale mostra curata da Bonito Oliva e Subrizi nel 2011 al Palazzo delle Esposizioni di Roma, Certe idee– vengano esposti sul piano orizzontale). Greenhouse significa «serra» (i lavori che recano questo titolo sono piccole scatole di plexiglass contenenti mappe o plastici in miniatura dove, ha scritto Carla Subrizi, «venivano “curati” i sentimenti. Ogni pianta si soffermava su un ricordo, un desiderio, un’amicizia conservati, curati e mantenuti all’interno dello spazio-serra»), ma in inglese è un mot-valise che include due concetti-chiave della sua ricerca di quegli anni: il verde e la casa.

 

Gianfranco Baruchello, Acrobata clandestino, 1988, courtesy Massimo De Carlo. 

 

 

Nel 1973 infatti Baruchello, con la compagna Agnese, decide di trasferirsi fuori città, a nord di Roma, in una grande casa in campagna al km 6,5 di via di Santa Cornelia. Qui fonda l’Agricola Cornelia S.p.A., «con lo scopo sociale di coltivare la terra». E quello fa, Baruchello, per otto anni. Coltiva patate e barbabietole da zucchero, produce miele. I motivi di una scelta simile sono diversi o almeno diversi, di volta in volta, sono quelli che adduce Baruchello. Si era senz’altro per lui concluso un ciclo, esistenziale prima che artistico; all’impegno politico diretto ne seguiva uno più indiretto o meglio, forse, più diretto ancora – in nome del valore d’uso dell’arte (o, tout court, della propria attività). Si chiedeva polemico, allora, Baruchello: «occupare terreni incolti destinati alla speculazione edilizia, seminarci 5 (cinque) chilogrammi di barbabietola da zucchero e raccoglierne dopo qualche mese 84340 (ottantaquattromilatrecentoquaranta) chilogrammi, pari a tre autotreni con rimorchio, è più o meno artistico (perché “utile anziché inutile”) che praticare nello stesso periodo puri movimenti di terra tipo Land Art atti a modificare esteticamente le superfici?». A posteriori dirà a Obrist, invece, che si era trattato di «un’operazione molto provocatoria», in quanto tale assimilabile alla «società finta» fondata qualche anno prima, l’Artiflex (che, per esempio, metteva all’asta banconote) – da leggere a sua volta, insomma, nell’ambito della lezione duchampiana (a Obrist dirà Baruchello: «Duchamp odiava la natura», ma il suo discorso era «Art is what you call» e dunque «è stato importante per avermi dato il coraggio di fare quello che volevo fare»; nell’85 aveva così sintetizzato la sua lezione: Duchamp è «colui che dà l’autorizzazione»). 

 

Raccolto delle barbabietole agricola cornelia, s.p.a. 1975, documentazione fotografica della Fondazione Baruchello, Roma.

 

Sia come sia, l’esperimento dell’Agricola Cornelia S.p.A. si trova al centro di un notevole saggio di Simone Ciglia e Carlotta Sylos Calò, Il campo espanso. Arte e agricoltura in Italia dagli anni Sessanta ad oggi (pubblicato dal C.R.E.A., pp. 151 a col., s.i.p.), che mette a tema quelle esperienze che hanno trattato il campo rurale non più semplicemente quale repertorio iconografico e locus più o meno amœnus, bensì come «materiale attivo» nei suoi riferimenti oggettuali (nell’Arte Povera o appunto nella Land Art, nei Campi arati di Pino Pascali o nei «tappeti» di Piero Gilardi, sino alle inquietanti micro-storie di Moira Ricci: che all’ultima Quadriennale di Roma, non a caso, figurano esposte nella sezione “rurale” curata da Matteo Luchetti) e soprattutto nei comportamenti concreti: mettendo a fuoco le figure, vicine ma anche parallele, dello stesso Baruchello e di Joseph Beuys (che nello stesso ’73 visita per la prima volta l’Abruzzo, dove dall’anno seguente intraprende le colture cui si dedicherà, poi, pure nella tenuta di Weert in Olanda). Alla dimensione ideologico-didascalica e idealistico-mistica di Beuys (come la definì sferzante Bonito Oliva in uno storico dibattito con l’artista, a Pescara nel ’78) si contrappone la posizione ambigua e locale, in senso argomentativo, di Baruchello: il campo che ha scelto di occupare (e fisicamente coltivare) è uno dei «piccoli sistemi» (il sodale Jean-François Lyotard contrapporrà alle «grandi narrazioni» moderniste i suoi «“grandi magazzini” di storielle invisibili») che alla Land Art si contrappongono, allora, non in nome dell’utile contro l’inutile, bensì del locale, appunto, contro il monumentale: «penso a che cosa deve essere costato a Christo appendere la sua tenda attraverso il Grand Canyon», dirà Baruchello a Henry Martin nell’83 (ma già del ’62 è un Monumento ai non eroi).

 

Gianfranco Baruchello, Monumento ai non eroi, 1962. 

 

Un’altra volta Baruchello disse che il suo ritorno alla terra era da intendersi, sintetizza Ciglia, «come risposta polemica all’esplorazione spaziale» («invece di fuggire nello spazio dovremmo discendere al centro della terra, nei suoi organi vitali, nelle sue profondità»; una volontà d’inabissamento, rispetto alle tensioni del presente, negli stessi anni aveva il progetto di «Maison Poétique», appunto sotterranea, di Adriano Spatola e Claudio Parmiggiani). Eppure l’apertura alle stelle non era affatto estranea al suo immaginario. Al ’63 risale Grande Effetto Palomar, che (dirà lo stesso Baruchello) «testimonia la voglia di aprire il corpo […] o meglio: la testa. Lo spazio mentale si scoperchia, si apre ad un angolo visuale o pensabile […] come la cupola di un osservatorio stellare, appunto quello del monte Palomar» (analogia sulla quale deve avere a lungo rimuginato Italo Calvino, che accompagnò l’artista in un viaggio negli Stati Uniti nel ’66 e, nel catalogo d’una sua mostra a New York – GB. Recent works, Cordier & Ekstrom Gallery –, pubblicò la traduzione della prima delle sue Cosmicomiche…). In effetti l’Agricola Cornelia S.p.A. era stata anzitutto il luogo, il campo, ove – dirà Baruchello alla conclusione del progetto, nell’81 – sperimentare «schemi eterocliti di collegamento continuo tra realtà e invenzione, tra esistente e inconscio». 

 

Gianfranco Baruchello con Italo e Chichita Calvino all'inaugurazione di Baruchello, Il miele della pittura, Roma, Galleria la Margherita, 23 ottobre 1982. 

 

Ed è proprio questa dimensione interstiziale, fra il mondo che vediamo tutti i giorni e quello invisibile a occhio nudo, la caratteristica che rende unici i “paesaggi” di Baruchello. In una conversazione con Umberto Eco, nel ’70, aveva detto molto esplicitamente: «mi sono deliberatamente posto al confine di quella zona (che vedo come uno strato di terriccio umido sul quale l’io è sparpagliato in forma di gelatina informe) che sta tra l’inconscio e i tuoi 30, 40, 50 o 60 anni che siano. Mi sono occupato di fare la spola, trasportare senza più pudore cose attraverso questo confine» (un’immagine simile tornerà molto tempo dopo in un’altra conversazione, nel 2010: a Maurizio Cattelan che gli chiede se pensa di aver «percorso una strada», Baruchello risponde che a interessargli non è la lunghezza, di quella strada, ma la distanza che separa i suoi due versanti: «uno dei due lati è invalicabile e rappresenta la certezza dell’impossibilità, l’altro lato è gestito dal CASO e rappresenta invece l’incertezza del possibile»). Fra i suoi primi lavori si ricordano, sulle tracce di Bruno Munari, delle “macchine inutili”, diverse delle quali sono in effetti strumenti ottici, macchine per vedere (così, per esempio, in un disegno del ’51): e i primi paesaggi realizzati da Baruchello, negli anni Cinquanta, come scrive Carla Subrizi «a prima vista sembrano descrivere colline e orizzonti», ma «contengono figure che sono tutt’altro: sono palpebre che si chiudono e si aprono o restano socchiuse per vedere. L’occhio […] diventa una parte di un paesaggio della mente». In un testo inedito del ’63, dice Baruchello che «il quadro è sempre un dettaglio dello spazio mentale».

 

Gianfranco Baruchello, Il grado zero del paesaggio, 1963, Fondazione Baruchello, Roma.

 

Non a caso si mostrerà in seguito affascinato dall’immagine – resa celebre da Lacan negli anni Cinquanta – della Carte de Tendre inserita da Madeleine de Scudéry nel suo romanzo Clélie (1654-1660); anche Andrea Zanzotto, nel farla sua (nell’Ecloga IV delle sue IX Ecloghe, 1962), insisterà sull’atto del vedere: facendo capire come la terra fatta corpo (l’«artificiosa terra-carne», come l’aveva chiamata in Vocativo) non sia solo sessualizzata ma, in generale, sensibilizzata. Se è invisibile, il paesaggio, è perché nel sottrarsi al nostro sguardo esso ci guarda

Il primo film realizzato da Baruchello – nel 1963, l’anno prima della Verifica incerta– ha un titolo eloquente, Il grado zero del paesaggio. La cinepresa è immobile davanti al mare: ad essere ripreso è il movimento dell’acqua (e chissà se pure di questo si ricorderà Calvino, nello scrivere il finale di Palomar…). Il titolo rimanda al primo Roland Barthes (Le degré zéro de l’écritureè del ’53), ma anche ai processi di tabula rasa dell’avanguardia di quegli anni (il Gruppo Zero creato nel ’56 dagli amici tedeschi e olandesi di Piero Manzoni, in tal senso, non fu che il più esplicito; del ’64 è Il grado zero della poesia di Antonio Porta). Come dice Subrizi, «negli stessi anni in cui sperimenta il bianco e in cui con il Countdown da 2000 a zero (del 1962) misura lo spazio vuoto e incerto, questo film costituisce un grado zero dell’immagine in movimento: simulare il movimento tuttavia non cambiando l’inquadratura e abolendo la narrazione». Seppur di poco successivi (Sleepè del ’63, Empire del ’64), i primi, celebri film di Andy Warhol porteranno all’estremo questa pratica (che Baruchello torna a esplorare, a intervalli quasi regolari: del ’74-75 è Il Grano, del ’92 Marina, del 2006 Navi, lontanissime).

Non a caso i cicli successivi di Baruchello – ben testimoniati dalle opere esposte a Milano –, che sempre nel campo della Cornelia saranno dedicati all’immaginario rispettivamente della Casa (tra anni Settanta e Ottanta; del ’75 è il progetto della grande Casa in fil di ferro, abitazione «nomade» che verrà esposta solo nell’82, e che a Milano si trova al centro dello spazio espositivo) e del Giardino (negli Ottanta e Novanta), saranno dedicati essenzialmente a una «prospezione onirica delle case-madri del sogno e del passato personale». Ed è in questo punto, precisamente, che la sua ricerca si salda a quella – proprio a cavallo del Novanta giunta a definizione – di Michele Mari. In occasione della mostra milanese Humboldt Books pubblica infatti col consueto, affratturante fascino tipografico, un libro d’artista dal titolo Sogni (pp. 152 a colori, € 30): nel quale trentacinque annotazioni diaristiche di Mari sono giustapposte a sessantaquattro tavole a colori di Baruchello. Non più un “libro di viaggio”, come tanti altri libri fra quelli ideati da Giovanna Silva; o, almeno, non sulle coordinate di atlanti visibili: perché Immaginarie mete di viaggi sono un po’ tutte le immagini scelte da Baruchello nel suo In store, col «giardinaggio mentale» e le «mappe-biscotto» di «località» come quella «detta Dormiveglia». E dal canto suo Mari seleziona, fra i suoi oneirogrammi (o, preferisce definirli, Oniroschediasmi), quelli riguardanti «gli spazi e i percorsi, i volumi, gli arredi», «circonvoluzioni infinite della sua casa-case», in un piétiner sur place«di stanza in stanza, di casa in casa senza portarci mai fuori dalla Casa». La Casa infatti, proprio come L’Altra Casa (libro d’artista pubblicato nel ’79 da Baruchello) è per Mari, l’autore di Fantasmagonia e Asterusher (la meravigliosa «Autobiografia per feticci» impaginata colle foto di intérieurs di Francesco Pernigo, Corraini 2015) quella piranesiana della mente, «l’altra parte» – per dirla con Alfred Kubin – dove le pareti sono schermi, «superfici lucide» sulle quali «transitano segni», «numerini piccini» proprio come le scritte piccine nei grandi quadri-campi di Baruchello. Nel catalogo della mostra Uso e manutenzione (alla Galleria Schwarz nel ’65) il mentore di Mari, Giorgio Manganelli, aveva definito il quadro di Baruchello «un labirinto di emozioni periferiche, di insidie svagate e casuali, di suggerimenti e accenni elusivi», «in una rete di microscopiche, assurde, euforiche avventure». Alle spalle di chi li guarda, questi paesaggi-fondali, «si addensano micromostri, si librano sezioni di alghe, scaglie staccate a un qualsiasi animale». 

 

Gianfranco Baruchello, Mappe-biscotto, Le 13 isole in store, 1990, da Sogni di Humboldt books, 2017.

 

Gianfranco Baruchello, Villaggio da trent'anni nella stessa località detta dormiveglia in store, 1989, da Sogni di Humboldt books, 2017.

 

O forse quelle spoglie che restano a terra, alla fine dell’agone con Baruchello, appartengono alla bestia che, ahinoi, conosciamo meglio di ogni altra. Alla fine del testo di Mari lampeggia uno dei dialoghetti metafisici che punteggiano i suoi racconti più belli (come quelli di Tu, sanguinosa infanzia). Il sognatore cerca di resistere al sogno: «Verrà comunque il mattino». «Anch’esso farà parte di me». «E tutti i risvegli della mia vita?» «È questa, la tua vita». «E quando morirò?» «Allora incomincerai a sognarmi davvero».

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias» il 12 febbraio.

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Austerliz, di Sergei Loznitsa

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Non è necessario essere dei cultori del cinema per sapere che il documentario non è una rappresentazione fedele della realtà ma una sua costruzione interpretativa. Nello stesso tempo l’impressione di realtà e di oggettività ha una dimensione maggiore e invasiva, e tutti siamo sottoposti al suo possibile inganno. Più cerca di nascondere l’autore e gli strumenti di raccolta di quella realtà, maggiori devono essere le nostre attenzioni e astuzie. Più rende assoluta l’immagine, più dobbiamo interrogarci sulla sua esemplarità o eccezionalità. Più di altri documentari, Austerlitz del regista Sergei Loznitsa deve essere visto con questa cura perché la forza del suo messaggio è tale da concentrare tutta la nostra capacità visiva ed etica sulla selezione delle immagini operata dal regista, rendendo irrilevante tutto il resto. Loznitsa vuole provocarci, costringerci a prendere posizione, collocarci dalla parte del sacro e dell’inviolabile. Lo fa con tutta l’abilità di chi domina la Fata Morgana – intendo l’effetto ottico – quando cioè ci sembra di vedere qualcosa all’orizzonte e in qualche modo ne siamo attirati. Se però ci avviciniamo, le incorporee immagini che eravamo convinti di vedere assumono minore consistenza. Fino a sparire.

 

Il tema è semplice. Una giornata di turismo di massa nell’ex campo di concentramento di Sachsenhausen viene filmata soffermandosi a lungo, con la telecamera fissa, su alcuni luoghi e comportamenti dei visitatori. Sono comportamenti che irritano o scandalizzano lo spettatore: farsi fotografare in posa davanti al cancello di entrata dove campeggia la scritta Arbeit Macht Frei oppure davanti a un forno crematorio, l’uso compulsivo del selfie, mangiare un panino durante la visita, ascoltare musica e rispondere al cellulare, ridere e scherzare. Per spettatori un po’ più informati o raffinati risulta ancora più scioccante ascoltare le spiegazioni di alcune guide che nulla sanno del campo, che raccontano che lì c’era la messa a morte con lo Zyklon B e lo sterminio di massa, oppure che dichiarano candidamente che poco o niente conoscono delle vicende di Sachsenhausen. Guardando Austerlitz lo spettatore è portato quasi naturalmente a condannare atti che, nella immobile ripresa cinematografica, sembrano assurgere a prova oggettiva, indiscutibile.

 

 

Piaccia o meno, che abbia o meno una volontà provocatoria, il documentario di Loznitsa costringe a interrogarsi su quali ragioni e percorsi accompagnano i visitatori che si avvicinano ai luoghi della memoria, sul tema della conoscenza e della consapevolezza, e naturalmente sulla sacralità, il rispetto e verrebbe da dire la misura. Tuttavia si può allargare lo sguardo. Le immagini ci mostrano anche masse di persone che attraversano il campo con interesse e curiosità. Guardano, osservano, toccano, come facciamo tutti. Possiamo immaginare che la maggior parte conosca poco o niente, che tutto quello che saprà lo imparerà in quell’ora di visita. Magari è lì solo perché la visita è parte di un viaggio organizzato o perché per stare dalla parte della ragione e della democrazia almeno una volta bisogna andare a vedere un campo di concentramento. Pochi o tanti – non lo sappiamo – si sono dotati di guide esperte e competenti, in grado di trasformare la visita in un’esperienza densa. I visitatori che ci rimangono impressi sono però gli altri, coloro che denunciano poca o nessuna consapevolezza o interesse verso una qualche forma di rispetto che il luogo dovrebbe indurre. Visitano Sachsenhausen come farebbero con uno zoo, facendosi fotografare vicino al leone, oppure al Louvre a fianco della Gioconda. 

 

Non entro nella qualità artistica del documentario, non è il mio mestiere. Viene però da domandarsi se sul piano contenutistico la critica di Loznitsa non sia semplicemente poco utile. Non si può chiedere che tutti visitino i campi di concentramento come una tappa della cittadinanza europea per poi irritarsi perché quelle presenze hanno anche i caratteri del turismo di massa. Né possiamo attenderci che il mondo resti fuori, con le sue connessioni, modalità di guardare e imparare, stratificazioni di senso e di storia. Guardarne gli aspetti volgari non è particolarmente significativo né aiuta a capire granché dei processi educativi. Appare al contrario uno sguardo sacrale e/o snob, come se esistesse davvero un modo corretto per attraversare e interagire con i luoghi. La vera questione si colloca al di fuori di Sachsenhausen, nella strada compiuta per arrivarci e in quella da percorrere per tornare a casa. Soprattutto si colloca nel dopo, in ciò che abbiamo eventualmente imparato e rideclinato nel presente. Su questo le immagini di Austerlitz non dicono nulla. Sono immagini solo apparentemente in movimento, in verità hanno la stessa immobilità in cui sono stati immortalati e messi alla berlina i giovani all’interno dei fotomontaggi del progetto Yolocaust.

 

Non mi si fraintenda. I comportamenti stigmatizzati da Loznitsa sono francamente imbarazzanti, verrebbe da dire imperdonabili, assumendo qui la parola nel suo significato più popolare. Tuttavia, mi sembrano appendici, residui di una geografia della memoria che ha assunto peso e consistenza nell’identità europea e in quelle nazionali, portando con sé, come è naturale, contraddizioni ed esasperazioni, viaggi e domande. E persino, anch’esso con tutti i suoi limiti, il Giorno della Memoria. Sinceramente lo preferisco al lungo silenzio del dopoguerra. Perché l’indicibile, l’inimmaginabile e l’infotografabile ci allontanano semplicemente dalla storia. Ed è di storia, più che di memoria, che abbiamo urgentemente bisogno.

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Esiste un modo corretto per attraversare quei luoghi?

Fino a che punto possiamo interpretare?

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Sottotitolo: 
Da Foucault a Eco

Cinquant’anni fa uscivano in Francia gli atti del Colloquio di Royaumont, svoltosi tre anni prima, che avrebbero segnato i destini della filosofia “continentale” all’insegna della Nietzsche-Renaissance: una rinascita dell’interesse per la figura e l’opera di Nietzsche, definitivamente riscattato dalle strumentalizzazioni naziste, preparata anche dalla pubblicazione nel 1961 del poderoso corso di Heidegger e, soprattutto, dall’edizione critica nel 1964 delle opere di Nietzsche, curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Tra gli interventi di quel convegno, quello di Michel Foucault, che, ricordiamolo, poco prima di morire sulle pagine di Les Nouvelles littéraires dichiarerà di essere sempre stato “semplicemente un nietzschiano”, presenta una singolarità. Nietzsche, nel saggio, è in compagnia degli altri “maestri del sospetto”, Marx e Freud, che, a differenza di Ricoeur, non sono visti da Foucault tanto come coloro che dubitano della coscienza trasparente a se stessa, di cartesiana memoria, e l’allargano demistificandone i pregiudizi o i condizionamenti che su di essa operano l’ideologia borghese, le pulsioni libidiche o i valori della tradizione morale e metafisica. Gli autori della Nascita della tragedia e della Genealogia della morale, del Capitale e dell’Interpretazione dei sogni non mettono in campo un soggetto che accede a una verità più profonda di se stesso, ma un nuovo sistema di interpretazione, una nuova possibile ermeneutica, che coglie il senso profondo nell’esteriorità, che decifra, cioè, i segni disposti sulla “superficie” dei rapporti di produzione, dei sintomi e dei lapsus, delle pulsioni vitali alla base di sentimenti morali, idee, valori, che trascendono il soggetto e lo costituiscono. Ma, nello stesso tempo, Marx, Freud e Nietzsche, che fa da capofila in questo, ci consegnano questo compito dell’interpretazione come infinito, senza la possibilità di un compimento che attinga un’origine o un fondamento ultimo. Infatti, scrive Foucault, “se l’interpretazione non può mai giungere a compimento, è semplicemente perché non c’è niente da interpretare. Non c’è niente di assolutamente primario da interpretare, perché in fondo, tutto è già interpretazione, ogni segno è in se stesso non la cosa che si offre all’interpretazione, ma interpretazione di altri segni”. 

 

 

Quindi, ogni interpretandumè di per sé già intepretans. Così, Marx interpreta i meccanismi del capitalismo interpretati come “naturali” dall’economia politica classica; Freud scopre dietro i sintomi non traumi originari ma fantasmi carichi di angoscia, che sono già nodi interpretativi. In questa prospettiva, l’interpretazione è obbligata ad auto-interpretarsi sempre e a investire l’interprete stesso, chi ha posto l’interpretazione, in un gioco di rimandi speculari e di inversioni (ma anche di lotte), per cui, se Marx ha ragione, Nietzsche è un fenomeno della borghesia del suo tempo, oppure, se Freud ha ragione, bisogna indagare l’inconscio di Nietzsche. E così via. Pertanto, se l’interpretazione precede il segno e il segno è già un’interpretazione che non si dà come tale, “la morte dell’interpretazione – concludeva Foucault – è credere che ci sono dei segni che esistono primariamente, originariamente, realmente, come marche coerenti, pertinenti e sistematiche. La vita dell’interpretazione, al contrario, è credere che non ci sono che interpretazioni.

 

Mi sembra che bisogna comprendere bene questa cosa che troppi nostri contemporanei dimenticano: l’ermeneutica e la semiologia sono due feroci nemiche. Una ermeneutica che si pieghi di fatto su una semiologia crede all’esistenza assoluta dei segni: abbandona la violenza, l’incompiuto, l’infinità delle interpretazioni, per far regnare il timore dell’indizio, e sospettare il linguaggio. Riconosciamo qui il marxismo dopo Marx. Al contrario, un’ermeneutica che si avvolge su di sé entra nel campo dei linguaggi che non cessano di auto-implicarsi, la regione mitica della follia e del puro linguaggio. È qui che riconosciamo Nietzsche”. Si può dire che, per Foucault, l’evento della filosofia nietzschiana non coincideva con l’ultimo atto della storia della metafisica, secondo la nota lettura di Heidegger emersa in quegli anni, ma nell’approdo più consapevole e coerente di due “sospetti” che hanno sempre accompagnato le culture indo-europee: il sospetto che il linguaggio voglia dire altro rispetto a ciò che dice e il sospetto che ci sia linguaggio all’infuori del linguaggio. Fedele fino alle estreme conseguenze al “lieto messaggero” della morte di Dio, che decretò anche la fine della “cosa in sé” e dell’esistenza dei fatti in nome del gioco infinito e conflittuale delle interpretazioni, Foucault opponeva allora l’ermeneutica, con il suo portato demolitore rispetto alla concezione della verità come corrispondenza alle “cose” fuori di essa, alla semiologia di stampo desaussuriano, dove c’è un codice a stabilire l’equivalenza tra segno e significato già dati.

 

Sempre alla fine degli anni sessanta, Umberto Eco avviava però gradualmente una rifondazione della semiotica, facendo riferimento non tanto a De Saussure ma a Peirce, lungo la parabola che lo porterà, da La struttura assente (1968) al Trattato di semiotica generale (1975), a vedere nel segno ciò che interpreta un altro segno, a sua volta ancora interpretabile, in un processo illimitato di semiosi, che coinvolge sempre triadicamente il segno, l’oggetto e l’“interpretante”, inteso come costrutto culturale o convenzione socialmente pattuita. Ma, a differenza del Foucault di Royaumont, questo percorso conduce Eco a ritenere che la condizione di possibilità dell’ermeneutica stia nei limiti che l’essere o il reale pongono al discorso interpretativo piuttosto che nella loro assenza: “Se assumessimo che dell’essere si può dire tutto non avrebbe più senso l’avventura nella sua interrogazione continua. Basterebbe parlarne a caso. L’interrogazione continua appare ragionevole e umana proprio perché si assume che c’è un Limite” (Kant e l’ornitorinco, 1997). Infatti: davvero non c’è “nulla” da interpretare e non si dà mai un interpretandum? Davvero l’interpretazione è sempre risucchiata in un circolo infinito nel quale può solo riprendere continuamente se stessa e generarsi, per così dire, per partenogenesi? Se non c’è una “realtà” che si offra all’interpretazione per essere decifrata nel suo senso ultimo, non c’è forse almeno una realtà che c’impedisce certe interpretazioni e certi percorsi di senso?

 

È proprio quest’ultima, infatti, la tesi di Umberto Eco. Una certa conformazione del nostro corpo c’impedisce d’interpretare il cacciavite come qualcosa di utile per grattarci un orecchio; l’esperienza c’impedisce di interpretare un grave come qualcosa capace di muoversi alternativamente verso il pavimento o il soffitto della nostra casa (lo può fare un poeta, ma in riferimento a un mondo possibile). In questi casi, il reale si oppone e resiste a certe nostre interpretazioni, che dovranno prendere altre direzioni; in altri termini, non c’è una “cosa in sé”, ma di sicuro si manifesta una “cosa che dice no”. In conclusione, per Eco, “ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l’oggetto da interpretare non ammette” (Di un realismo negativo, 2012).

 

Ma a parte la differenza sul modo di intendere, in senso assoluto o limitato, il compito infinito dell’interpretazione, è indubbio che entrambi, Foucault ed Eco, hanno incarnato con il loro lavoro non solo scientifico, ma giornalistico, civile e politico, due esempi di quel “coraggio di dire il vero”, inteso come abito intellettuale e comportamentale, di quello stile parresiastico, in attrito con il “vero” imposto dai poteri dominanti e dall’ordine del discorso, a cui Foucault s’interessò anche nei suoi lavori genealogici, durante i corsi al Collège de France, poco prima della morte.

 

Questo sì, da intendere a maggior ragione come un compito infinito, per Foucault, perché, come dichiarò in una delle sue ultime interviste, “niente è più inconsistente di un regime politico che è indifferente alla verità; ma niente è più pericoloso di un sistema politico che pretende di prescrivere la verità. La funzione del ‘dire il vero’ non deve prendere la forma della legge, così come sarebbe vano credere che risieda a pieno titolo nei giochi spontanei della comunicazione. Il compito del dire il vero è un lavoro infinito: rispettarlo nella sua complessità è un obbligo di cui nessun potere può fare economia. Salvo il caso in cui s’imponga il silenzio della servitù” (Le souci de la verité, “Magazine littéraire”, maggio 1984).

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Da Foucault a Eco

Gli strani gesti negli ultimi ritratti di Malevič

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Nei ritratti eseguiti negli ultimi anni della sua vita, Kazimir Malevič mette in scena un linguaggio gestuale, per trasmettere messaggi in codice al suo popolo. Riprende il repertorio dei gesti utilizzati dai pittori del XV e XVI secolo. Nel ritratto di una operaia russa del 1933, Malevič raffigura la giovane mentre compie gesti delle mani che balzano all’occhio per la loro apparente incoerenza. Sono gesti che non sembrano avere a che fare con il suo lavoro in fabbrica o essere connessi con la produzione.

 

Robert Fludd, Il nulla che è stato prima dell'universo in Utriusque Cosmi, 1617.

 

E nemmeno paiono legati a una naturale gesticolazione nel quotidiano. Lo sguardo della donna è assorto, fisso nel vuoto, è altrove. Malevič ha sottratto qualcosa dal suo quadro. E questa assenza rimarca il non marcato. La sottrazione ha un valore concettuale, dello stesso peso rispetto alla scelta di lasciare spazio alla sensazione pura nell’arte, tradotta in una figura geometrica monocroma (quadrato, cerchio, rettangolo) su sfondo bianco. Il ritratto, con l’inserimento di questi gesti, diventa un’immagine altrettanto profonda, evoca qualcosa che nel quadro è stato escluso.

 

Kazimir Malevic, Ritratto di operaia, 1933.

 

Guardando attentamente si percepisce la sua natura tragica, ovvero l’immagine di una madre che è stata privata del suo bambino. In modo molto sottile, Malevič la rappresenta come fosse una Madonna che sorregge un bambino invisibile, cancellato o sottratto dal regime staliniano. Lo sguardo dell’operaia ha parentele con quello di molte madonne raffigurate dai pittori italiani del Rinascimento, uno sguardo assorto e melanconico, che pre-sente la morte futura di Gesù. Esemplari sono la Madonna Lochis (1475) di Giovanni Bellini, ora conservata a Bergamo nell’Accademia Carrara, e la Madonna col Bambino (1496-99 ca.) di Giovan Battista Cima da Conegliano e bottega, ora nel Museo Civico di Treviso.

 

Lippo di Benevieni, Madonna con bambino, 1330, Firenze, Collezione Cosimo degli Alessandri. 

 

Un precedente calzante nella postura e nella posizione delle mani è la Madonna con Bambino (1330) di Lippo di Benevieni, ora a Firenze nella Collezione Cosimo degli Alessandri. L’ideatore del suprematismo, forse costretto dai burocrati a conformarsi con i canoni del realismo socialista, con un’intuizione semplice e funzionale cripta il suo messaggio critico, trasformando il ritratto in una testimonianza reale di ciò che accadeva intorno a lui in quegli anni. La giovane operaia, o meglio la creatura assente che tiene tra le mani, assume il significato di un segno assoluto, un’immagine non meno potente e terribile del Quadrato nero (1915), che è comunque presente, come fosse la firma dell’autore, in miniatura, sotto il gomito destro della donna ritratta.

 

Giovanni Bellini, Madonna Lochis, 1475, Accademia Carrara, Bergamo. 

 

Nel suo autoritratto del 1933, intitolato L’artista, Malevič si raffigura come fosse Cristoforo Colombo, identificandosi con la figura dello scopritore di un nuovo mondo, ovviamente riferendosi alla sua scoperta del suprematismo. I suoi riferimenti iconografici sono riconducibili al ritratto del navigatore italiano, ora al Galata Museo del Mare di Genova, e a quello dipinto da Sebastiano del Piombo nel 1519, ora custodito nel Metropolitan Museum di New York, risolto pittoricamente avendo in mente anche certi ritratti presenti negli affreschi di Mantegna e di Ghirlandaio.

 

Sebastiano del piombo, Ritratto di Cristoforo Colombo, 1519, New York Metropolitan.

 

Nel gesto della mano destra, con il pollice alzato e le altre quattro dita distese in orizzontale verso il lato sinistro, qui l’artista lascia trasparire il suo intento spirituale, la sua concezione alta e suprema della pura pittura, coniando il termine “suprarinascimento”. Il cenno è ripreso da un’immagine di Sergej Radonežskij o Sergio di Radonež (1322 – 1392), il più grande leader spirituale e riformatore monastico della Russia medievale, ovvero il più venerato dei santi russi.

 

Giovan Battista Cima da Conegliano e bottega, Madonna col bambino, 1496-99, Treviso, Museo civico. 

 

Malevič ha affermato di aver dipinto il Quadrato nero, ovvero la sua prima opera avanguardista, nel 1915, come in uno stato di trance mistica, ispirato da influssi esoterici. Alla prima mostra suprematista venne esposta nell'angolo destro della sala accanto all'ingresso, nella posizione in cui venivano appese nelle case le icone ortodosse delle Madonne, secondo la tradizione russa.

 

Kasimir Malevic, Ritratto maschile, 1933. 

 

Chissà se l’artista russo aveva visto l’immagine del nulla che è stato prima dell'universo, presente nel libro Utriusque Cosmi (1617) di Robert Fludd: un quadrato nero, che occupa quasi totalmente l’intera pagina, con una minuscola scritta “Et sic in infinitum” su ogni lato, per suggerire una dilatazione nello spazio e nel tempo.

 

Kazimir Malevic, Autoritratto, 1933.

 

Un’immagine visionaria di forte impatto concettuale e filosofico, che è stata realizzata dall’incisore svizzero Matthäus Merian, su indicazioni dello stesso Fludd, medico rosacrociano, astrologo e filosofo neoplatonico, figlio del tesoriere alla corte della regina Elisabetta I d’Inghilterra. Nel libro compare il ritratto di Fludd, colto mentre compie un gesto simbolico con la mano destra sul petto, un segno non uguale a quello che compie Malevič nell’autoritratto ma con un simile significato di natura esoterica.

 

Anonimo, icona di San Sergio di Radonez anni '20, del XV secolo. 

 

Nell’ultimo periodo della sua vita, all’interno di una ripresa dei fenomeni neofigurativi negli anni Venti e Trenta, Malevič rivisita l’arte del Cinquecento italiano e nordeuropeo, i modi presenti nei ritratti della pittura umanistica. Dopo lo “zero delle forme” compiuto tra il 1915 e il 1918 e dopo la scelta di concentrarsi completamente sull’idea teorica del suprematismo, l’artista mostra la volontà di riprendere la sua attività pittorica, con soggetti che possono essere accettati dal regime, intessendo comunque una sottile denuncia sociale, un silenzioso corpus di opere che testimonia il disagio di individui anonimi e solitari, costretti nella collettivizzazione del lavoro agricolo o industriale.

 

Ritratto di Robert Fludd in Utriusque Cosmi, 1617.

 

Nei ritratti tardi del 1933, firmati con un piccolo quadrato nero, Malevič trasferisce lo spirito del suprematismo negli elementi geometrizzanti degli abiti, dando molta importanza ai gesti delle mani compiuti dai soggetti, come se dovessero mettere in scena una performance dai messaggi allusivi, come se preannunciassero un’arte gestuale, dove il senso è celato nel segreto di un pugno chiuso, nel cenno tratto da una tradizione arcaica, nel magismo del gesto pagano o cristiano, nelle mani che muovono le dita attingendo a un linguaggio per segni, solo per iniziati, isolati nello sfondo monocromo.

 

Anonimo, icona di San Sergio di Radonez anni '20, del XV secolo. 

 

Questi ritratti, apparentemente anacronistici e lontani dalle soluzioni avanguardistiche, mettono in scena la loro solitudine estrema: il navigatore senza più navi, l’artista privato del suprematismo, la madre senza figlio.

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Solitudine

Alla ricerca della vita intelligente nell'Universo

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Da circa tre milioni di anni camminiamo su due gambe e ancora non ci siamo adattati perfettamente a questa nuova posizione, come dimostra il fatto che soffriamo spesso di mal di schiena. È un piccolo  svantaggio rispetto agli innumerevoli benefici che ne abbiamo tratto, tra i quali c'è anche l'aver potuto sollevare il capo e guardare il cielo. Può sembrare una cosa da poco, quasi un dettaglio romantico rispetto al resto, ma non è così. Lo sguardo verso l'alto, verso le stelle potrebbe avere segnato l'inizio della capacità speculativa, forse addirittura, come pensano alcuni, è stato il primo gesto che ha portato alla religione e alla spiritualità. Senz'altro è stato il primo inizio della cosmologia. Da allora non abbiamo più smesso di scrutare la volta celeste con meraviglia e timore, talvolta con la sensazione di essere persi nella sua ostile, immensa oscurità; talaltra, invece, sentendoci racchiusi in una sorta di bolla stellare protettiva in cui possiamo vivere al riparo dai pericoli dell'Universo circostante. Nell'ultimo secolo, la scienza ci ha costretti a pensare il mondo in modo del tutto nuovo, ci ha snocciolato  numeri e date astronomici – 14 miliardi di anni l'età dell'Universo, 4,5 miliardi quella della Terra, 3,5 la prima cellula procariote, 600 milioni di anni la comparsa dei primi organismi pluricellulari (anno più, anno meno) –

 che non hanno soddisfatto, ma piuttosto reso vorace il desiderio di sapere. E ha sdoganato dal campo della fantascienza un tema che da sempre alimenta la nostra immaginazione, ossia se esista e come potrebbe essere la vita extraterrestre. 

 

Lo dimostra un bel saggio uscito presso Raffaello Cortina dal titolo: Un mondo di mondi, sottotitolato: Alla ricerca della vita intelligente nell'Universo. Scritto a due mani dal filosofo della scienza Giulio Giorello e dal fisico Elio Sindoni, esso muove da un interrogativo antico che le conoscenze della cosmologia contemporanea hanno reso stringente: "Cento miliardi di galassie, da cento a quattrocento miliardi di stelle in ognuna di esse. Tutto questo solo per noi?" Qualcuno lo pensa. Altri sono convinti che l'Universo pulluli di vita. Non necessariamente, però, di vita intelligente (anche sulla Terra l'intelligenza si manifesta con una certa parsimonia). La questione della vita extraterrestre, infatti, presenta tre aspetti distinti: il primo, riguarda la possibilità che esista altrove vita biologica e, per quanto la sua produzione sia complessa e ancora non chiara del tutto, il fatto che ovunque nell'Universo esistano gli elementi chimici necessari e vi siano le stesse leggi fisiche, fa ritenere che forme elementari di vita biologica siano probabili. Il secondo aspetto riguarda la vita intelligente e la presenza di esseri coscienti, cosa possibile ma di cui per ora non si è trovata alcuna evidenza. Il terzo, infine, è che vi siano, da qualche parte, luoghi abitabili per noi, una questione piuttosto urgente dato che sappiamo di non potere restare sulla Terra per più di altri 4 miliardi di anni circa. 

 

 

Nella prima parte del saggio si racconta come, a partire dall'antichità fino alle dispute ottocentesche, diversi pensatori e letterati hanno immaginato la vita su altri pianeti. Si va da Anassimandro di Mileto che già nel VI secolo a.C. pensava esistessero altri mondi come la Terra nell'Universo, abitati da creature che avrebbero potuto evolversi, come immaginava fosse avvenuto qui, dai pesci a creature acquatiche le quali poi, "stanche dell'umidità", si sarebbero trasferite all'asciutto imparando a camminare; ad Anassagora, uno dei primi, nel V secolo a.C., a ipotizzare l'eliocentrismo e una teoria oggi nota come panspermia, secondo la quale "la vita sulla Terra [sarebbe] giunta dallo spazio, tramite qualche meteorite o qualche cometa, e che quindi la stessa cosa [potrebbe] essere successa anche su altri pianeti o satelliti".

 

Si cita, poi, la grandiosa e visionaria concezione dell'Universo di Giordano Bruno, tanto sicuro della presenza di infiniti Soli e Pianeti oltre il nostro Sistema Solare da preferire essere bruciato sul rogo piuttosto che rinnegare la sua idea. E il fatto che la sua intuizione (confermata dal 1995!) fosse più vicina alla realtà di quella generalmente accettata ai suoi tempi, resta una grande lezione che dovrebbe imparare chi fa fatica a mettere in discussione le proprie certezze. E non può mancare Jules Verne, il romanziere che avendo saputo "coniugare fantasia e rigore scientifico", sostengono Giorello e Sindoni, ha visto meglio e più lontano dello scienziato Camille Flammarion, entusiasta sostenitore dell'abitabilità degli altri mondi, compreso il Sole!

 

La seconda parte del saggio è dedicata alla contemporaneità. Riassumendo accuratamente i dati fondamentali delle conoscenze cosmologiche e biologiche attuali, gli autori si soffermano sulla loro compatibilità con l'ipotesi che la vita esista o sia possibile al di fuori della Terra. A questo proposito, sottolineano, è necessario tenere conto, trattando dello sviluppo della vita, di alcune nozioni acclarate a proposito di questo Universo, accennando anche all'ipotesi – plausibile a livello matematico ma non dimostrabile – che esso sia solo uno dei tanti appartenenti a un Multiverso.

 

Sappiamo che è immenso, ma non infinito, e molto vecchio, ma non eterno; sappiamo anche che è "amico della vita" biologica e intelligente, perché ne siamo la prova. Però, affinché la vita emergesse, sono state necessarie una serie incredibile di convergenze tra moltissimi parametri che, se fossero stati anche di pochissimo differenti, anziché favorirla l'avrebbero resa impossibile. Insomma, per arrivare a noi – come ha affermato chiaramente anche il fisico del CERN Carlo Tonelli – è stato necessario un Universo immenso e vecchio, con caratteristiche proprio esattamente uguali a quelle che ha. Giorello e Sindoni lo ribadiscono: "Le leggi della fisica hanno generato un Universo le cui condizioni sembrano le sole adatte allo sviluppo di esseri intelligenti". Questo principio/constatazione, spiegano, è noto come principio antropico e fu formulato  in due varianti, l'una detta debole e l'altra forte dal fisico australiano Brandon Carter nel 1974 (chi sia interessato ad approfondire può consultare, anche on line, la voce principio antropico nel Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, a cura di Giuseppe Tanzella Nitti e Alberto Strumia).

 

Dalla rivoluzione copernicana a oggi, tutto sembra confermare l'impressione kantiana che la terra sia "solo un sassolino che [ruota] intorno a uno dei miliardi di Soli sparsi nella nostra Galassia", tuttavia, si chiedono Giorello e Sindoni, "il nostro sassolino è davvero comune nell'Universo?" Non possiamo affermare con certezza che sia unico – proseguono –, ma la complessità delle caratteristiche storiche (evolutive) e cosmiche che lo rendono un pianeta "amico della vita" fanno pensare che sia perlomeno raro.

 

Non siamo in grado di dire che il cosmo sia davvero solo per noi creature della Terra, ma è certo che le condizioni grazie alle quali siamo arrivati sin qui sono molto precise, complesse e tutt'altro che frequenti. "L'esplorazione dello spazio, iniziata da oltre mezzo secolo, ha permesso di constatare che attualmente non sembra esistere, a parte la nostra, alcuna forma di vita intelligente nel Sistema solare, e che è estremamente improbabile… che sia esistita anche in passato". E anche nelle zone vicine della Galassia, laddove è stato possibile spingersi, per il momento non si sono trovate tracce di vita intelligente. Ma la ricerca continua, nonostante il monito lanciato ironicamente dal grande fisico Stephen Hawking, il quale pare abbia esortato a smetterla di cercare gli alieni, perché probabilmente ci sono e potrebbero avere per noi la stessa considerazione che noi abbiamo per i microbi! E, tuttavia, come resistere in tanta solitudine? Abbiamo già vuotato il cielo da Dio, è dura rinunciare anche agli extraterrestri!

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Un mondo di mondi

“Vita di Baudrillard”

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Perché tra virgolette? Le virgolette, come a suo tempo aveva osservato Umberto Eco, sono la cifra del postmoderno. L’indice di un atteggiamento che consiste nel non prendere sul serio, di petto, frontalmente, gli enunciati o le grandi narrazioni del Moderno. Una posizione di enunciazione laterale, disimpegnata, e che in fondo secondo i suoi critici tradurrebbe l’impotenza o la noia per la serietà delle ossessioni di fondazione. Una predilezione per le superfici, una strategia da cover che presuppone la sfiducia nell’originale, il gusto di tradire la verità, la storia. Si capisce che il grande scrittore del postmoderno sia stato Borges, con la sua passione per il falso e il simulacro. “Questo libro nasce da un testo di Borges, dal riso che la sua lettura provoca (…) facendo vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro”: così comincia Le parole e le cose, di Michel Foucault, uno dei libri-emblema di questa epoca.

 

Certo Baudrillard ha partecipato a questa gigantesca opera di irrisione. Chi c’era più postmoderno di lui, così compiaciuto da concedersi alla ribalta mediatica internazionale mentre ne stigmatizzava la distanza dal reale, il carattere simulacrale. Così generoso da comparire su quel palcoscenico che lui stesso denunciava come il trionfo della finzione assoluta – come, accanto a lui e prima di lui, per esempio, Barthes, capace di ironizzare anni prima sui nuovi miti immaginari, dalla Pasta Panzani alla Citroen DS al catch… bei tempi.

 

Ma prendiamolo sul serio: “(…) spesso un breve episodio (pragma brachy) una parola, un motto di spirito (rhema kai paidia) dà un’idea del carattere (emphasin ethous)”. Così esordisce Plutarco nella più celebre delle sue Vite. Ho in mente inevitabilmente, pensando a Baudrillard, un paio di immagini, che corrisponderebbero ai “brevi episodi” di cui parla il grande biografo. Indizi, forse “idee del carattere”.

La prima è una fotografia vista in una piccola mostra laterale nell’ambito di una Biennale veneziana, credo all’inizio degli anni Novanta; era una mostra di fotografie scattate da lui. Il tema, mi pare di ricordare, erano gli oggetti, la sua prima passione. In quello scatto, come me lo ricordo adesso, si vedevano un tavolo, forse una scrivania, con la luce bassa di una lampada da lavoro, e alcuni oggetti, forse strumenti di scrittura – penna, foglio, libro. Ricordo di avere imitato questa posa per qualche tempo, fotografando a mia volta il tavolo, la lampada, i libri, nella luce smorzata di un interno, insomma la mia “postazione di lavoro”. A volte il narcisismo può essere contagioso, come la dimestichezza con le descrizioni minuziose di un Butor, di un Robbe-Grillet o di un Perec di cui le foto di Baudrillard mi parevano la controparte figurativa.

 

La seconda immagine l’ho trovata qualche anno fa nell’edizione originale del libro di Cusset, French Theory. Risale al 1996, si vede lo scrittore sul palco dl un Casino del Nevada, “Whisky Pete’s”, indossa una giacca luminescente, pacchiana, da prestigiatore. Legge davanti a un microfono, e ha accanto una vistosa valletta. Il suo viso tradisce, mi pare, un certo comprensibile imbarazzo. 

Quale titolo dare a queste due immagini che risalgono entrambe al periodo di apice, di massima fama? Forse “lo scaltro genio dell’oggetto” e “l’intellettuale come simulacro”? il secondo titolo è mio, il primo è preso di peso dal testo di uno dei suoi libri.

 

Quanti Baudrillard ci sono, e quale è il filo, o il reticolo, che li tiene insieme? In fondo quando parliamo di una vita come la sua, è questo che ci interessa, una traccia di senso che ci rimanga. C’è il Baudrillard degli oggetti. E c’è quello della perdita del reale, prima nel segno, poi nel simulacro. E c’è infine il Baudrillard dell’Evento che ritorna riportando l’attenzione sull’archeologia dimenticata dello “scambio simbolico”:

 

“non c’è più scambio simbolico al livello delle formazioni sociali moderne; non più come forma organizzatrice. Certamente, il simbolico le assilla come la loro morte, ma proprio perché non ne regola più la forma sociale”.

 

Così esordisce enfaticamente nel 1976 uno dei suoi lavori più affascinanti, Lo scambio simbolico e la morte. Ma forse si potrebbe dire, guardando questa affermazione dal punto di vista di venticinque anni dopo: lo scambio simbolico “è” la morte. 

Si parte dall’oggetto, ma l’oggetto si derealizza in segno e l’economia politica finisce a riguardare segni che non hanno più referente. Ecco la radice della nozione di simulacro. Perdita di realtà, perdita di reale – le due nozioni, a mio parere, si confondono nelle pagine del sociologo francese. Infine, da questo oblio, da questa dimenticanza che ci segna come Occidente, emerge da un Altrove un Reale dello “scambio simbolico” che ha le sembianze del mostruoso. “Loro” ne sono capaci, noi non più.

 

Che cosa c’è, alla base? Intorno a quale nucleo gira questo percorso? Insomma, per dirla in un altro lessico che peraltro non gli era sconosciuto, quale sarebbe la “pulsione”? Il nucleo pare essere proprio la nozione di Simbolico – o meglio, del Simbolico come scambio in perdita – che il Baudrillard studioso, prima di diventare la superstar mediatica di cui abbiamo detto, riprende da Mauss e da Bataille. 

Ma c’è una deriva complementare che parte dall’oggetto, quella della seduzione, del “fatale”, o anche del sex appeal dell’inorganico che lui, e poi Perniola, riprendono da Benjamin. Qui l’oggetto non appartiene più al regime economico moderno dello scambio – Baudrillard corregge l’economia politica marxiana estremizzandola: si anima, seduce, non possiamo resistergli. La magia premoderna riemerge a valle dell’economia del segno.

 

Ma lo scaltro genio dell’oggetto è anche, per lui e per altri della sua generazione, lo scaltro genio della scrittura o del dispiegamento sontuoso del significante. Come accade per molti dei pensatori francesi di questa epoca, anche per lui è difficile distillare, per così dire, un senso puro, anemico, senza tener conto della superficie del linguaggio in cui il significato non è solo trasportato ma elaborato, costruito. Il fascino di questo autore – come il fascino di Foucault, di Derrida, di Barthes, di Lyotard – è anche nel piacere della scrittura, non risiede in un pensiero puro indifferente allo stile. Lo stile di B. non “somiglia” ma piuttosto risuona con la scrittura di autori come quelli citati, fino al punto che la parola, la frase, crea il senso. È un’evoluzione, dalla relativa secchezza “scientifica” de Il sistema degli oggetti, alla complicazione concettuale relativamente indifferente allo stile di Per una critica dell’economia politica del segno, all’aperta seduttività di Cool Memories o di La trasparenza del Male, o di L’America. Modi di épater o necessità strutturale di un pensiero che non ha altro modo di esporsi? I lettori di Baudrillard, credo, se lo sono chiesto.

 

Stile: “non posso farne a meno”. Lo stile è la pulsione nella scrittura. Un pensiero come questo non può esistere senza la sua configurazione linguistica o addirittura grafica. Due esempi, in breve: che cosa sarebbero il “pensiero” di Derrida o di Lacan senza la presenza dei giochi di un Queneau o di quelli ben più estremi di un Joyce? Di più: senza la necessità di “con-figurare” la pagina in modo che si possa esibire il carattere non sequenziale, ma piuttosto reticolare o disseminato, di questo pensiero? Pensiamo alla pagina grafica di Glas , il lavoro di Derrida del 1974 che fa convergere Hegel e Genet, o ai disegni delle cordicelle dei nodi borromei nell’ultimo Lacan del Seminario XXIII.

Nel caso di Baudrillard troviamo la stessa necessità ai limiti ambigui del compiacimento: come resistere alla seduzione di questa denuncia, alla sua eleganza: “(…) questa lucentezza pubblicitaria di tutta una subcultura commossa fino alle lacrime dalla propria convivialità, fremente di business, arricchita come l’uranio, abbellita dalle vestigia dell’autogestione e dagli stereotipi della comunicazione”? (Cool Memories, tr. it. p. 125). Oppure ancora, uno dei miei passi preferiti da L’America (1986, tr. it. pp. 10-11): 

 

“Ho cercato l’America siderale, quella della libertà astratta e assoluta delle freeways, mai quella del sociale e della cultura. (…) Ho cercato la catastrofe futura e passata del sociale nella geologia (…) quello spostamento lento, abissale, remoto che è l’erosione, e la geologia, fin nella verticalità delle megalopoli. (…) il deserto non è che questo: una critica estatica della cultura, una forma estatica della sparizione. (…) Deserto: reticolo luminoso e fossile di una intelligenza non umana, di una indifferenza radicale”.

 

 

Non c’è “teoria”, nello sviluppo ultimo del lavoro di Baudrillard, senza che si ceda alla seduzione dello stile.

 

Non tutto, certo, è dispiegamento del significante, benché questo sia necessario, come ho cercato di dire. Ripeto semplificando la sequenza così come la vedo io:

 

- oggetto/sistema

- secndo e valore di scambio-segno

- simulacro/seduzione/perdita (del simbolico) = sciopero degli eventi

- ritorno impossibile dello scambio simbolico (terrorismo)

 

E per questa via è possibile stranamente accostare il suo pensiero, e il suo atteggiamento, al suo più vistoso successore mediatico attuale, Slavoj Žižek. Questo confronto non è immotivato, se guardiamo anche brevemente le due posizioni possono emergere somiglianze inaspettate. Colpisce soprattutto uno slittamento, una dislocazione dei termini comuni. Per esempio, Simbolico e Reale. O anche, con riferimento alla generazione dei post-strutturalisti, Simulacro. Provo a dire nel modo più breve possibile.

“Reale”. Credo che Baudrillard avesse in fondo una nozione un po’ di senso comune, in proposito: il reale è la realtà là fuori, quella che abbiamo perduto attraverso il dominio chiuso dei segni. Al fondo, credo, c’è una nozione abbastanza tradizionale di “apparenza”, come il meno-di-realtà, o ciò che vi si contrappone. Proprio Žižek lo ha capito molto bene quando spiega polemicamente che la “realtà” è precisamente l’apparenza essenziale, condivisa. Cioè – e qui tocchiamo il punto centrale – “il Simbolico” o la fiction come ordine. La fictionè simbolica, sul piano svalutativo dell’immaginario starebbe invece la fantasy. Fiction, simbolico e “realtà” fanno parte del medesimo ordini: così il piano della finzione si sdoppia, non è tutto consegnato al simulacro. D’altra parte, “apparenza” e “simulacro” invece si contrappongono apertamente, “l’apparenza è simbolica, il simulacro è immaginario” (Žižek), ovvero appartiene al dominio della fantasy.

 

Così, se in modo un po’ rozzo facciamo ruotare o disponiamo come in un diagramma grafico queste parole-chiave, otteniamo un curioso esito: non totale estraneità, e nemmeno semplice omonimia, ma una vicinanza o una risonanza che ci permette di far agire una quasi-parentela. Il “reale” di Baudrillard sarebbe forse simile al “Simbolico” del Lacan riletto da Žižek, mentre il “simbolico” baudrillardiano somiglia in qualche modo, per il suo carattere estremo e radicale, piuttosto al reale-impossibile, al fuori-senso, su cui proprio il pensatore sloveno si accanisce con continui tentativi di definizione. Ma questo sarebbe in qualche modo parente del simbolico-scambio di Baudrillard, dell’eccesso, che come tale si nega proprio alla “realtà”. Nella sua profonda differenza, è notevole come questo Reale, che scrivo con la maiuscola, richiami quel reale-impossibile che nel frattempo Lacan elaborava sulla base di altre fonti.

Torniamo un momento sul simulacro, qui vediamo un’altra differenza, questa volta tra Baudrillard e i pensatori della sua generazione: per lui il simulacro pare essere una nozione critico-nostalgica, è l’esito di una perdita (del reale). Pare che il sociologo francese sia ambiguamente sedotto proprio da questa perdita, insomma che la perdita stessa procuri, attraverso la seduzione, un certo godimento. Il simulacro tuttavia è appunto un termine condiviso, conteso, in quegli anni, nella riflessione da parte di figure come Klossowski, Deleuze, Foucault.

 

Quale è in questo caso la differenza? La fine del lutto, si direbbe; insomma c’è in questi autori, a differenza di Baudrillard, una dimensione positiva del simulacro che porta fuori dalla nozione di “rappresentazione” che si regge sulla sua più o meno fedele adaequatio alla realtà. Foucault scrive infatti che il simulacro allontana (positivamente) dall’identico e dal suo dominio, Deleuze all’inizio di Differenza e ripetizione – 1968, perfettamente contemporaneo a Il sistema degli oggetti– osserva (ancora positivamente) che il simulacro è uno dei marcatori del nostro presente: “il primato dell’identità (…) definisce il mondo della rappresentazione. Ma il pensiero moderno nasce dal fallimento della rappresentazione e dalla perdita delle identità. (…) Il mondo moderno è il mondo dei simulacri. In esso l’uomo non sopravvive a Dio, l’identità del soggetto non sopravvive a quella della sostanza. Tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un ‘effetto’ ottico”. 

Dunque sarebbe interessante – ma qui non c’è spazio – comporre una grafica degli spostamenti, degli effetti di dislocazione, di vibrazione semantica. L’analisi delle derive storiche di questo gruppo di termini sarebbe anche un indizio del passaggio da un’epoca del pensiero e del sentire a un’altra, la nostra, che ha superato l’ossessione del simulacro ma continua a discutere sul simbolico.

 

Ma Baudrillard è davvero tutto “tra virgolette”? Se lo fosse, la sua opera di cui già ci stiamo quasi dimenticando sarebbe compresa nel profilo di una moda recente e passata. Con, in più, un certo sgradevole tratto nostalgico: il simbolico è ciò che non abbiamo più, che abbiamo perduto – o forse, che non c’è mai stato davvero. 

Allora, che cosa ci resta? Insomma, il suo lavoro sarebbe solo un Beispiel – l’esemplificazione di una situazione comune alla cultura in un certo periodo storico – o può avere la posizione di un Exemplum, ovvero di una “singolarità” che continua a parlare per differenza, che ci fa capire, come l’esemplarità kantiana, senza che sia possibile “ridurre a concetti”? O più semplicemente: che cosa c’è di non stereotipo, di sporgente, di tuttora urticante, che ci permetta di dissociarlo dal luogo comune e dalla figura in fondo banale del pensatore che proprio perché di moda si è prestato troppo facilmente alla volgarizzazione e dunque all’oblio? 

 

Proprio la differenza, o l’apparente omonimia dei termini, permette di fare un’ultima considerazione che ci consegna una traccia tuttora viva. Questa traccia riguarda un altro dei grandi termini chiave di Baudrillard, il “segno”. E anche qui c’è una deriva: il significato della parola nella Critica dell’economia politica del segnoè comparabile, credo, a una delle accezioni della parola “immaginario”. Ma allora rimane viva, in veste variata, l’importante ipotesi che lui chiamava “economia politica del segno” e che io chiamerei, ricorrendo all’altro lessico, “economia del sembiante” o “dell’immaginario”. 

Questa differenza lessicale, che emerge nel confronto con l’altra deriva, quella che Žižek ricava da Lacan, ci permette di ragionare su una differenza di scenario che forse l’estetismo compiaciuto del sociologo non permetteva di scorgere. Nell’economia politica del segno c’è chiusura: se i segni si scambiano tra loro senza referente, se il referente – così come, all’altro estremo, lo “scambio simbolico” – è perduto – ciò che si perde è il reale (come) realtà. Il mondo dei segni diventa simulacro senza uscita, non ci sono più “eventi”. Dove “evento”, questo vocabolo ambiguo, indica sia la rottura, il disastro, sia la realtà là fuori. Nel dominio senza esterno del segno, gli eventi sono entrati “in sciopero”.

Se invece, con una variazione lessicale, parliamo di economia del sembiante o dell’immaginario, diciamo, andando oltre Baudrillard, che l’immaginario ha “effetti di realtà”. L’immaginario “fa fare alla gente delle cose”. Ma si può dirlo anche nel lessico baudrillardiano: “seduce”, però la seduzione è wirklich, non resta chiusa nel circuito del segni.

 

Fenomeni vistosi come la “vetrinizzazione sociale” (Codeluppi) possono essere letti in due modi. Nel primo modo, solo un evento-catastrofe può risvegliare il reale. Nel secondo possiamo pensare – sulla traccia inaugurata proprio da Baudrillard! – una economia politica che modifica lo scenario marxiano nella stessa direzione. Si deve tornare a parlare di plusvalore, di desiderio, di “forme di soggettivazione”. E di economia “dei consumi” in senso critico e non apologetico. È un’altra dimensione dell’immaginario, una dimensione operativa. L’immaginario produce movimenti di desiderio che sono “anche” parte di processi di plus-valorizzazione. La critica dell’economia politica del segno si evolve in una critica dell’economia politica dell’immaginario. Ma per far questo, il dominio senza esterno dei segni – dei sembianti – si deve aprire.

 

Questo testo è dedicato a Vanni Codeluppi.

 

Oggi presso l'Università IULM di Milano, in Aula Seminari, si terrà il convegno dal titolo Jean Baudrillard e la teoria dei media (direzione scientifica di Vanni Codeluppi).

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A 10 anni dalla sua scomparsa

Il vecchio con gli stivali di Vitaliano Brancati

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Abstract: 

«Barilli, Brancati... sembra che la morte vada per ordine alfabetico. Non mi meraviglierebbe, ho sempre visto la morte come un’insegnante caparbia, che scorre il suo registro per scoprire gli alunni meno preparati». È Ennio Flaiano a parlare: il quarantasettenne Vitaliano Brancati è spirato durante un intervento di chirurgia toracica e ora gli amici e gli scrittori a lui più cari si ritrovano allo scalo merci della stazione Termini, «davanti a un carro con sopra una bara».

Immagini: 

Etica per l’immagine

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Il 15/16 marzo a Torino due giorni di incontri sul tema delle immagini e della violenza: come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo? Doppiozero propone qui una riflessione di Elio Grazioli intorno al tema per contribuire a costruire un dibattito attorno al tema, urgente e fondamentale.

 

Siccome sono una persona moderata, dalla vita quotidiana fortunatamente esente in fin dei conti da problemi etici drammatici e da quella professionale incentrata sull’immagine artistica più che su quella massmediale, non me la sento di affrontare questioni che non conosco dall’interno né problematiche teoriche che rischiano l’idealità. Mi sento disarmato e impotente di fronte ai comportamenti umani che francamente mi risultano incomprensibili. E proprio perché sono una persona moderata, vorrei mettere qui in scena due situazioni invece estreme di cui ho già avuto occasione di parlare in altre occasioni.

La prima riguarda una domanda che mi sono posto ogni volta che ho assistito a discussioni sulla violenza così tranquillamente presente nei video-games o simili. Come mai nessuno ha ancora pensato a un video-game in cui, che so?, passeggio per una città e ho a disposizione, faccio per dire, dei pugni in faccia per ogni passante che vedo buttare la sigaretta o altro per terra, dei calci per quelli che parlano ininterrottamente ad alta voce al cellulare in metropolitana, delle legnate per quelli che sorpassano sulla corsia di emergenza o per quelli che viaggiano in autostrada imperterriti sulla terza corsia a 100 km all’ora, e via crescendo secondo la gravità del comportamento incivile, poi criminale, eccetera, fino a mitra, bombe a mano e tutto l’armamentario solito dei video-games per quelli che trasgrediscono leggi ben più gravi, che approfittano del potere, eccetera? Così, per gioco, dico, per le stesse ragioni per cui si gioca in quegli altri giochi.

 

Pura provocazione? Puro rovesciamento? Non sto invocando giustizieri della notte o giudizi sommari e giustizia fuori dalle istituzioni preposte, sto parlando di un’educazione civica basata sulle stesse molle, motivazioni o pulsioni che siano, a cui tutti sono pronti ad appellarsi come esplicative dei comportamenti opposti e sulle stesse ragioni per cui sono in quel caso giustificati e tollerati. Un’etica non moralista? Basata sul comportamento, sul “reale funzionamento del pensiero”, mi verrebbe da dire con André Breton, e/o un’etica del fallimento, da Alberto Giacometti a Maurizio Cattelan, una dell’infrasottile, per citare allora Marcel Duchamp, per rientrare nel mio campo. Che cosa significano? Suggeriscono dei temi e degli atteggiamenti che fanno dell’arte e dell’immagine non un oggetto ma il campo di elaborazione e al tempo stesso il destinatario e lo strumento dell’etica: etica per le immagini nel senso di etica nei confronti dell’immagine e grazie alle immagini. E non attraverso ciò che le immagini raffigurano, ma attraverso quello che sono e come sono (in arte): specchi del funzionamento reale del pensiero, particolari prodotti di un fare che sfugge alla contrapposizione tra riuscito e fallito – “principio di equivalenza: ben fatto, mal fatto, non fatto”, diceva Robert Filliou –, oggetti al limite di ogni categoria stabilita. Io mi muovo in questo orizzonte.

 

E allora veniamo alla seconda suggestione. Trovo ammirevoli e davvero fondamentali le riflessioni di molti – da Susan Sontag, John Berger, Georges Didi-Huberman, Jacques Rancière ai tanti addetti ai lavori della fotografia che hanno scritto – sui rapporti tra l’immagine e le questioni etiche, ma il mio pensiero torna sempre a quella ultima parte della Camera chiara in cui Roland Barthes conclude in maniera così inattesa una riflessione sulla peculiarità, il “noema” come lo chiama, della fotografia, che fin lì era tutta lineare e deduttiva.

Come si ricorderà – chiedo scusa dell’ennesimo riassunto sintetico di un libro arcinoto, ma mi sembra ancora una volta necessario –, dopo le ordinate distinzioni tra spectator, operator e spectrum e poi tra studium e punctum, Barthes cerca di spiegare che cosa sia quest’ultimo, che gli pare appunto la chiave. È attraverso di esso che io ho un rapporto peculiare con l’immagine fotografica. Che cosa mi colpisce, che cosa mi “punge”? Un dettaglio e che tipo di dettaglio? Qualcosa che l’autore mette nell’immagine intenzionalmente o qualcosa che parla solo a me? O forse non è un dettaglio ma è l’immagine intera. Di fatto questo non basta. «Procedendo così di foto in foto», infatti, «avevo forse appreso come procedeva il mio desiderio, ma non avevo scoperto la natura (l’eidos) della Fotografia». Dunque Barthes si interrompe e, con un salto – per intraprendere la sua “palinodia”, dice –, apre la seconda parte del suo percorso. Ad introdurla, non a caso è un lutto, un argomento doloroso, quello per la morte della madre. È attraverso la ricerca della fotografia più rappresentativa della madre che i termini apparentemente chiari e lineari della prima parte si aggrovigliano e annodano.

 

La mathesis individualis fa di questi scherzi: a forza di interrogare e interrogarsi si tocca un fondo oscuro che è più vero della realtà stessa, della volontà di controllo e di conoscenza. Si entra in un territorio che diventa un poco ermetico. Come si fa infatti a dare ad intendere che dai tratti di Philip Randolf come lo fotografa Richard Avedon emerge chiaramente che in lui non c’è «nessuna pulsione di potere»? Senza contare quanto già suoni impossibile tale pretesa. E come si può comprendere una domanda come quella formulata a proposito di Piet Mondrian ritratto da André Kertész: «Come si può avere l’aria intelligente, senza pensare a niente di intelligente?»? Come si fa a comprendere quello che Barthes chiama Sguardo, che non guarda nulla ma anzi consiste nel trattenere dentro di sé? Impossibile spiegarlo, se non chiamando in causa una «verità folle». Ma in che cosa consiste? Nel fatto che il punctum non è un dettaglio, non è una stranezza né un’incongruenza che l’immagine ha, ma è qualcosa che l’immagine è, cioè la dimensione temporale, ciò che Barthes chiama l’“è stato”. L’immagine che ora sto guardando è immagine di un istante trascorso, fosse pure un millesimo di secondo fa. Dunque io sto sempre guardando il passato ma, per questo fatto stesso, ciò che guardo mi fa pensare al futuro: non solo al futuro di ciò che vedo, come nel caso dello scolaretto Ernest fotografato da André Kertész di cui Barthes si chiede se sia ancora vivo oggi e dove sia e come stia, ma soprattutto a quel particolare tipo di futuro che è il “futuro anteriore”, come Barthes spiega a proposito dell’immagine del condannato a morte, guardando la quale io so che «sta per morire. Io leggo nello stesso tempo: questo sarà e questo è stato; osservo con orrore un futuro anteriore in cui la morte è la posta in gioco. Dandomi il passato assoluto della posa (aoristo), la fotografia mi dice la morte al futuro».

 

Ernest fotografato da André Kertész.

 

Il problema sta qui: che la fotografia è un “destino” a cui andiamo incontro, non una rappresentazione della realtà, è il tempo restituito come nodo, non la documentazione (oggetto di studium) del passato, è “immagine folle”. Perché folle? Un nuovo rovesciamento è in causa per spiegarlo: «immagine folle, velata di reale», dice Barthes, e per spiegare questa “velatura di reale” – ed essendo in causa la morte era inevitabile passare per il “perturbante” freudiano – evoca il famoso episodio del ballo di Casanova con la bambola meccanica nell’omonimo film di Federico Fellini. Sotto quel vestito di bambola c’è «un po’ di corpo», solo un po’, ma quanto basta perché si rovesci il rapporto tra reale e finzione, e tra vita e morte: «Credetti di capire che, tra la Fotografia, la Follia e qualcosa di cui non sapevo bene il nome, ci fosse una sorta di legame (di nodo). [...] Era un’ondata più grande del sentimento amoroso. Nell’amore fatto nascere dalla Fotografia (da certe fotografie), un’altra musica dal nome stranamente démodé si faceva udire: la Pietà. Raccoglievo in un ultimo pensiero le immagini che mi avevano “punto”. [...]. Attraverso ognuna di quelle immagini, infallibilmente, io andavo oltre l’irrealtà della cosa raffigurata, entravo follemente nello spettacolo, nell’immagine, cingendo con le mie braccia ciò che è morto, ciò che sta per morire, proprio come Nietzsche quando, il 3 gennaio 1889, si gettò piangendo al collo di un cavallo martoriato: impazzito per la Pietà».

 

“Impazzire per la Pieta” per l’immagine: vi sembra un’etica? Considerare le immagini come “folli” costringe di sicuro a un’etica diversa dal considerarle registrazione della realtà, significa anche un atteggiamento diverso, “estetico” se questa parola ha ancora un senso, nei riguardi del loro uso. Questo è comunque per me il problema quando si parla di immagini, questo insegnano le immagini anche nei confronti della realtà che rappresentano e questa è una questione etica.

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Goethe Institut Torino

Musica

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Sottotitolo: 
Libertà, razionalità, corpo e comunità

La musica classica ha sviluppato, già a partire dall’Inghilterra del XVII secolo, delle precise regole di comportamento che gli spettatori devono seguire durante i concerti: vestiti adeguati, divieto di parlare, bere e mangiare durante l’esecuzione, applausi di consenso, bis finali. Nella musica giovanile, invece, tali regole sono state largamente destrutturate. Rimangono attive soltanto quelle che consentono di creare un canale di comunicazione con i musicisti, come gli applausi e i bis. D’altronde, la musica giovanile rappresenta un ambito nel quale la dimensione corporale è particolarmente sviluppata. Lo dimostra l’importanza del suo legame con la performance dal vivo, ovvero il momento del concerto. Questo, infatti, è in grado di costruire un’intensa partecipazione fisica delle persone grazie alla capacità della musica, in conseguenza del suo ritmo ripetitivo e del suo volume elevato, di produrre un effetto di stordimento e di trance. I corpi degli spettatori sono spinti così a muoversi in sintonia con la musica. Sono spinti cioè a fare ricorso alla danza, che sembra permettere all’essere umano di trascendere la sua condizione materiale e terrena. 

 

 

Ne deriva una grande centralità della relazione che si sviluppa tra i corpi degli spettatori e quelli dei musicisti e dei cantanti. Il concerto è infatti particolarmente importante nella musica giovanile perché in esso tra i fan e i musicisti si instaura un processo di scambio talmente intenso che può essere considerato un momento di fusione. I musicisti cercano quelle conferme che gli danno le folle osannanti del concerto e hanno bisogno perciò di grandi quantità di fan per essere riconosciuti pubblicamente come divi. I fan necessitano invece della possibilità d’identificazione che i divi gli offrono. Perciò fanno di tutto per essere più vicini al palco e, in generale, a quel particolare mondo in cui i divi vivono. Riescono in tal modo a sentirsi unici e differenti rispetto alla massa. 

Va considerato però che i fan sono una moltitudine e il singolo fan si fonde perciò anche con i suoi simili. Si crea una comunità immaginaria che unisce i tanti fan e i musicisti operano dunque anche come uno strumento per accedere alla comunità. La musica permette perciò ai giovani di sentirsi in una condizione di indipendenza rispetto al mondo adulto, perché li colloca all’interno di una comunità di simili. E ciò è particolarmente vero durante il concerto, vissuto come un momento di intensa partecipazione. Come un evento cioè che, similmente alle cerimonie religiose, costruisce e rafforza i legami collettivi e dà vita dunque alla comunità. 

 

Probabilmente, è proprio grazie alla sua capacità di costruire un senso di partecipazione comunitaria che il concerto viene spesso vissuto dai giovani come un momento spontaneo e creativo. Ma la musica nelle società contemporanee non può che essere evidentemente un prodotto seriale, realizzato industrialmente e promosso e diffuso attraverso i media. È dunque priva di quell’aura di unicità che era propria dell’opera d’arte tradizionale. Un’aura che dà l’impressione di poter rinascere proprio attraverso il concerto, evento unico e irripetibile nel quale la musica sembra nascere al momento. Attraverso cioè una performance compiuta dal vivo davanti ad un pubblico si dà una nuova vita alla canzone registrata, che diventa lo strumento di una comunicazione diretta tra il musicista e il suo pubblico. 

Non è un caso perciò che l’odierna musica pop derivi da quella rock, la quale è figlia a sua volta della musica popolare degli afroamericani e in particolare del rhythm & blues. Cioè da quell’ambito che ha dato vita a tutta la tradizione della musica jazz. Il pianista Arrigo Cappelletti ha messo in luce nel volume Le avventure di un jazzista-filosofo (Arcana) le difficoltà di dialogo esistenti tra quella libertà espressiva che caratterizza il jazz e la razionalità propria della musica classica nata all’interno del pensiero occidentale. Il jazz, infatti, ha dovuto scontrarsi con una tradizione musicale dove l’arte viene considerata tanto più elevata quanto più riesce ad essere formalizzata e complessa. Dove cioè la fisicità e la sensorialità del corpo sono state trasformate in astrazione e pensiero. E dove, infine, l’improvvisazione libera è diventata una struttura rigida e strettamente codificata. 

 

Eppure, nonostante ciò, il jazz ha saputo conquistarsi un suo spazio in Occidente. Lo mostra il libro scritto da Giordano Gasparini Reggio Emilia Jazz 1925-1991. Dalla provincia al mondo (Aliberti), il quale ricostruisce minuziosamente le centinaia di eventi musicali che si sono svolti in quasi un secolo in una tipica città italiana di provincia. Eventi nati dalla volontà di numerosi appassionati di fare vivere una musica fuori dagli schemi musicali occidentali come il jazz. Una musica che ha saputo mantenere centrale il ruolo svolto dal corpo e non a caso ha spesso stabilito nella sua storia una stretta relazione con la dimensione del ballo. 

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Libertà, razionalità, corpo e comunità

Christopher Lasch sulla strada per il nessun-dove

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Il videoclip Road to nowhere dei Talking Heads (band incensata da Sorrentino in più occasioni) racconta con ritmo compulsivo la crisi dell’America degli anni ottanta attraverso un vasto campionario di icone e simbologie tipiche della società dei consumi. I membri di una comunità di provincia si stringono in coro per intonare le note e le parole dell’incipit, che parla appunto del loro spaesamento dinnanzi alla “strada per il nessun-dove”. Una nutrita serie di microsequenze della durata di pochi secondi squarcia la consistenza del sogno americano, mettendone in discussione la sostanza. L’immagine più significativa ed esplicita è forse quella del giovane che insegue il carrello della spesa, segno inequivocabile di uno strumento – il consumo – che si è fatto fine e ha spiazzato definitivamente il ruolo di colui che lo aveva creato per soddisfare determinati bisogni. Il personaggio simbolo di tutta un’epoca, lo yuppie, litiga con un suo antagonista mascherato da catch messicano, ma la loro mimica ricorda quella dei bambini che si contendono un giocattolo. Il clip si conclude con il delirio schizofrenico del protagonista (David Byrne) amplificato dagli effetti di stop motion mentre resta seduto su un trono instabile. 

 

Poche opere dell’epoca hanno saputo esprimere tanta consapevolezza sulla criticità di quel passaggio storico con le sue implicazioni sull’uomo e sulla società. Lo scrittura del video pare quasi infarcita dei temi chiave che caratterizzano la riflessione di C. Lasch. Risuonano infatti nel video del 1985 le questioni che caratterizzano la riflessione laschiana tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni novanta (ovvero poco prima della sua scomparsa): da La cultura del narcisismo a L’io minimo, da Rifugio in un mondo senza cuore a Il paradiso in terra

Con La cultura del narcisismo lo studioso americano fu consacrato come uno degli autori più profondi ma anche più capaci di impattare sul mercato, anticipando il ruolo di grandi autori di saggistica “pop” come J. Rifkin e Z. Bauman. Il libro in questione riflette sulla crisi culturale che anima l’Occidente e che decreta la trasformazione del narcisismo da disturbo psicologico a forma mentis di un’intera società. In varie opere del resto l’autore ammise il suo apprezzamento per la Scuola di Francoforte, soprattutto per l’idea di conciliare la dottrina marxista – da cui egli stesso proviene – con i temi e i modelli della psicoanalisi. Se l’individualismo borghese si era edificato a partire dall’idea della “terra di nessuno” (p. 23) da modificare attraverso un atteggiamento autoassertivo (lo spirito della frontiera), il narcisista invece vede il mondo come uno specchio in cui verificare continuamente lo stato della propria identità messa in crisi dal progresso. 

 

Il narcisismo impatta potentemente sulla percezione del tempo e della storia, determinando ciò che in modo diverso i teorici del postmoderno avrebbero chiamato “presentificazione”. Per dirla con le parole di Lasch “dal momento che la società è senza futuro, acquista un senso vivere solo in funzione del presente, occuparsi soltanto delle proprie “realizzazioni personali”, diventare fini conoscitori della propria decadenza, coltivare un'“auto-osservazione di ordine trascendentale”” (p. 19). La visione del manager è quella più propriamente narcisista, proprio perché egli vede “il mondo come specchio di se stesso e non si interessa degli avvenimenti esterni tranne nel caso in cui gli rimandino un riflesso della sua propria immagine” (p. 62).

In una posizione non distante ma diversa dall’analisi della merce di G. Debord, che Lasch cita senza nominare parlando appunto di “società dello spettacolo”, qui il fattore profondo che innesca l’epidemia narcisistica è la burocrazia. Questo perché “l'ambiente densamente interpersonale della burocrazia moderna sembra provocare e gratificare una risposta narcisistica – un'ansiosa preoccupazione riguardo all'impressione che si produce sugli altri, una tendenza a trattare gli altri come specchio di sé” (p. 265). Si tratta dunque di uno spunto di riflessione utilissimo dato che, anche recentemente, le scienze sociali tornano a porsi il problema della burocrazia, proprio all’epoca dei Big Data e di una razionalizzazione ancor più intransigente della società, del diritto e della politica (come nella “regolazione algoritmica” di E. Morozov). La cultura del narcisismo è quella che ha consacrato come dominante la metafora dello specchio, ma è anche quella che, seguendo le dichiarazioni di A. Warhol, scopre che di fronte allo specchio c’è il vuoto assoluto (Warhol si descriveva appunto come uno specchio che si guarda in uno specchio). I’ll be your mirror, cantava Nico insieme ai Velvet Underground, “rifletto ciò che sei, nel caso tu non lo sappia”, e anche questo anticipava la dimensione puramente speculativa ma personalizzata dei nuovi specchi, ovvero quelli che popolano i nostri quotidiani attraverso le piattaforme digitali, offrendoci appunto risorse rispecchianti esattamente il nostro profilo. 

 

 

Se negli anni novanta abbiamo imparato a considerare la riflessione laschiana come obsoleta per via dei valori emergenti che confutavano l’ipotesi narcisista, i primi decenni del nuovo millennio ci ricordano invece che parecchi cambiamenti culturali del nostro tempo sono riconducibili alle matrici studiate da Lasch. Il dispositivo della confessione ad esempio, che solitamente riconduciamo alla Storia della sessualità di M. Foucault e che oggi diventa strategico per capire il web 2.0, viene qui esplorato in modo diverso, passando soprattutto per il lavoro degli artisti. 

Mentre la Cultura del narcisismo è tornata in auge oggi anche sulla scia di alcune innovazioni tecniche come i social media e i selfie, Il paradiso in terra spaventa per la sua capacità di sistematizzare tematiche talmente attuali da aiutare lo sguardo prospettico sul passato e sul futuro. Dal populismo alla postverità, passando per la questione chiave del libro che è lo sfondo valoriale sul quale si è innestata la ideologia/utopia del progresso dalle dottrine liberali fino a ciò che oggi chiameremmo neoliberismo: la produzione e la soddisfazione di un bisogno illimitato (il “crazy greed” cantato in Society di Eddie Vedder), l’idea squisitamente moderna che “gli appetiti insaziabili, in precedenza condannati come fonte di instabilità sociale e di infelicità personale, potessero trainare la macchina economica” (p. 49). L’analisi del populismo, ad esempio, non si limita a discutere le ragioni di tale orientamento politico ma lo considera una variabile dipendente dell’economia, anzi quasi un meccanismo di compensazione che tendeva a contenere la “brama sconfinata dei beni in sempre maggiore quantità” e allo stesso tempo di preservare il senso della comunità drasticamente messo in discussione dalla stessa logica dello sviluppo illimitato. Temi ancora oggi presenti nei programmi e nelle proposte delle formazioni populiste che tentano di resistere al meccanismo dissipativo e universalistico della globalizzazione.

 

Allo stesso modo Lasch mette in discussione alcuni atteggiamenti tipici degli intellettuali nei confronti della questione del progresso, tra cui i più radicati sono specularmente un “pessimismo malinconico” alla ricerca del bel tempo che fu e un “ottimismo fatalistico” che si abbandona completamente a uno slancio verso il futuro, sacrificando la valutazione ponderata delle conseguenze. Certo, in una fase immediatamente successiva alla Guerra fredda, non era difficile ragionare nei termini di obsolescenza dei concetti di destra e sinistra. Ma l’autore è anche capace di penetrare nel profondo lo schema logico che deriva dal collasso delle ideologie politiche – e che Lyotard anni prima aveva già individuato come atteggiamento pragmatico ed efficientista – sottolineando come le differenze di posizionamento politico sarebbero perlopiù riducibili a scelte tattiche. Sempre sullo stesso punto, l’autore sviscera una questione che, se studiata attentamente, avrebbe forse aiutato Matteo Renzi a risolvere alcuni problemi di carattere programmatico. Lasch difatti criticava la scelta del senatore Paul Tsongas di invitare i “liberali” (così tradotti ma in realtà riferiti ai “liberal” americani), a diventare “più conservatori sulle questioni economiche e più radicali su quelle “sociali” come i diritti degli omosessuali…” (p. 16). Rispetto alla quale egli prediligeva decisamente la posizione inversa, sostenuta da Bernard Avishai del Mit, per cui la “sinistra doveva combinare il radicalismo economico con il conservatorismo culturale” (p. 16). 

 

Senza nominare il vero oggetto del suo discorso, ovvero l’affermazione della postideologia neoliberista, Lasch ci regala uno spaccato degli anni ottanta americani in cui al contempo si celebrava disperatamente il mito del successo, come nel caso del “carrierismo” (p. 29) degli Yuppies, mentre s’innescava un dispositivo di “degradazione del lavoro” che, a detta degli attuali teorici del capitalismo cognitivo, è diventato oggi del tutto patologico. Oltre ai suddetti motivi, il senso di sfiducia dei cittadini comuni nei confronti della politica era inoltre indotto da quelle che Lasch chiama strategie “legalistiche” adottate dai democratici per imporre forzosamente e al di là del consenso popolare una parità di diritti che produceva delle frizioni tra le placche sociali ed etniche del tanto decantato villaggio globale. Infine, ancor più simile a ciò che oggi stiamo vivendo, la relazione tra populismo e postverità era già del tutto presente nell’America degli anni ottanta, condensata nell’icona di R. Reagan. Il presidente che da un punto di vista comunicativo inaugurò l’epoca della politica spettacolare, fu anche colui che giunse al potere grazie alla “rivolta della classe lavoratrice contro il liberalismo” (p. 34). La figura di Reagan fu assolutamente paradossale perché tentava di coniugare la difesa dei valori tradizionali – a cui lo stesso Lasch in vari momenti prova ad appellarsi – con invece uno spietato culto della crescita economica e dell’iniziativa commerciale, ovvero “quelle forze che hanno minato la tradizione”. Lo stridente contrasto tra le due vocazioni in realtà si risolveva in un uso ipocrita e dunque menzognero del pretesto della tradizione. In ultima analisi, mentre il conservatorismo difendeva una concezione etica della politica come scienza del limite, l’esordiente ideologia neoliberista spingeva già verso la messa in discussione di ogni limite. Le origini di questa concezione che oggi definiremmo semplicemente nichilista, sono individuate dall’autore nel pensiero di Adam Smith che in un sol colpo fornì una base scientifica all’economia, ma anche la spinta propulsiva all’espansione capitalistica per “dare origine a una forma di società capace di espandersi indefinitamente (p. 50). 

 

Nei capitoli che affrontano il tema della nostalgia dei moderni e quello ancor più marcatamente sociologico sull’idea di comunità, la capacità analitica dello studioso va di pari passo con lo spaesamento dinnanzi a un processo che, già da allora, si presentava come incontenibile. Rispetto al primo tema, lo studioso vuole precisare la relazione tra la nostalgia, che congela il passato e lo eleva a momento esemplare e irraggiungibile, e la memoria che invece opera in funzione del presente, ricostruendo il senso della continuità storica. Lasch ritorna sulle tappe attraverso cui si è sviluppata la relazione tra nostalgia e memoria, a partire dall’immagine della società pastorale, passando per l’utilitarismo di Bentham votato a denigrare la saggezza degli antenati e delle “popolazioni primitive” (p. 93), ripassando al setaccio il mito della frontiera e del West come infanzia della nazione fino agli anni venti del novecento e oltre. Se fosse vivo oggi, dovrebbe sicuramente aggiornare il suo compendio osservando una cultura talmente ossessionata dal passato da aver piegato ogni sua estetica sotto il penso di quel sentire che S. Reynolds ha ribattezzato “retromania”. 

 

Allo stesso modo la questione della comunità, oggetto d’indagine squisitamente sociologica, ha segnato il passaggio dal globalismo universale al glocalismo degli anni novanta – quando la comunità era principalmente una questione estetica, fino al recupero esacerbato di tale dimensione in una chiave più tragicamente politica. Lasch vaglia criticamente, grazie anche a Rousseau, la relazione tra Illuminismo e Cosmopolitismo per mostrare come quest’ultimo degeneri in una sorta di “arroganza e di disprezzo per le masse meno illuminate” (p. 131). Per smantellare l’architettura concettuale del cosmopolitismo, il suo studio torna alle fondamenta stesse del pensiero occidentale, al cogito cartesiano e alla fondazione di una scienza sviscerata da condizionamenti emotivi e da radicamenti culturali. Oltre all’ambivalenza del marxismo, che vuole spezzare le catene della tradizione ma che allo stesso modo è spaventato dalla potenza distruttiva dell’individualismo (per Engels a Manchester) e del colonialismo (in India per Marx), Lasch passa a esaminare la medesima problematica nell’ottica del nascente pensiero sociologico. Allo stesso modo anche la fondazione della scienza sociologica è sospesa in una sostanziale ambivalenza. Così l’opera di un classico della sociologia – il Gustav Tönneis di Comunità e Società – è letta come una sorta di mare che “rispecchiava l’umore di chi vi si rifletteva” (p. 150). Se l’analisi che gettava le basi della storia del pensiero sociologico, lavorava su dicotomie troppo nette (la comunità come luogo inclusivo e cooperativo versus la società come luogo esclusivo e competitivo), la valutazione complessiva sulla questione del progresso era molto meno chiara e distinta. Alle immagini di un’innocenza perduta della comunità si sovrapponevano i sogni di un “futuro dorato” che inaugurava una sorta di mistica del mutamento sociale. Forse più interessante la constatazione che Tönnies vedeva il mondo trasformarsi in una “sola grande città” (p. 151), anticipazione dell’idea jungeriana di uno stato mondiale, ma anche delle più recenti visioni sulla monocultura globalizzata. 

 

L’esigenza di difendere il valore della comunità, conduce Lasch a esplorare le ragioni di crisi del pensiero “liberal” (ma anche liberale). Per questo nell’ultimo capitolo del libro, lo studioso si cimenta con l’attualissimo tema dell’insorgenza del populismo di destra. Una serie di analisi che alle nostre orecchie suonerebbero come contemporanee, scavano invece nelle viscere della politica americana. Dal momento in cui le “minoranze etniche bianche hanno abbandonato i democratici… l’ansia di status rafforza il razzismo dei loro esponenti e li rende irrazionalmente gelosi delle minoranze razziali favorite” (p. 539). In un resoconto che pare cronaca giornalistica dell’America nel 2017, il pensiero della destra populista trae linfa dalla reazione contro le politiche “liberal”, proprio quando “l’appoggio liberale alla causa dell’aborto, delle azioni dimostrative, e del busing, aveva già allontanato grandi masse di democratici dal partito e non si poteva trovare nulla di meno appropriato all’obiettivo di riportarcele di questa scuola di liberalismo manageriale, tecnocratico e suburbano” (p. 573).

 

Il mito del progresso diventa ora mezzo di fusione tra le strategie legalistiche dei democratici, un approccio manageriale alla politica e un pensiero tecnocratico che insieme disegnavano un sistema intollerabile dal punto di vista del comune cittadino. Questo è il grande tema del declino dei ceti medi su cui Lasch insiste come uno dei fattori chiave nella spiegazione della deriva populista. Un declino già iniziato nel corso degli anni ottanta in USA ma destinato, come ben sappiamo, ad acuirsi e a diffondersi a mo’ di epidemia nel resto dell’Occidente. Dato che il confine tra classe media e classe operaia “si faceva sempre più incerto” (p. 556), diventava sempre più chiaro che le questioni sociali “fungevano da discriminante tra la destra e la sinistra”, mentre una stirpe di nuovi populisti cominciò a costruire una nuova coalizione politica attorno al risentimento della classe media” (p. 570). Tali condizioni riportarono in auge i temi sollevati dall’American Indipendent Party di G. Wallace, grazie anche a P. Weyrich, ideologo dell’allora nuova destra, che si batteva per un “conservatorismo fondato su base morale” ovvero “contro il laissez-faire, contro i cartelli del petrolio, dell’acciaio, delle assicurazioni e delle banche” che già dominavano la politica americana. In una sentenza dal sapore sorprendentemente oracolare, l’autore pare quasi riferirsi al nostro tempo. Riferendosi ai simboli della famiglia, della bandiera e del ritorno del sogno americano, Lasch pare quasi anticipare il motto trumpiano “make America great again”, sottolineando che i Repubblicani, “una volta affermato il loro diritto di richiamarsi alla tradizione populista”, sarebbero riusciti a vincere “un’elezione presidenziale dopo l’altra con monotona regolarità” (p. 574). 

 

Il lungo excursus di C. Lasch sulla storia della cultura e della politica americana – dopo aver messo in discussione le ambivalenze di numerose scuole di pensiero nei confronti del mito del progresso (dai marxisti, alla nascente sociologia, a Freud ecc.) – giunge a una posizione altrettanto sfumata. Qualcuno l’ha definita “conservatorismo di sinistra”, oppure potremmo considerarla una sorta di neocomunitarismo senza razzismo. Ma così facendo egli ha anche fornito una base di legittimazione teoretica a ciò che nel mio pamphlet La mentalità neototalitaria ho definito come la “sindorme di Dogville”, ovvero l’emersione del lato oscuro del glocale che prepara la rivincita delle comunità terribili sulla scena della politica internazionale. Pare dunque che il lungo viaggio intellettuale dello studioso non abbia risolto la dicotomia tradizione vs progresso e come nel videoclip dei Talking Heads sopracitato, la comunità da cui si è partiti all’inizio del viaggio si ritrova alla fine ancora unita ma spaesata, senza punti di riferimento e ancora sperduta lungo la strada per il nessun-dove. 

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Tradizione vs. progresso

Vedere Hockney nella Londra di Brexit

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Maestro del guardare e maestro di legami

Nessuno è più iconico di David Hockney sulla scena artistica britannica di oggi: «Most of all I want to be | In David Hockney’s diaries» ('la cosa che desidero di più è comparire nei diari di David Hockney'), cantava Dan Tracey, la voce del gruppo acid rock Television Personalities, già nel 1982 (David Hockney’s Diaries). Trent’anni dopo, sempre sulla scena indie pop, trascorrere un pomeriggio con David Hockney (Afternoons with David Hockney) era il sogno dei Miniature Tigers, cui Charlie Brand dava la voce per un improbabile appello: «David, go on, you know I'm listenin'. Tell me what's in your heart | David, sometimes you try my patience » ('su, David, lo sai che sono tutt’orecchie: dimmi cos’hai nel cuore, David, a volte metti a dura prova la mia pazienza'). Essere un’icona pop non sembra che lo metta a disagio, se Hockney riesce a tornare in mostra a intervalli regolari nei luoghi più prestigiosi della scena artistica londinese: David Hockney: A Bigger Picture lo consacrava alla Royal Academy all’inizio del 2012, sette mesi dopo apriva alla Tate Modern A Bigger Splash: Painting After Performance, con titolo preso dalla sua tela forse più famosa, e ora la Tate Britain gli dedica David Hockney (fino al 29 maggio 2017). Nessuno è più celebrato di lui, al punto che cinque anni fa, a settantacinque anni, dichiarava a Martin Gayford per un famoso libro-intervista di sentirsi ringiovanito dal lavoro. Marlene Dumas lo ha definito semplicemente «one of the great painters of the 20th century» e Georg Baselitz ne ammira incondizionatamente il lavoro: «wunderbar, amazing, fantastiche». Stiamo parlando dei più grandi artisti viventi.

 

Il rischio di una mostra (uffa) della sua opera era proprio quello di rafforzare l’icona, nello spirito di quei “miti d’oggi” che Roland Barthes smontava ormai sessant’anni fa, poco prima che Hockney facesse la sua comparsa sulla scena gay londinese: miti della facilità, dello spontaneismo e dell’immediatezza, che sono costruzioni culturali anziché trionfo dell’interiorità e della comunicatività. Dipinge con l’iPhone e proclama che non ci sono confini quando si parla di pittura: chi più fashion di lui, il nonno-giovane che usa la tecnologia per provare che tutti possono essere pittori? «Non ci sono confini, solo arte». Proprio quando tutti i pregiudizi sembrano confermati, però, il contesto impone uno scatto: la Londra nella quale Hockney oggi è in mostra non è quella di quattro o cinque anni fa. È la Londra di Brexit: e l’icona facile si trasforma in occasione antagonista.

 

Pittore di piscine, interni salottieri e collezionisti d’arte, Hockney è l’artista borghese per eccellenza, che si compiace di rappresentare il privilegio per confermare i miti del capitalismo contemporaneo, irraggiungibili eppure a portata di mano. Già, ma il suo mondo borghese, fatto di luce piena e spazi enormi, è attraversato da un senso d’impotenza e prigionia che non ha forse uguali nell’arte contemporanea. Le figure non si toccano e non si guardano mai, in una fissità che non può non disturbare: la mano destra di Fred Weisman cola pittura davanti alla moglie che guarda fisso di fronte a sé, in una maschera irrigidita come i totem che compongono la loro collezione d’arte, in American Collectors (1968); rivolgono annoiati sguardi seduttivi allo spettatore anziché cercarsi a vicenda i giovani Mr and Mrs Clark and Percy (1970-71); s’ignorano amabilmente, lei segnata dalle rughe con lo sguardo assente rivolto a chi guarda e lui immerso nella lettura del suo anonimo album, i suoi genitori in My Parents (1977). La forza visiva della pittura di Hockney sta nella sua apparente semplicità, fatta di linee verticali e orizzontali nella composizione sempre perfettamente geometrica, di ampi sfondi monocromi vuoti e di meticolosa cura del dettaglio ritrattistico (aveva cominciato come disegnatore puro in una tradizionalissima scuola dello Yorkshire, la Bradford School of Art), in modo da combinare paradossalmente realismo e stilizzazione, il massimo dell’individualità e il massimo dell’universalità.

 

Chi vuole fermarsi a questo, potrà godere visivamente; ma chi vorrà cogliere il contrasto andrà alla ricerca di un senso ulteriore, che è sempre immanente, figurativamente, anziché sovrimposto, concettualmente: perciò il distacco dall’astrattismo da cui era partito (con reminiscenze baconiane) è stato per lui una conquista decisiva e certamente salvifica.

Proprio nella capacità di Hockney di reinventarsi al contatto con l’alterità sta l’utilità di una mostra come questa nella Londra ai tempi di Brexit: passando dall’olio all’acrilico, dalla Gran Bretagna all’America e dall’adesione attualistica all’inquietudine semantica, Hockney ha saputo diventare pittore pensante, dotato di una straordinaria forza critica oltre l’impatto estetico. C’è sempre qualcosa di più nel suo dispiegamento di perfezione tecnica: come non pensare al Narciso di Caravaggio quando si guarda Portrait of an Artist (1972), dove un dandy ingiacchettato a bordo piscina contempla un nuotatore (l'amato o se stesso?) in costume sott’acqua sullo sfondo di un paesaggio collinare maestoso per forme e colori, ma assolutamente stereotipato e decorativo, pissarriano?

 

C’è sempre qualcosa di più nei segni di una rappresentazione che si sposta progressivamente dalla felicità visiva alla problematicità interpretativa (volente o nolente l’autore, che oggi punta tutto sulla prima): ecco cosa intendevo con «inquietudine semantica». Hockney li riempie di significato, i segni, come quando lo sguardo di Don Bachardy a Christopher Isherwood si accompagna a una banana e una pannocchia che puntano verso il destinatario, in una stilizzatissima natura morta che diventa potenziale allegoria del desiderio, dell’ammirazione o della sfida. Del resto aveva cominciato come interprete della scena omosessuale londinese negli anni Sessanta, Hockney, con quel serale lavarsi i denti a vicenda trasformato in perfetto 69, che era visivamente scandaloso, art brut, ma anche già disposto a veicolare un messaggio oltre il visivo, che dal visivo però scaturiva, lo scandalo delle prassi quotidiane quando fuoriescono dai moralismi dell’educazione di massa. Dovete lavarvi i denti, dice la pubblicità sui manifesti e in tv; ecco come si fa, risponde Hockney. 

 

 

È una reazione ai miti d’oggi, quindi, la sua esperienza, come quando, all’inizio degli anni Ottanta, si mise a ritagliare e ricomporre a riquadri fotografie Polaroid (i joiners, collages di tessere che non combaciano perfettamente, ma sembrano disegnare fotosequenze), o come quando, all’inizio del Duemila, si è messo a disegnare paesaggi con l’ipad. Sarebbe troppo facile definirlo modaiolo, decorativo, superficiale e semplicistico, mito d’oggi lui stesso come i miti che un tempo irrideva o demoliva: come se Large Interior, Los Angeles (1988), Breakfast at Malibu, Wednesday (1989) e The Other Side (1990-93) fossero solo un omaggio all’arredamento di interni californiano, ai rituali dello star system e all’astrattismo architettonico. Sono la memoria storica (d’après Van Gogh e Mirò) e le contraddizioni interne (natura e società: il tè sulla terrazza dell’Oceano in tempesta) ad aprire lo spazio del dubbio, dell’alternativa, della distorsione e del disordine. L’occhio non si può rilassare se l’occhio della mente viene sollecitato: l’ordine della geometria e la pienezza del colore restituiscono sempre un senso del movimento e un’impossibilità di riposo che invitano ad aprire lo spazio della riflessione dopo la contemplazione. 

Non stanno mai fermi, insomma, i quadri di Hockney, che è forse il motivo per cui piacciono ai bambini: non per la presunta facilità, ma per la vertiginosa frenesia accumulativa, che insieme ti avvolge, portandoti dentro al quadro, ed energizza, spingendoti fuori, come nelle stupende tele divise a riquadri esposte qualche anno fa alla Royal Academy per la serie Bigger Trees (al centro un tunnel che risucchia, aprendo lo spazio dell’oltre in profondità nella tela, through the Looking-Glass con la splendidamente inglesissima Alice), seguiti dalla successiva versione digitale di 36 video sincronizzati e presentati su 36 schermi da 55 pollici divisi in 9 rettangoli per 4 composizioni in movimento dal titolo The Four Seasons (2010-11). La mostra insiste molto, a mio avviso sbagliando, sulla sua versatilità, quando invece Hockney è stato ed è pittore di grande continuità tecnica e visuale.

 

Eppure la possibilità di leggerlo come esploratore (dall'olio all'acrilico al digitale e dagli interni ai paesaggi), di fronte a una cultura oggi terrorizzata dall'invasione del diverso e dalla sperimentazione intellettuale, dominata dalla gestione burocratica del cambiamento e priva di visioni a lunga gittata, può diventare un'occasione di ripensamento e rilancio: Hockney è infatti certamente più bravo da vecchio che da giovane, perché la sua sperimentazione coi mezzi innesta il suo passato sul suo presente, facendo della tradizione uno strumento creativo anziché una palla al piede. En ma fin est mon commencement, si leggeva sullo stendardo di Maria Stuarda, capovolto da Eliot in In my beginning is my end: riflettendo sul tempo che cambia le cose e sul tempo che ritorna, Hockney sta ora andando alla ricerca dell'infinito, che non è l'illusione di durare nella storia, ma una fiducia nuova nella pluralità come strumento d'incontro, comunicazione e comunione.

 

C'è lui stesso, infatti, in gran parte delle sue ultime opere, perché realtà e finzione non sono più da combinare, ma solo da sfidare: pretendere che la realtà sia la sua rappresentazione, realisticamente, è come pretendere che le sardine siano quelle in scatola anziché nel mare. Fotografia, televisione e cinema inscatolano, imponendoci il punto di vista, mentre Hockney ha sempre puntato a pluralizzarlo, il punto di vista, come quando vediamo, perché l'occhio non è capace di fissarsi su un punto e si muove costantemente. Maestro del guardare, Hockney potrà diventare anche maestro di legami: tra soggetto e oggetto, tra passato e futuro, tra l'azione e il destino. Anziché rendere facile sulla tela la complicazione del mondo, Hockney ha trasformato il normale in anormale, dando vita a una pittura in cui tutti si cercano, umani, linee e contorni, ma non s'incontrano, perché non venga mai meno quello che della vita è il motore, il desiderio di qualcosa che non c'è eppure ci potrebbe essere. 

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Maestro del guardare e maestro di legami

Facebook dei morti

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La morte rivela la verità dei social network

David Bowie, Prince, Ettore Scola, Franco Citti, Alan Rickman, Silvana Pampanini, Gianmaria Testa, Paolo Poli, Karina Huff, Giorgio Albertazzi, Bud Spencer, Anna Marchesini, Marta Marzotto, Gene Wilder, Dario Fo, Luciano Rispoli, Leonard Cohen, Gianroberto Casaleggio, Alan Thicke, Franca Sozzani, Zygmunt Bauman, George Micheal, John Berger, Carrie Fisher, Marco Pannella, Cassius Clay, Debbie Reynolds, Umberto Eco, Gianfranco Bettettini, Antonino Buttitta, Tzvetan Torodov, e pure Al Jarreau deceduto giusto in tempo per entrare nella lista. 

 

Questi sono solo alcuni dei personaggi pubblici scomparsi fra il 2016 e l’inizio del 2017. Molti di loro li conoscete, altri, piuttosto, sono noti entro cerchie più ristrette, di amanti di serie tv anni 80 o, ancora, di curiosi lettori di scienze umane. Alan Thicke, il mitico papà di Genitori in Blue Jeans o Tzvetan Todorov, il grande teorico della narrazione, non per tutti meriterebbero di stare nel novero del caro estinto. I miei morti, la mia lista, così come qualsiasi altra condivisione sui social, mi identificano. Niente di strano che, al giorno d’oggi, la camera verde si sia trasformata nella camera blu dei social network. 

A ben vedere, però, c’è di più del solito narcisismo di cui viene accusata costantemente la rete. Facebook ci mette, infatti, di fronte alla morte massivamente, giorno per giorno e su scale enormemente diverse: dai lutti planetari fino a quella del nostro vicino di casa, non possiamo tirarci indietro dal prendere posizione, sulla morte degli altri. 

 

Al di là del significato specifico che ognuno di noi può riconoscere alla morte dell’uno o dell’altro personaggio, il lutto ci tiene insieme e ci costituisce come corpo sociale, come comunità. Rappresenta, quindi, la verità di ogni gruppo, la verità del social network. La morte è l’“evento (di facebook) importante” per definizione: fa la conta, chiede di verificare chi c’è e chi non c’è, permette di riconoscere fin dove e fin quanto una comunità esiste, quale sia la sua forma. 

 

E lo fa chiedendo di reagire. Amministrare il lutto, ricordano gli antropologi, è l’operazione politica per eccellenza. La reazione alla morte diventa allora la reaction fondamentale, modello di tutti gli engagement che quotidianamente chiediamo ai nostri contatti, nel – disperato? – tentativo di far emergere dall’indeterminato il nostro network. Attenzione: non quello virtuale dei mille amici che ognuno di noi ha, nei dieci anni e passa di facebook, progressivamente costruito, infarcendolo di ex compagni delle scuole medie, destinati a essere ricacciati nel limbo da cui erano emersi ad opera del sistemone di facebook. Ma di quello vero. Fatto di persone che, per l’appunto, ridono (o meglio, mostrano di ridere) alla tue battute e piangono (sempre attraverso la mediazione fondamentale del Grande Algoritmo) delle tue sventure. Ed è allora in questo senso che la morte rivela la verità dei social network, la ragione per la quale siamo pronti a sacrificare il nostro tempo, i nostri fiumi di parole alla ricerca del sollievo fondamentale: essere presenti, essere nel presente, insieme, contemporanei. Ed è così che, dicendo: «presente!», emergono forme di collettività sopite che, a ben vedere, rendono conto della molteplicità delle nostre vite, intrecciandole in maniera sempre nuova e mai del tutto compiuta, fino alla fine: prima che George Michael, coi suoi slippini Speedo, passasse a miglior vita non mi ero davvero reso conto di quanto importante fosse per me. Sono stati i miei vicini di social ad avermici fatto riflettere, nel momento della sua commemorazione internettiana. 

 

Illustrazione di Marco Melgrati.

 

Se è vero, allora, che il bagno di contemporaneità garantito dalla morte degli altri ci posiziona incessantemente, si può dire qualcosa delle forme generate da questi posizionamenti, che sono, manco a dirlo, forme politiche. Esse possono, per esempio, chiederci di cancellare la nostra individualità in nome di quell’accordo categorico con l’essere che secondo Kundera era la caratteristica fondamentale del Kitsch. Dall’11 Settembre in poi, si sono diffusi slogan ad hoc: siamo tutti americani (ricalcato dal kennediano Ich bin ein Berliner), Je suis Charlie Hebdo etc. Queste frasi, diventate virali sui social network, costituiscono forme collettive totali, senza possibilità di distanza, di ironia, di diserzione, richiedendo al singolo di adeguarsi completamente ad esse. Egli deve farsi medium “immediato”, fedele, integrale, conformando la propria bacheca, alla forma politica del lutto. 

D’altra parte, casi meno drammatici, come la morte naturale di un personaggio pubblico, danno forma a comunità provvisorie in cui il contributo del singolo è più significativo. In casi di questo genere, la partecipazione al cordoglio assume la forma della lista, della variazione sul tema, con proliferazione di necrologi e ricordi insieme ironici e affettuosi. È il caso di uno stilema tipico della rete, quell’“insegna agli angeli” che a ognuno sarà capitato di leggere nel proprio stream, in riferimento al talento della star di turno (“Bud Spencer, insegna agli angeli come si fa a botte!”).

 

In frasi di questo genere, lo stereotipo diventa matrice: se da una parte lo si ripete, dall’altra, se ne insegue l’infinita trasformazione, spostando sempre più in là l’asticella in vista dell’ennesima variazione. Il cordoglio viene misurato nella sua qualità di “ispirare” artisti del meme. Pagine sociali come quella di Lercio, in occasione della dipartita di personaggi particolarmente amati come il già citato Bud Spencer, risultano particolarmente toccanti (di emozione mista a risolino si tratta) da piluccare. 

A complicare il quadro, dell’uno e dell’altro tipo di forme politiche, ci sono poi gli anniversari. Essi moltiplicano all’infinito la possibilità di riproporre contenuti sul defunto-social: pensate voi stessi a quante volte vi sia spuntata la polemica sui social network di Eco, nel periodo della sua dipartita o, recentemente, nell’anniversario della sua scomparsa. La morte detta l’agenda dei media. 

A queste dinamiche generali della morte su facebook, si aggiungono quelle delle microcomunità, formate, per esempio, dalla propria lista di amici. Se è vero che la morte tragica di un conoscente risveglia effetti di totalità integrale nel gruppo di congiunti, paragonabili a quelle appena descritte per gli attentati dell’11 Settembre, la morte ordinaria pone problemi oggettivi. 

 

C’è sicuramente, l’obbligo sociale di conformarsi al dolore del prossimo, il problema è che esso diventa pervasivo: per il tramite delle bacheche dei nostri amici, veniamo a conoscenza di lutti che mai avremmo considerato e condiviso. L’algoritmo ci chiama, così, a partecipare del dolore per la morte di un nostro contatto defunto con parenti e amici presenti su facebook, allo stesso modo, ci ricorda anniversari e ricorrenze, richiedendoci di “ricordare” insieme agli altri. Ancora, ci informa della dipartita dei congiunti dei nostri contatti. In questo caso, la buona educazione e l’affetto verso il nostro contatto che ha subito il lutto ci chiamerebbe a esprimere la nostra partecipazione al suo dolore, nel momento della dipartita e ogni qual volta egli si dovesse ritrovare a ricordarlo nella sua bacheca virtuale. Con il risultato che la mattina, insieme alla lista dei compleanni, non sono pochi quelli che si ritrovano a dover mostrare di “partecipare” del dolore per la scomparsa della nonna del proprio compagno di palestra. Diciamo pure che necrologi, ricordi affettuosi, elegie del defunto si prestano perfettamente alla condivisione: in un mondo social iper-bellicoso, in cui qualsiasi cosa si affermi, trova il modo di essere contradetta o sbertucciata, la morte rimane come opzione a basso rischio di conflittualità. Se posto un ricordo di un defunto, sono sicuro, insomma, di non sbagliare, con il risultato che la rete finisce per traboccare di post sulla morte altrui. 

 

Ancora, c’è il problema di cosa farne del morto. Offline, la questione nemmeno si sarebbe posta: seppellirlo. Su facebook, a meno che qualcuno non si prenda la briga di cancellare l’account, il contatto rimane attivo. Al congiunto chiuderlo deve apparire una cosa difficile, come ucciderlo una seconda volta. Lo stesso dicasi per l’amico: rimuoverlo dalla propria lista, nonostante la sua inattività, suonerebbe sacrilego. Succede così che le pagine sociali dei defunti su facebook sopravvivano alla dipartita dei loro proprietari, come le anime morte di Gogol.

Non sono rare le resurrezioni. Sempre più spesso capita che un congiunto decida di prendere le redini della pagina del defunto, trasformandola in una specie di mausoleo per la “continuazione” della sua identità. Il morto torna così a chiedere amicizie e like che vengono gestiti per interposta persona: would like

L’altra opzione possibile sarebbe la deriva, lasciare che la pagina venga progressivamente dimenticata. Anche qui, problemi. Il compleanno, invece dell’anniversario di morte come si usava nel mondo prima di facebook, diventa il luogo della cattiva coscienza. Che fare? Augurare al morto buon compleanno suona male. Però, un ricordo, due righe sul suo profilo forse sì. 

 

Ultimo ma non ultimo il problema dell’intermedialità. Non è raro che l’anima del defunto traghetti verso un mondo migliore. Stiamo parlando, ovviamente, di Whatsapp. In cui quotidianamente si formano gruppi di perfetti sconosciuti, uniti soltanto dal fatto di avere un numero telefonico e un morto in comune da onorare, ricordare. Soltanto che il telefono comincia a trillare ogni secondo con comunicazioni di servizio non richieste; nel caso dei funerali: “non posso sono fuori città”, “arrivo un quarto d’ora in ritardo”, “ci vediamo lì” etc. 

“Abbandona il gruppo” sembra l’unica alternativa possibile. 

Nel caso in cui non si abbia avuto il coraggio di farlo, però, si può assistere a metamorfosi inaspettate: catene di sant’Antonio della peggior specie, appelli al voto contro la casta, pacchetti vacanze a prezzo scontatissimo in un paesino remoto delle Alpi. 

Il tutto, si capisce, alla memoria, ma non a spese, del caro estinto. 

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La morte rivela la verità dei social network

Emma Dante e Antonio Latella al Piccolo Teatro

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È segno di apertura o piuttosto di ripiegamento, quando l’arte comincia a riflettere con insistenza su se stessa? A giudicare dalle proposte che hanno segnato questa stagione teatrale, per il teatro l’esigenza di meta-interrogarsi sulla propria funzione è urgente più che mai. 

Limitiamoci al cartellone milanese: è approdato proprio in questi giorni in Triennale L’arte del teatro di Pascal Rambert che – dopo il fortunato La prova prodotto da Ert – torna a chiedersi cosa significhi essere un attore, rivolgendo un fulminante monologo a un cane-primo spettatore.

 

Paolo Musio in L’arte del teatro di Pascal Rambert, ph. Luca del Pia. 

 

Al Piccolo Teatro, l’argomento sembra essere quasi un sotterraneo fil rouge della stagione: ha cominciato in autunno Toni Servillo con Elvira di Louis Jouvet, ha proseguito Antonio Latella con il suo Pinocchio, e ora è il turno di Emma Dante con Bestie di scena

Rambert e Jouvet si collocano in quella linea che prosegue ininterrotta dal celebre monologo dell’Amleto shakespeariano: i due testi scandagliano le attitudini e le prassi del mestiere, aprono discussioni sulle tecniche, si domandano quasi ossessivamente dove risieda quel nucleo segreto di verità a cui un attore dovrebbe sempre anelare. Il pubblico viene messo nelle condizioni di guardare dentro i meccanismi, quasi potesse idealmente sbirciare all’interno delle discussioni durante e a margine delle prove, e potesse poi trarne conclusioni di carattere teorico. 

Qualcosa di ben più radicale accade invece nelle partiture sceniche di Antonio Latella e di Emma Dante: qui l’interrogativo sull’arte dell’attore investe le fondamenta stesse del fare teatro, ne trasforma i linguaggi, ne smangia i contorni. Le due ricerche si muovono, per la verità, in direzioni estetiche e artistiche molto differenti tra loro; ma tanto Dante quanto Latella hanno scelto, fin dagli esordi, di allontanarsi con decisione da ogni forma di ‘rappresentazione’, di racconto lineare, di semplice esposizione di un testo. Nelle loro regie non c’è patto di finzione con il pubblico che venga rispettato, non c’è trucco che non venga svelato, non c’è filtro di mediazione che non venga sondato e messo in crisi. E in questo contesto, cosa resta dell’‘interprete’ tradizionalmente inteso?

 

Christian La Rosa in Pinocchio di Antonio Latella, ph. Brunella Giolivo. 

 

Gli attori, nei loro spettacoli, risultano per lo più straordinariamente efficaci, paiono capaci di superare ogni possibile limite fisico o vocale, e riescono immancabilmente a conquistare lo spettatore con la loro intensità e credibilità. Ma a uno sguardo attento ci si accorge di qualcosa di più profondo: che la stessa definizione di ‘bravo attore’ non è più adeguata o sufficiente per descrivere quello che stiamo vedendo, e che richiederebbe di essere rielaborata e rivista alla luce del codice espressivo al quale è prestata (di questo tema ha parlato di recente anche Rossella Menna, su queste pagine). La visione sull’attore si inscrive così pienamente nel linguaggio scenico, al punto che non è più possibile considerare la prima senza tenere conto del secondo, e che risulta spesso difficile concentrarsi sulla bravura del singolo performer (“mi interessa davvero poco lavorare con quelli che non guardano allo spettacolo di cui fanno parte come a un insieme unico”, dichiara apertis verbis Latella, in La misura dell’errore curato da Emanuele Tirelli per Caracò). Non stupisce, dunque, che i premi agli attori, per gli spettacoli di Dante e Latella, siano di frequente rivolti all’intero cast (il gruppo di Sorelle Macaluso arriva in ballottaggio all’Ubu 2014; gli attori di Santa Estasi vincono l’Ubu 2016): è il modo di concepire il lavoro attorale, prima ancora che l’esito performativo, a venire riconosciuto. 

 

Bestie di scena di Emma Dante, ph. Masiar Pasquali. 

 

I due spettacoli in scena al Piccolo Teatro parlano di tutto questo. Pinocchio declina i temi della favola in senso teatrale, forzando i limiti dell’opposizione dialettica verità/finzione; e il teatro dei burattini di collodiana memoria diventa allora il luogo in cui ridefinire i contorni di una nuova possibile arte scenica (all’illusorietà dell’idea di personaggio, e ai limiti della concezione di ‘battuta’ come di un testo semplicemente mandato a memoria è dedicato un lungo brano di Massimiliano Speziani, re-improvvisato ogni sera). Bestie di scena, dalla sua, offre uno scorcio sul laboratorio creativo della regista: lo spettatore viene invitato – fin dai primissimi istanti dello spettacolo – a guardare e a condividere la preparazione fisica a cui sono sottoposti quotidianamente gli attori, per poi riflettere sul loro contributo nel processo creativo, e infine sulle valenze quasi metafisiche di un così radicale lavoro sul corpo.

 

Bestie di scena di Emma Dante, ph. Masiar Pasquali. 

 

Si tratta di due spettacoli senza dubbio significativi e a cui, ben al di là dell’esito spettacolare più o meno convincente, dovrà guardare chi vuole sapere dove sta andando il teatro di oggi, e come sta cambiando pelle anche nell’ascolto delle altre arti in costante trasformazione.

Niente che non sapessimo, beninteso. Ma le due proposte acquistano una particolare rilevanza – al contrario di quello che è stato scritto– proprio poiché inserite, a stretta distanza l'una dall'altra, nel cartellone del Piccolo Teatro (che si è fatto carico in ambo i casi anche della produzione) e offerte a un pubblico ampio e non pre-targettizzato. E ben vengano quindi le reazioni di rifiuto (che speriamo non spaventino programmatori e produttori): le sedie lasciate vuote dopo l’intervallo in Pinocchio, gli articoli che prendono le distanze dall’‘abuso’ degli attori in Bestie di scena, i commenti facebook che in questi giorni rimbalzano con virtuale aggressività da bacheca a bacheca.

Ben vengano perché ci confermano che chiedersi chi sia, oggi, l’attore, non è solo un’attività autoreferenziale e accademica, da lasciare a pochi tavoli di discussione tra addetti ai lavori. Ma che è piuttosto uno stimolo alle domande che possiamo e dobbiamo porci, come spettatori: cosa scegliamo di vedere a teatro? Quale linguaggio scenico e attorale è in grado di raccontare la metamorfica realtà che ci circonda? Cosa ci smuove, cosa ci emoziona, cosa ci annoia? 

E di prassi attorali e sceniche che sollecitino al dubbio abbiamo più che mai bisogno, di questi tempi.

 

 

L’arte del teatro di Pascal Rambert si può vedere al teatro delle Moline di Bologna dal 14 al 31 marzo; Elvira di Toni Servillo da Louis Jouvet al teatro Niccolini di Firenze fino al 12 marzo; Bestie di scena di Emma Dante fino al 19 marzo al Piccolo Teatro Strehler di Milano.

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Luci sull’attore

Bellezza e bruttezza nella fiaba

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Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c’era un re, le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava in volto. Vicino al castello del re c’era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c’era una fontana. Nelle ore più calde del giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio della fresca sorgente. E quando si annoiava, prendeva una palla d’oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il suo gioco preferito.

Immagini: 

Quando Marcello de Cecco telefonava

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Marcello de Cecco è morto un anno fa, il 3 marzo del 2016. Quando chiamava al telefono lo riconoscevi subito. Mischiava abruzzese e altri eloqui centro–meridionali, con una prevalenza del napoletano, in una parlata inconfondibile, come di una pentola di fagioli che borbotti sul fuoco. Era un po’ come incontrare don Ciccio Ingravallo, il protagonista di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Solo che de Cecco non veniva dalla collina molisana, ma da Lanciano, e ne andava fierissimo. 

La telefonata iniziava con una domanda precisa – quanto crescono i depositi e i prestiti bancari? come va il risparmio degli italiani? – ma proseguiva in mille direzioni. Si capiva subito che a Marcello, per fortuna, non interessava molto ricevere le nostre risposte. Era un grande affabulatore, uno da “one man show”. Passava dalla riluttanza della Germania ad assumere un ruolo di responsabilità in Europa alla critica della perenne immaturità delle classi dirigenti italiane; dalla politica economica degli Stati Uniti alla necessità di lanciare in Italia un piano per la costruzione di case popolari; dalle privatizzazioni al comportamento “a gregge” degli agenti economici; dalle preoccupazioni per le sorti della grande impresa in Italia a ricordi delle chiacchierate con Sir John Richard Hicks, premio Nobel per l’economia nel 1972. 

Come Alberto Arbasino, Marcello de Cecco era un grande pettegolo.

 

Ma, come il secondo Albertone nazionale, da un ricordo personale di un personaggio, ora benevolo ora tranchant, de Cecco partiva per un ritratto di una facoltà universitaria, di un’impresa, di una banca, dell’Italia, dell’Europa. Insomma, del mondo. Si dovrebbero raccogliere questi pezzi, impresa ahimè impossibile perché quasi tutti lasciati alla tradizione orale. Nascerebbe un volume che rivaleggerebbe con il recente Ritratti e immagini. Forniamo un solo esempio. Quando Sergio Marchionne fu chiamato a dirigere la Fiat, ed emerse alle cronache come manager canadese, de Cecco urlò “Ma che canadese e canadese, Marchionne è nato a Chieti!”. 

Marcello era chiaro nella scrittura breve – si vedano ad esempio i suoi pezzi per La Repubblica – mentre era giudicato meno efficace negli interventi orali, in conferenze o seminari. Il punto era che il suo eloquio era un po’ come il “grammelot” di Dario Fo. Invece che alle ascendenze lombardo–provenzali, bisognava abituarsi al sincretismo di abruzzese e napoletano, al passaggio continuo dal dialetto all’italiano e all’inglese e, soprattutto, al non rispetto (anzi, all’insulto) del principio aristotelico dell’unità di spazio-tempo-azione. Come in un romanzo di Thomas Pynchon, l’ascoltatore doveva essere pronto a seguire de Cecco nei suoi salti, da Montagu Norman alla critica dell’austerità fiscale in Europa, dalla Cassa Depositi e Prestiti alla legge bancaria italiana del 1936, da Bonaldo Stringher alla politica monetaria della BCE, dalla Grande Depressione degli anni Trenta del Novecento alla crisi del sistema di Bretton Woods negli anni Settanta del secolo scorso. I più giovani ne uscivano disorientati. 

 

 

Lo stesso stile torrenziale caratterizza Moneta e impero, il libro più importante di de Cecco, di cui Alfredo Gigliobianco ha curato, in maniera impeccabile, una nuova edizione per Donzelli. Il tema centrale del volume è la critica del Gold Standard, il sistema monetario aureo. Un paese adotta un sistema monetario aureo quando l’oro è usato come moneta e quando monete metalliche e banconote sono convertibili in oro. Il Gold Standard internazionale è stato il sistema monetario che ha dominato gran parte dei paesi del mondo dal 1890 al 1914. 

De Cecco compie un’opera di demitizzazione. Gran parte degli economisti ha infatti considerato il Gold Standard come un’età dell’oro, un’Arcadia, un sistema naturale basato sul libero interagire dei mercati, senza nessun ruolo per l’intervento pubblico; de Cecco smonta il mito, mostrando che il Gold Standard non ha mai funzionato come descritto. Il gold standard internazionale è stato un prodotto dell’impero britannico, un sistema fondato sulla struttura delle relazioni economiche e politiche all’interno dell’impero. 

Intorno al 1890 le merci prodotte dagli inglesi diventarono meno competitive rispetto ai prodotti americani e tedeschi. L’Inghilterra esportava le proprie merci in India, costringendo gli indiani a comprarle, anche se costavano più dei prodotti americani o tedeschi. L’India era costretta ad acquistare le merci inglesi ed esportava verso il resto del mondo. La sua bilancia commerciale era in attivo e gli inglesi, che controllavano gran parte delle banche indiane, dirottavano questo surplus verso Londra. La capitale prestava a sua volta questi fondi a tutto il mondo, confermando il suo ruolo di prima piazza finanziaria internazionale. Avendo perso il predominio nelle esportazioni mondiali, gli inglesi diventarono esportatori non più di merci ma di capitali.

 

La tesi di de Cecco ha un valore generale. Spesso ciò che gli economisti e gli storici giudicano un prodotto naturale di un mercato concorrenziale, un risultato automatico dei comportamenti individuali, è in realtà il frutto di scelte degli Stati, di decisioni di politica economica, in contesti dominati da monopoli e oligopoli. Il Gold Standard era nella realtà uno standard basato sulla sterlina, una costruzione dello Stato inglese. L’Inghilterra decantava le virtù del libero commercio, ma il “free trade” non doveva affermarsi all’interno dei confini dell’impero.  

I sette capitoli di Moneta e impero non sono divisi in paragrafi o sezioni; non contengono introduzioni o conclusioni. Capitoli che arrivano talvolta a una lunghezza di 50 pagine sono scritti come flussi di coscienza alla Virginia Woolf o alla James Joyce (ma anche come la prima parte di Certi romanzi, nell’edizione Einaudi del 1974). Uno dei meriti dell’introduzione di Gigliobianco è sintetizzare il messaggio principale di ogni capitolo di Moneta e impero, le pagine indispensabili del volume e le parti interessanti solo per gli addetti ai lavori. Gigliobianco presenta inoltre una traduzione nuova, chiarendo i nessi tra la prima edizione italiana (1971), la prima edizione inglese (1974), la nuova edizione italiana del 1979 – di qualità assai discutibile – e la seconda versione inglese (1984). Un attento esame filologico aiuta a capire i nessi tra le diverse edizioni e la costruzione del libro. 

 

La convinzione di de Cecco era che ogni paese dovesse trovare la sua strada per lo sviluppo economico. Era una visione vicina a quella del trio Nitti – Beneduce – Menichella. L’Italia è più povera di Inghilterra, Francia e Germania. L’obiettivo prioritario della politica economica deve essere quello di colmare questo distacco. Ma l’Italia è un paese povero di materie prime e con una classe borghese fiacca. Per raggiungere l’obiettivo si deve seguire una strada nazionale, fondata su un intervento pubblico dall’alto, dal centro, fondato sulla compresenza di grandi imprese e grandi banche, sia pubbliche sia private. Lo Stato deve dirigere il processo di industrializzazione, ma non deve interferire con il lavoro di banche e imprese, dalle quali i partiti politici devono tenersi assolutamente alla lontana.  

Secondo de Cecco questo modello di economia mista, concepito in risposta alla Grande Depressione, aveva funzionato bene fino al miracolo economico. Il merito era da lui attribuito a una generazione di quadri tecnici e manageriali formatisi nella Grande Guerra, di formazione giolittiana, risorgimentale e nazionalista, rimasti alla guida delle imprese e delle banche fino agli anni Cinquanta. Il modello di economia mista era poi entrato in crisi, per mutamenti del contesto internazionale e, soprattutto, per la sostituzione progressiva dei vecchi amministratori di banche e imprese, spesso imposta da motivi anagrafici, con un personale organicamente fedele ai partiti politici di governo. Il vecchio centralismo finanziario e industriale, nel quale l’IRI aveva avuto un ruolo essenziale, era stato sostituito da una molteplicità di centri di potere, soprattutto di origine locale, dove i partiti avevano occupato le posizioni più importanti. 

 

 

 

Negli anni Sessanta l’Italia aveva così perso la grande occasione di sviluppo. Da allora sono seguiti rattoppi, compromessi, soluzioni ad hoc, in un rapporto sempre complicato con l’Europa, ma il sentiero della crescita si è interrotto. È scomparsa la grande impresa, sia pubblica sia privata. Si è entrati nel mondo della “piccola impresa” e della “piccola banca”, che de Cecco aborriva (anche se forse negli ultimi anni aveva stemperato il suo giudizio negativo). C’era, un’ennesima volta, un contatto inconsapevole con Arbasino (mai fermarsi su qualcosa di provinciale e localistico se non per irridere e denigrare). Questa visione dell’economia italiana raggiunge la sintesi migliore nelle 15 pagine di “Splendore e crisi del sistema Beneduce: note sulla struttura finanziaria e industriale dell’Italia dagli anni venti agli anni sessanta”, il saggio pubblicato nella Storia del capitalismo italiano curata da Fabrizio Barca nel 1997 per Donzelli. 

 

de Cecco ha scritto oltre 200 articoli; ha redatto o curato una trentina di volumi, da solo o con altri studiosi. Questi lavori sono rintracciabili in libreria o in rete. Non è così per il suo primo libro, i Saggi di politica monetaria, pubblicati da Giuffrè nel 1968, e oggi disponibili solo in biblioteca. Il volume contiene un saggio sul sistema di gold exchange internazionale (l’abbozzo dei lavori successivi), una stima econometrica della domanda di moneta (una rarità assoluta, dato lo scetticismo di de Cecco verso l’econometria), e un contributo sulla stabilizzazione italiana del 1947. Ma il saggio più importante è quello sugli sviluppi della struttura finanziaria del dopoguerra. A meno di trenta anni d’età, de Cecco denunciava la politica di autorizzazione degli sportelli che la Banca d’Italia aveva perseguito negli anni Cinquanta, accusandola di aver penalizzato le grandi banche, e di aver favorito i gruppi locali che amministravano casse di risparmio e banche popolari. I più cattivi sostengono che il giovane de Cecco avesse come suggeritore uno dei più grandi banchieri italiani, Raffaele Mattioli, Amministratore Delegato e poi Presidente della Banca Commerciale Italiana (Comit) dal 1933 al 1972, nato, non a caso, a Vasto: la penalizzazione delle grandi banche sottolineata da de Cecco era stata soprattutto la punizione della Comit. Comunque la si pensi, l’articolo resta una delle prime sintesi, efficacissima, dell’evoluzione del sistema bancario e finanziario italiano nei primi venti anni del secondo dopoguerra. Speriamo che un editore ristampi dunque i “Saggi di politica monetaria”.

 

Nel 1973-1975 la radio italiana presentò “Le interviste impossibili”, nelle quali, per fare pochi esempi, Italo Calvino intervistava l’uomo di Neanderthal, Umberto Eco Beatrice Portinari, Guido Ceronetti Attila, Giorgio Manganelli Charles Dickens, Andrea Camilleri Federico II di Svevia e così via. Abbiamo anche noi, con l’aiuto di amici, rivolto delle domande a Marcello de Cecco. 

 

D. Professore, che cosa pensa della Brexit?

Gli inglesi hanno sempre pensato a curare i propri interessi e continueranno a fare sempre così. Solo che oggi non sono ancora consapevoli di non poter più contare su un impero….

 

D. Molti osservatori stranieri continuano a invitare l’Italia a fare le riforme. Qual è il suo giudizio?

Le riforme vanno fatte ma da sempre studiosi di altri paesi si sono occupati dell’Italia, suggerendo le scelte di politica economica. Si possono ricordare Adam Smith, Werner Sombart, Louis Bonnefon Craponne, Albert Hirschman, Vera Lutz e tanti altri. Ma l’Italia resterà sempre un Sonderweg, un’eccezione, un caso speciale. Questo in realtà è vero per tutti i paesi: ogni paese segue un proprio sviluppo, una propria traiettoria. Ci sono convergenze, ma è illusorio pensare che tutte le differenze nazionali possano sparire.

 

D. Come valuta l’attuale situazione della Germania?

I tedeschi continuano a insistere sul rispetto delle regole, e poi gli capita il caso Volksvagen. Non rispettano da quattro anni il limite del 6 per cento, stabilito dalla Commissione europea, per il surplus delle partite correnti. Chiedono alla BCE una politica monetaria improntata alle condizioni della Germania, mentre sappiamo che la politica monetaria non può che guardare a tutta l’area dell’euro. Hanno contribuito al ritardo con il quale la BCE ha lanciato il Quantitative Easing, facendoci correre dei rischi deflazionistici. Non hanno letto The Debt Deflation Theory of Great Depressions, scritto nel 1933 da Irving Fisher, che si insegna da sempre in tutte le università italiane. Non si ricordano che Hitler è salito al potere, proprio nel 1933, in una fase deflazionistica, non per colpa dell’inflazione. Come ha scritto il prof. Peter Bofinger, componente del German Council of Economic Experts, gli economisti tedeschi usano in prevalenza delle categorie interpretative pre-keynesiane. Che dire d’altro?

 

D. Su cosa sta lavorando ora?

Sto cercando di stimare l’intensità del razionamento degli sportelli che la Comit subì negli anni Cinquanta. A proposito, non è che potete darmi una mano a ricostruire i numeri precisi?

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La strada per lo sviluppo economico

La dolce morte mediale

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Il suicidio è un evento impossibile da trattare. Ci sono almeno due motivi che lo rendono incandescente: il primo è la radicalizzazione dello scontro tra due posizioni: “chi non è con me, è contro di me”. Il secondo motivo è la necessità di declinare l'argomento nel registro della singolarità. Ma il primo motivo rende impossibile il secondo. Rende impossibile la necessità di istoriare la vita per cercare di comprendere come il soggetto (questo soggetto, non gli altri) si somministra la morte. Nell'ambito del giudizio radicale, chi “racconta storie” è pericoloso, inserisce il dubbio nella certezza, devia, dissente. 

L'effetto è “guerra”, la storia di una vita è sotto processo, due schiere di avvocati si scontrano. La giustizia mette i sigilli intorno al campo della misericordia, la preclude; parliamo della misericordia di Shakespeare, quella che tempera la giustizia.

 

Nel film Di chi è la mia vita (1981), di John Badham, uno scultore rimane paralizzato interamente dopo un incidente. Lucido di mente, viene tenuto in vita dalla dialisi, ma rifiuta le cure. Sorge un contrasto tra lui e il medico, che vuole tenerlo in vita. Il medico lo invita a fare colloqui con una psicologa, che gli propone di aiutarlo a scrivere la sua biografia, lo scultore rifiuta. Per lui vita e scultura sono una cosa sola; se non può più lavorare, si lascerà morire. Il medico rifiuta di togliergli le cure, vuole salvargli la vita anche contro la sua volontà esplicita. I toni sono forti e lo spettatore tende a schierarsi ideologicamente da uno o dall'altro lato. 

Il film continua: si consultano periti psichiatrici di parte con il compito di valutare se la condizione mentale del paziente sia “depressione maggiore” oppure “depressione reattiva”, come se una delle due diagnosi fosse “differenziale” per decidere sul suo diritto di rifiutare la cura. Si giunge a un processo di fronte al tribunale della libertà. Lo scultore vince la causa, la giustizia ha prevalso: il medico deve interrompere le cure. Tuttavia il medico rimarrà presente in ospedale fino alla morte del paziente. Lo scultore gli chiede perché, il medico risponde: “In caso cambiasse idea”. 

Ci sono molti altri film sul “diritto di morire”, nel mondo anglosassone il dibattito filosofico intorno a questo diritto risale a molti anni addietro. Questo film, che ha avuto scarso successo, è l'unico in cui si mostra la relazione dolorosa tra i due poli della vita e della morte, rappresentata da due figure opposte dell'eticità. Il medico ha perso la sua battaglia, ma rimane accanto al paziente aspettando, fino al momento del decesso, che il paziente cambi idea.

 

 

In queste settimane sono emersi, nei media, casi, che periodicamente si presentano, di suicidio assistito. Persone note, persone qualunque, che improvvisamente acquistano, in virtù di quel gesto, notorietà post-mortem.

Dignitas, l'organizzazione svizzera a cui si sono rivolti alcuni italiani, distingue tra suicidio assistito ed eutanasia con argomenti ragionevoli: eutanasia significa “buona morte”, mentre la vita e la morte non possono essere considerate buone o cattive. D'accordo, vita e morte stanno “al di là del bene e del male”. Lo stesso però vale per il termine “diritto di morire”, per la stessa ragione: la vita contiene il diritto, non viceversa. Non si può parlare o esercitare il diritto fuori dalla vita. 

Invero l'associazione svizzera più nota per l'accompagnamento al suicidio è Exit, che svolge prevalentemente la sua attività nella zona tedesca. Exitè stata fondata nel 1982 e attualmente ha circa 80.000 soci. Dignitas è nata nel 1998 e attualmente ha circa 4.500 soci. Gli iscritti, anno per anno, aumentano sempre più.

 

In Svizzera la cessazione della vita su richiesta è un reato perseguibile, l’assistenza al suicidio invece è solo perseguibile per motivi egoistici. L’articolo 115 del Codice Penale Svizzero recita: “chiunque per motivi egoistici istiga alcuno al suicidio o gli presta aiuto è punito, se il suicidio è stato consumato e tentato, con la reclusione sino a cinque anni o con la detenzione”. Secondo la legge, nel suicidio assistito è fondamentale che la persona abbia la capacità di intendere la portata del suo gesto e agire conformemente a questa consapevolezza. Si può dubitare di un’evidente volontà di suicidio in presenza di chiare turbe e malattie psichiche nell’aspirante suicida. Infine, per i minori, la legge svizzera non ammette la possibilità di una libera volontà.

L’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche, fondata nel 1943, nelle sue direttive etiche afferma che l’assistenza al suicidio non rientra fra le prestazioni a cui è tenuto il medico. Molte associazioni come quelle svizzere rifiutano la parola “eutanasia” perché è un termine che ricorda il nazismo e le pratiche eugenetiche occidentali, antecedenti al nazismo, che sfociano, durante il nazismo, nella somministrazione della morte alle persone malate.

 

Diverso è quando si tratta di persone che soffrono e sono impossibilitate a muoversi, in stato di lucidità mentale, come lo scultore del film di Badham, o l'interprete del film Mare dentro, di Amenabar. Queste persone, in Svizzera, hanno il diritto di chiedere aiuto nel togliersi la vita. 

Un altro elemento da affrontare è il suicidio per una diagnosi di morte imminente per malattia. Sul piano morale è comprensibile che una persona certa di morire per una diagnosi infausta, decida di anticipare la morte per non soffrire fisicamente, come nel caso del film Le invasioni barbariche, di Arcand. Dobbiamo anche pensare che l'uso insufficiente di farmaci per ridurre il dolore, in talune strutture sanitarie italiane, ha l'effetto di spingere le persone verso il suicidio, la morte per sofferenza non è per tutti segno di santità. 

Oggi, di fronte a questi fenomeni mediali, si tratta di pensare il confine oltre al quale togliersi la vita non è accettabile sul piano giuridico e morale. Per esempio: in caso di depressione, è ammissibile la richiesta di suicidio assistito? E in caso di anoressia grave, è ammissibile lasciare che una persona muoia di inedia? Nei casi di suicidi impulsivi, come nei disturbi borderline o negli episodi maniacali è necessaria una prevenzione? 

 

Tutto ciò solleva un dibattito intorno alle categorie nosologiche della psichiatria. Già un tempo tali categorie sono state usate in politica. Durante il nazifascismo, chi “non è utile alla società umana”, questa la definizione generica, andava soppresso. L'eutanasia dei pazienti psichiatrici in quegli anni non fu che la radicalizzazione di politiche eugenetiche precedenti, anzitutto nel paese in cui lo “status acquisito” (la meritocrazia) doveva prevalere sullo “status ascritto” (l'essere figli di qualcuno), the land of liberty: gli Stati Uniti. Là, prima dei fascismi europei, si sviluppano politiche anti-immigrazione e programmi di sterilizzazione dei soggetti disabili e dei soggetti “potenzialmente pericolosi”, che a volte sono solo bambini vivaci, o “ragazze facili”. 

Negli Usa e in molti paesi del Nord Europa, in pieno liberismo utilitaristico, si assiste a una pratica discriminatoria – per chi legge l'inglese – che si prolunga anche dopo il nazismo.

 

Poi, a partire dagli anni Sessanta, gli stessi psichiatri hanno cominciato a contestare “il mito della malattia mentale”, oppure a liberare il disagio psichico da un potenziale uso politico e giuridico, per esempio riconoscendo i diritti di cittadinanza ai pazienti psichiatrici e abolendo le istituzioni manicomiali. Ma che c'entra tutto ciò con l'attuale diffusione del suicidio assistito? Qual è il nesso?

Non ci sono più i manicomi chiusi, è vero, ma siamo entrati, forse, in un’epoca ove la follia non è più del singolo, ma della società.

Oggi non è più lo Stato che decide di sopprimere le persone inutili, è la libertà. Lo fa attraverso la società dello spettacolo, il modo per comunicare dell'epoca moderna. La spettacolarizzazione mediale del suicidio, benché giustificato da ragioni sanitarie, condivisibili o meno. Questo è inquietante. Questa spettacolarizzazione ricorda le pubbliche esecuzioni, ha il sapore di porre una questione di giustizia, di diritto, da un lato, e di pubblicità, di propaganda, dall'altro. Insomma: di politica e di mercato. 

Benché senza scopo di lucro e per ragioni umanitarie, vendere la morte al mercato ha qualcosa di macabro e grottesco. Nell'inconscio collettivo di questa post-modernità permane la fissazione sull'utile, un utile che non c'è più, un dio nascosto, che non si fa raggiungere. Per l'utile si consumano psico-stimolanti, si performa quindici ore al giorno, si tagliano le retribuzioni, si muore. Per un utile che non arriva. Come un rapporto sessuale estenuante, dove si è impegnati freneticamente a raggiungere un orgasmo che, si sa, non arriverà mai più, come in una commedia di Beckett. E tutti parlano del “diritto di morire”, nessuno del sacrosanto “diritto all'ozio”. 

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Un catalogo di aberrazioni

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Chi scrive queste righe sente il dovere di chiarire una nota d'impiccio: in disegno è sempre stato un disastro. Come affrontare allora il resoconto di questo quaderno d'artista, concepito da Gerhard Richter (Gerd Richter, sulla copertina) nel 1962, intitolato Comic Strip (Walther König, Köln, 2014)? Richter l'ha composto un anno dopo aver lasciato Dresda e la Germania Est per trasferirsi a Berlino, in territorio occidentale. Un addio non facile, ma obbligato, covato a lungo, dalla fine degli anni '50, quando a Kassel vede i lavori di Pollock e Fontana (Documenta II, 1959). Si convince definitivamente dopo un viaggio turistico a Mosca e Leningrado, nel marzo del 1961. In aprile, quando scrive una lettera toccante al suo professore, Heinz Lohmar, è già a Berlino Ovest. Richter si trasferirà quindi a Düsseldorf, per frequentare l'Accademia, famosa come presidio della pittura informale. 

 

Questo a mo' di ouverture. Ma a noi occorre un corso accelerato di disegno. Ci affideremo quindi agli insegnamenti di John Ruskin (Gli elementi del disegno, Adelphi, Milano, 2009, pp. 34-35). 

Primo passo – con un righello componi un quadrato: 

 

«Cerca ora di riempire quel quadrato di linee incrociate in modo completo e uniforme, tanto che sembri un pezzetto di seta (…) Riempilo rapidamente, cominciando con linee piuttosto dritte in una direzione qualunque (...) Lascia asciugare completamente prima di ritoccare. (…) Bisogna sempre attendere piuttosto a lungo per evitare il rischio delle macchie, e tracciare linee con la massima sveltezza. (...) Traccia dunque ogni linea con sveltezza e fermati sempre il più vicino possibile ai limiti del quadrato. Le smarginature si possono cancellare in seguito con uno sgarzino, non prima però di aver completato il lavoro, altrimenti la superficie della carta si altera e alla prima smarginatura si formerà una macchia. (…) Dopo aver ripassato il quadrato tre o quattro volte, ti accorgerai che alcune zone sono più scure di altre. Devi cercare di scurire le parti più chiare, così che la tinta sia ovunque più uniforme. Guardando da vicino il tuo lavoro noterai che là dove appare più scuro le linee sono più vicine, oppure molto più scure che altrove; devi allora aggiungere altri tratti, oppure lineette e punti fra i tratti nelle zone più chiare; se ci sono delle righe scure appariscenti vanno raschiate via leggermente, perché l'occhio non deve fermarsi su nessuna linea in particolare.»

 

 

Punto – linea – superficie. La velocità di esecuzione, la cura (il tempo necessario) e la delicatezza nel raffigurare un semplice quadrato, diventano per Ruskin gli elementi cardine di un insieme armonico, equilibrato. Sono i primi passi in direzione di una vera e propria composizione. Iniziamo dunque da un solo colore. E dall'orrore per le macchie. Guarda caso, la prima cosa che notiamo aprendo il quaderno di Richter (un facsimile corrispondente all'originale): una macchia di inchiostro sulla pagina a sinistra, simmetrica a quella a destra, la cui superficie è interamente ricoperta da una scrittura fitta, per lo più illeggibile, e da un timbro sull'angolo in alto a destra, con tanto di “firma”(?). La pressione, il contatto tra le due pagine crea piccole striature, punti, macchie. Capiterà spesso. Capiterà anche di notare come l'eccessiva pressione del pennino sul foglio faccia passare l'inchiostro nero sulla pagina successiva. Effetti di sovrimpressione. Elementi di disturbo e disequilibrio? Ci arriveremo. Per ora, cerchiamo di capire cos'è il quaderno che teniamo davanti agli occhi. Difficile dirlo. Le notizie al proposito sono minime. Potrebbe contenere un reportage immaginario, il resoconto cifrato delle avventure di un “mutante” fuoriuscito dall'inchiostro. 

Simile al monaco di Friedrich, il protagonista di questa avventura è un “uomo nero”, una figura solitaria (in una delle prime pagine riusciamo a decifrare il termine Einsamkeit). E come appare? Per gradazioni, grazie a una sorta di scansione fotogrammatica, in una specie di sequenza che ne amplifica l'ombreggiatura, plasmando la sua immagine corporea. Per saccadi. La figura viene composta sulla pagina, da sinistra a destra, in un crescendo corpuscolare. Dall'invisibilità della figura 1, agli sparuti puntini che delineano le fattezze, i bordi, della figura 2, fino alla 12: una sagoma eretta, nera, minimale, senza braccia. Una U ingrassata e rovesciata. Il pezzo di chiusura di una spilla da balia, ma posto verticalmente. La testa è un cerchio tagliato in due da una linea orizzontale. Punto – linea – superficie: un monaco con tanto di clergyman e cappello ecclesiastico, più l'ombra portata sul terreno. Non male come apparizione. 

 

Siamo dunque destinati a seguire le avventure di questo strano monaco. Ma perché convocare Friedrich? Negli anni passati a Dresda, Richter ha avuto modo di studiare la sua opera (presso Schloss Pillnitz, un castello sul fiume, poco distante dalla città). Sfogliando il volume curato da Dietmar Elger e Hans Ulrich Obrist, Gerhard Richter. Writings 1961-2007 (D.A.P., New York, 2009), possiamo notare i puntuali rimandi a Friedrich. Ciò che Richter apprezza è l'atteggiamento poco “artistico”. Ciò a cui aspira («Qualcosa di severo e inasprito come Kaspar David Friedrich. Non concesse a se stesso alcuna aria, risultava soltanto sgradevole» cit. p. 344). Ma il monaco? Quando l'avrà visto? Dipinto a Dresda tra il 1808 e il 1810, Der Mönch am Meer viene esposto a Berlino lo stesso anno, e ancora lì si trova oggi, presso l'Alte Nationalgalerie (Museuminsel). Sia quel che sia, osservare il monaco e l'opera di Friedrich deve essere stato un momento capitale per Richter, tanto da lasciare tracce nel suo lavoro. Ne sono testimonianza alcuni paesaggi, ad esempio Seestück (Oliv bewölkt) del 1969, e questa sagoma minimale, punteggiata di nero. Che, tra l'altro, non è per lui una novità. Nel 1959 lavora infatti a una serie “uomini neri” (Schwarze Männer); ma già nel 1957 è alle prese con 31 monotipi (linocut su carta) che intitola Elbe. Lì una figura minuscola colta in lontananza è riconducibile al “monaco”, per affinità tematica (Einsamkeit) e risonanza figurativa, proprio come in Comic Strip.

Solitudine? Richter, come Kleist, deve aver colto nel quadro qualcosa a lui prossimo: «E quello che dovevo trovare nel quadro stesso l'ho trovato solo tra il quadro e me, cioè un'esigenza che il mio cuore avanzava al quadro, e quel sottrarsi che il quadro mi faceva; così sono diventato io stesso il frate cappuccino e il quadro la duna, ma quello che con struggente desiderio dovevo vedere, il mare, mancava del tutto.» (H. von Kleist, “Sensazioni davanti alla marina di Friedrich”, in Opere, Mondadori, Milano, 2011, p. 999)

 

 

Ora, in Comic Strip non vi è traccia di mare, e le pagine squadernano solo un paesaggio desolato, mutevole, a cavallo tra dune, campi di battaglia, pianeti di una galassia sconosciuta. Detto questo, non prenderemo le parole di Kleist alla lettera. Richter non è quel monaco. Non arriveremo a tanto. Viaggio, resoconto, avventura? Questo quaderno somiglia piuttosto a un film senza sceneggiatura, rimasto allo stadio cartaceo del disegno, un po' come quei racconti o poemi di cui parlava Novalis: senza significato e continuità, legati tra loro da associazioni, come nei sogni. Un po' come se Richter avesse sognato Eraserhead, nel 1962. Impossibile (forse è Lynch ad aver sognato Comic Strip? la sua struttura?). 

 

Resta l'aspetto di fondo: questo “uomo nero” è un extraterrestre. Eccolo in piedi, colto in una solitudine olimpica complicata da cloni, repliche che lo raggiungono, precipitano dall'alto dentro la pagina, lo scocciano – figure da cui egli vorrebbe sfuggire. Rinchiuso in cornici, dentro francobolli o schermi televisivi, alle prese con pargoli che portano il suo identico cappello, il monaco perde pezzi, smembrato, lacerato: tanto che un marmocchio prende il suo posto, viene fatto re; lo vediamo entrare e uscire da un ospedale, equilibrista sulla corda, ammirato dal pubblico (la testa si stacca, si sdoppia, strumento da giocoliere); si muove su strani prototipi a ruote, viene sparato in orbita da un cannone; giunge su un pianeta (ma neppure lì viene lasciato in pace), gira intorno al suo cerchio, oppure turbina come una trottola; lo osserviamo di nuovo equilibrista tra vari pianeti, oppure in picchiata, disintegrato sul terreno, paracadutato, strappato in due: a volte la sua testa vortica, prende la forma di un pianeta (Saturno, vale la pena ricordarlo, è anche il soprannome del cappello dei sacerdoti). Dentro questo spazio di carta non c'è ombra di donna. Il “monaco” si trasforma in centauro. Sovente le pagine sono annotate, presentano uno sfondo variabile. Ombreggiata, punteggiata finemente, o grossolanamente, disegnata con preziosismi déco, la scenografia si fa fondale cosmico, neutro, spazio in cui appaiono strane mappe, scacchiere. È un piacere notare come Richter padroneggi le varie potenzialità del disegno: velocità di esecuzione (Saul Steinberg), leggerezza, cura, spingendosi però fino alla totale degenerazione del tratto, all'esplosione di macchie. Ogni pagina è un salto nel vuoto. Un catalogo di aberrazioni. 

 

 

Vale la pena ricordare quanto la funzione della macchia risulti in alcuni casi di cruciale importanza. Il suo ruolo non è di “disturbo”. Piuttosto, aiuta l'invenzione. Per stare bassi, un po' quello che accade in Koko The Clown, realizzato da Max Fleischer per la serie “Out of the Inkwell”. Un po' quello che consigliava Alexander Cozens nel suo A New Method of Assistingthe Invention in Drawing Original Compositions of Landscape (1785) per stare alti (si veda al riguardo la magnifica tesi di Jean-Claude Lebensztejn, L'art de la tache. Introduction à la Nouvelle méthode d'Alexander Cozens, éditions du Limon, 1990). Insomma, questo per dire che, come la / nuvola /, la macchia fungerebbe qui da segno, potenziale indice di variazione, possibilità deviante e proiettiva (convochiamo qui Hubert Damisch e il suo Teoria della nuvola. Per una storia della nuvola, Costa & Nolan, Genova, 1984, p. 48).

 

Perché la macchia dunque? Questo scaracchio emblematizza un processo di lavoro caro a Richter: «Devo cominciare dalla “macchia” e non dal nuovo contenuto (se potessi esserne esentato, dovrei comunque cercare un modo di rappresentarla in maniera appropriata) – scrive nel 1985. Con tutte le tecniche a disposizione, specie quelle di eliminazione, devo cercare di forzare qualcosa che non riesco a visualizzare, qualcosa che vada più lontano e che sia migliore e più giusta della mia opinione e intenzione preesistente – per apparire come un'immagine esistente di qualcosa.» (G. Richter, “Notes, 1985” cit. in D. Elger e H. U. Obrist (a cura di), Gerhard Richter. Writings 1961-2007, cit., p. 143)

Chi ha avuto la possibilità di vedere Gerhard Richter – Painting, il film di Corinna Belz (2011), ricorderà le enormi spatole che Richter passa sulla superficie della tela, modificando e creando strane forme a partire dalla loro pressione sulle masse di colore. Noi dilettanti, alle prese con gli elementi del disegno, rendiamo qui conto di un colore solo: quello dell'inchiostro nero.

 

 

Valutiamo la sua distribuzione armonica o depravata. Ci interessa l'ambivalenza delle macchie, intese come principio di invenzione. Guardate la testa del monaco trasformarsi in pianeta, palla da giocoliere, mitragliatrice. Guardate quella minuscola macchia nera nel cielo grigiastro, in lontananza. Possibile che si tratti di una replica intenta a gettarsi col paracadute? La qualità proiettiva della macchia sollecita la nostra interpretazione. 

Così, mentre su una pagina del quaderno gli “uomini neri” (ma saranno poi repliche?) entrano (o escono) da un enorme quadrato nero (qualcosa che mi ricorda il Tristram Shandy), a noi non resta che chiudere queste note con un elogio della mano. Quella di Gerhard Richter. 

Ricopiamo qui un passo – senza dirlo a John Ruskin –, perché non approverebbe. E gettiamo un'ultima occhiata al nostro “uomo nero”. In compagnia delle sue repliche siamo testimoni del suo ultimo viaggio – risucchiato all'interno di chissà quale vortice galattico. Ormai lontano. Finalmente solo.

 

«L'artista riceve con gratitudine il dono del caso, e lo mette rispettosamente in evidenza. Gli proviene da un dio, e così è anche per la casualità che è frutto della sua mano. Se ne appropria senza esitare, e ne fa nascere qualche nuovo sogno. È un prestidigitatore (mi piace questa vecchia parola, così lunga) capace di trarre partito dai suoi errori, dalle sue prese mancate, per farne giochi nuovi: e nulla ha più grazia dell'eleganza che si produce a partire da una goffaggine. L'eccesso di inchiostro capricciosamente sfuggito in minuscoli rivoletti neri, il passaggio di un insetto attraverso uno schizzo ancora fresco, la goccia d'acqua che sfuma un contorno rappresentano l'irruzione dell'imprevisto in un universo in cui non può trovare posto, in cui tutto sembra atteggiarsi per accoglierlo. Basta catturarlo al volo e farne emergere tutta la potenza nascosta. Guai al gesto lento, alle dita intirizzite! Ma la macchia involontaria, con la sua smorfia enigmatica, entra nel mondo della volontà, È meteora, radice tornita dal tempo, sembianza inumata; colloca la nota decisiva là dove mancava, e dove non la si sapeva trovare.» 

 

Henri Focillon, “Elogio della mano”, in Vita delle forme, Einaudi, Torino,1990.

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Note su Comic Strip (Gerhard Richter)
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