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Philip Roth. «Eccola, la vita umana».

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Dopo l’uscita della cosiddetta ‘trilogia americana’ – Pastorale americana (‘American Pastoral’, 1997), Ho sposato un comunista (‘I Married a Communist’, 1998), La macchia umana (‘The Humain Stain’, 2000), Philip Roth, che già era uno degli scrittori più importanti del mondo, è diventato l’autore di riferimento internazionale per ogni discorso e riflessione sul romanzo e forse sulla letteratura tout court. In Italia, i tre capolavori sono usciti tra il 1998 e il 2001 nella versione di Vincenzo Mantovani per Einaudi, che da quel momento in poi ha pubblicato tutti i libri successivi, recuperando o ritraducendo anche i precedenti (usciti per Bompiani e altri editori già a partire dagli anni Sessanta). Quando abbiamo letto la trilogia, è stato subito chiaro che era opera di uno scrittore al culmine della sua forza e autorità. Impressionati da quella lettura – per molti una scoperta – abbiamo continuato di anno in anno a leggere i nuovi volumi, finendo per ammettere che nessuna delle opere tarde di Roth poteva eguagliare Pastorale americana o La macchia umana. Così, se non abbiamo smesso di apprezzarlo, abbiamo però creduto che altri scrittori (alcuni dei quali oggi, al suo confronto, sembrano bambini che giocano) fossero ormai più degni di attenzione. Ci pareva che la decisione di smettere di scrivere, presa da Roth nel 2010 (dopo Nemesis), autorizzasse questo giudizio. 

Poi Philip Roth è morto (il 22 maggio del 2018) e, come capita in questi casi, abbiamo ripercorso i suoi libri, anche grazie ai primi due volumi dei Romanzi pubblicati nei «Meridiani» Mondadori, usciti nel 2017 e 2018.

 

Trilogia americana.


Quell’edizione – e la nostra rilettura – giunge ora a termine con l’uscita del terzo e ultimo «Meridiano», a cura di Paolo Simonetti (responsabile anche delle pregevoli Notizie sui testi), con un saggio introduttivo di Alessandro Piperno e la Cronologia a cura di Angela Demurtas, responsabile anche della cura redazionale dell’edizione, basata su quella della Library of America. Il volume include i romanzi pubblicati tra il 1998 e il 2000: Ho sposato un comunista, La macchia umana, L’animale morente (‘The Dying Animal’, 2001), Il complotto contro l’America (‘The Plot Against America’, 2004), Everyman (2006) nelle traduzioni di Vincenzo Mantovani e Nemesi (‘Nemesis’, 2010) tradotto da Norman Gobetti. La partizione cronologica ha imposto la separazione di Pastorale americana (nel secondo volume) dagli altri due libri della trilogia, che fa parte a sua volta del ciclo degli Zuckerman Books, il cui protagonista o narratore è Nathan Zuckerman. L’animale morente chiude invece la trilogia dei Kepesh Books, così come Il complotto contro l’America, l’ultimo grande romanzo di Philip Roth, porta a termine il ciclo dei Roth Books (nei quali il protagonista è omonimo dello scrittore) che include tra gli altri Patrimonio e Operazione Shylock. Infine, Everyman e Nemesi fanno parte della serie di short novel riunite sotto il titolo complessivo di Nemeses.

 

Meridiani Roth.


Per cercare di capire il segreto di Roth, per trovare una chiave di accesso al suo straordinario edificio narrativo, conviene partire da una considerazione affidata al protagonista di Il complotto contro l’America: «Era così che la vedevo allora, e così continuo a vederla; oltre ai cinque sensi, un bambino col mio retroterra aveva a quei tempi un sesto senso, il senso geografico, l’acuto senso di dove viveva e chi e cosa lo circondava» (p. 1173). È proprio questo “senso geografico” la cifra forse più importante, il tratto più riconoscibile (e quasi inimitabile) dello stile di Roth: la capacità cioè di ricreare un ambiente sulla pagina con strenua precisione, in tutti i suoi elementi appunto geografici o topografici, ma anche storici, sociali, culturali, morali. La letteratura «è la grande particolareggiatrice», scrive Roth in Ho sposato un comunista: «Perché? Perché la letteratura è l’impulso a entrare nei particolari. Come puoi essere un artista e rinunciare alle sfumature?» (p. 266). Non rinunciare alle sfumature: credo sia questo uno dei valori e degli insegnamenti più importanti che i romanzi di Roth trasmettono. Nessun personaggio dei suoi romanzi, nemmeno i grandi protagonisti della ‘trilogia’, sarebbero immaginabili se venisse a mancare anche uno solo dei dettagli con cui Roth ha costruito l’ecosistema in cui vivono “e chi e che cosa” li circonda. Se non altro perché l’esito tragico dei loro destini è spesso effetto del divario tra una ‘geografia’ ideale, l’immagine mentale dell’ambiente in cui i protagonisti sono cresciuti e si sono formati, e una ‘geografia’ reale, di cui non riconoscono i contorni o da cui vengono espulsi moralmente e materialmente. Molti personaggi dei romanzi di Roth conservano per tutta la vita il ritmo delle minime cose che li hanno accompagnati nei primi anni: «tic, toc, tic, il metronomo della vita quotidiana nel quartiere, la catena dell’essere nella città americana di una volta» (p. 26).

Si può considerare questo ritmo interiore come una declinazione del grande tema – la perdita dell’innocenza, la fine dell’idillio o dell’utopia ‘pastorale’ (come la definisce Christopher Lasch in Il paradiso in terra) – che attraversa l’immaginario americano contemporaneo. Da questo spaesamento dipendono, oltre al titolo Pastorale americana, le aspirazioni irrealizzabili nei confronti di una dimensione ‘thoreauviana’ dell’esistenza, isolata, incontaminata, in cui il male si annulli. Ma è il male stesso che può essere generato dall’incapacità patologica di accettare la fine del sogno, o meglio la sua inconsistenza. Non è un caso che uno dei personaggi più negativi della trilogia, Les Farley di La macchia umana, venga ritratto nel finale del romanzo in un’Arcadia così tipica e perciò così ingannatrice: 

 

Solo raramente, alla fine del nostro secolo, la vita offre una visione così pura e pacifica come questa: un uomo solitario seduto sopra un secchio, che attraverso quaranta centimetri di ghiaccio pesca in un lago le cui acque si rinnovano continuamente in cima a un’arcadica montagna dell’America. (p. 812)

 

Lo stesso Roth è vissuto per molti anni lontano dalla città e dalla folla, in una casa di campagna nel Connecticut; ma, forse anche per questa personale esperienza, sa quanto comune e in fondo velleitario sia questo desiderio di natura. Ha lasciato che a spiegarlo fossero i personaggi di Ho sposato un comunista:

 

E l’idea della baracca, dopotutto, non è di Ira. Ha una storia. Era di Rousseau. Era di Thoreau. Il palliativo della capanna primitiva. Il posto dove sei ridotto all’essenziale, dove torni – anche se non è da lì che vieni – a decontaminarti e a dispensarti dall’impegno di lottare. Il posto dove ti togli – come un insetto durante la muta – le divise che hai indossato e i costumi che ti sei messo sulle spalle, dove ti spogli delle tue umiliazioni e del tuo risentimento, delle concessioni che fai al mondo e della sfida che gli lanci, della tua manipolazione del mondo e dei suoi maltrattamenti. L’uomo che invecchia se ne va nei boschi: il pensiero filosofico orientale abbonda di questo motivo, il pensiero taoista, il pensiero indù, il pensiero cinese. L’«abitante della foresta», ultima tappa sulla strada della vita. (p. 91)

 

Per quanto incarnino e spesso evochino ascendenti letterari, archetipi tragici, biblici, classici e soprattutto shakespeariani, nessuno dei grandi personaggi di Roth – né Levov “lo Svedese” in American Pastoral, né Ira “Iron” Ringold in I Married a Communist, né Coleman Silk e Faunia Farley in The Humain Stain– si limita ad agire in base a modelli assoluti. È il realismo delle loro esistenze, plasmate dal ‘sesto senso’ di un luogo e un tempo determinati, ad attivare quel dispositivo di allusione e riconoscimento che rende possibile affiancare le loro storie ai destini di altri eroi letterari. Lo scrittore ne è perfettamente consapevole e anzi cerca, provoca il confronto, da cui i suoi protagonisti non escono smentiti o falsati, ma potenziati da una carica parossistica e perfino melodrammatica:

 

L’abitudine si forma quando si è traditi. La causa è il tradimento. Pensa alle tragedie. Cosa provoca la melanconia, la follia, lo spargimento di sangue? Otello: tradito. Amleto: tradito. Lear: tradito. Si potrebbe addirittura sostenere che anche Macbeth viene tradito (da se stesso), anche se non è la stessa cosa. I professionisti che hanno speso tutte le loro energie insegnando ad apprezzare i capolavori, quei pochi di noi che si lasciano ancora affascinare dall’esame minuzioso che la letteratura compie delle cose, sono perfettamente giustificati quando dicono di trovare il tradimento nel cuore della storia. Di tutta la storia, da cima a fondo. La storia del mondo, la storia famigliare, la storia personale. (p. 222)

 

Sennonché, è proprio la gestione dei toni estremi che permette a Roth di stabilire una mediazione tra l’eccezionale specificità e l’universale validità di caratteri, situazioni e ambienti rappresentati nelle sue opere. Lo si comprende bene tornando al concetto di “senso geografico”; la maggior parte delle narrazioni di Roth è ambientata nello spazio circoscritto del New Jersey (Newark, East Orange), descritto con tutta l’accuratezza e la competenza di chi è nato e vissuto in quei luoghi, li ha visti e sa come sono e com’erano grazie a una memoria personale e famigliare sedimentata non in una ma in almeno due o tre generazioni. Ebbene, tutta questa precisione non provoca noia o estraneità, non spinge mai il lettore a chiedersi: “Cosa hanno a che fare con me quella strada, quell’insegna, quel modello di auto o l’albero genealogico di quel personaggio secondario?”. Non si tratta di un semplice effetto di reale, perché la descrizione del contesto è essenziale per la comprensione di moventi, comportamenti, vicende; né d’altra parte è un’esibizione di localismo, cui ricorrono gli scrittori che pensano di costruire un ambiente nominando superficialmente la via di una città o inserendo una battuta vernacolare e poi sembrano dirci: guardate, questa è proprio Roma, è proprio Milano, o Parigi, o Madrid o perfino New York. La differenza – una delle tante – tra questi scrittori e Philip Roth è che i primi credono di essere realisti riproducendo o giudicando ciò che di (troppo) idiosincratico vedono e sentono dentro la loro bolla; Roth al contrario, come altri autori americani prima di lui (Faulkner, Bellow), fa di un luogo preciso il teatro di lotte e passioni universali. La specificità non si oppone all’universalità; il suo contrario è piuttosto la gergalità, l’imitazione di un mondo ristretto e provvisorio, forse comprensibile solo a chi ci si trova nel mezzo. 

 

Come molti e forse tutti i grandi autori realisti, Roth fonda l’attendibilità del racconto anche sull’esemplarità, di fondo non realistica ma ideale, dei paradigmi morali ed esistenziali in cui i suoi personaggi sono implicati. Il primo di questi paradigmi è proprio quella ‘nemesi’ cui non a caso è intitolata la sua ultima opera. Nella «mitologia classica Nemesi – ricorda Paolo Simonetti nella nota al romanzo – è la dea che distribuisce la giustizia compensatrice, deputata a punire chi turba l’ordine del cosmo eccedendo con le proprie azioni la giusta misura. […] Il sostantivo inglese, nemesis, rimanda in senso figurato a concetti come rivalsa, contrappasso, vendetta, punizione e giustizia divina» (pp. 1785-6). Il ruolo della nemesi orienta il destino dei personaggi, anche se non tutti si sono personalmente o volontariamente macchiati di colpe o hanno peccato di hybris. La giustizia (o ingiustizia) poetica che coinvolge gli ‘eroi’ rothiani – Coleman Silk, che per tutta la vita ha mentito sulle sue origini razziali, viene accusato di aver pronunciato una battuta discriminatoria; il protagonista di Nemesi, l’allenatore Bucky Cantor, modello di integrità fisica e morale, diventa inconsapevole veicolo e vittima del contagio di poliomielite che colpisce i suoi giovani pupilli – sovradetermina la realtà, la rimodula sulla base di grandi archetipi letterari e delle ossessioni storiche e sociali che li hanno ispirati: la caccia alle streghe, lo spirito di persecuzione (di cui è vittima Ira di Ho sposato un comunista), la diversità e la sopraffazione di ordine razziale e sessuale (in cui sono coinvolti, ciascuno per le proprie origini e vicende, Coleman e Faunia in La macchia umana), la guerra, il nazismo e l’antisemitismo (al centro di Il complotto contro l’America), la malattia come menomazione personale e sociale (in Nemesi). Su tutte queste paure, domina quella più grande, la morte, personaggio silenzioso di tutta l’opera tarda di Roth e in particolare di Everyman, che è letteralmente costruito intorno alla morte: il racconto ha inizio dal funerale del protagonista, si sviluppa attraverso un flashback tornando indietro alla sua infanzia, per poi riavvicinarsi al presente e coglierlo negli istanti estremi: «Non esisteva più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato nel nulla senza nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio» (p. 1508). Scrivere, per l’ultimo Roth, non è più una sfida alla morte, un esorcismo, ma forse è un tentativo di dare senso, nel disordine pulviscolare del reale, ai destini particolari (e perciò esemplari) degli individui, non perché separati dalle cose ma in quanto parte di un flusso inarrestabile:

 

La pienezza sensoriale, la copiosità, l’abbondante – sovrabbondante – minuziosità della vita, che è la rapsodia. E Coleman e Faunia, che ora sono morti, immersi nel fluire dell’inaspettato, giorno per giorno, minuto per minuto, essi stessi minuzie in quella sovrabbondanza. (p. 450)

 

Lo scrittore americano «incontra grandi difficoltà a comprendere, descrivere e poi rendere credibile la realtà americana. È una realtà che sconcerta, disgusta, manda in bestia, ed è anche motivo di imbarazzo per la nostra scarsa immaginazione. L’attualità si fa beffe del nostro talento, e ogni giorno saltano fuori figure che sarebbero l’invidia di qualunque romanziere». Così Roth si è espresso in un discorso (Scrivere narrativa americana) tenuto a Stanford nel ’60, ora incluso nella raccolta postuma di nonfiction, tradotta nel 2018 da Norman Gobetti per Einaudi (Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti). Forse è per aggirare questo sconcerto, per impedire all’attualità di farsi beffa del talento che Roth ha lavorato sulla realtà in modo che la letteratura e le sue risorse ne portassero alla luce ed esaltassero il nucleo di verità, quel tanto di significato credibile e perciò comunicabile che la realtà grezza non può contenere. Per questo, non c’è contraddizione tra il realismo e l’invenzione fino ai limiti del controfattuale su cui si basano opere come Il complotto contro l’America, romanzo ucronico in cui s’immagina un’America nazista governata da Charles A. Lindbergh, e lo stesso Nemesi, che racconta un’epidemia mai verificatasi in quei modi e proporzioni.

Ora, si può dire che l’obiettivo e insieme il metodo dei grandi romanzi di Roth, specialmente dei suoi ultimi capolavori, risiedano proprio in questo conflitto o disallineamento tra verità e realtà, che rende necessaria la mediazione della scrittura e la manifestazione dell’atto narrativo all’interno del racconto. È La macchia umana a fornire l’esempio più chiaro. 

 

Nicole Kidman e Anthony Hopkins in un fotogramma nel film tratto da La macchia umana (regia di Robert Benton, 2003).


A partire da Pastorale americana, Zuckerman da protagonista diventa testimone, portavoce della vicenda raccontata. «Uno dei passi più emozionanti» del libro – scrive Piperno nell’introduzione al «Meridiano» – «è proprio quello in cui Nathan, con un virtuosismo tecnico superbo, passa dalla prima alla terza persona. Questa è autentica epifania modernista» (p. XLI). Quest’assetto permane anche negli altri due libri della trilogia, complicandosi proprio sul piano tecnico in Ho sposato un comunista (in cui si alternano due narratori: lo stesso Zuckerman e il suo vecchio insegnante di inglese, fratello del protagonista Ira Ringold) e trovando una piena giustificazione poetica appunto in La macchia umana. Per quanto il romanzo sia, com’è nello stile di Roth, strenuamente legato all’immanenza dei fatti e delle cose, il suo sviluppo non è determinato tanto da una trama oggettiva, quanto dalla ricostruzione soggettiva e dalla mediazione del narratore, cui lo stesso Coleman ha chiesto di scrivere un libro sulla propria storia. Quel libro – intitolato La macchia umana come il vero romanzo di Roth – è però tutt’altro che un resoconto: Zuckerman ha compiuto un’altra metamorfosi, diventando da testimone interprete dei destini dei suoi personaggi-interlocutori. Nel corso del romanzo, acquista facoltà di semi-onniscienza (sa o piuttosto immagina cose che, realisticamente, non potrebbe sapere) e gestisce con meraviglioso virtuosismo la successione del tempo narrativo; continuo è il movimento fra il passato dei personaggi, il presente della storia principale e l’anticipazione sulla sorte toccata ai protagonisti, di cui il lettore è informato molto presto: «Quattro mesi più tardi, dopo che furono seppelliti tutt’e due, avrei ricordato la mungitura di quel giorno come una rappresentazione teatrale in cui avevo avuto una particina» (p. 449). Non conta tanto quel che succede, ma perché succede e in che modo: su questo il narratore non cessa di interrogarsi, per questo decide di scrivere La macchia umana. Si produce così in un altro magistrale tour de force, che riguarda stavolta non il tempo ma la focalizzazione: i punti di vista dei personaggi, spesso in conflitto reciproco, si alternano fin quasi a confondersi – più di una volta il lettore è quasi costretto a fermarsi per chiedersi a chi appartengono i pensieri e i sentimenti che il narratore ci sta rivelando. Cioè, i pensieri e sentimenti che sta immaginando, attribuendoli ai personaggi come le parti in un dramma, nella «rappresentazione teatrale» cui lo stesso Zuckerman aveva avuto l’impressione di assistere, come abbiamo letto: 

 

Solo tre o quattro mesi dopo, quando venni a conoscenza del segreto e cominciai questo libro – il libro che mi aveva chiesto di scrivere, scritto, però, non necessariamente come voleva lui –, compresi qual era il cemento del patto tra loro: Coleman le aveva raccontato tutta la sua storia. Solo Faunia sapeva come Coleman Silk aveva fatto a diventare se stesso. Come so che lo sapeva? Non lo so. Non potevo sapere neanche questo. Non posso saperlo. Ora che sono morti, nessuno può saperlo. Nel bene e nel male, io posso fare solo quello che fanno tutti quelli che credono di sapere. Immagino. Sono costretto a immaginare. Si dà il caso che sia quello che faccio per vivere. È il mio lavoro. È l’unica cosa che faccio, ormai. (p. 640)

 

È ancora questione di realtà, che non si può sapere, opposta alla verità, che si può comprendere attraverso il racconto. «Eccola, la vita umana» pensa Zuckerman, quando rivede il suo vecchio insegnante e si accinge a raccontare insieme a lui la storia di Ho sposato un comunista (p. 10): «Ecco cosa significa durare».

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Colore (e cultura) del cibo

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Quale possibilità c’è oggi di parlare profondamente di alimentazione mediterranea quando l’espressione è diventata un luogo comune culturale oltre che linguistico?

Quale possibilità c’è di capire qualcosa di quest’ultima quando – da generazioni diventati necessariamente consumatori – la maggior parte di noi avrà conosciuto o seguito almeno una “dieta mediterranea” in versione prêt-à-porter, moderna, accattivante, glamour, sostanzialmente composta di cibi gialli, verdi, rossi, bianchi e soprattutto ormai lontanissima dalla società che aveva generato quell’antico modello alimentare?

 

Possibilità ridotte a zero per la maggior parte di noi a meno di non voler studiare, a meno di non voler superare i luoghi comuni che trenta-quarant’anni di divulgazione e spesso cattiva informazione hanno seminato a piene mani.

Leggere (e studiare) Il colore del cibo di Vito Teti (Geografia, mito e realtà dell’alimentazionemediterranea), Meltemi 2019, va certamente in questa direzione. Si tratta di una nuova edizione e di una profonda rielaborazione di un testo uscito la prima volta nel 1999. Alimentazione mediterranea come geografia, come storia, come antropologia, come espressione di civiltà (guardando soprattutto alle regioni del nostro meridione), come legame essenziale per la vita delle comunità sia per gli aspetti materiali che per quelli immateriali, simbolici. Perché se è vero che la “riscoperta “ di Ancel Keys (e le pressoché  contemporanee e innovative ricerche di un medico e ricercatore italiano, Massimo Cresta ) guardava ai corpi già della modernità e ai necessari equilibri nutrizionali, un libro come quello di Teti ci mette in contatto con tutti i profondi aspetti di cui le società antiche si nutrivano nel loro legame con la terra, con i tempi agrari, le feste, gli affetti, i vivi e i morti... perché l’alimentazione mediterranea ha innanzi tutto rappresentato un cibo per le comunità al pari di quello per l’individuo.

 

Tutto questo si rivela nella lettura attraverso le fonti e gli strumenti dell’antropologo ma anche con la documentazione sul campo dell’etnografo, con una sensibilità e un’attenzione alla vita delle comunità che spesso diventa un afflato. In questo senso sono soprattutto gli anni a cavallo dell’avvento della società del benessere a fare da cartina di tornasole, ad essere lo spartiacque tra i tempi lunghi della società della fame e “il troppo” di oggi in cui ogni cultura alimentare sbiadisce fino a diventare niente.

In questo senso il colore del cibo che dà il titolo al libro è una rappresentazione profonda, una sintesi ideale di ciò che le comunità antiche mettevano in gioco rispetto ai loro bisogni, al rapporto con la loro storia, la loro memoria, il loro territorio. Colori che non sono quelli degli alimenti presenti in un piatto, piuttosto quelli diventati espressione della società che quegli alimenti produceva, conservava, consumava collettivamente, celebrava.

 

 

Erano soprattutto il bianco e il nero, vale a dire l’opposizione tra il pane e tutto il cibo gentile rispetto al grezzo e al greve delle farine succedanee, sono il verde e il rosso rispettivamente al posto degli erbaggi per i poveri e delle carni e il vino per i ricchi. Così, nel percorso che Teti traccia, appaiono lontanissimi per superficialità e significato i colori della dieta mediterranea che Google ci restituisce digitando il nome e avviando una ricerca per immagini. I colori del cibo della tradizione segnavano infatti l’appartenenza a orizzonti nutrizionali e simbolici profondi e profondamente differenti.

 

Perché sempre l’alimentazione mediterranea “...bisogna immaginarla con la fame, i desideri, il gusto, il piacere degli uomini del passato. Quando il cibo non era sufficiente, garantito, disponibile. Quando condizionava il lavoro, il tempo libero, la festa, le credenze, la mentalità, l’aspetto fisico, la salute delle popolazioni”. Perché ci dice ancora Vito Teti “...anche oggi il cibo segna la vita delle persone, ma in questa parte del mondo le relazioni uomo-ambiente-lavoro-produzione-cibo appaiono sempre meno evidenti”.

È questa una cesura netta nella nostra storia e che appartiene solo all’esperienza dell’uomo contemporaneo.

E allora, se il cibo e l’alimentazione sono parte essenziale dell’identità di ogni civiltà e ogni comunità, indagare su cosa sia stata l’alimentazione mediterranea e cosa ne resti oggi, equivale a tagliare, a sezionare, e infine a vedere gli strati di cui è fatta la nostra recente storia e, fino a ieri, parte profonda della nostra identità .

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Dobbiamo bruciare Allen?

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Ce lo immaginavamo così il Giubileo d’oro di Woody Allen con il cinema (1969-2019)? Credo proprio di no. Non certo con l’ormai ottantatreenne regista che cerca confusamente di parare i colpi dell’assalto mediatico parlando di “caccia alle streghe” (un termine che sarebbe meglio adoperare con prudenza, carico com’è di risonanze storiche e politiche, specie negli USA). Né con le attrici e gli attori (da Rebecca Hall a Mira Sorvino, da Colin Firth a Timothée Chalamet) che, dopo aver lavorato con lui, fanno pubblica ammenda. E nemmeno con la distribuzione del suo penultimo film, Un giorno di pioggia a New York, tutt’ora incerta negli Stati Uniti, con tanto di conseguenze legali (in Italia invece uscirà il prossimo 3 ottobre): una beffa, per il regista più “regolare” della storia del cinema americano.

 

Ammettiamolo: in questo frangente parlare di Allen è, per usare un eufemismo, meno facile che in passato. Fino a qualche tempo fa si litigava al massimo sui film, con l’eterna diatriba tra fan e detrattori. Poi, sull’onda del movimento Time’s Up (al quale peraltro hanno dato un contributo decisivo gli articoli dell’unico figlio biologico di Allen, Ronan Farrow), sono tornate a galla vecchie ma mai del tutto sopite accuse nei confronti dell’attore-regista, emerse durante la battaglia legale fra il regista e l’ex compagna Mia Farrow per l’affidamento dei figli. Accuse gravi, la più infamante delle quali è quella di aver abusato della figlia adottiva Dylan all’inizio degli anni Novanta. A onor del vero, le accuse non sono mai state provate, e, sebbene Elliott Wilk, giudice del processo, abbia comunque definito “inappropriato” il suo comportamento, Allen ha dimostrato in tribunale di non aver commesso alcunché di scorretto nei confronti di quella che, all’epoca, era una bambina. A oltre venticinque anni di distanza, la vicenda è invece deflagrata con una violenza che pochi, forse, si sarebbero aspettati. 

 

La campagna di riprovazione nei confronti di Allen ha avuto poi un ulteriore risvolto. Il 4 gennaio dello scorso anno, lo scrittore e giornalista freelance Richard Morgan ha pubblicato sul “Washington Post” un articolo dal titolo inequivocabile: I read decades of Woody Allen’s private notes. He’s obsessed with teenage girls. Il pezzo, che parte dall’analisi dei documenti depositati da Allen all’università di Princeton fin dal lontano 1980 (56 scatoloni di taccuini, abbozzi di racconti e di sceneggiature e altro materiale) è un esempio di filologia lombrosiana, basata su una concezione distorta della teoria dell’autore: «All art is partly autobiographical — it comes from inside someone's mind, inside their soul. Allen's archive shows what is inside his». In altre parole, se Allen è capace di immaginare certe cose, sicuramente è in grado anche di metterle in pratica.

 

Diane Keaton, Allen, Jerry Lacey in “Provaci ancora, Sam”, 1972.


Sono purtroppo passati i tempi in cui il grande Guido Fink, da poco scomparso, prima di calarsi in una delle sue formidabili analisi del corpus alleniano, quasi si scusava di «scadere nel privato e nel pettegolezzo». L’articolo di Morgan, che si sarebbe potuto liquidare tutt’al più come un esempio di cattivo giornalismo (oltreché di pessimo lavoro d’archivio), ha trovato invece terreno fertile. Tre settimane più tardi, ecco che A.O. Scott, critico cinematografico del “New York Times”, ha messo nero su bianco il suo “Woody Allen Problem”. Scott cita uno scambio di battute tratto da Provaci ancora, Sam (1972, sceneggiatura di Allen, regia di Herbert Ross): «Ehi, hai letto sul giornale che a Oakland è stata violentata un’altra donna?», domanda Diane Keaton; al che Allen risponde, quasi discolpandosi: «Io sono dieci anni che non vado a Oakland!». Sulla base di questo spunto, Scott, a parere del quale il giudizio critico non può mai escludere una dimensione morale, conclude che la critica cinematografica (quella maschile, bianca e cisgender) ha sorvolato o minimizzato sugli aspetti più oscuri dell’opera di Allen: «A sensibility that seemed sweet, skeptical and self-scrutinizing may have been cruel, cynical and self-justifying all along». Allen, insomma, avrebbe contribuito a diffondere stereotipi tossici di mascolinità. Meno male che il critico si è fermato alle prime battute: mi domando cosa avrebbe pensato sentendo Diane Keaton pronunciare una frase come «Se qualcuno cercasse di violentarmi, io farei finta di starci fino a metà e poi prenderei il primo oggetto contundente e gli spaccherei la testa!». La conclusione di Scott è comunque singolare, per un articolo in cui si sostiene a ogni piè sospinto che «Mr. Allen’s films and writings are a part of the common artistic record […] they inform the memories and experiences of a great many people»; fra questi l’autore stesso, per il quale Allen, il personaggio-Allen, è stato quello che Humphrey Bogart è per Allan Felix in Provaci ancora, Sam: un mentore, un eroe culturale, addirittura – sono sempre parole di Scott – un ideale maschile. A dispetto delle buone (?) intenzioni, insomma, il critico è il primo a riconoscere che è impossibile abiurare Allen e i suoi film, tanto si sono intrecciati con la nostra vita.

 

Entrambi gli articoli, tanto il volgare pamphlet di Morgan, quanto il parziale dietro-front di Scott, partono però dallo stesso, problematico assunto di fondo: l’autobiografismo di Allen, l’inevitabile sovrapposizione fra se stesso e il proprio personaggio. Quest’anno, durante la quarta edizione di Il senso del ridicolo, Nadia Terranova interverrà con un incontro su Allen, dal titolo Ritratto dell’artista in disgrazia. Così, quando insieme a Stefano Bartezzaghi abbiamo discusso quali film del regista scegliere per le tre proiezioni che accompagneranno l’intervento, ho pensato che avrebbe potuto essere un’opportunità per prendere di petto il problema. 

 

Allen alla fine degli anni ’60.

 

In oltre cinquant’anni di carriera, Allen ha sempre negato che il proprio personaggio abbia alcunché di autobiografico. John Baxter, nella sua assai poco compiacente biografia alleniana (tradotta – maluccio – in italiano nel 2001), ha messo bene in evidenza come il “personaggio-Woody” sia in effetti una maschera costruita a tavolino da Mr. Allan Stewart Konigsberg negli anni cruciali che segnano il suo passaggio dalla stand-up comedy al grande schermo. «Nelle sue apparizioni televisive, così come sul palcoscenico o nei dischi, era brillante, sicuro di sé, ben vestito e gentile»; poi, tra il 1968 e il 1969, il «commediografo intellettuale ricco e rubacuori» viene gradualmente rimpiazzato dallo schlemiel che tutti abbiamo imparato a conoscere (e ad amare): «un infelice, una vittima piagnucolosa, un inconcludente, bruttino, fisicamente e verbalmente maldestro». Una costruzione divistica alquanto sui generis, e tuttavia perfetta per dar vita a un “self branding” perfettamente riconoscibile da chiunque. In un libro uscito ormai dieci anni fa (Woody Allen. Quarant’anni di cinema) ma che non mi stancherò mai di raccomandare, Pier Maria Bocchi ha scritto alcune pagine illuminanti sul «rapporto confidenziale» fra autore e pubblico nel cinema alleniano, basato sulla confessione-condivisione di piccole nevrosi, come in una sorta di diario filmato a cadenza annuale. A lungo andare, si direbbe che qualcosa sia andato storto nel dosaggio degli ingredienti, e oggi la formula si ritorce contro lo stesso Allen.

 

Questa sovrapposizione fra l’Allen autentico e i suoi doppi di celluloide risulta evidente fin dalla prima battuta del suo primo film da regista, Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run), uscito esattamente cinquant’anni fa (18 agosto 1969) e con il quale abbiamo deciso di aprire la nostra mini-rassegna. «Il 1° dicembre 1935, la signora Starkwell, moglie di un artigiano del New Jersey, dà alla luce il suo primo e unico figlio. È un maschio, e viene chiamato Virgil», recita il voice over. C’è bisogno di ricordare la data di nascita del protagonista è la stessa di Allen? La singolare commistione fra vero e falso, la scelta del mockumentary, per quanto dettate dalla necessità da parte dell’esordiente regista di trovare un equivalente visivo allo stile divagante e frammentario della stand-up comedy, ci appaiono oggi assai meno occasionali e improvvisate (pensiamo a Zelig, 1983) di quanto sembrarono agli spettatori di allora; al tempo stesso, forse ci dicono molto su quanto Allen abbia fin dall’inizio voluto giocare sul confine sottile che separa realtà e messa in scena, personaggio e interprete. 

 

“Prendi i soldi e scappa”, 1969.


È quello che accade anche in Manhattan (uscito nel 1979: altro anniversario a cifra tonda), il secondo film della rassegna. Un film che, in queste circostanze, si presta più di altri ad essere usato come la “pistola fumante” contro Allen, in primis per via del personaggio della fidanzata diciassettenne Tracy (Mariel Hemingway), ispirata all’allora giovanissima Stacey Nelkin, con cui Allen ebbe effettivamente una relazione fra il 1976 e il 1978 («Somewhere Nabokov is smiling, if you know what I mean», direbbe la Mary/Diane Keaton del film). L’aneddotica intorno a Manhattanè in ogni caso piuttosto ricca, con Mariel Hemingway che ha ricordato il proprio nervosismo nel girare le scene d’intimità (Allen è noto per mantenere sul set una certa distanza con i propri attori) e Allen che, concluse le riprese, accetta l’invito ad accompagnarla a salutare i genitori nell’Idaho: «Credevo fossimo appena atterrati sulla Luna» fu il commento del regista. Pettegolezzi a parte (che nel film vengono liquidati come «la nuova pornografia»: col senno di poi, una battuta anticipatrice…), Manhattan non è – solo – la vicenda di un quarantenne immaturo che cerca il pharmakon contro la crisi di mezza età nella relazione con una diciassettenne. In questo capolavoro del 1979, Allen è sottile ma implacabile nel mettere alla berlina le contraddizioni, le meschinità e l’infantilismo della borghesia newyorkese alle soglie del Riflusso. Incluso il proprio alter-ego, Ike Davis: il quale, come ha ricordato Elena Dagrada nella sua monografia sul film, inveisce contro la decadenza dei valori con il tipico timor panico «di chi si è accorto che sta già vivendo senza, e ne teme maledettamente le conseguenze»; al contrario, Tracy è una delle «spinte ottimistiche» del film: «di fronte ad adulti invischiati nelle loro contraddizioni morali e intellettuali», continua Dagrada, «Tracy rappresenta l’auspicio che le nuove generazioni s’impongano per franchezza e pulizia interiore». 

 

Certo, qualche irriducibile potrebbe comunque obiettare che l’eccessiva idealizzazione della figura femminile (Tracy è «la risposta di Dio a Giobbe») nasconda un desiderio di disinnescarne ogni problematicità, facendone un puro oggetto di contemplazione. Ma non bisognerebbe nemmeno dimenticare che, in Manhattan come in altre occasioni (Io e Annie, Crimini e misfatti, La dea dell’amore, Mariti e mogli), Allen ripropone la propria versione del mito di Pigmalione, rovesciata di segno: un uomo maturo impartisce lezioni di vita alla ragazza di cui è innamorato, nel tentativo di riplasmarla secondo le proprie fantasie; ma gli individui sono molto di più (e meglio) che semplici idee, e alla fine è sempre lui a imparare qualcosa: per esempio, in Manhattan, ad avere «a little faith in the people».

 

 

Per l’ultimo titolo della nostra micro-rassegna alleniana dobbiamo fare un salto di quasi vent’anni: dal 1979 al 1997. Il riflusso è rifluito, il narcisismo è rimasto e dopo l’affaire Allen-Farrow l’America ha occhi solo per il Sexgate di Bill Clinton. Quanto ad Allen, anche se la Mostra del Cinema di Venezia gli assegna il premio alla carriera, da tempo i suoi film vanno male al box office. Di lì a poco, la sua fedele squadra di collaboratori verrà disintegrata dai sempre più drastici tagli al budget da parte della produzione. In questo contesto, Baxter ha buon gioco a scrivere che «Allen probabilmente non farà mai più un film tanto rivelatorio come Harry a pezzi [Deconstructing Harry]». Anzi, quasi mi stupisce che, nel vortice delle accuse che hanno travolto il regista, nessuno l’abbia mai menzionato – forse, viene da malignare, perché in pochi l’hanno visto davvero. 

 

Ancora una volta, Allen ha negato ogni intenzione autobiografica: «Ho chiesto a Dustin Hoffman, ma era impegnato. Ho chiesto a Robert De Niro, ma anche lui era impegnato. Ho chiesto a Elliott Gould, aveva una scrittura teatrale… Ho detto: visto che le cose stanno così, lo faccio io». La questione è in realtà più sottile, come ha precisato lo stesso regista: «All’origine, i personaggi inventati erano doppioni di Harry che, a sua volta, era il mio doppio senza che io apparissi. C’era il mio clone e i cloni del mio clone, ma non c’era l’originale». Insomma, è l’idea stessa di autobiografismo ad essere spinta all’ennesima potenza, fino alla parodia (del resto, insieme al meno fortunato Stardust Memories, Harry a pezzi è forse il film di Allen più vicino al felliniano ).

 

Nato dall’incrocio tra Philip Roth e Norman Mailer, Harry Block è forse il più sgradevole fra i personaggi interpretati da Allen. Scrittore di talento, non esita tuttavia ad usare la propria vita (e quelle altrui, soprattutto) come canovaccio per i propri romanzi. Si dichiara in crisi creativa, «in overdose di se stesso» (in una delle scene più belle del film lo vediamo andare letteralmente fuori fuoco) e «il quarto uomo peggiore del mondo dopo Hitler, Göring e Goebbels». Ha una vita sentimental-sessuale a dir poco tumultuosa (tre ex-mogli e sei analisti); dice che gli piacciono le prostitute (anzi, “le puttane”), perché «l’ideale è che le paghi e non devi parlare di Proust o di Joyce». Addirittura, arriva letteralmente a rapire il proprio figlio per portarselo dietro a una cerimonia ufficiale (una laurea honoris causa). C’è spazio, naturalmente, anche per l’ennesima “sindrome da Pigmalione”: non più la Tracy di Mariel Hemingway stavolta (che qui interpreta la benpensante Beth Kramer, definita dal protagonista «una stronza pettegola imbalsamata»), bensì Fay (Elizabeth Shue), che, per quanto sedotta dalla fantasia di Harry, è sufficientemente lucida da scegliersi come compagno di vita il meno brillante ma più adulto Larry (Billy Crystal).

 

 

Insomma, Harry è una palese distorsione caricaturale del personaggio Allen, quasi che lo stesso regista abbia volutamente disegnato il proprio personaggio basandosi sull’immagine che l’America, da sempre diffidente verso gli intellettuali “teste d’uovo” (specie se ebrei e liberal), ha di lui. Al tempo stesso, è costretto a fare i conti con se stesso, per bocca dei propri alter ego: «Ti sei trasformato in un doppiogiochista, viscido, bugiardo campione di tiptap», lo rimprovera Helen (Demi Moore); ed è difficile non avvertire gli echi dello scandalo Farrow nel confronto con la moglie-analista Joan (Kristie Alley). Poi, dopo una discesa agli inferi («Quinto piano: crimine organizzato, dittatori fascisti, detrattori del sesso orale; sesto piano: i media. Spiacenti, il piano è al completo; settimo piano: criminali di guerra evasi, telepredicatori, avvocati che vanno in Tv»), sono proprio i suoi personaggi a celebrarlo. Un barlume di ottimismo? Un’autoassoluzione? In parte. Per quanto nel finale Harry abbia superato il blocco dello scrittore, gli appunti per il romanzo che inizia freneticamente a battere a macchina suonano come una vera e propria resa: «Tutti conosciamo la stessa verità. La nostra vita consiste in come scegliamo di distorcerla».

 

Di chi parliamo allora, quando parliamo di Allen? Il suo autobiografismo, il suo ricorso ai doppi (ai tripli, ai quadrupli…), il suo giocare con il vero e con il falso (per non parlare del suo gusto per il pastiche e la parodia) continua a sembrarmi assai più complesso di quanto in troppi vogliano credere. Estrapolare una battuta di Provaci ancora, Sam per dedurne un (presunto) atteggiamento sessista e misogino è un pregiudizio interpretativo, perché il lavoro di un artista (di un regista cinematografico, in questo caso) non è mai un mero prolungamento del suo ego, ma dice molto di più: qualcosa di più ricco, inatteso, forse persino contraddittorio. Dobbiamo bruciare Allen, quindi? Ovviamente no. Possiamo guardare i suoi film con maggiore o diversa consapevolezza, come suggerisce Scott nel suo articolo? Certamente. Anzi, dobbiamo: in fondo è questo il mestiere del critico. Ma è qualcosa che andrebbe fatto sempre, e non soltanto con l’intenzione di trovare in un film la prova decisiva di un crimine. 

 

In occasione degli ottant’anni di Allen, mi è capitato di scrivere che per un liceale gracile e occhialuto era inevitabile fare di Woody il proprio vate, difendendosi a suon di freddure dalla prepotenza dei più forti e dalle piccole e grandi delusioni sentimentali. Anch’io insomma, come Scott, posso dire di averne fatto “a masculine ideal”, un’ideale maschile. E forse, se ho potuto costruirmi un’idea di mascolinità (e un’identità maschile) non tossica né prevaricatrice, lo devo un pochino anche a Woody Allen.

 

Il senso del ridicolo, festival sull'umorismo, sulla comicità e sulla satirà, si svolgerà dal 27 al 29 settembre 2019 a Livorno. Qui il programma completo.

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Da Sarajevo a Sarajevo

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Sarajevo è sdrucciola o piana, si chiede sempre chi pronuncia in italiano il nome della capitale bosniaca, ma gli interrogativi sullo slittamento dell’accento tonico si addicono a una città dove le lingue degli umani si sono da sempre intrecciate, le identità meticciate, le religioni affiancate e dove l’esistenza dell’individuo è stata storicamente molto spesso appesa a un dettaglio.

Simbolo dell’esplosione cruenta di conflitti insolubili, dall’assassinio che segna l’inizio del ventesimo secolo all’assedio infinito che, poco prima della sua fine, ha riportato la guerra sul vecchio continente, lontana dalle capitali europee, marginale e periferica, Sarajevo è diventata, nel corso del Novecento, fatidica: il centro del mondo.

 

Evento scatenante, episodio catalizzatore, oppure solo il pretesto di quanto già si stava macchinando nelle cancellerie, poco importa. Il 28 giugno 1914, sul Ponte Latino, due colpi di pistola uccidono l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austroungarico, e la moglie Sofia. Per la storiografia è questo che segna l’inizio della Prima guerra mondiale.

Molti anni dopo, siamo negli anni cinquanta, in una vineria di Sarajevo, si ritrova un gruppetto improbabile. Chiacchiere e ricordi di due degli imputati minori al processo ancora in vita, qualche avventore, un suonatore di gusla e un vecchio tzigano riportano a quegli avvenimenti lontani. Intanto, un’altra guerra, la seconda, è appena terminata e l’evoluzione tecnica è passata dalle cariche di cavalleria e le spade sguainate ai primi aerei a reazione, fino ai bombardamenti culminati con lo sganciamento della bomba su Hiroshima.

 

 

Sarajevo (trad. di F. Pilastro, nonostante edizioni, 2019), è un radiodramma, Blaise Cendrars lo aveva scritto per la radiotelevisione francese ed è andato in onda per la prima volta nel 1955. Tutto il racconto ruota intorno alla ricostruzione dell’attentato che solo il caso porterà a compimento. Perché i giovani idealisti, che appartengono all’organizzazione Giovane Bosnia, con l’obiettivo di liberare le nazioni della Bosnia-Erzegovina dalla dominazione dell’impero austro-ungarico, prima falliscono, poi si disperdono e, solo per un imprevisto cambiamento del percorso, il giovane poeta Gavrilo Princip riesce infine a raggiungere l’obiettivo, sparando i suoi colpi senza nemmeno guardare dove vanno a finire.

Blasie Cendrars sa di che cosa sta parlando. Si era arruolato nella Legione Straniera e aveva partecipato alla prima guerra mondiale. Nella macelleria bellica aveva perso l’avambraccio destro, la sua mano da scrittore. Dell’esperienza dicono i suoi testi letterari e giornalistici (su doppiozero  ha scritto Rinaldo Censi). Con Gilles de Rais e Le Divin Arétin, Sarajevo compone una trilogia pubblicata nel 1959 con il titolo di “Film senza immagini”. E qui sta, per noi lettori di oggi, l’interesse di un testo che assembla punti di vista attraverso le voci dei personaggi che danno forma al radiodramma. Perché siamo abituati a vedere molto più che ad ascoltare, e scopriamo la guerra guardandola dall’esterno. Invece dobbiamo provare a immaginare i volti e le passioni dei protagonisti della storia, a sentire la calca e l’agitazione, a seguire la dinamica tra le forze in campo divise dai punti di vista, ma unite da una stessa paura.

 

A contribuire alla suspense della discesa dei regnanti in una provincia ribelle dell’impero, contribuiva infatti anche la data prescelta, per la popolazione serba già un affronto. Perché il 28 giugno è il giorno di San Vito, e ricorda la battaglia fra turchi e serbi a Kosovo Polje nel 1389. Nella Piana dei Merli il re serbo Lazar subì una sconfitta. È su questa sconfitta però che la tradizione serba ha costruito la sua epica eroica. 

E il giorno di San Vito diventerà un Leitmotiv della futura storia jugoslava: proprio quel giorno fu approvata, nel 1921, la costituzione centralizzatrice della prima Jugoslavia, è sempre la stessa data quando sul Rude Pravo di Praga apparve, nel 1948, la scomunica di Stalin a Tito, ed era ancora un torrido 28 giugno quando i soldati federali, nel 1991, abbandonarono, pesti e scioccati, la piccola Slovenia che aveva osato dichiararsi indipendente. “Ma lo sapete che oggi è il giorno di San Vito?” esclamò, incredulo, l’ex capo di stato Slobodan Milošević prima di salire sull’elicottero che lo avrebbe portato, nel giugno 2001, nella prigione dell’Aia. Proprio lui che era voluto tornare nella Piana dei Merli, seicento anni dopo, per ribadire minacciosamente che il Kosovo è Serbia.

 

 

Nella vineria Semiz il suonatore scandisce: “No, non è più tempo di valzer. Neanche per la gusla c’è spazio ormai. Sono i giorni dei cannoni e delle mitragliatrici, dei semplici fucili o financo delle nude baionette, dei nostri coltelli di contadini e montanari. E tocchiamo, gusla mia, la ragione ultima delle cose, ché a questo bisognava condurre gli uomini: a un franco e crudele corpo a corpo. (…) il mondo intero si copre d’armi, e inizia a uccidere, a uccidere, a uccidere. (…) Pure, nella gabbia degli imputati, non sono il caso, la giovinezza, il mondo a tenere le braccia incrociate, ma venticinque bosniaci – responsabili e complici –, la maggior parte dei quali ha meno di vent’anni. Mentre i cannoni ruggiscono in lontananza e si dispiega la follia della distruzione, a Sarajevo è la burocrazia giudiziaria a regnare, la più meticolosa e macabra di tutte…”.

Impresa vana, afferrare la ragione ultima delle cose. E non è detto che anche più in alto, là dove paiono decidersi i destini dell’umanità, queste ragioni ci siano. E si capiscano. Cendrars lo scrive, forse sghignazzando.

 

Il tono è un altro, ma le conclusioni sull’insensatezza delle sorti umane stritolate dagli interessi degli imperi e soffocate dalle condizioni della massa, non sono molto lontane da quelle a cui giunge Ivo Andrić che il contesto di quegli avvenimenti lo sperimenta dall’interno e conosce “la paura della paura”.

Ai tempi dell’attentato Andrić ha ventidue anni, aveva conosciuto Gavrilo Princip, probabilmente durante una delle riunioni clandestine della Giovane Bosnia, a cui aderisce la Società della gioventù progressista serbo-croata di Sarajevo da lui fondata e di cui era presidente. Anche Andrić sarà tra i 3000 arrestati (ne moriranno la metà). E già allora gli era evidente quanto fosse problematico assumere una posizione politica senza schierarsi con una delle diverse componenti del groviglio bosniaco.

 

 


Croato, cattolico, cresciuto però dopo la morte del padre in una famiglia di parenti serbi, grande studioso della storia della Bosnia a cui dedica  la sua produzione letteraria. Dal 1914 fino alla sua morte, avvenuta nel 1975, Andrić lotterà per mantenere questo rischioso equilibrio super partes. Poi diventerà per tutti un traditore.

Era prudente e silenzioso per temperamento. Nell’introduzione al Meridiano (curato da Dunja Badnjević), Predrag Matvejević parla di una “poetica del taciturno” e racconta che una volta, in un locale dove lui e Danilo Kiš schiamazzano e sbevazzano, entra Andrić. Tutti si zittiscono. Come diplomatico della monarchia jugoslava (è ancora a Berlino quando la Wehrmacht bombarda Belgrado), aveva cercato di servire gli ideali jugoslavi, e voleva rimanere fedele a quella Bosnia di cui temeva la scomparsa. Durante la guerra lo scrittore sparisce dalla scena pubblica, si rintana in casa in una sorta di emigrazione interna. Non è disposto a nessun compromesso. In quel periodo compone Il ponte sulla Drina, La cronaca di Travnik e La signorina, non romanzi storici, ma “romanzo della storia”, suggerisce Matvejević, repertorio di fatti e racconti da de-costruire, in un “progetto nazionale” capace di tenere insieme Oriente e Occidente.

 

 

Nel discorso per il ricevimento del premio Nobel, nel 1961, dirà di immaginare la sua opera come le mille e una notte bosniache, perché, “alla maniera della leggendaria Shéhérazade s’impegna per far pazientare il carnefice, per cercare di sospendere l’inevitabile condanna a morte e di prolungare l’illusione della vita e della durata”.

Negli anni della carneficina bosniaca, uno dei suoi testi più citati è stata la Lettera del 1920. Incontro, in una stazione di provincia, tra lo scrittore e un vecchio compagno di scuola, Max Levenfeld, ebreo sefardita, che sta per lasciare la Bosnia, dove solo l’odio è il paradossale fattore comune. “Il vostro paese voi lo amate, lo amate appassionatamente, ma in tre o quattro modi diversi, che si escludono a vicenda, si odiano mortalmente e spesso entrano in conflitto”.

 

 

Tanto la sua prosa asciutta quanto la sua Weltanschauung hanno fatto da modello a poeti e scrittori che, per salvare la Sarajevo dei destini incrociati, l’hanno traslocata nella letteratura. E la sua precisione nella descrizione della crudeltà primitiva dell’impero ottomano guida ancora chi ha avuto bisogno di molti anni per riuscire a descrivere, senza una parola di troppo, la forma della crudeltà contemporanea.

Come riesce a Damir Ovčina in Kad sam bio hodža (2016). La città è già chiusa e divisa quando, il 2 maggio 1992, il quartiere di Grbavica, occupato dalle forze dell’esercito e dalle milizie serbe, è isolato dal resto della città − rimarrà un’enclave per tre anni e mezzo, fino all’accordo di Dayton, quando Grbavica verrà pacificamente reintegrata a Sarajevo. Che cosa in quel lasso di tempo vi sia accaduto è un argomento del quale nessuna delle parti coinvolte nel conflitto ha voglia di parlare. Perché in ogni luogo, nelle case e negli appartamenti dei grattacieli, nei centri commerciali, in strada e nei cortili per i civili di quel quartiere – musulmani serbi croati e serbi che non hanno voluto diventare carnefici dei propri vicini – va in scena un orrore quotidiano. Un gioco sadico al massacro in un microcosmo dove le vittime sono vecchi donne e bambini, colpevoli di avere lì il loro domicilio.

 

 

Il protagonista, di cui non sapremo mai il nome, ci capita per caso il giorno sbagliato. Gli controllano la carta d’identità e, dato che non ha la nazionalità giusta, è prelevato per il lavoro obbligatorio. Scava trincee, funge da scudo umano, svuota gli appartamenti i cui inquilini sono scomparsi, raccoglie e seppellisce i morti. Il protagonista non ha una fede religiosa, ricorda qualcosa di una preghiera musulmana, e questa gli serve durante le sepolture. Il titolo, Kad sam bio hodža, (Quando ero un hodža) allude a questo suo ruolo: hodža è il ministro di culto musulmano.

Al piano di sotto abita una donna anziana con la nipote, hanno il cognome giusto, ma la ragazza aiuta il malcapitato e… quasi quasi si innamora. Quello che capita tra loro è raccontato in un modo originale: frasi smozzicate, invenzioni di parole. L’uso dell’ellissi si intensifica. Per trasmettere un sentire più che un dire. Perché ci vuole un nuovo linguaggio quando nell’orrore si insinua il dettaglio dell’amore.

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Destini incrociati
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Scienza senza coscienza

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La notizia

 

Sul New York Times del 10 Agosto scorso è apparso un articolo di Sheri Fink dal titolo “This High-Tech Solution to Disaster, Response Maybe too Good to Be True”, che si potrebbe tradurre, grosso modo: “Troppo bello per essere vero, ma forse questa soluzione ad alta tecnologia porta disastri”.

Si parla di un’impresa, chiamata One Concern, che ha inventato tecnologie per “salvare vite umane” in casi di emergenza: terremoti, alluvioni e incendi improvvisi. Già parte del titolo – troppo bello per essere vero – fornisce qualche indizio. 

La frase “troppo bello per essere vero” si riferisce al mondo onirico, alle rêverie, ai sogni a occhi aperti evocati da Bion, Winnicott, Bachelard. Nel campo dell’imprenditoria è uso evocare il visionario, il “lucido folle” che, seguendo un sogno, ottiene risultati insperati. 

Anche il signor Ahmad Wani, di 31 anni, capo di One Concern, dichiara di avere un sogno. Ha vissuto la propria infanzia in India e testimoniato come la perdita di vite umane durante i disastri ecologici fosse dovuta alla disorganizzazione dei mezzi di soccorso e all’improvvisazione, non solo in India, ma anche nel mondo industrializzato. Anche lui ha un sogno: “salvare vite umane”. 

Tuttavia l’autrice dell’articolo ha qualche sospetto. In primo luogo, si tratta di capire che cosa significa mettere insieme due scopi tra loro così diversi: salvare vite umane e guadagnare enormi quantità di denaro. È una riflessione legittima: ora chiedi una quantità enorme di denaro promettendo di salvare più vite umane, ma quali sono le tue “credenziali”?

Molti esperti, anche interni alla compagnia, hanno simulato gli effetti di questi interventi e li hanno ritenuti inaffidabili, risultato: se erano dipendenti, sono stati licenziati. Tra gli investitori al progetto ci sono gruppi multimilionari, che non vogliono perdere denaro, dunque i due obiettivi, salvare vite umane e fare profitti, sono già in doppio legame: è necessario andare avanti comunque. 

 

La mala fede nel tempo

 

Marx aveva denunciato questo fenomeno come “falsa coscienza”. Da una parte l’etica del capitalista, che reinveste i profitti per la causa del progresso e dello sviluppo, dall’altra la denuncia dell’ingiustizia perpetrata attraverso lo sfruttamento degli operai. Il fallimento del marxismo si mostra quando gli operai diventano, a loro volta, parte del sistema. Quando possono permettersi l’accesso ai beni di lusso, prima nelle Americhe, poi, con il secondo dopoguerra, in Europa, il socialismo non è più necessità storica, perde la sua caratteristica di scientificità, diventa una possibilità morale, ci vuole fede, bisogna crederci.

In quel momento, nasce, dentro il marxismo, l’idea sartriana della mauvaise foi, la mala fede. Per Sartre, nessuno sfugge alla mala fede, perché, a differenza del senso comune, che attribuisce alla malafede un progetto consapevole, e la confonde con la menzogna, la mala fede, in filosofia, riguarda ognuno di noi. Ha la stessa struttura della menzogna, con una differenza: quando mento, io mento all’altro, che non lo sa. Nella malafede io mento a me stesso. So che mento, ma fingo, o meglio, mi figuro di non saperlo; la malafede filosofica, implica la buona fede in me stesso. Condizione umana, l’operaio si corrompe quando acquista la 600, la 600 avvia una disposizione: le vacanze, le domeniche al lago o alla partita, l’imborghesimento.

 

 

Questa la riflessione amara del marxismo degli anni del dopoguerra; questa la ragione, per molti filosofi marxisti, dello studio della psicoanalisi e dell’antropologia. La doppia dimensione della malafede era un fenomeno dissociativo. Oggi non è più così, oggi la mala fede è di nuovo cambiata, si assiste a una “scissione delirante”. È forse per fermare, ma invano, questa deriva che Edgar Morin, anni fa, scrisse Scienza con coscienza. Ma oggi esiste ancora la coscienza?

Ahmad Wani riconosce  che «la sua compagnia talvolta promuove prodotti ancora non disponibili, ma solo dopo “convalidiamo la scienza che funziona”… La nostra missione non è solo far soldi, aggiunge poi il signor Wani, “stiamo cercando di salvare il mondo” (dall’articolo di Fink sul New York Times).

La buona fede si dichiara attraverso deliri come: “Io salverò il mondo”; molti ci credono, bisogna che ci credano, ci sono investimenti economici enormi. Un tempo la 600, benché fosse poca cosa, ti arrivava davvero, oggi ti rimane solo il sogno di fare soldi a palate senza sforzo, come nel gioco d’azzardo. In pratica: le multinazionali salveranno il mondo, o ci credi o morirai in breve tempo; dunque, come nelle pubblicità del mobilio, corri finché sei ancora in tempo. 

 

Conta quel che la gente sente

 

La “gente” desidera sentirsi dire che il mondo va a gonfie vele, ci sono problemi, ma il mondo va a gonfie vele, non importa che la realtà mostri il contrario. Questo è il modo in cui oggi funziona il desiderio. Marco Dotti ha recentemente scritto su Linkedin un saggio sul libro Words that Work, di Frank Lunz, uno dei maître à pensée di questo modo di ragionare. Secondo Dotti, Lunz non è un semplice creatore di metafore, un creativo qualunque, Lunz “crea cornici, definisce gli ordini e i disordini del discorso, costruisce regimi di verità. Insomma: tira un cerchio dentro il quale le idee – tutte le idee, uguali o contrarie – si muoveranno”. 

La magica creazione di Lunz consiste nell’avere cambiato “riscaldamento globale” in “cambiamento climatico”. Ci sono stati tutti, in nome dell’idea che la scienza non riesce a dare certezze. “Riscaldamento globale” è un’ipotesi incerta, pessimista. Benché sia sotto gli occhi di ognuno, e molti scienziati forniscano dati, c’è incertezza. “Cambiamento climatico” sposta l’attenzione dalle responsabilità delle multinazionali, che devono continuare a fare profitti, a un fenomeno quasi-naturale, che richiede correttivi. 

La scienza è diventata la coperta corta della post-verità, se qualcuno dissente viene licenziato, i controlli di enti indipendenti vengono osteggiati, si ammettono possibili errori, ma intanto si va avanti. Solo il tempo servirà a dimostrare i disastri, ma allora sarà tardi per rimediare.

 

Una sola delirante preoccupazione: fare soldi

 

One Concern sembra disinteressato a dare contributi che fermino il riscaldamento globale – rispetto ai quali alluvioni e incendi sempre più diffusi sono evidenza –; One Concern, a quanto sostengono Fink e gli ingegneri coscienziosi esterni, o licenziati dall’establishment, vuole riparare “a posteriori” i danni prodotti dal cambiamento climatico attraverso sistemi di Intelligenza Artificiale che possono dimostrare di funzionare solo dopo essere stati installati. Se non funzionano, i luoghi che useranno lo strumento a disposizione, pagando centinaia di migliaia di dollari, avranno anche ingenti perdite di vite. D’altro canto, di fronte al “cambiamento climatico”, più che fermare il tasso di sfruttamento della terra e rallentare lo sviluppo economico – come se fossimo di fronte al “riscaldamento globale” – bisogna preparare rimedi post hoc. E aumentare la protezione post hoc. Forse non funziona, ma ci sono in ballo solo vite umane: “sacrificarne dieci per salvarne cento”, non è musica nuova. L’epoca della post-verità ha cambiato la struttura della mala fede, la post-verità è una menzogna raccontata agli altri, che sanno che sto mentendo. Proprio per questo mi appoggiano!

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Scarabocchiare scarabocchi d’autore

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Torna Scarabocchi. Il mio primo festival per il suo secondo anno. Di nuovo a Novara, presso l’Arengario. Torna con un tema che attraversa laboratori per i bambini e per gli adulti, le lezioni e le letture, e altro ancora: gli animali. Lorenzo Mattotti con gli animali di Pinocchio, Giovanna Durì con le macchie e gli sgorbi dentro cui vedere animali strani o consueti, Giovanna Zoboli con la pecora da disegnare de Il piccolo Principe di Saint-Exupery, e poi Ilaria Urbinati anche lei con animali, e quindi Ermanno Cavazzoni che ci parla degli scarabocchi di Franz Kafka, lo scrittore i cui racconti sono pieni di molti animali. Vi aspettiamo a Novara dal 20 al 22 settembre!

 

Pare che gli scarabocchi di un autore non possano essere considerati tali perché nell’istante in cui vengono concepiti passano immediatamente nella categoria “opere”. Questo ci sembra scorretto sia nei confronti dei “comuni mortali” che scarabocchiano senza talento e inutilmente, come e soprattutto, per l’autore stesso che non ha la libertà di scarabocchiare senza temere che poco dopo la sua dipartita un critico, l’amante o qualche avido nipote, mettano in mostra dei foglietti che appartenevano alla sua sfera intima. Così, il giudizio dei posteri dichiarerà che l’autore non scarabocchia, progetta.

 

Scarabocchiare foto di personaggi famosi come attori e politici, per molti risulta naturale, ma nei confronti di disegni altrui l’azione viene fermata da un’atavica forma di pudore. Scarabocchiare scarabocchi d’autore è un’altra cosa.

Quest’anno per il Festival dello Scarabocchio, Franco Matticchio mette coraggiosamente a disposizione alcuni dei suoi scarabocchi per chi volesse arricchirli con ulteriori scarabocchi.

(scarabocchio signor Ahi e Nose)

 

Lo stimolo per la realizzazione di questo laboratorio parte da un fatto accadutomi più di una ventina di anni fa; entrando in studio una mattina ho avuto la sgradita sorpresa di trovare dei fogli ricchi di disegni, che avevo incautamente lasciato sul tavolo, zeppi di scarabocchi.

I disegni che avevano subito lo scempio non erano miei (purtroppo) ma di un noto illustratore e caro amico con il quale avevo lavorato fino a tarda ora la sera precedente.

 

Franco Matticchio.


Insieme stavamo progettando una sua mostra e mentre discutevamo su tavole di prospetti, piante di sala e copie di pannelli in scala lui, disegnatore compulsivo, aveva riempito questi fogli di splendidi disegni a matita. Ricordo ancora l’occhiata rassicurante che lanciai a quella massa di schizzi preziosi prima di chiudere lo studio, in parole poteva tradursi circa così: “dormite bene piccini, domani sarete miei, vi accudirò”.

Premetto che dividevo lo studio con persone intelligenti che conoscevano la materia che trattavo, eppure una di esse non resistette al “demone dello scarabocchio”. Così quella mattina ritrovai delicati volti di donna, uomini tristi insieme a dolci animali, martirizzati da occhiali, baffi, incisivi e nasi suini, tutti rigorosamente realizzati con la penna BIRO BLU. La collega aveva erroneamente scambiato per miei dei raffinati disegni d’autore e di conseguenza per lei, questi non erano più tali ma rientravano nella categoria degli “scarabocchi”. Questo danno non si sarebbe consumato se la paternità dei disegni fosse stata esplicita.

 

Nel laboratorio che proponiamo l’autore è dichiarato (Franco Matticchio) e non sappiamo cosa possa succedere ai suoi scarabocchi. Ma soprattutto non sappiamo cosa possa passare nella testa di chi va a scarabocchiare uno scarabocchio d’autore. Potrebbe arricchire di fondali i suoi personaggi, come aggiungere altri personaggi, o anche prendersi la libertà di sbeffeggiarli con occhiali, baffi etc. o forse restare bloccato di fronte allo scarabocchio altrui. Si vedrà.

 

Scarabocchiare scarabocchi d’autore, appunto, è un’altra cosa.

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L’ombra delle parole e le traduzioni dei classici

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Le traduzioni vivono in forme plurali. Non sono monocratiche né monolitiche. Si può sorridere se qualche versione di un’opera letteraria è definita “canonica” o “autorizzata”. Quando sento dire che i libri tradotti “invecchiano” perché “la lingua si evolve” penso sempre a quella diffrazione percettiva che ci coglie quando siamo seduti in treno, in attesa di partire, e di colpo un accenno di vertigine, ecco, ci si muove: meno di due secondi per capire che non siamo noi a spostarci – ci voltiamo, è il treno accanto al nostro che è partito. Inventare una metafora per descrivere il tradurre è sempre un esercizio sdrucciolevole, ma se volessimo dar fede a questa prospettiva dovremmo dire che un classico è un treno che sta fermo, mentre noi – la nostra lingua attuale, sempre in mutamento – siamo sul treno accanto, su quello che si muove. Dubito però che questa sia una descrizione affidabile; pur nella sua novità apparente, pur nel suo appello all’occasione quotidiana, pecca di dogmatismo. Ho il sospetto che anche l’originale sia plurale, esposto a una molteplicità di interpretazioni storiche, oggetto mobile nei marosi del tempo e degli sguardi, e che sia molto rischioso versarsi toto corde nella caccia a una “verità fissa e immutabile” dell’opera fonte. È da riflessioni di questo genere che io e Stella Sacchini siamo partiti mesi fa per plasmare la seconda edizione di BookMarchsL’altra voce, il festival dei traduttori che abbiamo concepito nelle Marche (www.bookmarchs.it). Ci siamo chiesti: se nell’opera inesausta del tradurre le risposte del dizionario sono soltanto un punto di partenza, quanta parte di tutto questo “ricercare le parole” spetta allora all’interpretazione? Quanto è vitale tentare una mossa ermeneutica consapevole e magari nuova, motivandola con un’azione intellettuale, e non solo guardare alle concezioni convenzionali comunemente diffuse di un classico? E poi: oltre le frontiere dell’istruzione scolastica, ma anche sui banchi, sarà possibile per i classici greci e latini (e di riflesso, mutatis mutandis, anche per quei classici moderni che hanno posto le basi della nostra concezione della letteratura) trovare una lingua in tutto aliena a quel faticoso “pseudo-italiano” prono a legnosi cliché lamentato da alcuni dei nostri maggiori classicisti, come Maurizio Bettini?

 

Proverbi paradossali, fraseologie ironiche e bons mots abbondano fra la piccola compagnia di chi traduce. Sono i frammenti sapienziali con cui, in una scepsi tentata dalla speranza, puntelliamo i muri dei nostri dubbi. Frugale e seducente è il brocardo che si deve a Samuel Beckett, «Try again. Fail again. Fail better»: condensazione massima delle rinunce necessarie e delle ambizioni legate comunque a questo mestiere. Eccolo il punto di fuga: l’umiltà del traduttore, postura che fa il paio con la tensione alla neutralità che dovrebbe caratterizzare le sue scelte. Sì: tradurre è sempre scegliere, in un momento preciso della storia e del fluire del linguaggio, e ogni scelta porta a una serie di rinunce o di riconfigurazioni del testo, di cui bisogna essere consapevoli. In realtà è difficile pensare a una traduzione che – per quanto anelante all’asintoto di una neutralità  – non “prenda la parola”, anche in ciò che non dice, anche quando dovendo decidere non decide, ereditando nella sua presunta trasparenza secoli di pregiudizi e facendoli passare come scontati. 

 

Pensiamo a un caso evidenziato di recente da Emily Wilson – la prima donna del mondo anglofono a tradurre l’Odissea – su cui nel maggio scorso ha riportato l’attenzione Serenella Zanotti in una lezione su donne, genere e traduzione al museo Macro di Roma (intitolata Soggetti in transito). Quando nel libro IV (v. 145), di fronte a Telemaco, Elena parla di sé quale causa della guerra definendosi kunópis (‘dog-eyed’, ‘shameless’, in un dizionario greco-inglese; ‘faccia da cane’, ‘impudente’, ‘sfrontata’, secondo un diffuso dizionario italiano), la totalità dei traduttori rende il termine (kunópidos, al genitivo) con “bitch”, “shameless bitch” e così via. Uno addirittura con «shameless whore that I was». In realtà, per Wilson, nel contesto omerico l’aspetto di cane – o la faccia di cane – di Elena non dovrebbe esprimere un senso deteriore, di dileggio morale, che rischia invece di scattare in automatico se anche in italiano traduciamo “cagna” seguendo ciecamente il dizionario, senza annusare le tracce ulteriori delle parole. Wilson – dandone conto nella sua introduzione – sceglie di ricreare in inglese diversamente: «They made my face the cause that hounded them», rovesciando con un cosciente gesto polemico la tavola dei valori canonici, mettendo in questione la pacifica lettura che molti secoli di traduzioni maschili, eroiche, virili hanno fornito del passo. Qui infatti né la faccia di Elena né le azioni a cui ha condotto gli Achei sono oggetto di rimprovero; fra l’altro nei poemi omerici càpita altre volte che donne o dee siano paragonate a un cane. Le donne sono come cani perché sono in basso nella scala sociale, e potrebbero rompere le convenzioni rifiutando di stare al proprio posto. Il riferimento alla “faccia di cane” denota che è la percezione maschile delle donne, piuttosto che i desideri femminili, a minacciare il tessuto sociale.   

 

 
A Wilson è stato mosso da diversi classicisti l’appunto di essere troppo modernizzante nel suo approccio a Omero. Proprio perché la società dei poemi omerici non concedeva spazio e valore alle donne, un epiteto fisso di questo genere doveva essere percepito dai rapsodi e dal loro pubblico – visti anche i contesti in cui appare – come necessariamente denigratorio. In cerca di altre voci, sono andato a riaprire la versione di Emilio Villa, che nella nota del 1971 alla sua Odissea osserva: in greco il valore dispregiativo di kuon, kunós (‘cane’) è recente, e nel greco omerico kunópis riferito a Elena cela una marca di ambito artemido-ecateo; dietro cui riluce forse una sua parentela con la Pótnia Theròn, la Signora delle Bestie dell’arcaica religione mediterranea. Un segnale preciso, di valore antropologico e cultuale, in nessun modo deprecatorio: «le femmine dee del poema, tutte totemizzate, per così dire, tutte vive, su un animale, residuato nel nome o negli attributi». Villa insiste sul fatto che nel mondo preacheo, e in tutto quel fondo culturale e cultuale precedente alla stesura più a noi prossima dei poemi omerici, gli eroi epici erano in effetti divinità minori. Quel passo non può intendersi come «“realistico”, cioè come Elena che dice di sé “sono una cagna, una svergognata”, e non può essere; Elena è Gran Madre, è Pótnia alla ricerca, a caccia, dei suoi maschi, o paredri diciamo»; un richiamo che va compreso in rapporto con il mito. Elena indica così tramite il “cane” la sua appartenenza, l’ambito divino da cui proviene. “Omero”, in quest’ottica, appare solo il filo terminale, l’ultimo punto d’arrivo del viaggio di una antichissima teomachia di origine orientale tessuta in sostrati perduti alla memoria e poi narrativizzata, quasi si direbbe secolarizzata in Grecia tramite un gran numero di filtri, rielaborazioni e passaggi: come la nuova egemonia cultuale di Atena. Mi chiedo se a una simile logica possa rimontare il fatto che alcuni oggetti o luoghi o personaggi nei poemi omerici sono definiti da due parole, diverse: una in lingua umana e una in lingua divina, con un valore cultuale (vi accenna anche Daniel Heller-Roazen nel suo Lingue oscure).

 

Nell’Odissea, secondo Villa, l’eroe «lavora il tessuto in trama e ordito» delle epifanie di Madri primigenie, compie un percorso iniziatico di affrancamento dalla Grande Madre: ma nel cerchio delle peripezie, uscire dall’acqua materna vuol dire alla fine ritornarvi pur sempre. L’«ambigua potenza sacrale delle acque» è principio di vita e anche di morte: «in realtà è sempre la donna, la Madre, una Pótnia Theròn che salva Odisseo dall’Acqua-Morte». In questo senso tradurre è anche archeologia, quindi coscienza dell’alterità irriducibile dei segni che abbiamo di fronte: vuol dire veramente indagare les mots sous les mots, il peso di un’ombra arcaica nel “megatempo” che le precede, e le ombre distorte che la mentalità contemporanea rischia di proiettare sulle parole antiche. La traduzione villiana fonda la sua motivazione così: legge in filigrana e fa emergere dal testo emanazioni-sedimenti di quel tempo arcaico, tenuissimi ma «tenaci e irrefutabili»: le radici mesopotamiche e micenee dell’epica omerica, e il «travaglio linguistico» dal quale si è formata.
 

Sono prospettive su cui non possiamo soffermarci ma che varrebbe la pena d’approfondire nel segno della possibilità, e del rifiuto di ogni dogmatismo quando parliamo di traduzione. Peraltro non sono sicuro che il saio dell’umiltà possa rimanere l’unico abito nel guardaroba del traduttore. Per esempio, Joyce ti chiede di scendere in strada vestendo i panni colorati del buffone sotto una toga di erudito. È vero che “traduzione” è anche quella carceraria, però non credo si possa tradurre letteratura (qualunque cosa ciò significhi) con le mani completamente legate; dall’umiltà si parte e all’umiltà si torna, ma dopo aver attraversato altri stati mentali. In casi come questi umiltà, studio, documentazione sono la base a conforto dell’audacia che serve, nel movimento del tradurre (e dell’erodere i margini del non-sapere), per tuffarsi in una nuova scelta traduttiva: senz’altro discutibile, aperta alle osservazioni della comunità degli studiosi, magari in lotta con le scelte precedenti, ma proprio per questo capace di fondare una diversa consonanza con la storia e la cultura antiche. Reinsediandole ancora nel nostro tempo, ma con l’aura della loro distanza. Villa lo fa, “prendendo la parola” in campo aperto, e proponendo di tradurre kunópis con ‘donna-cane’: «a causa di me, di me che sono / donna-cane, gli Achei investirono Troia per abbatterla». Uno scarto di questo genere (non meno di quello nell’incipit, con Odisseo polútropon, per Villa «straordinario giramondo») è in grado di trasformare alla radice la nostra lettura e comprensione del passo; e non sarà un caso se Emilio Villa – studioso di lingue semitiche antiche e non solo del greco – è anche uno fra i più audaci e polimorfi poeti che abbiamo avuto nelle pieghe clandestine di un Novecento magnificamente “irregolare”.
 

Dunque il dizionario non è che il punto di partenza di un attraversamento che convoca molti altri stimoli, motivazioni, necessità e risorse. Ogni parola è carica di tempo, sedimenta sensi e sfumature. La metafora animale in kunópis segnala probabilmente la presenza di un sottosenso religioso: le stratificazioni storiche di una lingua – quella greca – che non è appiattita solo sull’idioma omerico o sul V-IV secolo a.C., la sua fase classica, rivivono nell’ombra dietro la decisione di tradurre verso un certo orizzonte piuttosto che verso un altro. Una filologia più attenta al dato immediato del testo vede come indebita ingerenza extratestuale l’allusione a un senso che probabilmente né “Omero” né il suo uditorio percepivano. Se è vero che il filologo che traduce «ha la costante consapevolezza di negare se stesso», per dirla con G. Aurelio Privitera, questo di Villa potrebbe essere uno dei casi in cui un’apparente libertà testuale incontrerebbe invece una luce rivelatrice di una delle oscure facce ancestrali della lingua di Omero (o, per meglio dire, dei rapsodi dell’«officina omerica»). L’intelligenza storica di un testo e di una parola altrui può in questo modo, travalicando i limiti con un gesto critico non meno che mercuriale, penetrare fino alla falda artesiana del culto primigenio, del potente fondo arcaico.

 

E sarebbe quindi il caso di riprenderci anche noi la parola audacia, non relegandola solo nel cerchio della mentalità marziale e del discorso erotico. Un’audacia che rispetti la cornice di senso entro cui la traduzione avviene ma ridiscuta il destino delle scelte traduttive in un quadro ampio di riflessione, questa sì, antropologica; stando ben attenta, al contempo, a non scivolare nella pozzanghera di modernizzazioni cieche e sbarazzine. La prima traduzione francese dell'Odissea ad opera di una donna data al 1708, ed è quella di Anne Dacier. L’opera di Wilson, che due anni fa ha smosso le acque, arriva dunque alla fine di un percorso innovativo nel quale spiccano anche i nomi di traduttrici italiane (Rosa Calzecchi Onesti, Giovanna Bemporad, Maria Grazia Ciani). Fino alla prima metà del secolo scorso l’Iliade degli italiani era appesa a un chiodo in una cornice del Settecento, catafratta nei bronzei endecasillabi di Vincenzo Monti. Sappiamo che è stato questo il ruolo di Rosa Calzecchi Onesti, chiamata nel 1948 alla missione di rifondare la nostra lettura di Omero, svecchiando il lessico neoclassico e il ron ron montiano; epperò anche lei, alla fine del secolo, è paradossalmente approdata al rango di imprescindibile monumentum da cui svincolarsi. Ci è riuscito, con attenzione incisiva a oralità e ritmo, Franco Ferrari nella sua nuova traduzione dell’Iliade, pubblicata negli Oscar Mondadori nel 2018 (e ce ne parlerà durante il nostro festival). 

 

Il processo di rilettura e traduzione è soggetto anch’esso al tempo. Ritradurre Omero può voler dire anche dargli nuova luce interrogandolo, porsi in ascolto dell’inconscio storico della lingua per tentare di ricrearne i sensi nel nuovo testo, invece che pensare solo a quel significato immutabile-biunivoco annidato nelle nicchie e caselle del dizionario. Meglio allora evitare una facile sicumera, o peggio dogmatismo, parlando di traduzione. Non la traduzione esiste, ma le traduzioni. Wilson parla accanto a Villa, compie un pezzo di strada con lui nella nostra esperienza di lettori; così Calzecchi Onesti e Ferrari. Le varie traduzioni, anche di un classico, non vivono per competere tra loro. Esistono più voci scaturite dalla persistenza fluttuante dell’originale in un altro tempo, e le ritraduzioni servono a mettere in questione le visioni canoniche di un classico, aprendo possibilità: sono rivelatrici e contestatrici: aprono la discussione, invece di chiuderla tra le pagine ingiallite di un sapere indiscutibile e indiscusso.

 

“BookMarchs - L’altra voce”, festival dei libri e dei loro traduttori, si tiene in undici paesi delle Marche (province di Fermo e Ascoli Piceno) dal 4 all’8 settembre 2019, con un’anteprima (30 agosto-1° settembre). Il tema della seconda edizione è “Tornare a ridere al giorno: tradurre e ritradurre i classici”). www.bookmarchs.it

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Il cinema “rotto” di Pablo Larrain, Pietro Marcello e Mario Martone

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«Uno dei due aprì la porta con una chiave ed entrò, seguito da un giovanotto che si tolse il berretto con gesto goffo». Il romanzo di Jack London da cui è “liberamente tratto” il film di Marcello, distribuito nelle sale a partire da oggi, comincia così: con un tipo che andando dietro a un altro entra in una stanza, trovandosi in uno spazio così insolito da fargli istintivamente togliere il cappello – ho citato la traduzione di Sacchini, per la recente edizione Feltrinelli (2017). Anche il film, dopo le prime scene, recupera questo passaggio e, come accade quando un riadattamento non è semplicemente una trasposizione, ma una reinvenzione, si sfrutta la potenza figurativa di un dettaglio ricreandolo, riguardandolo. Luca Marinelli, nei panni di Martin, procede, difatti, esitando – si trova nella casa del ragazzo a cui ha appena salvato la vita. Questa circostanza fortuita ha messo in contatto due persone, due classi, e due spazi sia sociali che simbolici, che altrimenti mai si sarebbero avvicinati. Nel libro si dice che il personaggio cammina barcollando, proprio come succede ai marinai quando scendono a terra – il pavimento sembra alzarsi e abbassarsi. Il film riprende questa situazione facendo una cosa nuova e diversa. Martin, completamente spaesato e messo in soggezione, si muove infatti a passi incerti, e la sua attenzione, come già nel romanzo, è attirata da un quadro che raffigura l’unica cosa che per lui, uomo di mare, può essere riconoscibile e significativa, vale a dire una piccola barca in mezzo a una burrasca, che sta sbattendo contro gli scogli. Per vedere meglio, il giovane si avvicina sempre di più, ma ecco che si accorge che stando troppo vicino alla tela la bellezza svanisce: «un quadro con il trucco!», si diceva Martin nel libro; «da vicino è solo una macchia», osserva il suo omonimo cinematografico. Proprio qui interviene l’arte all’opera, perché con un passaggio veloce di campo/controcampo, dopo la battuta di Martin, ecco che la posizione della macchina da presa costruisce un campo visuale che funziona come se fosse creato da un occhio interno al quadro, e così è come se noi spettatori adesso ci trovassimo proprio a bordo di quella barca, da cui scorgiamo i due amici in maniera sfocata, mentre sta per entrare in scena anche Elena, la sorella di Arturo, di cui Martin si innamora immediatamente. In quell’immagine sfocata di proposito, secondo un effetto che sarà usato più di una volta, possiamo cogliere, in maniera esemplare, un tratto di stile che fa di Martin Eden, di Pietro Marcello, uno dei film migliori passati dal Concorso in questi giorni.

 

Luca Marinelli in Martin Eden, di Pietro Marcello

 

La copia di Martin Eden, di Jack London, letta da Noodles in C'era una volta in America (Once Upon a Time in America, Sergio Leone, 1984)

 

Alle opere considerate nella prima rassegna, adesso infatti si aggiungono, in particolare, i tre film che di certo rimarranno nella rosa delle opere più interessanti in Concorso, vale a dire Ema, di Pablo Larrain, che forse è il lavoro più vicino al Leone d’Oro, Martin Eden, di Pietro Marcello, e Eduardo De Filippo. Il sindaco del rione Sanità (questo è il titolo completo), di Mario Martone.

Pensando a un pubblico di lettori composto non solo da chi si trova al Festival, ma anche da chi, in attesa di vedere i film in sala, volesse capire cosa ci racconta dell’immaginario e della cultura contemporanea il cinema di Venezia76, vorrei parlare di questi tre film fissando alcuni aspetti che li tengono in dialogo e ne costituiscono la qualità, fino al punto di poterci far usare, senza per questo trascurare le forti differenze, la comune espressione di cinema “rotto”, vale a dire un cinema che trasforma, nervosamente, il desiderio di frantumarsi e uscire da sé stesso, nella condizione creativa necessaria e vitale per convincerci dell’autenticità della verità che forma e racconta.

Sia Ema che Martin Eden che Il Sindaco del rione Sanità, infatti, sono opere belle e originali che usano intenzionalmente linguaggi provenienti da arti diverse (la danza per Larrain, il teatro per Martone, la poesia e il cinema d’archivio per Marcello; e la musica in tutti e tre), senza trattare questi linguaggi altri come trovate sceniche di contorno, ma usandoli come elementi formali e drammaturgici attraverso cui dare vita a corpi filmici e visuali porosi e multiformi che reinventano, proprio grazie a questa impurità e a questa compresenza, nuove capacità di rivedere e rinominare il mondo.

Si tratterà allora di creare effetti di contrappunto e distanza, costruiti per via di anacronismi, o procedimenti di straniamento linguistico e visuale, come succede nel film di Martone, che porta il teatro dentro il cinema per costruire un diverso sguardo sulla tanto consumata napoletanità. Eduardo De Filippo, di cui il nome entra nel titolo stesso del film, non vale, dunque, come l’autore di un testo riadattato, ma come la “funzione De Filippo”, che il cinema di Martone riattiva e attualizza. Con la conseguenza, per esempio, di riprendere il repertorio più “mitico” della cultura partenopea non per spettacolarizzarlo, come è accaduto soprattutto nelle ultime stagioni della serie tv Gomorra, ma per restituirgli sostanza. Il Sindaco del rione Sanità non fa rivivere degli stereotipi ma degli archetipi. Il dialetto stretto napoletano, il bilinguismo, il sistema arcaico di valori secondo il quale si comportano i personaggi della commedia di De Filippo non formano un copione folkloristico di Napoli, o quantomeno non si fermano a esso, perché creano nuova attenzione, distanza, senso della prospettiva. Narrazione, insomma. Come quando, all’inizio del film, in casa di Don Antonio Barracano, mentre il dottor Fabio Della Ragione, in pigiama, si accinge a rimuovere una pallottola dalla gamba del malavitoso Palummiello, sia il ferito che gli altri due guappi, ‘o Nait e Catiello, raccontano l’accaduto scoppiando intanto continuamente a ridere, in maniera imprevista, incongrua, e dunque umoristica, e creando così, linguisticamente e teatralmente, un effetto di presa di distanza dalla scena, anziché di identificazione empatica. Del resto il mondo con cui dialoga il riadattamento di Martone è anche quello della cultura notturna, spettrale, barocca, quello di certe tele di Salvator Rosa; è la cultura tenebrosa, e complessa, che fa assomigliare il protagonista, quando entra in scena, a una delle figure più teatrali e ambivalenti della cultura napoletana: il “munaciello”:

 

Francesco di Leva in Il sindaco del rione Sanità, di Mario Martone.

 

Tra l’altro, nel film di Martone come anche in quello di Larrain o Marcello, la compresenza di linguaggi diversi, oltre a creare distanza e sfasamenti temporali, funziona al tempo stesso come occasione per ripensare il rapporto tra messa in scena e mondo reale al di fuori di soluzioni riparatorie. È un cinema rotto, infatti, che non ripara, ma buca e va avanti per contrappunti e cuciture a vista. In tal senso, un altro elemento che ritorna è la presenza di protagonisti sfuggenti, per così dire: come Martin Eden, ma pure come Don Salvatore, il Sindaco del Rione Sanità, che non è banalmente un capocamorra, e nemmeno una maschera, ma, come già aveva voluto De Filippo, un’incarnazione controversa, che contiene, paradossalmente, anche una promessa utopistica di fuoriuscita dalla guerra fatale tra bande.

Martin Eden, invece, è una creatura di soglia perché, come già raccontava il romanzo (uscito in volume nel 1909, tre anni prima della tragedia del Titanic), il mito dell’individualismo ottocentesco (il giovane spiantato che a forza di sacrifici riesce a percorrere e superare una parabola di formazione che lo porterà al successo pubblico e privato) si è inabissato. E con esso anche l’illusione di una singola biografia emblematica come paradigma bastevole – in questo senso Martin Eden, tanto il libro che il film, dialogano con la contemporaneità in maniera tanto più attuale di altre storie del presente, sia letterarie sia cinematografiche. Trasferendo a Napoli, nel primo dopoguerra, la vicenda di Martin, marinaio che cerca di emanciparsi studiando e diventando uno scrittore, il film costruisce sul volto di Marinelli una sorta di progressivo destino di morte. Scene d’archivio di manifestazioni operaie di inizio secolo, bambini che ballano nei vicoli, mentre intanto, assieme a personaggi abbigliati secondo la moda di primo Novecento si intravedono delle macchine o dei lavandini degli anni Settanta.

Martin Eden è un’opera tanto originale e coraggiosa quanto difficile; soprattutto nella seconda parte, anche meno risolta, perché il lavoro continuo di messa a contrasto, per via di montaggio alternato o di inserzioni di stili che stridono tra di sé, di forme e intenzioni diverse, - alle immagini girate su pellicola si alternano immagini d’archivio o finte immagini d’archivio – tutto questo complesso lavoro di riprese e stratificazioni, verso il finale, rischia di sfuggire di mano e può sfiorare i bordi della maniera fredda.

Ema di Larrain, in questo senso, è un film altrettanto complicato, e perfino bizzarro e straniante, tanto sul piano dell’uso di linguaggi diversi (la danza, la musica) usati per fare cinema, quanto sul piano della costruzione di un personaggio inafferrabile, fisicamente e emotivamente:

 

 

Mariana di Girolamo e Gael García Bernal in Ema, di Pablo Larrain

 

Emaè una sperimentazione continua di codici, di forme e di relazioni. Forse, finora almeno, è il film che più di tutti ha cercato il confronto con un immaginario interamente appartenente al ventunesimo secolo. Questo effetto di massima entrata a contatto con il contemporaneo passa dai dialoghi, dalla costruzione dei personaggi, dagli spazi, dalla messa in scena di situazioni visuali (il semaforo in fiamme all’inizio del film; l’altalena e le giostre in fiamme, verso la fine); e dall’uso della danza come codice. Tutto ciò che ha una forma, una regola, dei confini, in Ema è rotto o mandato in fiamme – letteralmente, visto che la protagonista - Mariana Di Girolamo, che senza dubbio conquisterà la meritata Coppa Volpi – è un’incendiaria; ed è pure una ballerina di danza contemporanea, che distrugge tutto: la possibilità di una vita di coppia “regolare”, la possibilità di una maternità “regolare”. Il suo corpo, messo a danzare reggaeton per le strade, esprime un’energia fisica vitale e divorante che attira a sé, come un magnete, in un’euforia di onnipotenza, tutti gli altri personaggi della storia. Ma ne riparleremo ancora, dopo che saranno stati assegnati i Leoni.

 

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Sentimento e rimozione

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Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so...”. È una delle frasi forse più conosciute delle Confessioni di Sant’Agostino. Lo è per il suo potere evocativo, lo è nel far capire sulla pelle come, citando Borges, tutti “siamo fatti di tempo”...

La stessa cosa potrebbe valere per la memoria, anzi la stessa cosa vale per memoria e rimozione, che pare escludere la memoria ma da cui al tempo stesso si fa abbracciare. Può esserci forse memoria senza rimozione? Può esserci rimozione senza il ricordo? Non sono poi memoria e rimozione un tentativo di preservare, di modificare o di cancellare i segni che la storia e il tempo lasciano su di noi...?

Si potrebbe forzare e inseguire il paragone con il tempo di Sant’Agostino… se non fosse che la memoria segna certamente per ognuno di noi una certezza, segna infatti la “scia biologica” del tempo, è anzi la sua intima sostanza, la percezione sulla carne per tutto quel tempo chiamato vita. E questo per le tragedie come per tutte le piccole cose che attraversano le nostre esistenze.

Ma se memoria e rimozione sono una sorta di scia biologica del tempo, allora sono qualcosa da comprendere nella carne prima che nella mente, qualcosa da afferrare nei sentimenti almeno come nella razionalità dei concetti in sé...

 

Come in una giornata d’estate che con le sue ore dilatate può diventare disagio e sofferenza, quando accompagnata dalla noia o dal dolore. Come il dolore di chi, sentendosi lasciato, dilata quel tempo all’inverosimile mentre nella memoria insegue cause, ricostruisce impossibili ragioni...

Lontano, da qualche parte, quelle stesse ore avranno per un altro tutta la leggerezza di una giornata luminosa e quella rimozione sarà solo un accessorio impercettibile dell’estate e del fluire intermittente del corpo e dei pensieri...

Solo la condivisione delle emozioni l’uno nell’altro porterebbe a riconoscersi e forse ad una conoscenza in sé... ma non ora e non in quel momento, almeno fino a quando memoria e rimozione – fatti della stessa sostanza – viaggeranno su percorsi, egoismi e carni differenti... fino a quel momento qualunque verità ci sia, non verrà mai restituita.

 

Opera di Diana Copperwhite.


Tre anni dopo, nell’anniversario di una giornata estiva come è stata il 24 agosto 2016.

Due giorni separati da tre anni ed entrambi hanno a che fare con la storia, con la memoria, la rimozione, la sofferenza e la verità...

Quel giorno alle ore 3 e 36 la terra aveva rovinosamente tremato. Era l’inizio dell’infinito terremoto di Amatrice, di Accumuli, di Rigopiano che per mesi avrebbe dilaniato una larga fetta dell’Italia centrale e delle sue montagne.

In quei giorni di tre anni fa memoria e rimozione avevano coinciso, tutto il paese abbracciato a quella tragedia. La rimozione, quando in realtà era solo sopravvivenza, era e doveva essere solo per i sopravvissuti... allontanare, dare un senso al destino, alla mancanza e alla tragedia. Ma per tutti gli altri, per tutti noi, l’esperienza che univa prevaleva nelle strade, nelle case, davanti ai televisori, la memoria cuciva nella mente e nella carne una tragedia e un pezzo di tempo che sarebbe stato impossibile dimenticare.

 

Tre anni dopo le cose sembrano profondamente diverse. Abbiamo dimenticato e stiamo dimenticando quei giorni e quella tragedia. Non i sopravvissuti, non chi dal terremoto ha avuto sconvolto la vita, ma su tutti gli altri, nella politica come nel corpo sociale che ci fa una comunità, la rimozione ha vinto nel succedersi delle stagioni e il terzo anniversario può essere stato solo un ricordo impercettibile ed accessorio di un’estate e del distratto fluire dei corpi e dei pensieri...

Lentamente, nel corso dei tre anni memoria e rimozione si sono separate perché hanno viaggiato su carni differenti... ma a differenza delle coppie o degli amanti, nel complesso e articolato corpo sociale che ci fa tutti comunità, non è solo la verità che può e deve essere restituita. Va restituita soprattutto la concretezza dei giorni che legano la memoria alla vita che sarà: di quest’ultima, memoria o no, rimozione o meno, non si vede ancora nessuna restituzione.

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Terra che trema
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Tre problemi per Rousseau

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Il dibattito sui sistemi di consultazione o di sondaggio online – eviterei il termine “voto” che sarebbe, a mio parere, da riservare unicamente alle reali, e rarissime, tornate elettorali elettroniche durante elezioni o referendum – si accende, regolarmente, quando un dato campione di persone (la base/iscritti di un partito o gli appartenenti a un determinato gruppo o movimento) viene “interrogato” su un determinato punto programmatico o politico. 

Si tratta di un dibattito vecchio di decenni che, però, il caso di Rousseau in Italia riporta regolarmente in auge. Ogni volta, al contempo, appaiono, evidenti, alcune criticità molto importanti che gli studiosi, da anni, affrontano e denunciano con riferimento a simili sistemi.

Sono, a nostro avviso, punti centrali e non di mero dettaglio, “difetti” che possono viziare senza pietà, parzialmente o totalmente, un sistema che può presentare, indubbiamente, anche dei vantaggi e dei lati positivi.

Muovendo proprio da ciò che è successo in questi giorni in Italia – ma mantenendo lo sguardo fisso anche su altri Paesi, quali l’Estonia, la Svizzera, la Germania, l’India e gli Stati Uniti d’America che, da tempo, sperimentano sistemi simili – si possono individuare tre punti di criticità che sono idonei a sollevare spunti di riflessione.

 

Si tratta di un argomento, quello della consultazione politica online, che è molto delicato e scivoloso: non vi sono, infatti, soltanto i problemi tecnologici che andremo a evidenziare, ma anche spinose questioni politiche, di democrazia, di rappresentanza che, spesso, si fondono insieme e rendono il quadro ancora più complesso per l’interprete. Si pensi, a puro titolo di esempio, alla “morte” dell’intermediazione e, quindi, alla necessità di quesiti semplici, spesso banali, più adatti a un click immediato e “distratto” che a una reale riflessione prima dell’espressione del consenso.

I tre punti tecnologici critici sono, a nostro avviso, i seguenti.

 

1. Il problema della trasparenza generale del sistema utilizzato

 

Qualsiasi sistema di consultazione, o “voto” elettronico, che abbia un’importanza centrale per un sistema politico o per uno Stato e che sia da considerare, quindi, come una vera e propria “infrastruttura critica”, deve essere obbligatoriamente trasparente. 

“Trasparente” significa sia verificabile nella sua gestione e proprietà, sia nel codice sorgente utilizzato. Il codice sorgente, ossia il DNA del software o, comunque, delle tecnologie che sono utilizzate, deve essere aperto, verificabile da tutti (sottoponibile a una sorta di “scrutinio pubblico”) e controllabile in ogni momento nel suo intero processo. 

La trasparenza non ha, si badi bene, solo un fine di sicurezza (che vedremo meglio nel punto che segue), ma anche una funzione di garanzia di correttezza, di regolarità e di fiducia (“trust”). 

Un sistema chiuso, oscuro, proprietario richiede in chi lo utilizza una enorme dose di fiducia acritica da parte di chi vota. Ci si deve fidare ciecamente della società che offre il prodotto, ma se il “motore” del sistema non è visibile, già di per sé si tratta di un sistema non idoneo a operazioni di questo tipo. In altre parole: un sistema oscuro è già, di per sé, un sistema insicuro e non idoneo.

 

 

Negli Stati Uniti d’America ci fu, su questo punto, una polemica molto violenta nei confronti di un produttore di macchine per il voto elettronico che non voleva rivelare il funzionamento delle sue tecnologie (per proteggere, ovviamente, il segreto industriale e il valore del prodotto) ad alcuni Stati che glielo avevano domandato. Un documentario di alcuni anni fa (era il 2006), intitolato Hacking Democracy e candidato a un Emmy Award per il giornalismo investigativo, ha ben descritto questo punto. Altri sviluppatori, nel mondo, hanno scelto, invece, di costruire simili piattaforme su codice aperto proprio per prevedere sin dall’inizio una trasparenza “congenita” del sistema.

L’idea di una piattaforma per la consultazione, o voto, che non sia trasparente nel suo progetto e funzionamento, vanifica sin dagli esordi l’affidabilità di un sistema pensato per simili finalità.

 

2. Il problema della vulnerabilità del sistema

 

Un sistema di voto che abbia effetti sugli equilibri democratici deve essere, poi, sicuro. 

La sicurezza non si raggiunge soltanto attraverso la trasparenza del codice, come indicato nel punto precedente, ma anche pensando sin dall’inizio il sistema come un ambiente che può essere soggetto ad attacchi operati da individui o da organizzazioni con grandi mezzi e capacità tecniche. 

Il rischio è di avviare un progetto con una piattaforma/architettura intrinsecamente debole e, poi, cercare di “aggiustare le cose” in corsa, procedura che non dà mai, di solito, buoni frutti. 

Il problema è che la predisposizione di un quadro informatico sicuro è la parte più costosa dell’intero progetto/processo. Richiede competenze e tecnologie ad hoc, penetration test (attacchi esterni concordati contrattualmente) operati da società esterne indipendenti, certificazioni dei processi. 

Ma non solo: la sicurezza deve essere anche prevista con riferimento a competenze e azioni malevole interne, ossia la possibilità che, ad esempio, gli amministratori di sistema o i gestori della piattaforma possano modificare a loro piacimento l’esito, spostare i voti, sopprimere preferenze. Anche i votanti, ossia le utenze che possono, con un click, dare una preferenza, dovrebbero essere controllati con cura, per evitare che un singolo cittadino abbia, ad esempio, quattro o cinque utenze attive e possa, così, esprimere più voti.

Nel febbraio del 2019 ENISA, l’agenzia dell’Unione Europea che si occupa di cybersecurity, ha pubblicato uno studio (“Election cybersecurity: challenges and opportunities”) dove evidenzia una tendenza, in molti Stati Europei, di abbandonare i sistemi di voto elettronico, e di tornare al voto “cartaceo”, proprio per timori correlati alla sicurezza informatica degli stessi. Il report cita i casi dell’Irlanda, dell’Olanda, della Francia, della Finlandia e della Germania e, al contrario, gli esempi di Estonia e Belgio quali Paesi più fiduciosi nelle possibilità del voto elettronico.

 

3. Il punto spinoso della “certificazione” dei risultati

 

Qui il punto cruciale, finale, è la differenza tra una certificazione dei risultati della consultazione e una certificazione della correttezza dei processi alla base. 

Per “certificazione dei risultati” s’intende, ad esempio, l’azione di un notaio (o di altro organo terzo) che certifichi l’esito della consultazione/sondaggio. 

Si tratta però, in molti casi, di una certificazione di un “qualcosa”, uno stato di fatto, che viene comunicato al notaio ma che può essere benissimo esito di una alterazione precedente. 

Differente, ma molto più complesso nella pratica, è invece il permettere a un notaio di seguire in tempo reale l’intero processo e certificare la correttezza dei voti dopo aver potuto verificare anche, preliminarmente, la correttezza del procedimento. 

Si immagini, però, la difficoltà, ad esempio in una votazione che coinvolga 70.000 persone, di una simile operazione: il notaio dovrebbe controllare uno a uno i votanti, verificare la loro identità, verificare i voti espressi e certificare la regolarità del tutto.

 

Nel caso di Rousseau, tutti e tre i punti che abbiamo esposto sono stati, negli anni e anche nelle ultime ore, messi in discussione. 

Il Garante per la Protezione dei dati si è concentrato, nei mesi scorsi, sull’analisi degli aspetti di responsabilità degli amministratori del sistema (e tenuta dei file di log) per il timore di manipolazione, di protezione della privacy degli utenti/votanti, di individuazione di sistemi di autenticazione (anche tramite cellulare) e di separazione tra identità degli utenti e loro dati di voto. Questo si è trattato di un processo di “adeguamento” obbligatorio, per i gestori di Rousseau, perché legato a possibili sanzioni future.

La parte, invece, della trasparenza si presenta più come una scelta per così dire “etica” che, però, è inscindibilmente legata all’essenza stessa e, soprattutto, alla credibilità del sistema. 

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Specchio nero

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Diverse serie televisive degli ultimi anni si sono interrogate sulle più avanzate frontiere di cambiamento delle società contemporanee, ma è soprattutto la serie britannica Black Mirror a essere interessante da questo punto di vista.

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Sebald. Anatomia della memoria

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Ad una domanda della scrittrice Eleanor Wachtel su come definirebbe i suoi quattro racconti de Gli Emigrati Sebald risponde che a lui interessano gli angoli di osservazione e paragona la sua narrazione a un periscopio che osserva relazioni tra le molteplici prospettive che si offrono alla sua paziente esplorazione. 

Individuare relazioni e ricostruire immagini a partire da minuti particolari con un lavoro di accumulo e di ricostruzione è la modalità che domina tutte le scritture sebaldiane, in particolare i suoi romanzi a partire da Vertigini (1990) e poi Gli emigrati (1992), Gli anelli di Saturno (1995) fino ad Austerlitz, il romanzo uscito postumo nel 2001. La sua è stata definita una narrativa della memoria perché la sua ricerca letteraria appare come un tentativo di disinnescare i meccanismi della rimozione – individuale e collettiva – per consentire alla coscienza di riportare alla luce esperienze, ricordi, momenti di un passato spesso doloroso. 

 

Il fantasma della memoria. Conversazioni con W.G. Sebald a cura di Lynne Sharon Schwartz uscito nel 2007 negli Stati Uniti da Seven Stories Press e ora da Treccani con una prefazione di Filippo Tuena è un libro che propone, accanto ad alcune conversazioni con lo scrittore tedesco, le testimonianze critiche di scrittori e poeti come Tim Parks, Michael Hofmann, Ruth Franklin, Charles Simic.

Il filo conduttore che domina le dichiarazioni rese dallo scrittore tedesco nelle interviste ma che emerge con toni e accenti diversi anche nei testi critici è il trattamento narrativo del tempo: un tempo che è storico, violento, inconoscibile e inesorabilmente distruttivo. Negli Emigranti e in Austerlitz, i due libri che hanno reso celebre Sebald negli Stati Uniti, questo tempo tentacolare e perversamente rizomatico è quello del male assoluto, il tempo della Shoah. Il lavoro di scavo narrativo su questo orrore nascosto nelle pieghe del rimosso dei protagonisti ha fatto diventare Sebald nel giro di pochi anni, sul finire degli anni Novanta, “uno scrittore indispensabile, uno di quelli di cui non si può fare a meno”, (Lynne Sharon Schwartz). E Schwartz aggiunge: “Sebald, più di qualunque altro autore della nostra epoca, ha rinnovato la forma stessa della scrittura”. Questa affermazione, forse un po’ eccessiva, dà tuttavia la misura della ricezione negli Stati Uniti di questo scrittore che non appena laureato lascia nel 1970 il suo paese, l’odiata Germania, per andare a vivere in Inghilterra. Dove insegnerà letteratura tedesca e poi letterature europee all’Università di Norwick.

 

In Gran Bretagna Sebald approdò ufficialmente per ragioni di studio ma la ragione vera – lo dichiarò lui stesso in diverse occasioni – era dettata dall’urgenza di abbandonare un mondo, quello della regione meridionale dell’Allgäu da cui proveniva, dove il passato nazista e le colpe della popolazione, allora accanitamente in favore del regime, erano stati accuratamente rimossi. Sebald provò l’orrore di scoprire quel rimosso nella sua stessa famiglia: il silenzio e l’oblio collettivo della colpa diventarono ai suoi occhi lo stigma negativo di un’intera nazione che lui non si stancò di denunciare in ogni occasione procurandosi in Germania non pochi nemici.

 

In cosa consiste l’originalità di Sebald scrittore? Essenzialmente nell’avere fornito un’anatomia della memoria attraverso una disamina dei suoi meccanismi. Ma questo lavoro di scavo che coglie indizi e costruisce ipotesi sulle tracce del passato approda ad una resa mitopoietica in cui il rammemorare entra in conflitto con il fluire della narrazione e la costruzione del racconto quasi si scompone in minute immagini, in brandelli di passato che riaffiorano con la potenza icastica di un’istantanea. Per questo le sue composizioni sono sempre anche scomposizioni in nuclei esperienziali che avvolgono gli eventi minimi di inattese risonanze. È come se il suo procedere nel racconto fosse un passo del gambero: un continuo arretrare verso luoghi, tempi e sequenze di vita remote che tuttavia intrattengono con il presente un dialogo sotto traccia, invisibile ma costante. Ne risulta una trama di relazioni che sconvolgono i criteri tradizionali di anteriorità e posteriorità su cui è costruito un intreccio. La voce narrante diviene una voce interrogante che ha congedato da sempre l’hybris autoriale, la pretesa di mettere in ordine il passato, di costruire un plot coerente secondo la logica della progressione verso una fine.

 

 

Una pretesa che a Sebald appare del tutto fuori luogo di fronte all’enormità del male di cui i suoi protagonisti hanno fatto esperienza.

A Eleanor Wachtel dichiarerà che le quattro vite raccontate in Gli emigranti sono basate su esistenze reali di persone a lui note, che hanno commesso suicidio in età avanzata. In tutti è evidente, dichiara Sebald, “la sindrome del sopravvissuto” che diventa insopportabile in tarda età. “Ero al corrente di questa sindrome in astratto, attraverso i casi di Jean Améry, Primo Levi, Paul Celan e Tadeusz Borowski, e diversi altri che non sono riusciti a sfuggire alle ombre innestate nelle loro vite dalla Shoah, e che sono infine rimasti soffocati dal peso della memoria. È una cosa che tende ad accadere piuttosto tardi nella vita di queste persone, quando sono in pensione, come è successo in questi casi, e quindi all’improvviso si apre un vuoto nelle loro vite”.

Il peso della memoria di cui parla Sebald è complementare alla forza disperata dell’oblio che ha consentito ai suoi personaggi di sopravvivere alla distruzione psichica.

Ma quando il cumulo del rimosso ricompare in superficie il peso diventa troppo soffocante per poter essere retto a lungo.

 

Ora questi attraversamenti del passato mediante la memoria poiché sono improvvisi e inattesi si negano ad una progressione narrativa: le narrazioni di Sebald sono tutte attraversate da questa strana tensione irrisolta tra l’attimo e la durata. Perciò rivestono una funzione fondamentale le fotografie che compaiono qua e là sulla pagina. Sono tracce visive disperse – la dispersione è per Sebald una condizione permanente dello spirito – un accumulo di immagini, fotografie in bianco e nero, interni borghesi, gruppi famigliari, cartoline ingiallite, pagine di agende annotate.

Alla domanda di quale sia la loro funzione Sebald risponde: “Credo che abbiano due scopi possibili nel testo. Il primo e più ovvio è quello della veridicità, poiché tendiamo a credere alle immagini molto più che alle parole. (…). L’altra funzione che intravedo è forse quella di fermare il tempo. La narrazione è una forma d’arte che si muove nel tempo, dunque inclina verso la fine, poiché lavora su un gradiente negativo, ed è molto, molto difficile in quella particolare forma di racconto arrestare lo scorrere del tempo. E come sappiamo, è questo che ci piace così tanto in alcune forme di arte visiva. (…) Ti trovi al di fuori del tempo, ed è in un certo senso una forma di redenzione, sei liberato dallo scorrere del tempo. Anche le fotografie possono sortire lo stesso effetto, riuscire a liberarci dal passaggio del tempo”.

 

In questo modo di concepire il tempo del racconto, sconvolgendo i parametri tradizionali basati sulla logica e sulla sequenza lineare, Sebald conduce il lettore in un territorio già esplorato da Walter Benjamin che ne ha disegnato con grande precisione la forma labirintica. L’immagine dialettica di cui parla il filosofo tedesco a proposito di Baudelaire ha questa stessa funzione: salva e redime dalla distruzione che inevitabilmente s’accompagna allo scorrere del tempo.

Dalle interviste a Eleanor Wachtel e a Carole Angier emerge il profilo di uno scrittore che vive la sua scrittura come una missione in qualche modo salvifica nei confronti delle vittime della storia e che proprio perciò si sottrae con ostinato rigore morale alle seduzioni della finzione poetica, al narrare per il narrare che per lui è nient’altro che un edulcorare l’orrore di ciò che è accaduto, in primo luogo l’infamia dello sterminio di massa degli Untermenschen, gli uomini indegni di vivere, gli ebrei, i malati di mente, le minoranze indesiderate. 

 

In questa etica radicale della scrittura Sebald richiama alla memoria l’intransigenza di Karl Kraus e ancora più quella scomoda e scandalosa di Thomas Bernhard, lo scrittore a cui forse si sente più vicino anche se le intonazioni delle rispettive scritture sono per la verità assai diverse.

A una domanda di Michael Silverblatt sul suo debito letterario nei confronti di Bernhard Sebald non ha difficoltà ad ammettere: “Sì, sono sempre stato tentato di dichiarare apertamente, fin da subito, il mio grande debito di gratitudine verso Thomas Bernhard”. Un autore che, afferma Sebald, è un modello perché si sottrae al destino di molta letteratura tedesca del dopoguerra, quello della compromissione morale che per lui fa tutt’uno con la mediocrità estetica.

 

Dalla conversazione con Silverblatt emerge assai bene come la vera ossessione di Sebald sia la necessità etica di narrare le atrocità dello sterminio e l’impossibilità di farlo. “Ho sempre sentito come necessario scrivere la storia della persecuzione, del vilipendio delle minoranze, del tentativo, a cui ci si è avvicinati molto, di eradicare un intero popolo. Ed ero allo stesso tempo consapevole, nel perseguire queste idee, di come sia praticamente impossibile farlo; perché secondo me scrivere dei campi di concentramento è quasi impossibile. (…) Quindi l’unico modo per affrontare queste cose è farlo, secondo me, in modo obliquo, tangenzialmente, attraverso dei riferimenti, piuttosto che in un confronto diretto”.

L’universo narrativo di Sebald è tutto racchiuso in questa tangenza da cui escono, come fantasmi del passato, in modo imprevedibile e spesso incerto, quasi come in sogno, i frammenti di vite e di mondi che il conformismo edulcorante di una nazione proiettata verso il futuro, come la Germania del dopoguerra, ha lasciato in ombra. L’accusa agli scrittori tedeschi, che Sebald ha espresso senza mezzi termini in varie occasioni attirandosi molti nemici in patria, è stata di assecondare in modo solerte questo colpevole oblio di massa che non rende giustizia ai milioni di morti e alla loro immane sofferenza.

 

Chi si recasse nei luoghi in cui Sebald ha trascorso gran parte della sua vita fino al fatale 14 dicembre 2001 in cui morì in un incidente automobilistico e si avventurasse nella contea di Norfolk alla ricerca della sua tomba troverebbe con qualche fatica un minuscolo cimitero che circonda la chiesa di St. Andrew a Framingham Earl, qualche chilometro a sud di Norwich. Sulla lapide di marmo scuro sotto il quale riposa troverebbe i sassolini che la pietà ebraica lascia sulle tombe dei propri defunti. In quei gesti anonimi è racchiusa probabilmente non solo la riconoscenza verso l’infaticabile esploratore della memoria dello sterminio ma anche la gratitudine per una scrittura che ha saputo restituire con sorvegliata discrezione il dramma dei sopravvissuti.

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Centrale Fies alla ricerca di naturali identità

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L'uomo è un animale carente, “non definito” come diceva Nietzsche, un essere che deve prendere posizione nel mondo e colmare le sue mancanze con un'azione, costruendosi sovrastrutture e cultura. Rifacendoci all'antropologia tedesca di inizio Novecento, con la cultura l'uomo si crea la sua “seconda natura”, una gabbia innaturale nella quale riesce ad adattarsi e a trovare la propria posizione e la propria identità, in contrapposizione all'animale. In questa costruzione di sovrastrutture il “naturale diventa così tutto ciò che appartiene a una comunità, i canoni attorno ai quali si definisce la propria identità. 

 

La 39° edizione di Drodesera, svoltasi dal 19 al 27 luglio negli spazi di Centrale Fies, con la direzione artistica di Barbara Boninsegna in collaborazione con Filippo Andreatta, ha accompagnato gli spettatori in un viaggio verso l'abbattimento di queste sovrastrutture, alla ricerca di un contatto più diretto con la natura, dove ogni spettatore è stato invitato a cercare il proprio limite identitario e a superarlo. Ipernatural, questo il tema del festival, dopo un primo weekend dedicato all'arte contemporanea con una sessione di Live Works, nel secondo ha presentato un programma dedicato alle arti performative, volto alla demolizione dei nostri canoni naturali per uscire dalla zona di agio imposta dalla società e allargare orizzonte culturale e tolleranza. 

 

Raquel André, Collection of Lovers, ph. Alessandro Sala.


Valicare i nostri confini ci pone domande esistenziali, rimette in discussione il nostro io, il nostro canone e la società che ci accoglie. L'io si astrae dal corpo per diventare modello sociale. In un mondo sempre più politically correct che fa delle debolezze umane i nuovi punti di forza, la diversità diventa una dote e i tabù si annullano. L'intimità è un momento da palesare e condividere: i social network sono megafono di un privato ormai pubblicato sulla piazza digitale. La sfera emotiva in cui, senza il timore di attacchi esterni, morali e fisici, le difese si abbassano, come quando si dorme, non esiste più. Cosa succede quando si fanno entrare nella propria confort zone perfetti estranei? 

Nel 1979 Sophie Calle chiese a 28 sconosciuti di dormire nel suo letto, con turni di 8 ore per 8 giorni, creando una ritualità attorno a un giaciglio che non doveva mai rimanere vuoto, chiedendo in cambio di essere fotografati ogni ora. Un lavoro artistico e di osservazione che ha sancito il successo dell'artista e che l'ha portata alla Biennale di Venezia l'anno successivo. Ma oltre a un'operazione artistica, l'atto ha abbattuto anche una delle ultime barriere sulla prossemica del corpo, ricalibrando il concetto di intimità. Sulla stessa linea continua a giocare Raquel André con il suo Collection of Lovers: in un esperimento che durerà 10 anni, dal 2014 al 2024, l'artista portoghese raccoglie amanti di ogni nazionalità e genere. Sola in scena, con vaporosi capelli ricci raccolti in una coda e un microfono in mano elenca numeri, nomi, vizi, gesti, particolarità e curiosità dei 237 lovers che ha contato fino a luglio 2019, per lo spettacolo a Centrale Fies, sommati nelle città in cui è stata, incontrati in appartamenti differenti. Chi fuma, chi mangia, chi piange, chi vuole un abbraccio, chi si fa la doccia, chi vestito e chi nudo. C'è chi dopo l'incontro le fa dei regali, le manda delle mail, chi è solo e chi ha tradito qualcuno. Con ognuno ha costruito una intimità immaginaria, sviluppata in un'ora di solitudine, immortalata con fotografie, diventando così collezione e memoria per un progetto artistico che indaga la creazione di una nuova sfera privata, fittizia e artificiale. Il confronto con l'altro, tolta la maschera sociale, è di norma momento di creazione di una propria identità: ma André costruisce in questo modo un nuovo palcoscenico tra le mura domestiche. Realtà e finzione si fondono e l'intimità diventa solo un tema per un effimero progetto antropologico (e artistico), senza fine ma con molta amarezza, in un momento storico in cui l'unione tra persone è questione politica e burocratica quando si parla di stesso genere o paesi differenti. 

 

Michikazi Matsune, Goodbye, ph. Roberto Segata.


Uno dei gesti di massima intimità è scrivere una lettera di addio. I motivi per un saluto definitivo possono essere molteplici, ma molti si sono salutati con una confessione scritta: Maria Teresa d'Austria che scrive a sua figlia Maria Antonietta il giorno della sua partenza per la corte di Francia, il pilota kamikaze che lascia una lettera ai suoi due figli, un cieco che scrive al suo cane guida, o la nota suicida di Kurt Cobain. Sono queste e altre lettere le protagoniste di Goodbye, spettacolo di Michikazi Matsune, performer giapponese che vive e lavora in Austria. Seduto a una scrivania nella grande sala illuminata, apre una alla volta le lettere impilate che ha davanti a sé: ogni riga si trasforma in una confessione delle proprie paure, apertura a un'intimità che diventa pubblica. L'addio è un saluto corale, condivisibile, da cantare insieme, una compilation su youtube in cui il performer danza, salta, si sdraia esibendo un cartello con su scritto “Goodbye”, fino a prendere in mano un grande martello e distruggere gli orologi presenti in scena, in uno scaramantico allontanamento del momento dell'addio. 

 

Mohamed El Kathib, Renault 12.


Dopo Finir en beauté presentato al Festival d'Avignone nel 2015 e arrivato per la prima volta in Italia l'anno successivo a Centrale Fies, torna a Drodesera Mohamed El Kathib. Corollario allo spettacolo precedente, Renault 12è l’esordio nel cinema documentario del regista e drammaturgo franco-marocchino, un road movie alla ricerca delle proprie origini, partendo ancora una volta dalla morte della madre. Presentato nella sezione 11th Continent al Marrakech International Film Festival 2018, il lungometraggio è la documentazione del tragitto da Orléans a Tangeri, durante il quale il regista incontra amici, parenti e passanti. L'elemento centrale continua a essere il grande vuoto lasciato dalla mamma: l'identità di un individuo abbandonato nel mondo, che intraprende un viaggio alla ricerca di un nuovo sé, sospeso tra un futuro lasciato a Orléans con una figlia che viene alle volte inquadrata e un passato in un Marocco che vive di ricordi. Un viaggio a ritroso per capire chi si è per ritrovare la propria strada e proseguire il cammino.

 

Ivana Muller / I'm Company, Conversations Out of Place, ph. Alessandro Sala.


Anche una festa può essere vissuta come un viaggio: Crowd della regista e coreografa francese Gisèle Vienne è una ritmica danza in slow motion, metafora della creazione di una comunità, tra incontri, allontanamenti in un gioco di difficile equilibrio (qui la recensione di Massimo Marino). Il viaggio alla ricerca di un contatto diretto con la natura lo cerca Ivana Muller / I'm Company con Conversations Out of Place, un dialogo tra corpo e immaginazione alla ricerca di una nuova relazione con il reale. Quattro esploratori che si muovono con gesti lenti, in contrasto con le voci che hanno una regolarità “standard”, si perdono in un paesaggio irreale composto da una sola pianta, dove il tempo scorre con ritmo innaturale: una composizione che disturba, aliena e disorienta. Man mano che i minuti passano, la meta della ricerca perde la sua importanza: il vero viaggio è la trasformazione di sé stessi entrando in simbiosi con l'altro e con la natura, alla ricerca di un ritrovato equilibrio nel mondo.

 

Cedric Price e Joan Littlewood, Little Fun Palace, ph. Il Gaviale – P.


A corollario di questa edizione di Drodesera, parcheggiata vicino alla seconda uscita di Centrale Fies, la roulotte di Little Fun Palace, che diventa all'occorrenza libreria e bar, consolle per djset e palco per conferenze. È un omaggio al Fun Palace, progetto cult dell'architetto Cedric Price e della regista teatrale Joan Littlewood, che negli anni Sessanta volevano realizzare una università della strada. Posizionata ai confini, come per sancire un dentro e un fuori dal mondo naturale e dal mondo umano/culturale, Little Fun Palace è luogo effimero che in un mondo in continua trasformazione e movimento, che fa della sua duttilità il punto di forza.

 

Ipernatural è stato un percorso alla ricerca di un nuovo spazio vitale in cui scoprire e impossessarsi di altre possibili nature, altre possibili esistenze, confermando Centrale Fies un avamposto per la cultura teatrale e performativa in Italia, in cui l'estetica va a braccetto con la messa in discussione dei canoni, per la creazione di nuove identità.

 

L’ultima fotografia, immagine di Ipernatural, è di Alessandro Sala.

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L’estate dei festival
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Ibrido

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Il testimone, il chimico, lo scrittore, il narratore fantastico, l'etologo, l'antropologo, l'alpinista, il linguista, l'enigmista, e altro ancora. Primo Levi è un autore poliedrico la cui conoscenza è una scoperta continua. Nel centenario della sua nascita (31 luglio 1919) abbiamo pensato di costruire un Dizionario Levi con l'apporto dei nostri collaboratori per approfondire in una serie di brevi voci molti degli aspetti di questo fondamentale autore la cui opera è ancora da scoprire.

 

“Gli incroci sono fecondi, sempre”, afferma Levi in un’intervista a Federico De Melis sul “Manifesto” nel maggio del 1983, al tempo della traduzione del Processo di Kafka. Credo che nella “fecondità degli incroci” si possa indicare il fulcro tematico dominante attorno al quale ruotano le prospettive del pensare di Levi. Le “nozze” fra  entità diverse (se non opposte) danno origine a realtà ibride; il latino hybrida, “bastardo”, è di etimo incerto, ma in esso si sospetta la presenza dell’hybris greca, eccesso, violenza, da cui il verbo hybrizein, cioè essere sfrenato, varcare i confini. Su quelle entità miste – dal latino miscere, mescolare, sarebbe poi derivato “meticcio” – è gravata la condanna del pensiero dell’Occidente, già a partire dai Greci. Solo l’oggetto dai contorni netti, che è dunque possibile de-finire, merita l’attenzione del Logos, di una Ragione che conosce solo due valori e impone di escludere il terzo, l’indistinto che confonde in sé i contrari. La formazione chimica ha certo contribuito a sviluppare in Levi quel “pensiero della  mescolanza” in cui Gaston Bachelard (Il materialismo razionale, 1953) indicava il modo in cui il chimico moderno, attento al carattere ibrido e impuro delle cose, si dispone di fronte alle reazioni degli elementi. È questa la lezione politico-morale che Levi riceve nel suo primo giorno di laboratorio all’Università torinese, ricorda in Il sistema periodico (1975). Il tenero zinco, il “metallo noioso” con cui si facevano i mastelli per la biancheria, è arrendevole di fronte agli acidi, ma “resiste ostinatamente all’attacco” quando è molto puro. Non è la purezza come protezione dal male o la virtù immacolata a venire elogiata, bensì l’impurezza perché “dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. […] Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale”. 

 

La chimica diventa filtro interpretativo, chiave di lettura per la comprensione della propria identità e, più in generale, delle relazioni umane. Levi non si sente più estraneo (xenon), come gli antenati ai margini della società rievocati in “Argon”, il primo capitolo di Il sistema periodico, ma diverso e quindi fecondo rispetto alla pretesa ideologica del fascismo, di ieri e di oggi, che persegue l’uniformità sterile, l’equilibrio  entropico e terminale in cui le differenze si annullano. “Sono io l’impurezza che fa reagire lo zinco, sono io il granello di sale e di senape. L’impurezza, certo: poiché proprio in quei mesi iniziava la pubblicazione di La Difesa della Razza, e di purezza si faceva un gran parlare, ed io cominciavo ad essere fiero di essere impuro”, conclude il capitolo “Zinco”. L’identità leviana si declina al plurale: da un lato il radicamento, il sentirsi italiano e piemontese, dall’altro la rivendicazione della condizione di minoranza impura che può arricchire la vita culturale del paese in cui vive, spiega Levi conversando con Philip Roth. Possedere due culture è un segno di ricchezza: di qui il desiderio, non di assimilazione, cioè di cancellazione della differenza, ma d’integrazione, che era di suo padre, ed il connesso rifiuto del sionismo. Nell’omaggio che “Argon” dedica agli avi, fuggiti dall’intolleranza spagnola di fine Quattrocento, l’attenzione si rivolge ben presto al dialetto di quel “piccolo popolo”, che mescola termini ebraici storpiati con desinenze e flessioni piemontesi. Anch’esso un “ibrido linguistico”, “yiddish minore e mediterraneo, più locale e meno illustre” rispetto a quello, levigato dai secoli, dell’ebraismo askenazita, che Levi incontra ad Auschwitz. Quel gergo dall’evidente radice “umiliata”, possiede un notevole interesse umano, osserva Levi, come quello di tutti i linguaggi di confine e di transizione; contiene una “mirabile forza comica, che scaturisce dal contrasto fra il tessuto del discorso, che è il dialetto piemontese scabro, sobrio e laconico […], e l’incastro ebraico, carpito alla remota lingua dei padri, sacra e solenne, geologica, levigata dai millenni come l’alveo dei ghiacciai”. Ogni condizione ibrida si alimenta del contrasto fra gli opposti che non si escludono ma si mantengono in tensione reciproca, schisi dolorosa ed insieme connubio vivificante. Quel linguaggio miscelato rispecchia il contrasto interno all’ebraismo della Diaspora, in bilico fra vocazione divina e miseria quotidiana, e da cui sorge il suo riso di salvazione, dirà La ricerca delle radici; ma un altro contrasto ancora rispecchia, “quello insito nella condizione umana, poiché l’uomo è centauro, groviglio di carne e di mente, di alito divino e di polvere” (SP). 

 

 

“Io credo proprio che il mio destino profondo (il mio pianeta, direbbe don Abbondio) sia l’ibridismo, la spaccatura. Italiano, ma ebreo. Chimico, ma scrittore. Deportato, ma non tanto (o non sempre) disposto al lamento e alla querela”, afferma Levi in un’intervista del 1982. L’unitasmultiplex che forma l’identità di Levi è il “precipitato chimico” della stratigrafia composita della sua formazione: studente del Liceo classico attratto da una scienza di cui farà il suo “primo mestiere”, avido lettore dei libri prelevati dalla biblioteca paterna, che finiscono per “reagire fra loro” nel costruire “una cultura disordinata, lacunosa e saputella”, dirà la premessa a L’altrui mestiere. Dal ’66, al tempo della messa in scena a Torino di tre suoi atti unici (poi confluiti nei racconti di Storie naturali), Levi adotta per autodefinirsi l’immagine del centauro: “Io sono un anfibio, un centauro. Io sono diviso in due metà. Una è quella della fabbrica, sono un tecnico, un chimico. Un’altra invece è totalmente distaccata dalla prima, ed è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e presenti. Sono proprio due mezzi cervelli. È una spaccatura paranoica (come quella, credo, di un Gadda, di un Sinisgalli, di un Solmi)”. Alla percezione di una incomunicabilità fra le due sfere, il lavoro diurno della fabbrica e la fatica notturna della scrittura, finirà per sostituirsi la ricerca fortunata di un congiungimento: dal quotidiano delle pratiche di laboratorio sorgono suggestioni che aprono la routine del tecnico a implicazioni distorte o al mistero, come avviene nella fantascienza “italica” di tanti racconti di Storie naturali (1966) e di Vizio di forma (1971). Il “primo mestiere” diviene una riserva privilegiata per dare sfogo alla vocazione fantastica, si traduce in narrazione delle “avventure spirituali” che anche il chimico vive, come il marinaio di Conrad. E il lavoro, grazie al contatto della mano con la materia e alle sfide che impone, riscopre le emozioni più antiche dell’uomo, i momenti di incertezza che accompagnano l’indagine, il successo e la sconfitta. Il chimico procede come un detective che scova gli indizi per giungere al colpevole, mette alla prova le sue ipotesi di ricerca e misurandosi con la materia si misura con se stesso.       

  

 


Il “meticciato” fra i mestieri di chimico e di scrittore troverà la sua espressione più alta nelle pagine di Il sistema periodico, avventure del “tecnico” alle prese con gli elementi della tavola di Mendeleev, libro che Calvino salutò come “un nuovo ponte fra le due culture”. Nel ricordare l’amico scrittore da poco scomparso nel settembre del 1985, Levi insiste sulla comunanza dei progetti, sull’idea condivisa “di una letteratura mediatrice, rivelatrice, a cavallo fra le ‘due culture’, partecipe di entrambe”. Nel centauro Levi, la frangia luminosa dei concetti scientifici convive con la penombra in cui restano attivi gli archetipi dell’inconscio: e la letteratura ne è il crocevia chiaroscurale. Il lavoro razionale e la tecnica dominatrice della materia coabitano con l’immaginario dell’alchimista che trae lezioni di psicologia umana dai piani misteriosi delle sostanze. Il soggetto si proietta sulle materie, tende a una valorizzazione immaginaria del fatto materiale; il ricorso al lessico metaforico delle tendenze e dei desideri a proposito delle sostanze risponde al bisogno di partecipazione dell’uomo con la natura di cui la letteratura si fa custode, dopo che l’oggettivismo delle scienze ha scavato un abisso fra l’uomo e il mondo. La letteratura è il luogo in cui si ricompone la frattura fra ragione e immaginazione, fra osservazione empirica e fantasia sognante, fra rigore e invenzione: “letteratura, figlia del mito e del sapere”, ha scritto Michel Serres. L’immagine che il filosofo francese da poco scomparso ha affidato alla sua proposta pedagogica, il Terzo Istruito, si adatta perfettamente all’opera di Levi (e di Calvino). Il Terzo Istruito lavora a una “filosofia della mescolanza”, la sua navigazione va in cerca del “passaggio a Nord Ovest”, del varco in cui i saperi “positivi” comunicano con le tradizioni mitico-religiose: aspira a tessere insieme la verità delle scienze e la pacatezza del giudizio, l’efficacia delle tecniche e la pietas di fronte al male. 

  

Le scelte che scandiscono l’antologia personale di Levi, La ricerca delle radici (1981), sono motivate dalla fiducia negli accostamenti inusuali e talora incongrui, sperimentano quali reazioni possano prodursi “all’interfaccia (per esempio) fra Omero e Darwin, fra Lucrezio e Babel’, fra Conrad il marinaio e Gattermann il chimico prudente”. Ne deriva un esuberante elogio dell’ibridazione e della contaminazione, da cui emergono affinità insospettate fra autori ebraici e poeti dialettali, scrittori di avventura e scienziati: “Qui veramente tutto è possibile, basta pensare a certi matrimoni improbabili e duraturi, a certe amicizie asimmetriche e feconde”. È il frate francescano e medico Rabelais a legittimare con la libertà vitale della sua scrittura, con la mescolanza di registri colti e triviali, anche lo spirito indisciplinato che presiede alle incursioni leviane in territori “stranieri” nei saggi di L’altrui mestiere (1985). È lo spirito impertinente di chi si diverte a varcare i confini, anche quelli disciplinari, a compiere incursioni in territori che altri vorrebbero di propria pertinenza esclusiva. È lo stesso spirito di Libertino Faussone di La chiave a stella (1978), il montatore di tralicci che si esprime con un altro ibrido linguistico, un italiano spoglio infarcito di termini tecnici e dialettali. “Io ho sempre pensato che i ponti è il più bel lavoro che sia: perché si è sicuri che non ne viene male a nessuno, anzi del bene, perché sui ponti passano le strade e senza le strade saremmo ancora come i selvaggi; insomma perché sono come l’incontrario delle frontiere e le frontiere è dove nascono le guerre”. Anche nell’ambito delle scienze, nuovi cammini di ricerca si aprono a chi congiunge ciò che è stato separato. In uno dei suoi ultimi scritti, la recensione a Sette indizi sull’origine della vita di Graham Cairn-Smith, Levi rintraccia il pregio del libro nella comparsa di “una idea nuova, a mezza via fra la chimica e la geologia, e oggi sappiamo quanto feconde sono le ibridazioni fra discipline diverse”. 

  

Abitando il crinale dove s’incontrano le due culture, Levi pontifexè disponibile al nomadismo, al vagabondaggio, alla randonnée, avrebbe detto Serres: può compiere “invasioni di campo”, “bracconaggi in distretti di caccia riservata”, scorribande nei territori delle scienze naturali, dalla zoologia all’astronomia, in quelli della linguistica e  della letteratura, “rivisitare le cose della tecnica con l’occhio del letterato, e le lettere con l’occhio del tecnico”. I ponti su cui la scrittura leviana si avventura non mirano solo a scavalcare l’assurdo “crepaccio” fra scienza e letteratura, puntano anche a saldare la spaccatura fra intellettuale e tecnico, fra chi lavora col pensiero e chi lavora con le mani, “una schisi innaturale, non necessaria, nociva, frutto di lontani tabù e della controriforma […]. Non la conoscevano Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile” (AM).

  

“Io ibrido lo sono nel profondo, e non è un caso che l’ibridismo tanto profondamente compaia nei miei racconti”, dice Levi in un’intervista del 1982. Il racconto più riuscito di Storie naturali, “Quaestio de centauris”, la cui prima stesura risale al ’61, fantastica di un caos originario conseguente al diluvio, una sorta di zuppa prebiotica, un fango prodigiosamente ricco e fecondo come quello delle terre sovietiche attraversate dopo la liberazione dal Lager e ricordate in La tregua. Nella mescolanza di questo apeiron anassimandreo, la natura è preda di una “fecondità delirante, furibonda”, nella putredine calda albergano tutti i fermenti di quanto il diluvio ha sommerso. Ogni contatto, anche fra specie diverse, anche fra bestie e pietre, genera nuovi esseri, come se la biosfera fosse un immenso campo di sperimentazioni biochimiche. E fra questi ibridi ecco apparire i centauri, dove le pulsioni animalesche, aggressive e sessuali, si risvegliano insieme ai sentimenti umani. L’uso distorto di un farmaco antirigetto, la disfilassi dell’omonimo racconto di Lilìt, produce la caduta delle difese immunitarie, anche di quelle che “un tempo impedivano gli incroci fra specie diverse”; qualunque specie, animale, vegetale o umana, “aveva buone probabilità di dare origine a un ibrido”. Chi può dire se l’infrangersi della barriera fra le specie sia un bene o un male, se dalla “seconda”, la “vera creazione”, non siano da attendersi anche mostri speranzosi, gli hopefulmonsters di cui parlava l’evoluzionista Stephen J. Gould? “Perché non confidare in una nuova selezione millenaria, in un uomo nuovo, rapido e forte come la tigre, longevo come il cedro, prudente come le formiche?”. La chimica, campo delle trasmutazioni della materia, consolida in Levi l’immagine della natura come luogo di intrecci su cui l’evoluzione fa giocare i suoi meticciati, incroci portentosi in cui si annullano non solo le barriere di specie fra umano e animale/vegetale, ma i confini stessi fra meccanico e organico: le tenie secernono poesia, le automobili sviluppano una distinzione in generi sessuali, la Rete telefonica conquista una mente auto-organizzatrice, ecc. 

 

 

“Altrove”, scrive Levi nella premessa a L’altrui mestiere, mi sono avventurato ad esplorare “i legami trasversali che collegano il mondo della natura con quello della cultura”. L’epistemologo Bruno Latour, ispirato dal pensiero di Serres, ha sostenuto che i fenomeni del nostro tempo, buco dell’ozono, trattamento degli embrioni, virus dell’AIDS, ecc., sono fatti ibridi; abbiamo creduto che la modernità si definisse per la capacità di separare quel che è della natura da quel che è della cultura, superando l’indistinzione dei “primitivi”, ma in realtà “non siamo mai stati moderni” (è il titolo del suo libro, Eleuthera, 1996). L’intera opera di Levi si muove in effetti nei luoghi di contatto e di transizione fra naturale e culturale: non più sospeso fra l’angelo e la bestia, come voleva l’umanesimo classico, l’animale-uomo, ultimo arrivato nel cammino dell’evoluzione, oscilla fra la pura vita e il meccanismo, suggeriscono le pagine di Se questo è un uomo. Ibrida è la situazione del Campo, “il lager è una grande macchina per ridurci a bestie”. Ibrida è la condizione della vittima. La disumanità di Auschwitz non si esprime solo nella riconduzione alla bestialità, involuzione a una forma di vita pre-umana, conosce anche la riduzione dell’individuo ad automa, “pezzo” di cui calcolare la quantità, componente di una struttura meccanica distorta. Auschwitz, “un enorme progetto di ingegneria sociale”, è figlio dell’Occidente tanto quanto le fabbriche di Detroit, ha scritto Zygmunt Bauman, in Modernità e Olocausto (1989): precisione, disciplina e insensibilità militaresca convivono con i criteri della razionalità weberiana del capitalismo, efficienza (minimo dei costi e massimo dei “benefici”, fino al risparmio esasperato del recupero dei “materiali”, cioè delle spoglie delle vittime) e dell’efficacia (mezzi adeguati al fine). Il deportato regredisce allo “stato di natura”, senza che gli sia più concesso ex-sistere, cioè staccarsi dalla condizione di immediatezza rispetto alle esigenze elementari del vivere. Il rischio di venire ridotto a cosa, a inerte macchina automatizzata, sottoposto a “specifiche” come qualunque materiale di laboratorio, è la sorte che attende l’uomo in molti racconti di Storie naturali o di Vizio di forma: programmato fin dall’origine da un comitato di esperti, suggerisce Il sesto giorno, divenuto “sintetico” come nel racconto omonimo. Anche nei carnefici, puri esecutori di ordini meccanici, si è cancellato non solo il senso di umanità ma anche la pietà animale intraspecifica; la logica dell’obbedienza li ha ridotti a ingranaggi di un sistema di cui gestiscono soltanto i mezzi per attuare fini che non controllano. 

  

La natura dell’uomo rimane indefinita, creatura “duplice”, “centauro, uomo fino ai precordi e di qui belva” (SN), sospeso “fra il fango e il cielo, fra il nulla e l’infinito” (AM). E se è vero che l’homo sapiens resta adattabile secondo i giochi dell’evoluzione, in lui l’animalità non si cancella. Come potremmo spiegare l’intolleranza razziale se non tenessimo conto degli atavismi (componente rilevante dell’etologo Levi), delle tracce che del mondo animale persistono nell’uomo civile? Se le frontiere ci rendono feroci è perché resta vivo in noi il bisogno bestiale di difendere il territorio, di considerare ogni estraneo come potenziale nemico. L’ebreo è il bersaglio “naturale”, il capro espiatorio ottimale di chi ha bisogno di marcare il terreno e demarcare i confini, perché il suo essere figura di frontiera, privo di appartenenza e dall’identità non unitaria (non riconducibile a classi, nazioni o stati), lo rende “vischioso”, dice Levi in un intervento sull’intolleranza razziale. I mirabili strumenti che abbiamo ereditato dal percorso dell’evoluzione, il linguaggio e il pensiero concettuale, tendono a ordinare la realtà ed i fatti storici secondo una logica manichea,  anch’essa un atavismo radicato nel tempo dell’umanità cacciatrice: è “talmente forte in noi, forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l’esigenza di dividere il campo fra ‘noi’ e ‘loro’”, che la bipartizione amico-nemico prevale su tutti gli altri modi di dare ordine al mondo. L’elementare logica agonistica ci induce a ridurre ogni relazione a scontro di opposti, al gioco della guerra da cui usciranno vincitori e vinti, servi e signori. Ma questo “biologico” impulso alla semplificazione, argomentano le pagine di I sommersi e i salvati, “rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi”. 

  

L’attenzione al “tra”, al terreno in cui gli opposti si con-fondono, dove germinano ibridazioni e mescolanze, irriducibili ad ogni schematismo dialettico, fa di Levi un pensatore della complessità. Di qui ha origine la sua riflessione più feconda, quella condotta sulla “zona grigia”, la “fascia grigia dei Kapos e dei prigionieri insigniti di un grado”, la “classe ibrida dei prigionieri-funzionari” che formava l’ossatura e il lineamento più inquietante del Lager. Il tema della partecipazione delle vittime stesse all’opera dei carnefici, sviluppato in I sommersi e i salvati (1986), è già nella prefazione al romanzo La notte dei Girondini di Jacob Presser, storia di ebrei olandesi che collaborano alla gestione del campo di Westerbock (Adelphi, 1976, tradotto dallo stesso Levi). Certo, la distinzione fra vittime e persecutori non si cancella, ma lo spazio che li separa non è un deserto, è costellato di “figure turpi, miserevoli o patetiche (talora posseggono le tre qualità a un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova dovesse ritornare”. Di questa “fauna pittoresca” di scopini, guardie notturne, capi baracca, ecc., in cerca di protezione e privilegi, l’esempio più significativo è quello di Chajm Rumkowsky, decano del ghetto della città polacca di Łodz, in cui diede vita ad una sorta di monarchia assoluta che credeva illuminata. Figura ingenua ed assetata di potere, zimbello dei nazisti ma convinto di essere un messia e un salvatore, in Rumkowski ci rispecchiamo tutti noi, “poiché l’uomo, dice Thomas Mann, è una creatura confusa”: “la sua ambiguità è la nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito”. L’immediata e traumatica esperienza di chi entrava in Lager era scoprire che il nemico peggiore stava fra i propri compagni di sventura, pronti a tutto nella lotta per la sopravvivenza: il nemico non stava sull’altra riva, “era intorno ma anche dentro, il ‘noi’ perdeva i suoi confini”. Nel finale di alcune poesie degli anni Ottanta, come Partigia (1981) e Sidereus nuncius (1984), il rifiuto delle rigide opposizioni giunge fino ad annullare ogni dualismo, o meglio a ritrovare il conflitto non fra gli individui ma all’interno di “ognuno”, pronome indefinito ad indicare l’umanità intera: “Ognuno è nemico di ognuno, / spaccato ognuno dalla sua propria frontiera, / la mano destra nemica della sinistra”.

  

Anche l’indagine di Levi sui campi di sterminio procede sulla soglia, oscilla fra storia e memoria, fra verità oggettiva e testimonianza personale. Spiegava l’etnologa Germaine Tillion, deportata nel Lager di Ravensbrück di cui ha ricostruito la storia (Fazi, 2012), che non si tratta, soprattutto quando si affrontano i drammi del mondo, di scegliere fra ragione e passione, semmai di criticare e completare l’una mediante l’altra. Bisogna saper coniugare “la grande luce bianca dell’indagine storica, che illumina da ogni parte i rilievi e i colori, con il raggio oscuro dell’esperienza che attraversa lo spessore della materia. Non la sola ragione, non la passione sola, ma l’una e l’altra insieme, che uniscono i loro insufficienti chiarori per esplorare questo abisso ignoto, la sventura degli altri”.

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“Poltrona”: una parola di tempi calamitosi

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“Carica o impiego, spec. di grado elevato, che si suppone comporti un lavoro poco faticoso e molto redditizio”: questa definizione di poltrona compare, come terza, nella relativa voce di edizioni recenti del Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, con l’ovvia precisazione che si tratta di un valore figurato, connotativo, non denotativo. Dal Dizionario etimologico della lingua italiana di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli si apprende tuttavia che lo Zingarelli la offre, immutata, sin dalla sua edizione del 1922. Non è un dettaglio trascurabile. È al contrario una spia che chiama l’attenzione.

 

Per essere fatta oggetto di una registrazione lessicografica a quella data e per stare lì dove da allora si trova, poltrona con il valore qui pertinente, non soltanto figurato ma, com’è facile intendere, anche spregiativo, doveva essere d’uso corrente già negli anni precedenti: gli anni che seguirono la Grande guerra. Si può stare certi che gli storici della prosa giornalistica e della lingua della politica, se volessero, potrebbero fornirne loquaci attestazioni. Li si invita alle opportune ricerche. In quel contesto sociale e culturale e in scritti effimeri probabilmente ispirati da sentimenti anti-parlamentari, poltrona ricorse evidentemente con tale frequenza e pregnanza da meritare di entrare pochi anni dopo in un dizionario. Fu d’altra parte intorno al 1922 che l’Italia, come compagine politica unitaria, si avviò sulla scorta di quei sentimenti, forieri del peggio, verso un ventennio della sua storia che non le avrebbe fatto onore e a conclusione del quale, fuori di ogni pur opinabile giudizio politico, l’attendeva una spaventosa catastrofe, inconfutabilmente reale.

 

 

Erano d’altra parte passati pochi anni dal perfezionamento di quella catastrofe quando l’uso figurato di poltrona fu consacrato ancora una volta e sopra un piano diverso. A quasi trenta anni dal suo battesimo lessicografico, apparve infatti nel titolo di un best seller, di cui si può stare certi solo pochi conservano oggi memoria. Si tratta del discusso Navi e poltrone di Antonino Trizzino. Nei primi anni Cinquanta, questo libro scandalistico amplificò un’insinuazione serpeggiante tra i già nostalgici del regime da poco crollato e tra un pubblico qualunquista. Pretese di dotare quell’insinuazione di prove inconfutabili che furono tuttavia presto in gran parte confutate anche in sedi giudiziarie. L’insinuazione voleva che l’esito infelice e disonorevole della partecipazione italiana alla Seconda guerra mondiale fosse da imputare al tradimento e all’intelligenza con il nemico di alte cariche militari nazionali, in particolare della Regia Marina. Nello scacchiere mediterraneo, quella partecipazione era stata del resto caratterizzata da un un modo di condursi certo non onorevolissimo della forza armata.

 

Poltrona attraversò poi l’intera vicenda della cosiddetta Prima Repubblica, presa come fu a inopinata bandiera delle rimostranze anche di altra e diversa, se non opposta parte politica. Nel discorso delle opposizioni marcò la stigmatizzazione della più che trentennale permanenza nelle funzioni di governo della Democrazia Cristiana e dei suoi vari satelliti. In proposito, ancora un dato lessicografico è molto significativo. Nella relativa voce del Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, a testimoniare l’uso di cui si sta discutendo è stato infatti chiamato un brano di un articolo del 1984 di Enzo Biagi (e si tratta ancora una volta di un trentennio). Ne era tema un uomo politico all’epoca del massimo rilievo: Bettino Craxi. Con ironia a buon mercato e gusto discutibile, la firma giornalistica allora tanto celebrata non risparmiava nell’occasione al lettore la menzione eufemistica di una parte anatomica del dileggiato: “È [Craxi] presidente del Consiglio, ed è sempre segretario del PSI: ed ecco un altro miracolo, perché, con un solo sedere, tiene occupate due poltrone”.

 

Nel dibattito politico odierno, poltrona e il suo plurale ricorrono spesso, come è appena il caso di dire, esalando gli olezzi tradizionali dei quali si è già fatto cenno: anti-parlamentarismo, insinuanti ipotesi di complotti e tradimenti, riferimenti a poco nobili parti del corpo. Intorno a esse, circola inoltre una famiglia di derivati, poltronismo, poltronista e così via: forme già registrate, per esempio, nel dizionario on line della Treccani.

Di fronte a tale nuova esuberante fioritura, non va allora dimenticato che il fenomeno pare perlomeno centenario. La memoria in proposito è infatti utile per intendere sopra quale terreno e con quale retroterra si sta verificando il nuovo rigoglio. Si potrà così collocarlo correttamente nei suoi valori ideologici e culturali, molti forse ancora una volta velenosi, certo non tutti proprio commendevoli e, in ogni caso, nessuno bene augurante.    

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Andrés Neuman, Frattura

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“A terra le cose giocano a modo loro. Guadagnano una piastrella, aspettano il proprio turno, si arroccano. Le correnti generano mulinelli, disordini microscopici. Un foglietto trascina il suo origami fallito. Il gelato che si scioglie sulla panchina è stato rotondo. Un accendino dà fuoco alle polveri che passano. Accanto alle macchinette, un paio di auricolari rimpiange le proprie orecchie. È appena caduto dai pantaloni del signor Watanabe, mentre si frugava nelle tasche e si recava infastidito a comprare il biglietto. Quando il suolo smette di essere suolo, gli auricolari cominciano a serpeggiare in mezzo ai passi: un fuggifuggi in stereo. L’accendino rimbalza, invoca la propria fiamma. La pallina di gelato allarga la sua ombra. Il foglietto allenta la pressione, dispiegando un testo che nessuno legge.”

Nell’agosto del 1945 l’aeronautica militare degli Stati Uniti sganciò, a distanza di tre giorni l’una dall’altra, due bombe nucleari sulle città di Hiroshima e Nagasaki, in Giappone. Le bombe avevano nomi deliziosi, lo sappiamo: Little boy, la prima, e Fat man, la seconda. Morirono centinaia di migliaia di civili, senza contare quelli che morirono dopo, per tacere di tutti quelli che portarono, che hanno portato, che portano i segni sulla pelle, o sottopelle. Le ferite che non si vedono e che non si rimarginano. Tutto questo è storia.

 

Il protagonista di Frattura di Andrés Neuman (Einaudi 2019, traduzione di Federica Niola) si chiama Yoshie Watanabe ed è, per una serie di circostanze oltremodo fortunate, sopravvissuto a entrambi i bombardamenti. La sua famiglia, genitori e sorelle, sono morte in quei giorni. Il padre mentre gli camminava accanto a Nagasaki. Yoshie è stato cresciuto dagli zii a Tokyo e, appena ha potuto, se ne è andato a studiare in Europa, a Parigi. Da lì, grazie a un talento per gli studi, per il lavoro e per la fuga, ha girato il mondo e ha vissuto in quattro grandi città: Parigi, appunto, New York, Buenos Aires e Madrid. Queste sono le basi sulle quali Neuman costruisce un romanzo che attraversa il novecento e arriva fino al 2011, al terremoto che precede l’esplosione di Fukushima. In quei giorni, Yoshie, da anziano pensionato è tornato a vivere a Tokyo, cercando forse un po’ di pace, ma il terremoto e l’esplosione lo condurranno su una strada che non è altro che il sentiero del passato. Le cicatrici restano lì, dormono per anni, ti fanno fare cose, prendere decisioni, ti portano via, ti fanno tornare e, al momento opportuno, ti inchiodano.

“Scoprii a poco a poco che è possibile accostarsi a una lingua grazie agli errori che i parlanti commettono nella nostra. Come nell’amore, gli errori parlano di noi più delle cose giuste. […] Brassens non cantava le  nostre vite. Ma noi facevamo il possibile per vivere come cantava lui.”

 

 

Andrés Neuman è nato a Buenos Aires e vive da tempo in Spagna; è considerato uno dei maggiori scrittori giovani (definizione che mette sempre un po’ i brividi quando si parla di quarantenni, ma così è) in lingua spagnola, è autore di romanzi, poesie e racconti, è stato indicato da Bolaño tra gli autori che terranno in mano le sorti del ventunesimo secolo. Di recente, Einaudi ha ripubblicato il suo bellissimo Il viaggiatore del secolo (uscito anni fa per Ponte alle Grazie) e Sur, qualche tempo fa, l’originale raccolta di racconti Le cose che non facciamo. Neuman è un osservatore delle cose e della condizione umana, ed è molto abile nel tessere storie che hanno un nucleo quasi invisibile alla radice. Nucleo che viene portato in superficie a poco a poco, attraverso l’utilizzo della lingua (resa sempre molto bene da Federica Niola), della storia, dell’ironia, dello stratagemma letterario, che non è un trucco ma un metodo.

“La fortuna, d’altra parte, dipende dal luogo in cui se ne parla. Lui credeva nella buona sorte del giallo. Il colore del sole, dell’oro, del muro che lo aveva protetto dall’esplosione. Finché non aveva scoperto con stupore che, in molti paesi, era un colore infausto. Quello della malattia, del tradimento, delle notizie scandalistiche.”

 

La storia di Yoshie viene narrata da quattro donne che lo hanno amato, nelle città in cui ha vissuto. Donne diverse tra loro, ma con alcune cose in comune. Tutte e quattro hanno capito Yoshie, tutte e quattro gli sono rimaste affezionate e hanno compreso il tempo del distacco, per alcuni momenti ne hanno afferrato il motivo; anche se il motivo vero è la somma di tante piccole ragioni inafferrabili. Le donne si chiamano Violet, Lorrie, Mariela e Carmen, leggendo ce ne innamoreremo, perché ci dicono di Yoshie, ma ci dicono di loro. Di com’erano prima, di come sono diventate dopo, di dove sono andate a proseguire le vite e con il loro aiuto viaggeremo dentro il novecento.

“Ogni cosa che vedo mi parla di ciò che non posso più vedere. La mia città è un’eco.”

Violet ci dirà di Parigi, in pagine che ai più attenti ricorderanno Annie Ernaux, la Parigi degli anni sessanta, delle soffitte, delle sigarette fumate di nascosto, delle passeggiate notturne, della musica di Brassens, del maggio francese, di quel profumo caldo e nuovo che sempre ci avvolge come nebbia quando ritroviamo Parigi e quegli anni in cui all’Europa sembrò di nascere daccapo e davvero.

Lorrie, che ha fatto la giornalista per tutta la vita, ci racconterà della frenesia stupenda di New York all’inizio degli anni settanta, di quella città mondo, che cambiava e che cambia di continuo. Il giornalismo, le corse di notte per una notizia, i taxi, le luci, la musica di nuovo, gli scandali della politica.

“A volte, quando sprofondo nel pessimismo, immagino che la storia di questo mondo sia stata scritta da un economista argentino.”

 

Mariela è Buenos Aires, la dittatura è da poco finita (anche in quel caso ci sono ferite che non passano mai), l’Argentina si rimette in piedi, o ci prova. C’è un gatto di nome Walsh, ed è l’omaggio (non ho dubbi su questo) che Neuman riserva a Rodolfo Walsh.

Ci saranno Carmen e Madrid, nel nuovo secolo. La Madrid degli attentati, ma anche la capitale che è mutata in tutti gli anni in cui Carmen l’ha vissuta, prima povera e poi ricca, dopo una via di mezzo. Bellissima.

“Tutti vogliamo tornare alla normalità, ma mi domando se possiamo. Persino se dobbiamo.”

Yoshie con queste donne ha attraversato il tempo, ma che uomo è stato? Un ottimo dirigente, una persona gentile, un uomo che ha cambiato amori e lingue –  questo romanzo è anche un piccolo saggio sull’interpretazione dei linguaggi, sulla traduzione, di come ci si possa amare e riconoscersi in idiomi diversi –,  modi di vivere e di rinunciare.

Il kintsugi è una pratica giapponese molto antica che prevede l’impiego dell’oro per rimettere insieme i pezzi di un oggetto rotto. L’oggetto riparato diventa così un’opera d’arte, come si legge nella seconda di copertina del romanzo, il kintsugi è la celebrazione delle cicatrici, l’elogio delle linee di frattura. Yoshie è un uomo fratturato, le donne che lo raccontano nel tempo ci fanno intravedere che cerca da tempo l’oro o un altro materiale prezioso che sani la sua frattura.

 

“Gli viene in mente lo splendore velenoso dell’oleandro, fiore ufficiale di Hiroshima, il primo che germogliò dopo la bomba atomica. Gli oleandri sono in grado di resistere al dolore molto più a lungo dei giardinieri che li coltivano.”

La storia di un uomo e di un secolo, entrambi fratturati: chi sarà in grado di praticare il Kintsugi? Nei capitoli, alla voce delle quattro donne si alterna quella di Yoshie, solitario e irrequieto che segue dai notiziari l’evolversi del disastro nucleare di Fukushima. Così come fa Neuman per le storie, Yoshie non resiste all’impulso di avvicinarsi al nucleo, di andare il più vicino possibile al disastro, che è come andare indietro all’infanzia, all’origine della frattura.

Neuman lavora su due piani, il presente di Yoshie e i suoi passati, alterna le voci così che questo libro suoni come un coro, che è intimo perché parte da storie private, ma non può far altro che essere il coro del novecento. Riflettendo, vien da dire, che apparteniamo tutti a certe fratture, sembriamo fortunati, perché quei fatti li abbiamo solo letti sui libri, ma forse non è così.

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Leoni nella tempesta

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Temuta o invocata, la pioggia è un’ospite irrinunciabile di ogni edizione della Mostra. E benché quest’anno si sia fatta attendere più del solito, non si è certo risparmiata: il penultimo giorno della kermesse, il Lido è stato flagellato da un temporale coi fiocchi. Il palazzo del Casinò si è via via riempito di accreditati bagnati e infreddoliti in cerca di riparo, mentre dalle finestre di una sala stampa più affollata del solito si poteva vedere lo spazio antistante il Casinò spazzato dalle violentissime raffiche di vento, sul quale correvano come minuscoli puntini impazziti gli ultimi incauti rimasti allo scoperto. 

L’immagine degli spettatori costretti in un luogo chiuso mentre fuori si scatena il finimondo ci è sembrata la descrizione perfetta dell’atmosfera che si respira durante il festival (durante tutti i festival): quella cioè di un microcosmo separato dal resto del mondo da un confine sottile e al tempo stesso invalicabile.

 

Anche quest’anno la militarizzazione del Lido, con i suoi posti di blocco e i suoi controlli tanto burocratici quanto inefficaci, rendono ancora più palpabile l’immagine di una Mostra come fortino che attende un misterioso nemico pronto a colpire all’improvviso: un po’ come i fantomatici “barbari” che premono alle frontiere dell’Impero nell’ultimo film del concorso, quel Waiting for the Barbarians diretto dal colombiano Ciro Guerra, inamidata quanto superflua trasposizione cinematografica di un bel romanzo allegorico d’intonazione buzzatiana, pubblicato nel 1982 dal futuro premio Nobel J.M. Coetzee (che qui firma la sceneggiatura). E proprio come i barbari del film, che nel finale si profilano all’orizzonte dopo una lunga attesa, così l’ultima alba del festival ha visto il cuore della Mostra preso pacificamente d’assalto dagli attivisti del Venice Climate Camp, che sabato mattina hanno occupato per alcune ore il tappeto rosso non solo per sensibilizzare l’opinione pubblica sul cambiamento climatico, ma anche per protestare contro il passaggio delle grandi navi nella laguna di Venezia. Una piccola invasione che ha bucato la quotidianità ovattata del festival, costringendo tutti quanti a un imprevisto quanto salutare “bagno” di realtà.

 

 

Si è conclusa così l’edizione numero 76 della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un’edizione partita, lo ricordiamo, fra polemiche più o meno sensazionalistiche e più o meno costruite, ma che ha finito per rivelare uno dei concorsi più omogenei degli ultimi anni. Priva delle “vette” della scorsa edizione (che schierava titoli come La Favorita, Roma, Nuestro tiempo, Peterloo, I fratelli Sisters), ma con un livello medio qualitativamente più alto, la selezione ha scoperto pian piano le proprie carte vincenti, dimostrando un’evidente predilezione per i temi legati alla famiglia (anzi, alle famiglie) e ai legami fra genitori e figli. Abbiamo visto donne in conflitto con la maternità (Ema di Larraín), famiglie che vanno in pezzi (Marriage Story di Baumbach) o che cercano in tutti i modi di rimanere unite (Gloria Mundi di Guédiguian, Wasp Network di Assayas, Babyteeth dell’unica esordiente in concorso, Shannon Murphy); figli alla disperata ricerca di padri (Ad Astra, The Painted Bird) e padri alla ricerca di figli (anzi, di figlie, come il David Thewlis di The Guest of Honour di Egoyan). 

 

Proprio la buona qualità complessiva della selezione ha reso piuttosto incerti i consueti pronostici; e certo deve aver creato non pochi problemi alla giuria, guidata da Lucrecia Martel. Il risultato è un palmarès piuttosto schizofrenico, con qualche esclusione eccellente (primi fra tutti Ema e Marriage Story). Del resto, la presidente non ha nascosto la mancata unanimità nei verdetti. Per cui, se la Coppa Volpi a Luca Marinelli per Martin Eden era in un certo senso scontata (l’attore, memore della professione marinaresca del suo personaggio, l’ha dedicata «a tutte le persone splendide che sono in mare per salvare altri esseri umani che fuggono da situazioni orrende»), non sappiamo spiegarci altrimenti il premio alla sceneggiatura a Ji Yuan Tai Qi Hao (titolo internazionale: No. 7 Cherry Lane), film d’animazione diretto dall’hongkonghese Yonfan che non ha certo nella scrittura uno dei suoi punti di forza. Probabilmente la giuria, che ha intravisto nelle proteste antibritanniche che fanno da sfondo alla vicenda, ambientata negli anni Sessanta del XX secolo, un riflesso delle attuali manifestazioni contro le ingerenze di Pechino sulla ex colonia inglese, ha cercato in modo un po’ goffo di mandare un messaggio politico “forte” (un’impressione ribadita dal discorso di ringraziamento del regista dopo la premiazione). 

 

Letizia Battaglia e Franco Maresco.


Il Leone d’argento per la regia a Roy Andersson per il suo Om det oändliga (About Endlessness), che arriva a distanza di soli cinque anni dal Leone d’Oro a Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza ha un po’ l’aria del riconoscimento alla carriera (l’ennesimo?) per un regista che, superati i settant’anni, non ha certo bisogno di conferme. Un discorso analogo si potrebbe fare per il Premio Speciale della Giuria, assegnato a La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco finalmente approdato al concorso principale. Sfrangiato e divagatorio come il precedente Belluscone (da cui riprende, in un’ambigua mescolanza di realtà e finzione, il personaggio di Ciccio Mira), l’ultimo lavoro di Maresco si concentra stavolta sulla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a 25 anni dalla cruenta morte dei due. A fargli da spalla-coscienza critica è Letizia Battaglia, presenza meravigliosamente destabilizzante di cui rimangono memorabili gli scontri verbali e gestuali con lo stesso regista (“Maresco, scettico di merda!”), costretto forse per la prima volta ad abbandonare il comodo ruolo di voice over per spostarsi davanti alla macchina da presa. Ma l’intonazione “civile” non si addice fino in fondo al temperamento nichilista di Maresco (che qui dà addirittura l’impressione di essere arrivato a odiare i propri freak): La mafia non è più quella di una volta raggiunge solo a tratti la cupa grandezza di Belluscone, anche se rimane comunque forte come requisitoria indignata nei confronti di un Paese ostinatamente senza Storia e senza memoria.

 

Un’aria di compromesso aleggia anche sui due premi maggiori. Per quanto riguarda il Gran Premio della Giuria a J’accuse di Polanski, c’era sicuramente la volontà di assegnare un riconoscimento a uno dei film più apprezzati di questa Mostra. Il fatto che non sia stato insignito del Leone d’Oro rappresenterà per alcuni il segno della grande onestà intellettuale della presidente dopo i (voluti) fraintendimenti e le polemiche dei giorni scorsi, mentre per altri apparirà come l’ulteriore conferma delle frizioni fra la stessa Martel e gli altri giurati. Il primo premio è andato così al Joker di Todd Phillips: un riconoscimento che a detta di molti va un po’ largo a un film costruito in gran parte sulle spalle del protagonista Joaquin Phoenix. Eppure sarebbe affrettato trattare Joker soltanto come un rifacimento. Certo, recupera un immaginario stratificato (come già si era osservato qui), ma nessuno dei film precedenti, per esempio, aveva lavorato così tanto sul motivo della risata come malattia, sia individuale che sociale: entrambi gli aspetti si rispecchiano creando un sistema falsificato di riflessi. Il volto così sofferente di Arthur Fleck funziona scenicamente come una maschera non solo quando ha il cerone, ma quando, anche senza trucco, si dispera, o si confronta con la madre – troppo stereotipata. «Il lato peggiore della malattia mentale» - dice Arthur a un certo punto «è che la gente si aspetta che tu ti comporti come se non ce l’avessi». Forse anche gli spettatori di Joker potrebbero aspettarsi un pagliaccio o un mostro o un freak e basta. Joker, invece, è un incubo: «- A cosa stai pensando?» – gli chiede la dottoressa nel finale. «A una barzelletta» risponde Arthur «ma non la racconto, tanto non la capirebbero». 

Rimane da interrogarsi sul significato da dare a questo premio: un’apertura al mainstream o una resa? Di certo una vittoria per la “Linea Barbera”, oltretutto rafforzata dal fatto che già da qualche anno, sulla scorta di esempi che vanno da Gravity a La La Land, fino a Roma, la vicinanza fra Leoni e Oscar, Biennale e Academy, sembra assottigliarsi sempre più.

 

“Babyteeth”.


In chiusura vorremmo invece soffermarci sui riconoscimenti agli interpreti di due film forse meno “chiacchierati” ma che abbiamo apprezzato in modo particolare. Il primo è il Premio Mastroianni al giovanissimo Toby Wallace per Babyteeth: un premio che non soltanto dà visibilità a un nuovo interprete, ma conferma le due qualità più importanti del film. Anzitutto le eccellenti capacità della debuttante Shannon Murphy nella direzione degli attori, qualità importante in un film in cui al centro del racconto non c’è un singolo eroe, ma la vita di relazione. Babyteeth ci narra di una quindicenne un po’ stralunata (Eliza Scanlen) che un giorno, mentre aspetta la metro per andare a scuola, viene buttata a terra da un ventenne tossico (Wallace, appunto). Questo evento dà vita a una paradossale e buffa successione di fatti sempre più strani, dentro i quali si inserisce, di scorcio, la malattia. Ecco: Babyteeth non è la storia di un’adolescente che si ammala di cancro, come parrà a qualche ingenuo. Una storia è linguaggio, forma, prospettiva, e Babyteeth va avanti così, rubando spazio al racconto della patologia, e facendo agire e dialogare i personaggi (oltre ai due ragazzi, i genitori, un fratellino, e i vicini di casa) dentro lo schema paradossale e vitale del nuovo sistema di relazioni provocato da questo assurdo e vitale amore, in cui tutti i personaggi, non solo la protagonista, percorrono un apprendistato alla cura: non solo del cancro. Babyteeth racconta qualcosa che poche volte si vede o si dice, vale a dire che una malattia non accade solo a chi si ammala, ma a tutte le altre persone che formano il suo microcosmo vitale. E questo spostamento di prospettiva avviene senza pathos, ma con grande vivacità: drammatica e emotiva. Come si finisce una vita, e un film che racconta la fine di una vita? Babyteeth, proprio nell’ultima scena, continua a farci ridere e a farci ammirare la regia come capacità di costruzione e selezione di ciò che è rilevante. 

 

Ariane Ascaride.


Il secondo è invece la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile ad Ariane Ascaride, per Gloria mundi di Robert Guédiguian. La nascita di una bambina, Gloria, appunto, diventa l’occasione per riunire, accanto ai due giovani genitori (Mathilda e Nicolas), e ai nonni: Sylvie (la stessa Ascaride) e Richard, il vero padre di Mathilda, Daniel, appena uscito dal carcere (dove si trovava per aver ucciso due uomini per difendere un suo amico). A questi cinque personaggi si aggiungono anche la sorella di Mathilda e il marito: Aurore e Bruno, che cercano di riscattarsi dalla posizione di perdenti sfruttando chi ha bisogno di far soldi o di lavorare in nero. Fanno tutti una vita disperata e disperante; i più giovani quando possono sniffano anche cocaina, o scopano male, e in posti brutti, imitando i porno casalinghi che trovano in rete. Eppure, la gente disperata in Guédiguian non è mai vista e rappresentata in maniera paternalistica, o umoristica, o peggio ancora morbosa.

 

Gloria mundi prende Marsiglia, una delle città occidentali più connotate, storicamente, dalla storia dei lavoratori, delle battaglie sindacali e dei conflitti di classe, per farci vedere la scomparsa totale della parola e della narrazione chiave di questa tradizione: solidarietà. La solidarietà non è più un affare per chi non ha i soldi, protesta proprio Sylvie (Ascaride): madre e nonna esemplare, ma del tutto ostile a ogni forma di ascolto verso gli operai che lavorano con lei e vorrebbero scioperare. «Ho bisogno di lavoro!», grida Sylvie, con una violenza disperata che ce la rende tanto antipatica intanto che ce ne fa vedere, senza ipocrisia, la verità umana. È la persona per bene della porta accanto pronta a votare per un leader razzista capace di intercettare le insicurezze dei poveracci. E proprio lei, Ascaride, attrice iconica del cinema di Guédiguian, lei che interpreta la figura chiave su cui più lavorano i motivi essenziali del film, rappresenta, in qualche modo, un personaggio in cui far convivere pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà.   

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Quando il vento dell'est: sul Russiagate e la democrazia in Italia

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Osservazioni semiserie

 

 

Affari, spionaggio, risate, preoccupazioni, un mare di chiacchiere e la qualità della democrazia in Italia. "Quando il vento dell'Est, ci porterà..." cantava Gian Pieretti nell'ormai preistorico 1966.

Ecco, a scandalo divampato, poi raffreddato, poi parzialmente riacceso, ma soprattutto a governo nazional populista caduto e sostituito è forse e pur sempre il momento di chiedersi che cosa esattamente ci porta l'aria che da qualche tempo, previo scoperchiamento del Russiagate, spira in Italia dopo aver gonfiato le vele del sovranismo salviniano anti europeo.

E subito sia detto onestamente, anche per acchiappare quel minimo di attenzione che un testo così lungo certamente scoraggia, che gli scandali sono belli specialmente all'inizio dell'estate; perché s'infuocano lasciandosi rapidamente consumare prima delle vacanze come un foglio compromettente tenuto con due dita per non bruciacchiarsi; ma quando alla fine la fiamma si spegne, è come se quell'accenno di fumo grigiastro ti desse appuntamento per nuove scoperte e promettenti rivelazioni: in autunno o come indicavano le note politiche della Prima Repubblica "alla ripresa"– mentre in verità la sarabanda non si è mai fermata, intensificandosi anzi nel vivo dell'agosto sudaticcio, dagli stabilimenti balneari alle stanze del Quirinale. Fino al varo settembrino del nuovo esecutivo, che certamente si connota in senso super-europeista e anti-russo; con il che lo scandalo finisce per rappresentarsi come punto di svolta, e insieme presagio, sirena d'allarme, rilevatore di ulteriori sviluppi, magari anche a futura memoria.

 

 

Puzza di petrolio: da Mattei a Bettino

 

Ora, non so quanto finora Moscopoli abbia scosso la coscienza civile. Temo poco, anche per malinconico sfinimento e rassegnata assuefazione. Durante la crisi di governo è risuonato qualche flebile allarme, "rischiamo un'Italia putiniana", satellite della Russia, e così via, ma più per dare addosso a Salvini che per meditato convincimento. Lo stesso ex presidente del Consiglio Conte, nel suo discorso di addio, è sembrato affrontare di nuovo la questione rivolgendosi direttamente al suo vicepremier: "La vicenda merita di essere chiarita, e sono venuto io in aula al posto tuo, senza ottenere neanche le informazioni del ministero. Ma sappi che il caso ha risvolti internazionali". A parte che Salvini lo sapeva meglio di lui, uno strano modo di riaprire la faccenda tenendola ermeticamente chiusa.

E però: forse l'unica grande e residua virtù degli scandali sta nella loro potenza rivelatoria. Nel senso che indicano, a volte confessano a loro insaputa non soltanto i possibili orizzonti della vita pubblica, ma anche i desideri, le debolezze, le smanie, le frustrazioni, le tentazioni e più in generale le umane caratteristiche delle varie classi e dei vari soggetti che il caso e la necessità, per non dire le elezioni democratiche e il fiorire di clan e cricche, portano a esercitare il potere.

E tornando quindi al vento dell'Est, l'unica certezza sensoriale per ora, inconfondibile al naso dei giornalisti di lungo corso, è una certa puzza di petrolio; o di gas, che non cambia un granché.

Oltre a movimentare una cospicua mole di quattrini e guadagni, da Mattei in poi, passando per Cefis e per le varie fasi del primo e sovvenzionato centrosinistra, qui in Italia i traffici petroliferi hanno il modo di delineare nuovi equilibri, alleanze e complicità. Quindi anticipano e segnalano snodi politici, che al giorno d'oggi si sono fatti internazionali e anche globali.

 

 

 

Nello specifico tran tran di governi e politicanti si tratta di accordi che vanno in porto, ma che possono anche saltare, o essere fatti saltare, pure in extremis; e in questo senso il malricordo va all'affare Eni-Petromin, che era la compagni statale petrolifera dell'Arabia saudita, a cavallo fra gli anni 70 e 80, il periodo della solidarietà nazionale; intricata vicenda grazie alla quale si comprese, con la partecipazione straordinaria dell'Eni e della loggia segreta P2, che la vita pubblica aveva trovato in Bettino Craxi un nuovo e ingombrante protagonista.

Breve riepilogo. Quando tutto sembrava filare liscio, di punto in bianco il leader del Psi si mise a fare il diavolo a quattro per affossare il conveniente affarone, che com'è ovvio comportava una ancora più conveniente stecca per oliare i meccanismi dell'accordo. Bettino si era convinto che una buona parte della tangente sarebbe ritornata in Italia, un po' come nella vicenda moscovita, in quel caso consentendo ai suoi alleati della sinistra socialista (non ancora "ferroviaria") che faceva capo a Claudio Signorile e al capo del governo democristiano, il solito Andreotti, di rafforzare l'alleanza ai suoi danni e a tal fine, esclusi gli spiccioli, comprarsi il Corriere della Sera. Come ovvio nulla di tutto ciò fu mai provato, né forse ce n'era bisogno.

 

 

Ma siccome la storia è fatta di minuti e leggendari particolari, non di rado tutt'altro che nobili, si tramanda che ad avvalorare i sospetti craxiani fu una lunga e snervante riunione tenutasi su altri argomenti "a studio", come diceva Andreotti intendendo il suo particolare e intimo Centro Studi Lazio; riunione nella quale lui, o forse era Rino Formica, comunque si accorse con raccapriccio che Signorile non aveva neanche bisogno di chiedere dov'era il bagno (quello stesso in cui ogni mattina il Divo veniva farsi radere dall'ex barbiere della Camera, intrattenendosi nel frattempo con l'interlocutore di turno che veniva fatto accomodare "sul trono", come Andreotti designava il bidet).

Sia come sia, il contratto Eni-Petromin venne bloccato, la solidarietà nazionale finì poco dopo e Craxi ebbe prenotato un posto a Palazzo Chigi.

 

 

 

Apocrifi e dossier dalla Russia: maneggiare con cura

 

Anche l'affare che andava imbastendosi nella ormai celebre conversazione dell'hotel Metropol di Mosca sembra definitivamente compromesso. Ma specialmente in questo caso l'origine e lo svolgimento dell'impiccio, nonché le modalità del suo affossamento paiono al momento, se non misteriose, almeno poco chiare.

Ciò detto, dall'arcano e terribile Petrolio pasoliniano, con i suoi riferimenti alle stragi degli anni 70, fino alle timidezze italiane nei confronti di un paese produttore come l'Egitto sul caso del povero Regeni, Sua Maestà il Grezzo ha la tendenza a dettare legge. E tuttavia ciò che arriva dalla Russia, dai suoi oleodotti e gasdotti, ma anche dai suoi alberghi e dai suoi archivi, è sempre un po' da prendersi con pinze supplementari.

Si pensi, primissimi anni 90, alla cruda e cinica lettera di Palmiro Togliatti a Vito Bianco sulla questione dei prigionieri italiani in Russia: missiva poi risultata al tempo stesso vera, falsa, resa illeggibile dalla fotocopia, male dettata e peggio interpretata al telefono, gettata quindi nell'agone, però goffamente, avendo attribuito alla penna del Migliore, gelosissimo delle proprie preferenze filosofiche e letterarie, un eccentrico riferimento al "divino Hegel".

 

 

  

 

Così come sembrò nel migliore dei casi singolare alla fine dello stesso decennio l'apparizione, sempre da Mosca via Londra, del cosiddetto dossier Mitrokhin, dal nome dell'archivista del Kgb che giorno dopo giorno per anni e secondo enigmatici criteri avrebbe sottratto documenti d'ufficio conservandoli all'interno delle bottiglie del latte, a loro volta seppellite nel giardinetto di casa.

Tra parentesi quadra. In una di quelle schede, compilata nell'estate del 1978 dalla Residentura di Roma, mi ritrovai vent'anni dopo impigliato per i capelli, anzi per i riccioloni che a quel tempo portavo fluenti. Giovane giornalista, avevo scritto in quei giorni per “Panorama” un articolo nel quale davo conto dei sospetti di alcuni democristiani nei confronti degli Usa a proposito dell'assassinio di Moro. Gli spioni russi accreditarono quel mio acerbo scritto come uno dei succosi e nutrienti frutti dell'"operazione Shporà", o Sperone, prendendosene ovviamente il merito e facendomi passare come un allocco. In realtà a quel pezzo avevo lavorato sodo e del tutto a digiuno da fonti sovietiche, non essendoci del resto alcun bisogno di qualsivoglia sperone per giustificare la diffidenza – e i sensi di colpa – di parecchi dc, a partire dall'entourage moroteo, rispetto a qualche scherzetto giocatogli oltreoceano.

Parentesi tonda. Scoprii in seguito, non senza qualche postuma preoccupazione, che oltre a essere finito nelle schede del rapporto Impedian, l'altro nome delle carte Mitrokhin, quello stesso articolo che il mio direttore di allora, Lamberto Sechi, intitolò "Moro come Kennedy?" aveva destato anche lo sdegnatissimo interesse dell'ambasciata americana. Tuttora mi pare stramba l'idea di essere stato, a quell'età, così letto in sede internazionale. Ma non posso dimenticare la potente approssimazione (nella scheda si parlava di un Consiglio nazionale democristiano tenutosi il 31 giugno!) e la disinvoltura anche un po' truffaldina con cui gli spioni sovietici della capitale, sede quant'altre mai agognata, si giocavano quel lavoro per farsi belli "colli Superiori", come si dice appunto a Roma. Ma pazienza.

 

 

Se per la lettera insieme fasulla e veritiera di Togliatti l'allora presidente della Repubblica Cossiga, che a quei tempi si agitava moltissimo, propose nientemeno che una Commissione di storici cui nessuno volle dare seguito, ecco che sul dossier Mitrokhin, a partire dal 2001, per impulso del centrodestra vittorioso, fu insediata e lavorò effettivamente e a lungo, tra avvelenamenti e buffe scenette, una Commissione parlamentare d'inchiesta, presieduta da Paolo Guzzanti, organismo la cui maggioranza non difettava di attitudine dietrologico-cospirativa, bizzarrie testimoniali e qualità dei suoi esperti, uno dei quali, già guardia ecologica nel parco del Vesuvio, finì anche dentro.

Lo scopo della maggioranza, a semplificarlo ma non troppo, consisteva nel dimostrare che l'intera politica italiana era stata praticamente teleguidata dal Kgb, nella recente fase del centrosinistra attraverso i servizi segreti italiani; ma siccome l'appetito vien mangiando, alcuni commissari berlusconiani e di An si misero di buzzo buono nel cercare di rimediare anche qualche pezzuola d'appoggio per sostenere che l'ex leader e premier dell'Ulivo Romano Prodi, a quel tempo presidente della Commissione europea, era stato in pratica e continuava ad essere un agente dei sovietici e di quanti ai sovietici erano succeduti al Cremlino – cosa che avrebbe comportato qualche problemuccio internazionale e supplementare.

 

 

Sennonché l'impiccio degli impicci, per certi versi anche abbastanza spassoso, era che nel frattempo il presidente Berlusconi, per il quale l'arma elettorale dell'anticomunismo era tanto fervida quanto retrattile, andava stringendo rapporti sempre più stretti, sia politici che economici che personali e privati, con il sopraggiunto leader russo Wladimir Putin, che bene o male proveniva proprio dai ranghi del Kgb. Per cui il presidente Guzzanti e 40 poveri membri della Commissione Mitrokhin, più i funzionari e i consulenti e i documentalisti, mentre i giornalisti se ne stavano già da tempo sovranamente disinteressando, si trovarono appesi come il classico caciocavallo messo a stagionare nel freddo buio del cantinone, in attesa di finire nel dimenticatoio.

 

Come riciclare il "Barbarossa"

 

Vale dunque ripeterlo: tutto consiglia di maneggiare con un supplemento di accortezza ciò che proviene da laggiù.

Non solo per par condicio, tale cautela è da considerarsi reciproca e vicendevole anche da parte di Mosca riguardo alle cose italiane. E in tal senso, fatta salva la differenza dei generi, vale purtroppo qui la pena di segnalare che nella breve stagione sovranista, fra i tanti anche decorosi prodotti dell'ingegno cinematografico a disposizione si è fatto in tempo a rifilare alle ferrovie russe, non si sa a quale prezzo, nientemeno che il "Barbarossa", il costoso e controverso polpettone leghista nella prima metà degli anni Duemila imposto alla Rai e incentrato sull'incerta figura di Alberto da Giussano, l'eroe del Carroccio. Le cui avventure saranno proiettate a beneficio dei passeggeri sui treni della Federazione.

A suo tempo Bossi visitò il set in Romania, come Mussolini per "Scipione l'africano" a Sabaudia e Andreotti "Ben Hur" al Circo Massimo. Forse a Salvini, a quel tempo dotato di orecchino e candidato alle elezioni padane nella lista dei comunisti farà piacere sapere che migliaia di guerrieri leghisti furono interpretati da altrettante comparse rom, a 400 euro la settimana. Bossi stesso figurò nella preziosa pellicola nelle vesti di un nobile lombardo.

 

 

Del "Barbarossa" il grande pubblico aveva felicemente perso la memoria quando un ciclo di intercettazioni ne tramandò il difficoltoso, ma pressante avvio produttivo: "Con questo cavolo di fiction del Barbarossa mi stanno facendo una testa tanta!"– sollecitava il povero Berlusconi raccomandando questa o quell'altra sua amichetta a un dirigente Rai. Inflitto oggi agli innocenti viaggiatori di quella sterminata nazione, dieci anni orsono il film ebbe la sua bella anteprima al Castello Sforzesco di Milano con ministri, autoblù, guerrieri a cavallo, bracieri e altri ammennicoli di residua e oramai superata piegatura celticheggiante.

Per cui la storia delle sòle suona varia e anche sproporzionata, ma in un modo o nell'altro conferma che pure i russi, francamente, è bene che diffidino di quanto gli viene mollato dal Belpaese.

 

Commedia padana: il finto tonto e lo scaricabarile 

 

"Ridicola" ha voluto definire Salvini, a caldo, l'inchiesta sul Russiagate. L'aggettivo è risuonato con uno sbuffo di solenne, ma poco convinta indignazione in una conferenza stampa nella quale, accaldato e con la consueta camicia bianca aperta più del necessario, l'allora uomo forte della politica italiana non sembrava in verità tanto disposto a riderci su.

Allorché le domande dei giornalisti si concentrarono sugli spostamenti, il ruolo e la presenza del suo amico e fedele Savoini in questo o quell'altro appuntamento ufficiale, a Mosca e anche a Roma, sull'aereo, alla Confindustria russa, al ministero, a Villa Madama, con gli imprenditori italiani e la nomenklatura di Putin, Salvini è sbottato: "Ma che ne so io che ci stava a fare Savoini? Chiedetelo a lui!".

E qui il vero e irresistibile senso del ridicolo ha calato sul banco del Viminale il suo asso di bastoni; non solo perché, come ha notato incredula mia figlia, tra Salvini e Savoini la distanza del suono è minima e lei all'inizio credeva che fossero la stessa persona. È che nell'eterna commedia italiana, insieme con il dispositivo dello scambio di persona, la figura del finto tonto, tecnicamente raddoppiato dall'espediente dello scaricabarile, si staglia con un'inesorabile vigoria comica.

Oltretutto nel caso della classe dirigente leghista tale effetto vantava già una sua consolidata notorietà, per cui nell'estate del 1994, invano confidando sulla distrazione procurata dai mondiali di calcio, un altro ministro dell'Interno, Bobo Maroni, sempre in conferenza stampa pretese di far credere ai giornalisti di aver apposto la sua firma su un provvedimento di depenalizzazione, in pratica una specie di amnistia in piena Tangentopoli, senza averne mai letto il testo.

 

 

D'altra parte il maestro di tutti loro, Umbertone Bossi, ha sempre mantenuto con la verità un rapporto tutto suo; e anche senza contare l'acqua santa del Po sversata nella laguna di Venezia con bimba vestita di rosa e volo di colombi, a parte l'insurrezione armata della Bergamasca ("rimbombava nelle valli il grido...") e la proclamazione di un Parlamento e poi di un governo della Padania, in un’apposita manifestazione celebrò il trasloco della seconda rete Rai a Milano, cosa mai decisa né mai realmente effettuata; e visto che c'era, l'anno appresso, anche l'installazione di un fantomatico ministero del Nord nella villa reale di Monza, pure mostrando in pubblico le banconote per arredare gli uffici. Si aggiunga che questi ultimi non disponevano di servizi igienici e che il portiere dello stabile smarrì quanto prima le chiavi, cosicché rimasero serrati per sempre – quanto alle banconote, converrà ricordare che giusto in quel periodo era in azione l'amministratore Belsito, con i diamanti in Tanzania, la laurea albanese del Trota e la preziosa cartellina intitolata "The family" da cui anni dopo si ebbe la sorpresina che pure la celebre canotta del Senatùr era stata acquistata a spese del contribuente.

E tuttavia la goffa presa di distanza di Salvini a scapito di Savoini consentì ai più zelanti fra i leghisti di accanirsi su quest'ultimo trattandolo – ah, ingrati! – alla stregua di un intruso, un imbucato, un fanfarone, un millantatore e poco mancò che gli dessero del mitomane per aver partecipato alle conversazioni del Grande Fratello dell'hotel Metropol. 

 

 

Già questo era abbastanza divertente, e al tempo stesso, come sempre accade in Italia, penoso. Ma l'andazzo acquistò maggior brio quando in tempo reale venne fuori che Salvini e Savoini comparivano a tutto spiano e per lo più sorridenti in un interrotto flusso di immagini autoprodotte e massivamente esposte dalle rispettive vanità social.

Li si vedeva insieme in pranzi, riunioni, incontri d'alto protocollo istituzionale con russi di ogni ordine e grado, oltre che nei corridoi degli alberghi di Mosca e perfino in posa sulla Piazza Rossa. Salvini sfoggiava in quell'occasione una maglietta con Putin in uniforme militare. C'è da dire che in quell'effigie il capo post-sovietico faceva la sua bella figura militaresca, dal che si può azzardare che proprio a Putin si fosse ispirato il vicepremier nei successivi travestimenti in uniforme.

Il punto delicato da dire è che gli scandali in Italia fanno sempre un po' ridere. Oddio, ogni volta che scoppiano sono brutti, d'accordo, e meglio sarebbe che non ci fossero. Ma con lo scorrere del tempo, anche velocemente, tipo due o tre giorni, sembra quasi che l'antico motto evangelico, oportet ut scandala eveniant, comporti un'appendice entro la quale, pure esaurito il valore istruttivo e pedagogico della vicenda, s'intravede a volte sullo sfondo, a volte controluce, a volte in primo piano, il nucleo incandescente dell'umorismo che in qualche modo riscatta le brutture del malaffare alle spalle di coloro che in genere e buffonescamente l'hanno procurato.

 

 

Totò e Peppino al Metropol

 

Da questo punto di vista Moscopoli è esemplare: un caso di scuola, a suo modo una lezione civile.

Più che evidente è la palese inadeguatezza di Savoini e dei suoi compari infilatisi a viva forza in una faccenda petrolifera e miliardaria assai più grande – come ammesso del resto dalla signora Savoini mamma del protagonista – di loro; oltre che pericolosa. Ma proprio il complemento spionistico – l'hotel moscovita, la registrazione e le immagini dei colloqui, la diffusione del tutto su un sito americano – assicurano alla vicenda legaiola un tocco da Totò & Peppino, sia pure virato in chiave padan–sovranista. Non solo, ma l'incombente fantasma dei servizi segreti – siano essi americani, russi, cinesi, italiani o di chissà quale altra potenza – ha subito impresso un rimbalzello per cui la nebulosa affaristica è pure incespicata verso il mondo ancora più indecifrabile del traffico d'armi, in questo caso dei mercenari filo-russi e filo-ucraini che si combattono nel Donbass; sia come sia è emerso l'immancabile & improbabile attentato forse in preparazione (ai danni, pare, di Salvini).

 

 

E già questo basterebbe ad accogliere il tutto con scetticismo. Ma la già intricata ed enigmatica vicenda del petrolio e del gas moscovita, con eventuale, preteso steccone pro-sovranista si è riprodotta generando in una settimanella la più scontata proliferazione di comprimari, complici, mestatori, procuratori d'affari, soci in accomandita, testimoni spontanei e tirati in ballo senza ragione, fino al titolare di un'agenzia di modelle russe e una bella ragazza, non modella ma impegnata nel putinismo militante, di cui si è letto che aveva aiutato i leghisti italiani e perciò era stata ricompensata con un panettone.

 

 

Va da sè che tale ambaradam costituisce da tempo immemorabile la più ovvia e indispensabile premessa per qualsiasi naturale cortina fumogena e azzardato depistaggio. Sempre con solerzia degna di miglior causa si può aggiungere che alcuni di questi personaggi in cerca di business per conto della politica erano detti un tempo, con qualche sdegnato distacco, "faccendieri". Il termine ha un origine più che altolocata, essendo entrato in circolo nell'anno 1513 in uno scritto di Nicolò Machiavelli; però, curiosamente, ma neppure troppo, nelle cronache di Moscopoli l'antico ruolo e a suo modo professionale del "faccendiere"è stato quasi soppiantato dal "facilitatore"– il che porta a malinconiche riflessioni sul grado di decadimento occorso anche nella lingua degli scandali, ormai definitivamente omogenei all'universo delle aziende e dei manager.

 

 

Quindi è partita l'anatomia patologica delle figure centrali. Per cui a carico di Savoini s'è evidenziata, insieme all'innegabile vicinanza a Salvini la fede "post-nazista" e il fatto che egli risultasse fra i proprietari dello stabilimento "Ondina" di Laigueglia, in provincia di Savona. Come ovvio, gli stereotipi sono ingiusti e parziali per tutti, compresi i fautori dell'ideologia rosso-bruna; è anche verò però che dopo il fantasmagorico exploit del Papeete, il "tipo da spiaggia" cominciava davvero a espandersi fra i ranghi dell'antropologia leghista, e non troppo a favore della sua credibilità.

Allo stesso modo, quando ci si è dovuti chiedere chi fosse Claudio D'Amico, l'altro iper-salviniano dedicatosi a intrattenere i rapporti con la Russia, e come tale immaginificamente insignito del titolo di "Consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale" nell'organigramma di Palazzo Chigi. Beh, neanche a farlo apposta tale D'Amico si era distinto quale fautore di un'operazione-verità sugli Ufo, tanto da figurare in camicia verde in un imperdibile video girato a Pontida: "I cittadini europei – osservava – hanno diritto di sapere se gli alieni visitano il nostro pianeta".

 

 

 

Soprannomi, gulag e musicarelli al Viminale

 

Sia D'Amico che Savoini – sia detto qua senza alcuna malizia – sono sposati a due donne russe, rispettivamente Svetlana, già interprete di Bossi, e Irina; ma a quanto è dato sapere purtroppo per loro i due mariti leghisti non parlano la lingua.

Anche senza appoggiarsi a brutali e facili sessismi, l'elemento femminile ricorre spesso nelle vicende che hanno a che fare con la Russia, ma nel traffico petrolifero assai meno del solito.

Tutti rigorosamente maschi sono in effetti i protagonisti: tanto i principali o supposti beneficiari, quanto i dispensatori di prebende energetiche fra i quali si delineano alfieri di un tradizionalismo dei valori che non si esita a definire reazionario. C'era poi al Metropol un signore di nome Gianluca Meranda, avvocato d'affari e internazionalista, del quale non si è mancato di sottolineare, quasi all'istante, che fosse non tanto membro della massoneria, quanto espulso dalla medesima, per ragioni non specificate, comunque da ritenersi non esattamente a maggior gloria del Grande Architetto dell'Universo.

 

 

 

Anche la presenza di massoni, pure nelle varie sottospecie di massoni in sonno, massoni in lite e massoni cacciati, è abbastanza ricorrente nella scandalistica domestica. Si tratta del resto di un mondo massimamente litigarello, ma ciò che forse spiega la diffusione di tanti liberi muratori nelle peggiori vicende è l'intraprendenza di chi, lungi dalle rare dispute ermetiche, aderendo alle logge cerca un punto d'appoggio da cui tentare la scalata sociale attraverso rapporti, amicizie, protezioni, contributi, prebende, inciuci, complicità e via degradando verso le inchieste giudiziarie, anche serie, specie nel mezzogiorno dove più oscura si avverte l'ombra della criminalità organizzata.

Sempre sui divani dell'albergone post-sovietico sedeva infine Francesco Vannucci. Anche di lui, quasi in tempo reale, le cronache hanno diffuso il soprannome: "Il Nonno". Donde la pronta replica: "Sono profondamente dispiaciuto d'essere indicato in modo a volte ironico a volte opaco come 'Nonno Francesco'".

La precisazione è giunta nei caldi giorni in cui la giostra delle rivelazioni, per lo più necessariamente imprecise, era su siti e giornali in pieno svolgimento; così, a titolo del tutto indicativo di un certo andazzo ambientale, oltre al Nonno e al Bagnino, fra i vari personaggi tirati in ballo, a volte senza ragione, ne è significativamente comparso uno allegramente presentato come "il Conte Mascetti", e cioè nello stesso modo in cui figurava Ugo Tognazzi in una delle più popolari commedie all'italiana: "Amici miei" di Mario Monicelli.

 

 

E di nuovo non è per essere pedanti, ma tocca pur sempre ricordare che i soprannomi, così efficaci a insaporire la vita della provincia, da sempre ricorrono abbondantemente nelle vicende leghiste. Vedi "Nosferatu" (il professor Miglio), "il Cernia" (Formentini), "la Nera" (Rosy Mauro), "Jo Michetta" (Speroni), fino al "Trota" (Renzi Bossi). Il guaio semmai è che si sono presto dimenticate anche le formidabili peripezie e frequentazioni dell'amministratore Belsito, per sua stessa definizione "il tesoriere più pazzo del mondo", che per il suo ufficio si affidò a un paio di curiosi individui, a loro volta soprannominati in via Bellerio "l'Ammiraglio" e "lo Shampato", quest'ultimo s'immagina per la cura riposta nell'esibire fluenti chiome – ma è solo un'ipotesi.

Pare invece acclarato che durante il colloquio moscovita, in un attimo di relax, qualcuno della "delegazia" italiana rivolgendosi agli interlocutori si sia concesso la libertà di scherzare: "Se avete qualche gulag, vi possiamo mandare un mucchio di gente dall'Italia". Al che un russo, anch'egli non ancora identificato gli ha retto il gioco chiedendo: "Per la riabilitazione?". E lo spiritoso sovranista: "Sì, mentale".

Con lo svolgersi dell'estate, non molto tempo prima di mettere fine alla coalizione di governo, Salvini ha smesso di definire "ridicola" l'inchiesta designandola "un film di spionaggio di serie B". Ora, la commedia in Italia non teme rivali, o meglio li assorbe e li integra estendendo l'ala su qualsiasi ambito dello spettacolo, non escluso il genere della canzone e del cinema cosiddetto "musicarello".

 

 

Con tale premessa, a un certo punto anche Al Bano, insieme con Toto Cotugno, è stato tirato per i capelli in mezzo al derby fra Russia e Ucraina. Nel fatidico mese di ottobre del 2018, quando si tenne la riunione del Metropol, il cantante, che con Savoini non c'entra nulla, ma in Russia gode della massima popolarità, venne ingaggiato e si esibì nelle pubbliche cerimonie moscovite per il centenario del Kgb. A dicembre, ricevuto da Salvini al Viminale, Al Bano si presentò al ministero dell'Interno con alcuni imprenditori stranieri recando in omaggio per il ministro un bottiglione del suo vino con tanto di etichetta personalizzata. La visita fece notizia perché durante l'incontro l'atmosfera si fece a tal punto spensierata che tutti i presenti si misero a cantare due popolari brani del tenore di Cellino San Marco, "Felicità" e "Nel Sole".

Ora, al netto del mischione tra gorgheggi e affari di governo, se gli imprenditori interessati alla produzione vinicola di Al Bano fossero stati russi, al limite la faccenda avrebbe forse potuto perfino meritare qualche approfondimento. Ma quegli imprenditori erano cinesi; e se pure tra vino e petrolio, sul piano strategico, energetico e commerciale le distanze paiono abissali, con un minimo di sconcerto vale la pena di segnalare che qualche giorno dopo la cantata del Viminale, Salvini cominciò a fare fuoco e fiamme contro il programma di scambi dalla frusciante denominazione Via della Seta. Ma anche qui, come sempre accade rispetto alle giravolte di una classe di governo ormai stabilmente incoerente, pazienza.

 

 

 

Tentativo di descrizione dell'anima russa

 

Imbastiti gli aspetti che con ingenua pigrizia si continuano a definire "di colore", toccherebbe adesso affrontare, con i poveri mezzi del giornalismo osservante e orecchiante, nientemeno che la questione russa, per giunta nell'ottica dei pregressi rapporti bilaterali tra il ceto politico "all'italiana" e quello di un paese tra i più fantastici del mondo. Esistono in proposito intiere biblioteche e fonti letterarie di così vivida umanità che non basterebbe una vita a studiarle e forse nemmeno due a comprenderle.

Così, chiedendo venia per l'inevitabile caduta nell'abisso dei luoghi comuni, si comincerebbe col dire che agli occhi dell'italiano medio i russi appaiono insieme pigri e vitali, eroicamente patriottici e passionali, romantici e maleducati, talvolta chiacchieroni, talaltra gelidamente silenziosi, ma soprattutto, e a loro modo, diversi come individui gli uni dagli altri, e dalle altre, con il che si è detto tutto e niente.

Con minore approssimazione si può essere certi che i russi alzano il gomito come nessun altro popolo dell'orbe terraqueo, fino a contemplare nelle loro lingua decine di modi per indicare diversi tipi e durata di sbronze; ciò nondimeno accudiscono i nostri vecchi con notevole umanità, e da quando i più ricchi fra loro vengono a passare le vacanze in Italia, oppure vi stabiliscono comprando ville e casali, spendono e spandono come forsennati, il che è un'ottima cosa, lasciando a taxisti, camerieri, inservienti, facchini le meglio mance che sia dato immaginare.

A tutto questo si può aggiungere che quel popolo lontano coltiva, sempre in interiore homine, un sorprendente senso del limite che trova forse origine negli immani spazi di una nazione, che è anche un impero il quale a sua volta riesce a essere al tempo stesso ghiacciato e torrido, nobile e grossolano, misericordioso e crudele; ma ecco che, per chiudere questa povera disamina, una vocina mi dice che per quanto riguarda i sentimenti, e una certa attitudine teatrale, e perciò anche una indubitabile cialtroneria, noi e i russi siamo fatti, se non gli uni per gli altri, certamente per intenderci. Risata facile e rumorosa, cuore in mano e mano sul medesimo nell'atto di promettere e rassicurare, lacrima scorrevole quando occorre, cioè spesso. Se nei commerci tale quadretto comporta la necessaria ambiguità a sfondo larvatamente predatorio – in questo senso vale la pena di rileggere sia la perorazione più "politica" rivolta da Savoini ai suoi interlocutori nelle conversazioni del Metropol, sia la gelida indifferenza degli smagatissimi interlocutori nel recepirla – al vertice della letteratura, della drammaturgia e della musica, si può azzardare che nessun altro popolo al mondo come il russo è in grado di competere con gli italiani nell'arte di trasferire nella vita quotidiana la commedia e il melodramma.

 

 

Le caramelle di Berlinguer e il formaggio di Gronchi

 

Ciò detto, gli uomini sono uomini, ma i sistemi ne condizionano senza dubbio gli sviluppi. Per cui si fa risalire a un'insospettabile Enrico Berlinguer, che dei sovietici non si fidava per nulla (mai foto con il colbacco e una volta sul posto sempre chiacchiere all'aria aperta per vanificare le microspie regolarmente poste nelle dacie in cui erano ospitate le delegazioni dei compagni italiani), insomma si deve a Berlinguer la proclamazione delle "tre leggi del socialismo reale".

E quindi, prima legge: grandi erano ogni volta i progressi dell'agricoltura. Seconda: i dirigenti mentivano sempre. Quanto alla terza, il segretario del Pci, di cui pare acclarato che la nomenklatura abbia tentato di toglierselo di torno in malo modo (procurato incidente automobilistico in Bulgaria, nel 1973) assicurava che le caramelle avevano "sempre" la carta appiccicata.

Occore dire che tali indefettibili norme traevano origine dalla realtà del socialismo realizzato e del sistema sovietico. Ma ormai a trent'anni dalla sua fine si può pensare che certe caratteristiche d'incerto e difettoso packaging nell'ambito della produzione dolciaria e oltre, non siano poi troppo mutate.

Molti italiani hanno variamente trattato con i russi. Alcuni, come Palmiro Togliatti, riuscendo anche a salvarsi la ghirba dalle purghe, magari pure approfittando della deportazione di altri inquilini dell'hotel Lux per appropriarsi delle stoviglie e delle coperte abbandonate in quelle torve stanze. Per tanti comunisti italiani, insomma, fu una storia lunga e complicata, fatta anche di terrore, delazioni, torture, dolori. 

 

 

Altri italiani, che comunisti non erano e anzi si proclamavano anticomunisti, però in quei paesi vedevano felici opportunità di vario genere, spesso e volentieri si imbarcarono in spericolatissimi esperimenti politici e diplomatici, così come altri ancora hanno concluso buoni affari; in questo senso è giusto ricordare Enrico Mattei, Vittorio Valletta, lo stesso Avvocato Agnelli.

I democristiani, solo alcuni però, si recavano in Russia per ragioni che erano insieme ragionevoli e inconfessabili. Al sindaco santo di Firenze, Giorgio La Pira, stava a cuore la pace, che in russo si dice "Myr"; al presidente della Repubblica Gronchi interessava fare del Quirinale il centro propulsore della politica estera e volle a tutti i costi andare a Mosca in visita di Stato portandosi dietro ogni ben di dio, compresi i tartufi; ma durante un brindisi l'interprete presidenziale toppò clamorosamente e invece di dire "Myr" disse "Syr", che significa formaggio.

 

Tra Ostpolitik e gravitas

 

Ad Amintore Fanfani Krusciov confessò, con un filo di preoccupazione, di avere anche lui i suoi "dorotei": li chiamò proprio così. Dorotei di marca bolscevica che qualche anno dopo, come già accaduto a Fanfani, puntualmente fecero fuori il leader del Pcus. Anche Andreotti, cui si deve anche un libro di memoria ad hoc, L'Urss visto da vicino (1988), coltivò con il ministro degli Esteri Gromiko e parecchi altri della nomenklatura relazioni più che amichevoli, testimoniate da lettere e testimonianze pubblicate nel suddetto volume di sapida, ma anche soporifera memorialistica. Quando il Divo parve spingersi oltre, spedendo l'ambasciatore italiano sulla Piazza Rossa in omaggio a qualche cerimonia di Stato che forse non lo richiedeva, Indro Montanelli lo criticò aspramente, pure soprannominandolo "Andreottov".

Da entrambi le parti si trattava comunque di astuti e flessibili negoziatori. Per gli alleati americani e i generali della Nato, che su questo terreno scivoloso tenevano un po' a guinzaglio i governanti italiani sia pure variando la lunghezza della corda, la sensazione era che un po' ci marciassero, nel senso che se ne approfittavano. Sapendoli per loro natura accomodanti, a Washington temevano che con la scusa della pace, come pure in osservanza alla parallela Ostpolitik messa in atto negli anni 70 della Segreteria di Stato vaticana, i democristiani cogliessero l'occasione dei rapporti con i sovietici per tenersi buoni i comunisti in Italia.

In questo senso l'analisi sarà pure stata rozza, ma Moro non lo era affatto, e tra gli ultimissimi suoi scritti – fu trovato in una delle borse che aveva con sé a via Fani – c'è un articolo per il Giorno che non fu mai pubblicato "per ragioni di opportunità" nel quale affrontava da par suo i temi e i tempi della guerra fredda, pure traendone alcune indicazioni di metodo per attenuarne gli effetti.

Nei giorni del Russiagate, in uno slancio di orgoglio postumo democristiano, Pierferdinando Casini ha intonato il peana: “Andreotti e Fanfani andavano in Russia con Agnelli, ma per portare lavoro a Togliattigrad, non è che ci mandavano Savoini”. Più o meno con gli stessi intenti comparativi il comunista Gianni Cervetti, un'altra figura che il mondo russo conosceva assai bene per esservisi formato per conto del Pci, ha osservato che ai suoi tempi i rapporti non solo passavano per via diplomatica, tagliando fuori le mezze figure "che si fanno gli affari loro", ma nel complesso tutto era improntato a una certa "gravitas".

 

 

Singolari avventure di mio padre Luigi 

 

E qui, a parte la gravitas, il contenuto già abbastanza soggettivo di queste mie semiserie riflessioni sui fatti del Russiagate, è destinato a prendere un'impennata ancora più personale ed eccentrica per motivi famigliari, avendo io fin dalla più tenera età sentito parlare dei russi e degli altri popoli dell'Est dalla persona a cui ho voluto più bene perché mi ha trasmesso la maggiore curiosità sugli uomini e sulla vita. Parlo di mio padre che dopo una bella e ricca, per lui, esperienza nel mondo della produzione cinematografica, restato per un po' senza lavoro, nella seconda metà degli anni 60 s'impiegò nell'Ufficio relazioni pubbliche della Finsider, la finanziaria siderugica delle Partecipazioni statali che attraverso l'Italsider produceva a Taranto degli enormi tubi di cui in pratica i sovietici erano gli esclusivi acquirenti.

Tra gli incarichi di mio papà Luigi c'era dunque anche quello di tenerseli buoni spupazzandoseli in lungo e in largo allorché i loro papaveri e tecnici venivano in Italia, come pure accompagnando nell'Est le delegazioni italiane. Inoltre andava spesso in Bulgaria, a Sofia, dove una volta lo accompagnai dodicenne scoprendo che all'albergo Balkan le prostitute parlavano emiliano; e a Plovdiv, sede di una famosa fiera industriale dove la Finsider cercava di vendere altri tubi d'acciaio o ghisa, e dove lui soggiornava presso i signori Filipov, sui quali a casa nostra scherzavamo fosse ormai divenuta la sua seconda famiglia. Da questi viaggi tornava stanco di yogurt e violini e con le valigie piene di essenze di rose e pessimi distillati di prugna.

Curioso e affabile, oltre che astemio, una volta fu costretto a bere e si ubriacò, ma gli prese dapprima teneramente, poi tristissima per le condizioni di vita di quella gente e pianse un'intera notte con un russo, o forse era un bulgaro, che comunque aveva scelto lui per sfogarsi. Anche così aveva comunque finito per accumulare una certa esperienza sulla vita e ancor più sulla nomenklatura d'oltrecortina, tanto più ragguardevole se si considera che il capo della siderurgia dell'Urss, poi ministro del Commercio con l'Estero dell'Urss era, come da familismo amorale d'impianto sovietico, il figlio di Leonid Breznev, Yuri.

A mio padre debbo perciò fantastici racconti anche sugli intermediari e i marpioni delle trattative, sulle reciproche pigrizie riscattate da lampi di geniale adattamento democristian-sovietico, sulle povere spie che senza averne alcuna vocazione e dopo essere stati presentati agli ospiti con le funzioni più vaghe, quel regime inutilmente poliziesco metteva alle calcagna dei funzionari e dirigenti Finsider. Di fede vagamente socialista, all'aeroporto Luigi si rese conto di come talvolta i poliziotti, gli addetti alle dogane e gli inservienti russi, malpagati e ingrugnati, accogliessero malamente i festosi gruppi di comunisti che giunti dall'Italia alla ricerca del paradiso, si vedevano aprire sgarbatamente le valigie, talvolta pure destinate a perdersi o in qualche caso prese anche a calci.

Dai suoi racconti veniva fuori un mondo generalmente asfittico e claustrofobico, di rara inefficienza, però rischiarato da una straordinaria umanità e simpatia, dai pensieri e dai desideri che in tanti russi impediti a viaggiare accendeva l'Italia, la sua bellezza, la sua lingua, la sua cultura, la sua musica. Mio padre era un tipo sensibile e si commuoveva anche. C'era un pezzettino di Russia, diceva, in tutti gli italiani.

Per le occasioni in cui i sovietici venivano a Roma o alle acciaierie di Taranto, si era organizzato un singolare parco interpreti composto anche da discendenti di nobili scappati dalla rivoluzione bolscevica che spesso venivano bullizzati dai giornalisti al seguito del potente Yuri. Di uno di questi interpreti, principe dal cognome bizantineggiante, conservava una sdegnata lettera, una sorta di relazione-reclamo che mi lesse con voce impostata, gli occhi lucidi, ma anche un lampo di divertita meraviglia. Ne ricordo a memoria un brano: "Usciti dal ristorante, alticcio, uno dei giornalisti al seguito – protestava il povero nobile russo – mi guardò fisso uscendosene a freddo con la più volgare delle espressioni: 'Sono stato con tua madre!'". Che poteva fargli, povero papà Luigi?

Era un lavoraccio anche il suo, appresso a questo caravan serraglio. Una volta s'ingegnò a far vedere ai padroni delle ferriere del Supremo Soviet i più begli aspetti di Roma, gli squarci più suggestivi e ricchi di storia, le strade più chic, i negozi più eleganti, e tutto si svolse nella totale e annoiata indifferenza di Breznev figlio. Solo durante una passeggiata l'ultimo giorno Yuri dette segni d'attenzione impuntandosi come un somaro dinanzi alla vetrina di un negozio residuale di rasoi da barba ed elettrodomestici dietro piazza di Spagna. Quanto ai primi, c'era la leggenda che in Urss se ne producessero del peso di un chilo e mezzo, quindi tutt'altro che agevoli alla rasatura. Ma in realtà il capo della siderugia era rimasto incantato da una radio transistor a forma di pallone, a scacchi bianchi e neri. Lo volle e immediatamente gli venne comprato.

Mi rendo conto che di questo passo Moscopoli si allontana, ma visto che fin qui sono arrivato, non posso fare a meno di ricordare l'atto sacrificale più crudele cui Luigi si sottopose in un ristorantino da lui scelto con cura e raggiungibile attraverso un grazioso ponticello in legno per far mangiare i russi praticamente sopra le acque del lago di Bracciano. Avvertenza: è un racconto un po' forte, lo si prenda come un estremo tributo filiale al lavoro – che non sempre evidentemente rende liberi. Nell'ispezione dell'estremo minuto, perché tutto, ma davvero tutto fosse a posto, rientrava fra le mansioni del perfetto public relations man la visita ai "servizi"; nell'espletare quest'ultimo compito, e quando già dalla finestrella si intravedeva il corteo di auto nera che aveva imboccato la stradina che conduceva al posteggio, Luigi si accorse che la tazza del cesso era praticamente intasata da un unico enorme – eh sì! – stronzo. Tirò allora la catena. Niente. La ritirò. Niente. Ricordo che nel racconto non riusciva a nascondere, oltre al panico per l'imminente arrivo della nomenkatura, l'orrore, ma anche la meraviglia per quella spaventosa creatura: "Gli mancava la parola!". E qui sospirava, per certi versi ispirato, e poi rassegnato e inorridito, preparandosi a raccontare il "lieto fine", che tuttavia non comportava esattamente un sospiro di sollievo. Perché dopo essere sgattaiolato in sala, fra i tavoli imbanditi, Luigi afferrò una forchetta d'argentone e come in un fumetto o in un cartone animato, precipitatosi a tutta velocità nel luogo di quella raccapricciante epifania, piegato concentratissimo sulla tazza infilzò con chirurgica precisione l'anonimo gigantesco stronzolone e gettò il tutto dalla finestrella nel lago di Bracciano, plòff.

 

 

 

 

Il senso di Limonov per la politica italiana

 

E adesso ti voglio a riprendere il filo del Russiagate e della sua potestà segnaletica nel quadro dei nuovi equilibri geopolitici.

Ma al di là delle narrazioni paterne, che pure per la loro stomachevole risonanza apprezzavo al massimo grado, ecco che nei primi giorni dello scandalo (che in realtà non erano i primi essendosene parlato già nell'inverno e persino in due meritevoli libri) comunque nella fase estiva, sono rimasto colpito da quanto detto da Eduard Veniaminovič Savenko, in arte Limonov, il fantasmagorico protagonista del libro di Emmanuel Carrère. Interrogato da una giornalista sullo scandalo di Salvini-Savoini, non senza aver espresso la sua riprovazione soprattutto nei confronti di chi speculava su quella vicenda, Limonov fece un'osservazione che ne risvegliò diverse altre: "La politica italiana è diventata una cosa vergognosa, simile alla politica russa".

Bene. Per quanto affascinante sul piano narrativo, un appassionato avventuriero non è la miglior fonte per trarre analisi di ordine politologico; ma quella sua netta e sconsolata suggestione sulla rassomiglianza tra la vita pubblica italiana e quella russa suonava come conferma di un'intuizione che era balenata in mente ormai diversi anni orsono.

Detta in modo fra il profano e il brutale, a partire dal decennio scorso, ma forse anche prima, mi era parso di comprendere che molto ci stava arrivando, in termini di forme e sostanza proprio dall'Est, come portato del vento della canzone di Gian Pieretti.

Ex oriente lux, diceva spesso mio zio Nuccio, grandissimo medico omeopata. Che fosse una illuminazione rassicurante era un altro discorso. Ma le rovine lasciate sul terreno all'inizio degli anni 90 fra Tangentopoli, Mani Pulite, referendum elettorali, affermarsi della Lega e berlusconismo, in pratica gli effetti della fine della guerra fredda e del crollo della Repubblica dei partiti, insomma, tutto questo aveva qualcosa in comune con quanto accadeva in quei paesi che con minimo anticipo rispetto a noi si erano tolti di dosso il peso scomodo del comunismo per darsi, senza tante teorie, una forma di democrazia che andava assestandosi in modo un po' particolare.

Ecco: per certi versi, certi sviluppi, certe apparenze, certe atmosfere, questo lento, ma anche rapido assestamento sembrava procedere come un modello che trovava un corrispettivo anche qui da noi. Come una specie di destino sincronico e parallelo.

Vero è che la faccenda della democrazia in Russia si era sempre posta in Italia in modo problematico, tanto che già nel 1944 Togliatti in persona si era cautelato con il giovanissimo Andreotti, allora sottosegretario di De Gasperi, chiarendogli che la forma di governo laggiù "non era di stile inglese come da noi"; però a suo modo la democrazia "esisteva, e risultava dalla pluralità delle voci di categoria che contribuivano a formare la pubblica volontà".

 

 

E tuttavia, mezzo secolo dopo, l'ideuzza che gli italiani avessero da guardare proprio ciò che succedeva da quelle parti per capire come avrebbe buttato da noi, mi pareva certo un po' bizzarra, singolare, eccentrica, come del resto tante me ne vengono in testa. Uno dei miei numerosi abbagli. Però anche mi capitava di riceverne di continuo evidenze e testimonianze, prove e riprove, varianti, indicazioni, adattamenti, per non dire lampi, ombre, risonanze, chiaroscuri e bagliori nel diuturno lavoro di spuntatura e setaccio nelle cronache politiche e non solo.

Oggi, devo dire, quella specie di intuizione sull'"Italia dell'Est", come già l'aveva brevemente definita la pubblicistica craxiana all'inizio dei 90, mi pare onestamente meno campata per aria. L'ultima conferma – e anche piuttosto sinistra – a cura del leader sovranista ungherese Viktor Orban: "Nel 1989 pensavamo che l'Europa fosse il nostro avvenire. Oggi pensiamo di essere noi l'avvenire dell'Europa". Là dove mettendo l'Italia al posto dell'Europa la sequenza orbaniana potrebbe funzionare purtroppamente, per dirla con Cetto Laqualunque, anche meglio

 

E noi faremo come la Russia

 

Non molto tempo fa, su cortese e lusinghiero invito, mi è capitato di partecipare in qualità di giornalista-relatore a un seminario di scienziati della politica. In tale consesso ho potuto constatare che i modelli di riferimento di quel gruppo di accademici e comparativisti erano ancora e strenuamente anglo-sassoni.

Dal loro osservatorio e secondo i paradigmi di una moderna democrazia liberale alcuni illustri professori monitoravano le trasformazioni del Parlamento italiano. Il quale Parlamento, a mio modesto, approssimativo e come al solito troppo risoluto avviso, appariva in reatà a tal punto svuotato, privo di forza, autorevolezza e centralità da connotarsi o meglio da recuperare una qualche funzione ormai forse solo come una sorta di parco tematico della politica (tifo in aula più commemorazioni, convegni, concerti, teatro, presentazione di libri, eccetera).

Debbo riconoscere che la recente crisi di governo ha fortemente ridimensionato quelle mie convinzioni. Ma senza troppa timidezza, quando venne il mio turno, feci presente che le cose qui da noi, a cominciare da Montecitorio e Palazzo Madama, avevano preso da tempo una piega che con la democrazia occidentale non è che avesse più molto a che fare; e invece parecchio ne aveva con quanto andava succedendo negli ex paesi d'oltre cortina.

Mi ero preparato abbondantissimi esempi di come la politica italiana, nel vuoto di idealità e nel deserto di progetti, si fosse trasformata, grazie pure al grazioso contributo dei social, in un'attività abbastanza selvaggia di capataz e clan; un concatenarsi di eventi e formule che ricordava, specie per quanto attiene alla concezione della leadership e all'esercizio del potere, il sistema di "democratura" in voga nei paesi dell'ex blocco sovietico, in primis nella Russia di Putin. A studiare gli influssi del quale, aggiunsi, purtroppo quasi nessuno studioso si era dedicato ponendo l'Italia di oggi, quella di Salvini, dei cinque stelle e del governo di allora, al centro di una disamina che avrebbe riservato qualche sorpresa, oltre ad aprire un vasto piano di indagine.

Nella mia incalzante perorazione dimostrativa mi risparmiai la significativa circostanza, invero più esistenziale che politologica – ma di questo sempre più vive ormai la politica! – secondo cui un importante, anzi il più importante uomo di Stato e di governo degli ultimi trent'anni avesse battezzato e promosso con orgoglio il giaciglio della sua residenza romana "il lettone di Putin". Non lo feci, prima che per ritegno, per esattezza di cronaca, dopo essermi a lungo dedicato al tema ed essendo arrivato alla conclusione che quel letto king size a baldacchino non era precisamente un dono del presidente russo, ma un oggetto che Berlusconi aveva fatto realizzare da un ingegnoso falegname ricalcando un lettone raffigurato, questo sì, in un quadro donatogli da Putin.

E tuttavia, al netto dell'arredamento di Palazzo Grazioli, gli usi, i costumi, i codici, il linguaggio, lo stile, le mire, le credenze e le idiosincrasie dei politici italiani mi sembravano sempre più corrispondere a quelli della classe dirigente dell'Est. Questo dissi, probabilmente in modo più concitato del necessario, ottenendone in cambio, mi parve, una qualche accigliata meraviglia che nel coffe break si tradusse in una forma di cortese isolamento.

 

Pochi giorni dopo i quotidiani proponevano in foto le grottesche prove effettuate davanti a Palazzo Chigi per far entrare nel portone di piazza Colonna la gigantesca limousine di Putin: una Aurus Senat nera, lunga quasi sette metri e larga due, 8 cilindri, 4.400 di cilindrata, a bordo della quale, dopo il trionfo plebiscitario del 2012, il neo rieletto presidente della Federazione russa aveva attraversato una Mosca deserta e blindata per riprendere possesso del Grande Palazzo del Cremlino.

A scorrere le cronache dell'ultima visita a Roma si apprese che Putin si era portato appresso anche una figura che fungeva da assaggiatore anti-avvelenamento.

Vero è che le precauzioni alimentari, per così dire, e le suggestioni simboliche, forse giustamente, hanno poca presa sulla scienza politica. Così come occorre ammettere che, oggi come oggi, oltre al potere di attrazione esercitato dal neo-satrapismo dell'Est, l'osservazione politologica ha anche parecchio da vedersela con le mattane dei leader delle più evolute democrazie occidentali, a cominciare da Trump e Johnson. Eppure, come si dice: a ciascuno i suoi.

 


 

Mosca è il paese che amo

 

Nell'ottobre del 2018, il giorno prima dei colloqui del Metropol, in una riunione tenutasi a porte aperte nella capitale della Federazione l'allora vicepremier Matteo Salvini volle presentarsi dicendo che a Mosca si sentiva "a casa sua".

Non era probabilmente la prima volta che manifestava a una platea del genere questo suo giudizio insieme così personale e pubblico. Come molti esponenti della sua generazione, anche in politica estera spesso Salvini apre bocca e gli dà fiato; per cui dopo una visita compiuta insieme al senatore Razzi a Pyongyang fu prodigo di riconoscimenti addirittura verso il feroce e sanguinoso regime nord-coreano: "Ho visto un senso di comunità splendido. Tantissimi bambini che giocano in strada e non con la playstation, un grande rispetto per gli anziani, cose che ormai in Italia non ci sono più».

Ma tornando alla Russia, forse Salvini non sapeva che già nove anni prima, era il 17 maggio del 2009, sempre a Mosca, l'allora presidente del Consiglio Berlusconi aveva espresso l'identico concetto con le stesse parole: "Qui in Russia mi sento a casa mia". Sennonché Cavaliere, che di solito rilancia, ampliò la sua benedizione sostenendo che Putin, insieme a Medvedev, era "un dono di Dio ai russi".

È singolare, e al tempo stesso si spiega anche con i processi di rimozione della memoria pubblica quanto rapidamente sia evaporata quella delle res gestae di Silvio Berlusconi, che invece va ricordato proprio per aver pensato, detto e compiuto per la prima volta un'infinità di cose, a loro volta destinate a replicarsi. Ciò detto, appena eletto nel 2008 presidente del Consiglio, come atto inaugurale di governo nel primissimo week end utile prese baracca e Bagaglino e si trasferì a villa La Certosa per un week-end di spettacoli e spettacolini avendo come ospite di molto riguardo proprio il presidente Putin.

 

 

Era l'esordio della diplomazia berlusconiana, intimista e personalizzata, battuta spiritosa e pacca sulla spalla, session al pianoforte e barzelletta osé, visita panoramica nel parco, ma a un dato momento fu pur sempre necessario organizzare una conferenza stampa a due. Una giornalista russa fece dunque una domanda che Berlusconi ritenne sgradita a Putin, per cui con l'idea forse di sdrammatizzare s'intromise facendo il gesto della mitragliatrice e puntandola verso la disgraziata cronista, che si mise a piangere. I giornalisti italiani non volevano credere ai loro occhi; ma a pensarci col senno di poi, quelle lacrime dicevano assai più, e di più sinistro, di quanto l'inopportuna spiritosaggine berlusconiana volesse rimediare e/o significare.

Putin conosceva bene le meraviglie del villone sardo del Cavaliere, dove nell'estate del 2002 vennero ospitate due sue figlie.

 

Azzardo pirotecnico a villa La Certosa

 

Alla fine di agosto dell'anno seguente, sempre a Villa La Certosa, l'accoglienza fu speciale e “indimenticabile”, anche se non esattamente come l'aveva programmata il Cavaliere.

Il presidente della Federazione russa arrivò in Sardegna preceduto da una mezza flotta che comprendeva l'incrociatore lanciamissili “Moskva”, il cacciatorpediniere “Smetlivy” e la nave appoggio “Bubnov”. Per l'occasione, sempre nel tipico intruglio di potere esibito e relazioni d'amicizia, furono organizzate delle manovre al largo della costa sarda nelle quali i russi mostrarono in azione, con la speranza di venderlo all'Italia, anche il nuovo aereo antincendio BE-200. L'intrattenimento della serata venne affidato a Toni Renis, che contattò Andrea Bocelli mettendo in programma arie della “Tosca”, della “Turandot” e alcune canzoni napoletane; altre le avrebbe interpretate lo stesso Berlusconi in duetto con Apicella. Per ricercare un effetto di continuità fra la tavola imbandita, le piante del parco e le essenze odorose, con la supervisione di gastronomi e decoratori, sette mastri cesellatori lavorarono giorno e notte alla realizzazione di due incredibili trionfi scolpiti di frutta e verdura.

 

Ma l'evento più rimarchevole – e del quale si è avuto notizia diversi anni dopo – fu che durante uno spettacolo pirotecnico qualcosa andò storto e alcuni razzi puntarono direttamente sulla terrazza degli invitati. Non è difficile immaginare lo spettacolo pazzesco quando tutti, a partire dalle agguerrite guardie del corpo di Putin, pensarono che si trattasse del più temerario e clamoroso attentato mai compiuto nella storia umana. Putin comunque ebbe i pantaloni bruciacchiati, come del resto il Gran Cerimoniere Toni Renis, mentre il vestito della signora Bocelli rischiò la disintegrazione e Silvione afflitto non sapeva come scusarsi. Il presidente della Federazione la prese sportivamente, l'incidente "non ci rovinò la festa" ha poi ricordato ad Alan Friedman, cui si deve l'ameno e anche istruttivo resoconto.

 

Appena possibile, Putin ricambiò l'ospitalità nella sua fiabesca dacia, ovviamente senza razzi. Da grande amico degli animali una volta ebbe il piacere di presentare a Berlusconi un meraviglioso cavallino nano della grandezza di un cocker spaniel che gli si mise a scorrazzare fra le gambe; in un'altra visita gli offrì una sontuosa colazione all'aperto a meno 30 gradi regalando al mondo una formidabile fotografia di loro due ridenti e imbacuccati come eschimesi. Tornati in città, all'insegna del tifo machista, Putin accompagnò il Cavaliere ad assistere ad incontri di lotta libera e hockey su ghiaccio. La sera Berlusconi fu segnalato in un locale notturno di Mosca attorniato da belle ragazze. All'entrata l'orchestrina l'aveva salutato al suono di “Tu vuo fa' l'americano” – e in fondo un po' era anche così, ma il mondo correva e ogni confine andava perdendosi in un grande disordine.

 

 

 

Silvione e il Berlusconistan

 

Non so dire se si trattò di una reciproca sbandata. Ma certamente i due non la nascondevano. Forse anche quel tipo di relazione era entrato a far parte della politica estera; o forse, dopo anni e anni di disgelo promesso o fasullo, Berlusconi stava riaprendo una strada verso l'Est senza troppo preoccuparsi di tirare o meno la corda.

Alla luce di ciò che è poi accaduto – e ancor più di quanto potrebbe ancora avvenire – penso che al momento si sia erroneamente sottovalutato il valore politico della conferenza Nato-Russia del maggio 2002. Della quale, invece, in tanti giornalisti cogliemmo allora solo l'aspetto di costosissima baracconata, “un'atmosfera romana” era stato il comando presidenziale, quindi capannoni di finto marmo nell'agro, decine e decine di statue autentiche e in vetroresina con fasci di fiori tra le braccia e chilometri di prato a ingentilire televisivamente un patto che fin dall'inizio doveva risultare “epocale” – e magari, viene da pensare oggi, lo era sul serio.

Allo stesso modo, nonostante l'enfatico e affannoso pavoneggiamento in cui Berlusconi si esibiva a ogni piè sospinto, credo possa essere rivisto anche il giudizio con il quale lì per lì fu liquidato come pura fuffa il personale intervento del Cavaliere per scongiurare nel 2008 l'invasione russa della Georgia: “Putin – non perdeva occasione di proclamare Berlusconi, anche durante le cene eleganti – mi aveva rivelato le sue intenzioni di attaccare Tbilisi: voleva letteralmente appendere per il collo Saakhasvili. Se ciò fosse accaduto, sarebbe stata la guerra tra Russia ed Occidente ed è merito mio se le cose sono andate diversamente”. Ecco, stai a vedere che fu veramente così!

Il punto, o il guaio se si vuole, è che nel nuovo secolo era divenuto difficile se non impossibile distinguere tra la vita dei leader e quella delle nazioni. Per cui sulla scena un tempo compassata della politica internazionale, al posto di quelli che per anni si erano definiti rapporti bilaterali, prendeva vita e andava in scena la relazione fra un Berlusconi putinizzabile e un Putin berlusconizzante dalla quale emergeva una sempre più convergente antropologia del potere.

O almeno: gesti, atteggiamenti e consonanze estetiche attiravano gli sguardi nella stessa direzione; una tale e corrisposta amicizia che, dagli e dagli, portò Time ad assimilare l'Italia del Cavaliere a uno statarello satellite della Grande Russia, pure dandogli il nome di "Berlusconistan".

Nelle bancarelle del congresso di fondazione del Popolo della libertà, d'altra parte, fu messa in vendita una matrioska con le sembianze del Cavaliere che conteneva, dopo averle debitamente incorporate, le sue svariate vittime: Amato, D’Alema, Rutelli, Fassino, Veltroni. Analogo e originario oggetto esisteva ovviamente con le sembianze di Putin.

Del resto era naturale e al tempo stesso sorprendente come i due leader condividessero i medesimi interessi materiali e sentimentali, residenze da favola, devoti servi beneficati, graziose signorine in gran copia, guadagni energetici incalcolabili, lo Stato vissuto da entrambi come "una specie di dopolavoro – secondo Michele Serra – nel quale miscelare allegramente gli affari pubblici e gli affari loro".

 

 

Ancora più evidente era il gusto di stupirsi l'un l'altro seguendo i moduli un trasporto al tempo stesso grandioso e infantile. Per cui Putin fece guidare a Berlusconi l'idrovolante e pretese che assaggiasse, da una specialissima cantina, un archeologico sherry risalente al 1775; mentre l'ospite italiano, tornato in patria, oltre a esibire con vanitosa disinvoltura un giaccone personalizzato della marina russa, favorì di sicuro la nascita a Milano di un club di Forza Italia intitolato a Putin, pure omaggiando l'amico Vladimir – forse un riferimento al lettone – di un copripiumino che ritraeva in foto i due capi beati e sorridenti. A parte svariati soffietti sulle reti Mediaset.

C'è ragione di pensare – qualcosa uscì nella prima ondata di carte Wikileaks – che nella seconda metà degli anni duemila gli alleati americani, cui pure Berlusconi dedicava sforzi di pari e ruffianesca intensità, fossero un po' preoccupati, specie per via dei gasdotti. Per cui tennero duro con le sanzioni, anche contro i timidi sforzi italiani per allentarle. Sia come sia, le faccende d'approvvigionamento non avevano bisogno di essere incardinate a colloqui con appendice audio-video nelle sale del Metropol con la partecipazione del Bagnino del Ponente e di Nonno Francesco.

Negli affari di Stato e di quattrini Berlusconi sapeva il fatto suo, anche troppo. E pare di rivederlo in azione: espansivo, energetico, ospitale e così brillantemente ripetitivo nelle sue moine da far la figura della macchietta, ma senza mai rimetterci del suo. Come quando, davanti a Orban, si mise a magnificare la qualità delle donne ungheresi, pure consigliando i giornalisti italiani di farsi dare qualche numero e buon indirizzo dal primo ministro; oppure quando per lusingare i suoi interlocutori slavi fingeva pubblicamente di sentirsi in soggezione dinanzi alla loro prestanza fisica. Difficile dire se loro ci credessero; comunque accoglievano tutti di buon grado quel suo farsi piccolo e complimentoso, dal bielorusso Lukashenko al serbo Tadic, dal leader del Montenegro Djukanovic al bulgaro Bojko Borisov, che per tutto l'incontro a Sofia il Cavaliere si ostinò a chiamare famigliarmente Boris.

 

 

Piegato dalla bufera degli scandali sessuali – indimenticabile il tuffo nudo del ceco Topolanek a villa La Certosa – e poi nel suo lungo declino Berlusconi ebbe in ogni caso e sempre la certezza di trovare una sponda di comprensione e gratitudine da quella parte, oltre che da Putin in persona. Secondo il presidente russo quelle accuse nascevano “dalla gelosia e dall'invidia”. Attenzioni e cortesie che poi in patria Berlusconi stiracchiava da par suo: "Pensate che Putin mi ha persino proposto di candidarmi a premier da loro! Mi ha detto che i russi sarebbero felicissimi".

Poco prima del Natale 2013 sulla copertina di "Chi", house-organ dell'autocrazia di Arcore, comparve la foto del presidente russo che su di un tappeto rosso, avendo al fianco un Berlusconi allegro e convenientemente photoshoppato per non far troppo risaltare la differenza d'età, tirava una palletta a Dudù: il barboncino del Cavaliere, allevato e coccolato come i cani degli zar (si vedano, a tale proposito le impressionanti foto del primo genetliaco della bestiola, con tavola imbandita a Palazzo Grazioli, pacchi regalo e ciotola istoriata con osso...)

 

Imparare da Putin

 

Nel momento in cui Berlusconi, prima delle elezioni del 2018, ebbe il sentore di un possibile sfondamento dei cinque stelle, anche in qualità d'illustre apripista e fervido pioniere di quelle specialissime relazioni post-diplomatiche, arrivò a dire che in tal caso avrebbe abbandonato l'Italia: per andarsene a vivere, specificò, "in una dacia in Russia".

E certo sono cose che si dicono per dire, inutilmente e per giunta secondo un movimento circolare, giacché questa storia dell'auto-esilio si era già ampiamente cominciata a sentire proprio quando Berlusconi aveva vinto e rivinto le elezioni, ma poi come ovvio nessuno se n'è mai andato dall'Italia (e dove, poi?). Oltretutto, nell'esternare quelle sue preoccupazioni il Cavaliere si dimostrava del tutto ignaro che già nel marzo del 2017 alcuni grillini, guidati da Di Battista e Di Stefano, si erano recati a Mosca per cominciare anche loro a prendere le misure e magari portarsi avanti nelle relazioni con “Russia Unita”, il partito pigliatutto di Putin.

Però forse mai Berlusconi si sarebbe aspettato che vinte quelle elezioni, ad appena un mese dalla formazione del governo grillo-leghista, nel luglio del 2018, il suo ex alleato Salvini, giunto a Mosca come vicepremier per assistere a una finale di calcio, avrebbe accompagnato quella trionfale trasferta con una affermazione che valeva un programma: "Da Putin c'è molto da imparare".

 

 

Proprio su Doppiozero, un paio d'anni orsono, Giampiero Piretto ha spiegato bene le ragioni per cui Putin piace ai russi. In estrema sintesi: perché ha ridato vita all'anima di quel popolo agganciando il suo potere personale al passato prossimo; poi perché ha riscattato categorie che erano state svilite, sbeffeggiate e condannate come sovietiche; quindi perché, dopo aver in qualche modo favorito la circolazione dei consumi, rendendoli disponibili in patria come lo sono nella società occidentale, si è proposto come artefice di una restaurazione pseudo morale e pseudo religiosa.

E ancora, Putin piace perché ha saputo investire sulla propria immagine di capo e perciò sul suo stesso corpo, mediaticamente utilizzato come instrumentum regni, per cui occupa l'immaginario

mostrandosi a torso nudo, esibisce i muscoli, s'immerge nelle acque gelide per il rito ortodosso del battesimo di Cristo, e va a caccia, a pesca, nuota, cavalca, salta in moto, gioca a hockey su ghiaccio (lo fanno anche segnare, notò con una punta d'invidia Berlusconi) entra nelle gabbie delle belve, salva il cameraman dalla tigre siberiana.

Anche grazie a questo consenso gli è consentito di affermare con la massima tranquillità e naturalezza ciò che sui giornali europei ha fatto un certo scalpore, e cioè che la democrazia liberale è obsoleta, invecchiata, superata. A metterla piatta piatta,come forse non si dovrebbe, il risultato è che pochi in Russia, in pratica solo coloro che hanno a cuore i diritti umani e la correttezza delle istituzioni, si aspettano che Putin sia indulgente, mite, trasparente, democratico. La maggioranza, per il momento, oltre il 76 per cento, lo vuole come egli è: freddo e sicuro di sé, severo fino alla spietatezza, riflessivo ma sbrigativo, e maschio.

Per queste stesse caratteristiche Putin avrebbe (ha) molto da insegnare a diversi politici italiani che intrugliano, impicciano, girano a vuoto e pestano l'acqua sporca nel mortaio, frustrati dalla loro stessa inadeguatezza che li rende anche prepotenti e aggressivi.

 

 

Il solito uomo solo al comando

 

Sebbene l'argomento sia di una portata ben più vasta e impegnativa di quanto si riesca a indagare in queste osservazioni, tutto ciò che è avvenuto in Italia dal 1989 in poi – il trauma da fine regime, la lunga transizione, la definitiva crisi di sistema, lo svuotamento e snaturamento delle istituzioni, la prova per lo più fallimentare di varie tipi di leadership, dalla monarchia aziendale berlusconiana all'oligarchia auto-cannibalica del Pd fino alla diarchia pizza & fichi di grillini e leghisti – insomma tutto questo ha reso la democrazia italiana assai più malconcia di quanto sia confortante immaginare e sperare.

Tale percezione, in certi momenti, ha contribuito a far crescere l'idea che l'Italia potesse scivolare verso l'alleanza di Visegràd. Sempre mantenendo in un angolino della mente i traffici dell'hotel Metropol, non si vuole qui sostenere che il nostro paese sia condannato a farsi sovranista e a presto gemellarsi con la Russia; né che esista già una coincidenza, un'omologazione, un'osmosi con il populismo a filo spinato di certi regimi dell'Est. La partita è ancora ben aperta, ma a pensarci bene proprio la recente crisi di governo, allegramente definita dai suoi stessi sconsiderati protagonisti "la più pazza del mondo", ha in qualche modo confermato quanto la tentazione russa non le fosse estranea, sebbene nascosta dietro le naturali bizzarrie, gli immancabili accrocchi e le ripetute scemenze ridanciane. Neanche a farlo apposta, nei giorni in cui, al sommo dell'euforia balneare, Salvini reclamava i pieni poteri, a Mosca e in altre città della Russia andavano in scena rilevanti proteste di piazza, come sempre sedate da una messe di randellate e arresti di massa: anche questa, purtroppo, una possibile lezione putiniana.

Ciò nonostante, o forse per questo, il caos protrattosi qui oltre misura, le obiettive condizioni di degrado istituzionale, lo sfascio dei partiti, il mercato dell'insicurezza e della paura lascia pensare che una soluzione alla Putin eserciti in certi settori dell'elettorato nostrano una sua attrattiva. O meglio, nessuno più del leader dagli occhi di ghiaccio fa riemergere, riattivandolo in forme evolute, un modello di comando che pure dalle nostre parti gode di una certa ciclica rinomanza: l'uomo solo al comando, o se si preferisce l'uomo forte in una situazione di acclarata debolezza – Dio non voglia anche nel caso di qualche attacco speculativo.

 

Rai, sangue, suolo & gnocca

 

A parte qualche lavoretto sul web e sui social, in verità di ardua ricognizione e classificazione, un embrione di putinismo all'italiana qualche cosina ha cominciato a farsi vedere, nel senso autentico della parola.

La notte del trionfo sovranista alle ultime elezioni europee, Salvini si offrì alle telecamere nel suo ufficio di via Bellerio mostrando un cartello: "1° partito in Italia, GRAZIE". Alle sue spalle, sulla libreria, tra i vari libri, oggetti soprammobili e meta-amuleti di vario significato, dai gagliardetti tifosi al gufetto portafortuna alle sacre icone, si poteva comunque notare un ritrattino tascabile di Putin accompagnato da un fiocco o una bandierina con i colori della Russia, e la copertina di libro, pure con Putin: sguardo sotto zero, gorgiera iper-militaresca e copricapo con fregi dorati.

Si trattava dell'ammirata biografia dedicatagli dal giornalista Rai Gennaro (Genny) Sangiuliano, già in quota post missina trasmutatasi in sovranista e come tale, pur con tutti i pregressi meriti, promosso direttore del Tg2. Anche la Rai, come il petrolio, è un interessante indicatore di tendenze che a volte la attraversano, altre la trascendono, altre ancora anticipano gli sviluppi del potere, e in questo senso è significativo che a presiedere l'azienda di viale Mazzini sia stato imposto, pure con qualche difficoltà, un giornalista come Marcello Foa, le cui opinioni sono state spesso ospitate da “Russia Today”, emittente certo non ostile al regime.

 

Secondo le migliori tradizioni, che in passato assegnavano ai prodotti informativi nomignoli per così dire di stretta appartenza – “TeleNusco” (Tg1), “TeleCraxi” (Tg2) e “TeleKabul” (Tg3) – puntualmente la nomina del salviniano Sangiuliano ha fatto sì che il suo telegiornale fosse denominato "TeleVisegrad", cosa che a tutta prima non gli è dispiaciuta, anche se poi il buonsenso deve avergli consigliato di prendere cautamente le distanze: “La democrazia russa non soddisfa i miei standard di democrazia liberale, preferirei vivere negli Stati Uniti piuttosto che a Mosca". Ciò nondimeno, è parso eccessivo che proprio l'encomiastico biografo putinista sia stato scelto non solo per il maggior telegiornale, ma anche ascoltato dalla Commissione Esteri del Senato in qualità di esperto di questioni russe – ché davvero nelle università, nella diplomazia e negli organismi internazionali ce ne sarebbero molti altri più accreditati!

Più in generale, sul potere di attrazione esercitato nell'immaginario ha scritto Andrea Minuz: "La Russia di Putin attrae e affascina. Soprattutto per noi si tratta di un approdo inevitabile. Putin come rifugio utopistico nel lungo naufragio del mondo dopo la destra e la sinistra. Si accendono con la nuova grande Russia gli ardori del radicamento profondo, il sangue, il suolo, la terra, un'alternativa identitaria al patto Atlantico, al liberalismo anglosassone, alla finanza, al cosmopolitismo corrotto del capitale giudaico”. Nella Russia di Putin, continua Minuz, “c'è tutto quello che può affascinare un intellettuale italiano, un no global, un casa Pound: cultura millenaria, spiritualità, grande letteratura, balletti, mito della rivoluzione, insofferenza per la democrazia quindi inevitabilità della dittatura, un fiero sentimento antimoderno, la sconfinata vastità degli spazi e la gnocca".

Quest'ultimissimo elemento, che non si ha cuore di definire qui "di genere", ma che dall'Iliade in poi risulta tutt'altro che irrilevante nelle faccende del potere, scarseggia in realtà nei colloqui sovran-petroliferi da cui si sono prese le mosse di questa interminabile e sconclusionata prolusione. Ma anche a rischio di incappare nella tagliola del politicamente scorretto, va detto con la massima sobrietà possibile che una maggiore presenza di donne avrebbe senz'altro alleggerito e magari anche ingentilito il proscenio, fin qui configuratosi come un tetro serraglio di maschi dediti ad affari e potere, torvi ministri arrembanti, loschi faccendieri, filosofi barbutissimi, e poi spionaggio, trame geopolitiche tra l'euro-asiatico e il rosso-bruno con il naturale contorno di mercenari e perfino missiloni terra-aria di sconsolata e macro-fallica suggestione.

 

 

E dopo tutto la storia siamo noi

 

Per il resto, sempre sul filo dell'analisi di Minuz, la Russia resta “il luogo immaginario dell'antagonismo all'élite, teatro di sfrenate fantasie autarchiche e rivisitazioni della storia".

Quella recente e recentissima non gioca purtroppo a favore dell'Italia, tanto meno della sua stabilità democratica.

Io non so se davvero Salvini, ebbro di mojito, selfie e Papeete, ci ha provato sul serio; se la richiesta dei pieni poteri era una una sparata, una battuta, una provocazione o uno sproposito come tanti gliene sono scappati; se nella fuga all'estero dei 45 o 46 milioni si troverà prima o poi lo zampino di qualche volpe della steppa o dei monti Urali; se si continueranno ad arrestare sospettatissimi "ingegneri" russi; se Moscopoli, infine, ci riserverà qualche altra bella sorpresa.

Ma so che l'estinzione delle culture politiche italiane ha lasciato dietro di sè una schiumaccia che a ritrovarcisi dentro e anche soltanto a maneggiarla servono stivaloni e spessi guanti di gomma.

La classe dirigente è quella che è, nel migliore dei casi arrivata sulle poltrone per qualche colpo d'immagine o di fortuna, altrimenti per appartenza clanica o tribale; e comunque sono rari i casi di chi non si adegui a un andazzo di superba incompetenza, spudorata guitteria e fervido trasformismo. Esaurito il retroscena e consumatosi la messinscena, l'odierna scena appare normalmente oscena, l'estetica ne rispecchia la sgangheratezza, i linguaggi buttano sul turpiloquio e gli atteggiamenti delle persone in vista non di rado esprimono una sorta di ostentazione del basso.

Con i suoi braccialetti che gli proliferano ai polsi, con i suoi rosari di battaglia e il Cuore Immacolato di Maria sul display del cellulare, più che uno specchio Salvini si propone a diventare uno specchio dell'Italia. Rispetto al mitra e ai peluche, ai ciaoni, ai bacioni e agli zabaioni, dinanzi alle moto d'acqua e alle tentate censure, alle cubiste maculate con la mano sul petto mentre va l'inno di Mameli, di fronte alla ruspa punitiva e ad personam e alla ostinazione feroce per cui i bastimenti carichi di poveracci sono rimasti sotto lo schioppo del sole, un'ultimissima confessione personale: queste visioni seguitano a sorprendermi, a loro modo mi appassionano, però mi sento anche un po' in colpa a pensarla così passiva; e superata da qualche anno la sessantina, non mi ritengo più così immune da colpe nell'assistere alla rotolata giù per la china. Ma ormai è impossibile tornare indietro, riavvolgere il nastro degli eventi e del pensiero, vederla in altro modo.

Recuperato un minimo di freddezza, a chi trovasse tale disamina eccessiva, eccentrica, narcisista e pessimista, con la coda fra le gambe come il mio bassotto dopo le scosse di terremoto mi limiterei a segnalare con quanta facilità negli ultimi vent'anni la democrazia, questa sconosciuta ormai, nata rappresentativa, forse per un po' anche parlamentare, negli ultimi anni si è caricata di attributi slittando e trasfigurandosi in democrazia "esecutiva", "del pubblico", "d'investitura", e via via "disintermediata", "plebiscitaria", "illiberale", "autoritaria", aiuto!

Non dico niente di nuovo, ma nell'ultima e graziosa variante, il potere esecutivo ha le mani libere, considera la società come un unico blocco che la pensa allo stesso modo, le diverse opinioni non rientrano più nel novero del possibile, i media sono controllati dal governo, i giornalisti scomodi e gli studiosi rompiscatole finiscono in prigione o magari ai domiciliari, e di tanto in tanto qualche oppositore ritenuto più pericoloso del normale muore per mano di misteriosi assassini.

Quando il vento dell'Est arriverà, se non è già arrivato, toccherà prendere un bel respirone. Fino a quel momento era tutto un trallallà, o così ci era sembrato. D'altra parte valgono sempre i versi di Pascarella (assai amati in famiglia): “Vedi noi? Mò noi stamo a fà bardoria:/ Nun ce se pensa e stamo all’osteria…/ Ma invece stamo ne la storia”.

Ma invece stamo tutti ne la storia”.

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8 settembre. Antifascismo

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“E venne l’8 settembre, il serpente grigioverde delle divisioni naziste per le vie di Milano e di Torino, il brutale risveglio: la commedia era finita, l’Italia era un paese occupato come la Polonia, come la Jugoslavia, come la Norvegia.

In questo modo, dopo la lunga ubriacatura di parole, certi della giustezza della nostra scelta, estremamente insicuri dei nostri mezzi, con in cuore assai più di disperazione che di speranza, e sullo sfondo di un paese disfatto e diviso, siamo scesi in campo per misurarci. Ci separammo per seguire il nostro destino, ognuno in una valle diversa (“Oro”, in Il sistema periodico).

 

L’8 settembre è una data cruciale per la storia del nostro paese che Levi fissa nella libertà di scegliere, rischiando se stessi e obbligandosi a fare i conti con se stessi. Se da quella data comincia la lotta di liberazione, dalla prospettiva che qui Levi ci indica possiamo vedere la Resistenza imporsi nelle sue pagine attraverso il “filo rosso dell’antifascismo” inteso come esercizio di libertà, responsabilità di sé e del proprio agire.  

È vero che nel 1947, quando esce per la prima volta Se questo è un uomo, la narrazione si leva direttamente dal campo di Fossoli e parrebbe che l’impellente esigenza di raccontare agli altri, provata da Levi al ritorno, non consideri immediatamente la scelta e l’esperienza della Resistenza, che apparirà esplicitamente solo nell’edizione einaudiana del 1958. È allora che il punto di partenza temporale della storia è anticipato e che il lettore incontra sulla soglia del testo la discriminazione subita dal narratore-personaggio conseguente alle leggi razziste del 1938 e la sua partecipazione alla Resistenza. Si potrebbe pensare a un adeguamento del testo ai tempi, ma si cadrebbe in errore: la Resistenza è intrinseca al racconto del testimone Levi fin dalla sua prima emissione di voce. 

Il lungo sommario dell’esperienza che apre l’edizione del 1958, rievocando gli anni dal 1938 alla cattura nel dicembre 1943, non è infatti altro che la ripresa e l’espansione di un racconto che già nel 1947 il narratore-personaggio faceva in quanto personaggio ad altri personaggi. Questo racconto interno è registrato in alcune sintetiche righe, poste però in posizione strategica.  Siamo alla fine del libro, nel diario degli ultimi dieci giorni, dove il 25 gennaio si legge:  

 

 

A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell’armistizio in Italia, dell’inizio torbido e disperato della resistenza partigiana, dell’uomo che ci aveva traditi e della nostra cattura sulle montagne.

 

La storia dei partigiani emerge come racconto che segna il momento del ritorno alla vita da parte dei prigionieri: è l’esperienza che diventa racconto intorno al fuoco, crea legami tra chi racconta e chi ascolta, ricostituisce l’umano perché si misura con la verità del vissuto. È uno dei primi esercizi di libertà ritrovata. 

Non c’è però nessuna retorica né nel racconto né nell’idea di libertà. Tra l’edizione di Se questo è un uomo del 1947 e quella del 1958, la Resistenza è protagonista della prima prova di Levi scrittore d’invenzione. Facendosi per la prima volta narratore di una storia non sua, Levi pubblica il suo primo racconto sul “Ponte” di agosto-settembre 1949: Fine del Marinese. Si tratta della storia degli ultimi istanti di vita del Marinese, partigiano catturato dai tedeschi insieme al compagno Sante, che sul camion che lo trasporta a valle, accortosi di essere appoggiato ad una bomba a mano e trovandosi “in grado di agire e quindi in qualche modo costretto all’azione”, riesce ad innescarla. Non è una storia di eroismo, è una storia di lucida disperazione: il Marinese muore dilaniato insieme a quattro tedeschi e il suo compagno è finito sul posto. 

 

Se ritorniamo allora all’8 settembre, possiamo ragionevolmente osservare che nella storia della Resistenza, nelle storie dei partigiani, trova radici la scrittura di Levi perché nell’antifascismo c’è la radice della sua giovane vita. Italiano nato nel 1919, cresciuto quando il fascismo non aveva nemici, discriminato per quattro anni perché dichiarato per legge di “razza ebraica”, Levi fa parte di quella generazione che ha messo in crisi il rapporto con il proprio paese mettendo in crisi se stessa e il modo di vivere la realtà circostante, arrivando così a “inventarsi” un proprio antifascismo, creandolo dal germe, dalle radici (“Potassio”, in Il sistema periodico). Attraverso lo studio del Talmud, l’esercizio della chimica, l’andare in montagna Levi non scopre un credo, ma un modo di rapportarsi al mondo, di prenderne consapevolezza e di raccontarlo capace di disarticolare quella superficialità, quel cinismo, quella passività a cui il fascismo aveva costretto quasi tutti gli italiani (“Oro”, cit.). Si provi a riprendere in mano le prime novelle del Sistema periodico: di fronte alla retorica dell’affermazione della verità, all’elogio della purezza, l’essere contro il fascismo di Levi va prendendo corpo come quell’imparare a deliberare con la propria testa assumendo le proprie scelte, come quella consapevolezza dell’impurezza da cui nasce la vita e che obbliga all’esercizio della differenza.

 

Non sarà un caso che alla fine degli anni Settanta Levi, testimone ormai anziano, per il memorial del padiglione italiano di Auschwitz tenesse ancora a legare nel “filo rosso dell’antifascismo” l’esperienza del Lager e della deportazione razziale con quella della Resistenza (Al visitatore). Oggi padiglione e testo di Levi sono stati sfrattati da Auschwitz e relegati nella periferia di Firenze dove il memorial è stato riallestito. Resta l’eredità di Levi e dell’8 settembre e a ciascuno la scelta di sentirsi chiamato a farci i conti. 

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La città di Stalin in Germania (Est)

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Le considerazioni che seguono, come quelle già uscite e altre che si aggiungeranno nei prossimi mesi, al di là del fornire alcune documentazioni e notizie relative alla passata realtà quotidiana nella Germania e nella Berlino divise, hanno l’auspicio di poter essere fonte di riflessione, prese le debite distanze dai coinvolgimenti emotivi e politici, per meglio affrontare e valutare la contemporaneità (nostalgie, demonizzazioni, celebrazioni, anniversari) con un poco di lucidità e qualche strumento in più.

 

Targa della città di Stalinstadt, anni Cinquanta.


La Repubblica Democratica Tedesca, più comunemente nota come Germania Est, fu fondata il 7 ottobre 1949 e occupò il territorio tedesco che nella spartizione del dopo guerra era confluito sotto la giurisdizione dell’Unione Sovietica. In quello stesso anno, proprio in URSS, il compagno Stalin compiva 70 anni, secondo la data di nascita non reale ma avvalorata come ufficiale. Quale migliore occasione a disposizione della neonata nazione filo-sovietica per dimostrare deferenza e gratitudine alla sorella maggiore-madre che intitolare proprio a Stalin una nuova arteria nel cuore della Berlino socialista? In quell’anno la Groβe Frankfurter Straβe e la Frankfurter Allee furono unite in una magistrale, la Stalin Allee, lunga più di due chilometri che nel giro di alcuni anni sarebbe stata costeggiata da fabbricati realizzati in puro stile impero staliniano, sul modello dei cosiddetti edifici alti costruiti negli stessi anni nelle maggiori città dell’URSS. Una monumentale statua dello stesso Stalin (quasi 5 m. di altezza) sarebbe stata eretta in quella via nel 1951 a ulteriore conferma dell’alleanza tra i due paesi.

 

La statua di Stalin sulla Stalin Allee a Berlino, 1951.


La collaborazione della gente fu grande, nel recupero di mattoni integri dalle macerie della guerra, per edificare la nuova arteria del socialismo, ma proprio i massacranti turni di lavoro resi necessari per completarne la costruzione portarono, il 17 giugno 1953, allo storico sciopero dei lavoratori che fu violentemente represso dall’intervento dei carri armati sovietici. Primo e inconfutabile segnale che la mano e l’occhio dell’URSS sarebbero stati presenza invadente e costante. Al punto che, nei settori occidentali della Berlino occupata, si intitolò provocatoriamente la grande arteria che attraversa l’intero Tiergarten, da Charlottenburg fino alla Porta di Brandeburgo, proprio a quel fatidico 17 giugno. 

Ma nel frattempo, all’est, ci si era spinti ancora oltre. Nel 1950, nella regione del Brandeburgo a sud-est di Berlino, a ridosso della frontiera polacca sul fiume Oder, si era deciso di costruire una gigantesca acciaieria. Si rendeva a quel punto necessaria una città che ospitasse i lavoratori che sarebbero stati occupati nella produzione di acciaio e le loro famiglie. Nacque così Stalinstadt (la città di Stalin), versione germanica della sovietica e gloriosa Stalingrad, primo insediamento autenticamente socialista della giovane repubblica democratica. Non è forse inutile ricordare che il nome di battaglia scelto per sé da Iosif Vissarionovič Džugašvili, Stalin, derivava proprio dal sostantivo russo stal’ (acciaio). Il legame con il “leader, maestro e amico” si faceva dunque ancora più stretto e forte. La pianificazione permise di realizzare l’utopia di una città modello, priva di centro storico, di tracce di passato, di residui borghesi, clericali o aristocratici. Uno dei punti di forza del progetto, oltre alla presenza massiccia di alberi e acque, fu l’assoluta mancanza di chiese e torri campanarie, come continua a testimoniare nell’immaginario collettivo un intervento di Ulbricht, passato leggendariamente alla storia proprio come “il discorso delle torri”. L’unico pinnacolo in città avrebbe dovuto essere quello del municipio, assieme all’obelisco dedicato alle vittime dell’armata rossa cadute nella liberazione dal nazismo. La planimetria della “prima città socialista tedesca”, come recitavano slogan e cartoline, si basava su un’assoluta simmetria che conferiva sì ordine e regolarità all’insieme ma, al contempo, ne segnalava l’artificiosità, la freddezza e la mancanza di storia.

 

Stalinstadt, la prima città socialista di Germania.


Nell’irrequieto 1953 sia l’acciaieria che la città furono intitolate a Stalin e la loro autentica storia ebbe inizio. Si doveva fronteggiare l’embargo di fornitura d’acciaio da parte della Germania Ovest e trovare lavoro per i moltissimi rifugiati tedeschi espulsi dalla Polonia durante l’occupazione nazista. Il modello, ancora una volta, fu sovietico. Nel corso del primo piano quinquennale staliniano, intorno al 1929, era stata decisa la costruzione di un’immensa acciaieria nella regione degli Urali, a ridosso di un massiccio detto montagna magnetica in quanto costituito quasi interamente da minerali ferrosi. Nacquero così l’impianto metallurgico e la città di Magnitogorsk, a sua volta progettata ex novo secondo i principi teorici di una città ideale. Prima città al mondo completamente pianificata, sfida e al contempo orgoglio della progettazione sovietica. La realtà fu assai più complessa di quanto la propaganda promuovesse. Il cantiere era un campo di lavoro forzato, le condizioni climatiche tragiche. Il progetto, ispirato alla grandi acciaierie americane e alla cui realizzazione intervennero centinaia di specialisti stranieri, affidato all’architetto tedesco Ernst May, prevedeva lo sviluppo di una città a nastro, ma a causa delle continue variazioni delle dimensioni della zona residenziale e della quantità di abitazioni necessarie alla città, che dipendevano dalla potenza e dalla tecnologia della produzione (costantemente corretta dal governo), a causa della scarsa chiarezza delle esigenze relative alla “concezione dell’idea di città socialista” i tempi della realizzazione del progetto slittarono in continuazione. Quando acciaieria e città furono finalmente costruite, le grandi purghe staliniane erano partite e nel 1937 Magnitogorsk sarebbe diventata “città chiusa” e tale sarebbe rimasta fino alla perestrojka. Stalinstadt in Germania Est fu anche un’occasione per ridare lustro all’epopea di Magnitogorsk, il cui complesso siderurgico aveva per altro fornito al paese acciaio indispensabile e fondamentale durante la guerra. 

 

Il complesso siderurgico di Stalinstadt.


La struttura monumentale dell’acciaieria tedesca ha, ancora oggi, qualcosa di solenne e addirittura commovente nella sua magnificenza da cattedrale. La cittadina, collocata a debita distanza dal complesso industriale, risultato così meno inquinante del suo omologo sovietico, nel 1953 contava 2.400 abitanti che, nel giro di un paio d’anni, sarebbero saliti a 13.000. Sorto intorno alla fabbrica, come una volta le città sorgevano intorno alle cattedrali, il centro urbano brillava per razionalità, pulizia, eleganza, verde e acqua in abbondanza che facevano della neonata cittadina il fiore all’occhiello della DDR, oltre che il simbolo concreto dell’amicizia tra i popoli socialisti. “Dai minerali sovietici e dal carbone polacco nasce l’acciaio tedesco della pace” recitava un trionfalistico manifesto di propaganda. Le impeccabili e simmetriche prospettive di strade ed edifici contavano sull’effetto spettacolare degli altiforni sullo sfondo, in debita lontananza ma fondamentali. La compiuta realizzazione del progetto fornì alla giovane nazione strumenti importanti per motivare la propria esistenza e convincere gli abitanti che quasi casualmente si erano trovati a diventarne cittadini della bontà del programma utopistico e ideale. Si creava, e la cittadina siderurgica ebbe un ruolo rilevante, un nuovo concetto di patria e di appartenenza, ripreso e divulgato in letteratura, cinegiornali e svariate forme d’arte.

 

Manifesto di propaganda.


L’ingresso al complesso siderurgico intitolato a Stalin.


La abitazioni della cittadina erano complessi di tre piani, sempre realizzati secondo il modello architettonico sovietico-staliniano, ma con minor spazio alla monumentalità e una maggior sobrietà nelle decorazioni rispetto a quanto veniva costruito a Berlino o in Unione Sovietica. Lungo l’asse centrale della cittadina, 600 metri di lunghezza per 55 di larghezza, via Lenin all’epoca, si ergevano gli edifici amministrativi e il cosiddetto “nuovo tempio”, il centro culturale. Dal momento che un municipio non fu mai costruito, il governo della città si trasferì nella casa del partito e delle organizzazioni di massa, conosciuto familiarmente, e non senza un accenno ironico, come Kreml’ (Cremlino). Il teatro, intitolato allo scrittore Friedrich Wolf, primo ambasciatore della DDR in Polonia, ospitava spettacoli teatrali, cinematografici e cerimonie ufficiali in occasione delle svariate festività.

Il 1961 portò modifiche sostanziali nei due universi. In URSS, in seguito alla denuncia di Chruščëv, il corpo di Stalin veniva rimosso dal mausoleo di Lenin. A Berlino la grande strada che ne portava il nome fu ribattezzata Karl Marx Allee e la statua del dittatore fu furtivamente smantellata durante una notte. La cittadina siderurgica abbandonò il suo appellativo primigenio per diventare Eisenhüttenstadt, (letteralmente “citta delle capanne di ferro”), città dell’acciaieria e fu amministrativamente accorpata all’adiacente distretto di Fürstenberg (Oder), Schönfließ e Diehlo. La fabbrica, a sua volta, cambiò denominazione in Eisenhüttenkombinat Ost (EKO, per gli addetti ai lavori).

La media di operai impiegati negli anni della DDR fu di circa 12.000, a cui si affiancavano famigliari ed entusiastici visitatori. Nel massimo del proprio fulgore arrivò a contare 50.000 abitanti.

 

Nuovi abitanti a Eisenhüttenstadt, agosto 1954.


Tra il 1960 e il 1963, in stile brutalista, Stalin era ormai fuori moda anche su quel fronte, fu edificato l’hotel Lunik, ennesimo omaggio all’URSS con riferimento al progetto sovietico di spedizioni lunari. Si connotò come centro della vita mondana della città con i suoi caffè, ristoranti e sale da ballo.

 

Cartolina dell’hotel Lunik.


Il declino di Eisenhüttenstadt sarebbe iniziato con il crollo del muro e l’unificazione delle Germanie. Secondo un destino oggi condiviso da molte cittadine dell’ex territorio orientale, nel 1990 l’acciaieria di stato si trasformò in società, EKO Stahl GmbH, e la produzione risentì dell’adattamento alla nuove leggi di mercato. Svariati ulteriori passaggi di proprietà si succedettero negli anni fino alla contemporaneità che vede la struttura ancora operante (l’impianto è oggi di proprietà del più grande produttore mondiale di acciaio Arcelor Mittal) pur con pesanti incertezze economiche. Ci lavorano oggi 2500 operai, mentre il potenziale sarebbe di almeno 10.000. Anche la popolazione della cittadina si è drasticamente ridotta a circa 23.000 abitanti. Il distretto contava sette complessi abitativi. Il settimo fu quasi completamente demolito dopo l’unificazione. A causa del declino della popolazione che molte città della Germania orientale hanno conosciuto successivamente al 1990 (frenetica fuga verso l’occidente, perdita di lavoro, crollo economico), improvvisamente ci si venne a trovare con un eccesso di realtà abitative. Nel complesso, in città sono già stati abbattuti 6.000 appartamenti e altri 1000 attendono lo stesso destino. Quasi tutti edificati con strutture prefabbricate, quindi non di alta qualità, ma i dati sono comunque impressionanti. Il “centro storico” è stato ristrutturato quasi integralmente. I primi insediamenti “staliniani” sono oggi sotto la protezione delle belle arti, lindi e accoglienti nella loro immacolata apparenza priva di graffiti e vandalismi di sorta. Gli infissi alle finestre sono stati sostituiti, le facciate intonacate di fresco, i balconi ospitano vasi fioriti.

 

Il “centro storico” nel 2019.


Sembra che il messaggio sia: se volete vivere qui, fatelo in centro; la periferia è destinata a scomparire. Lo storico ristorante Aktivist apre tuttora ai visitatori la sua elegante sala neoclassica che sembra essersi ibernata nel tempo assieme alle tovaglie inamidate dei suoi tavoli. Ancora in attesa di sponsor è invece la quasi cadente struttura dell’ex prestigioso hotel Lunik, da anni sul mercato immobiliare ma che ancora non ha trovato chi lo riporti a nuova vita. La sua grigia sagoma di cemento incombe negletta e inquietante nell’insieme composto del resto della zona, con i vetri delle finestre rotti e l’ingresso sbarrato da tavole di legno. Mani anonime hanno vergato, sulle finestre di sinistra dell’ultimo piano, una dichiarazione d’amore tra il beffardo e il commovente: I EHS (I love Eisenhüttenstadt).

 

L’ex hotel Lunik abbandonato.


Il Lunik simboleggia una politica fiduciaria fallita. Da quando ha cessato l’attività dopo la caduta del Muro, ha cambiato proprietà diverse volte, sempre senza esiti positivi. L’attuale proprietario lo possiede dal 2009 e da allora lo ha lasciato andare in rovina. Il nome e il mito rivivono soltanto in un gruppo musicale (alternative rock, indie rock, ambient, pop) che così si chiama e fa base proprio a Eisenhüttenstadt. Contributo giovanile alla volontà di non lasciar morire del tutto la città.

 

Il gruppo musicale Hotel Lunik di Eisenhüttenstadt.


Le condizioni dell’ex hotel trovano ulteriori riscontri nell’ormai troppo spaziosa strada della Repubblica. Ci sono parecchie case fatiscenti in tutta la zona che appartengono allo stesso padrone. Tra queste un mastodontico ex convitto operaio, sempre di stile brutalista, oggi in condizioni disastrose.

 

Ex convitto abbandonato.


A vegliare sul passato del territorio e a sistematizzarne la memoria pensano lo Städtisches Museum (Museo municipale), che documenta pianificazione e sviluppo della città e dell’area circostante, e il Dokumentationszentrum Alltagskultur der DDR (Centro di documentazione sulla vita quotidiana della DDR). Istituzione ospitata nei locali di un ex asilo, raccoglie e scheda oggetti, documenti e memorie. Molto diverso dai turistici musei della DDR che sorgono per assecondare i gusti un po’ morbosi di affrettati visitatori, documenta con filologica ma non pedante attenzione le varie situazioni esistenziali del paese che non esiste più. Oggi la sua attività è ridotta rispetto al passato. Molti finanziamenti sono venuti meno e una sola addetta espleta tutte le funzioni che, fino ad alcuni anni fa, erano suddivise tra svariati collaboratori. Vanta un eccezionale archivio e organizza periodicamente seminari, laboratori e mostre temporanee che si affiancano alla collezione permanente. Vale da solo un viaggio a Eisenhüttenstadt. 

 

Ci si arriva da Berlino, in auto o in treno, con un paio d’ore di viaggio. A un certo punto il cellulare riceve il messaggio di “benvenuto in Polonia”, tanto vicina è la frontiera polacca. Il moderno bus che dalla stazione ferroviaria porta in centro (il percorso a piedi richiede un’abbondante mezz’ora) attraversa quartieri con tracce architettoniche di epoche diverse in cui l’impressione di abbandono è dominante. Poche realtà commerciali, poche persone per strada, troppo vasti spazi per una scarsa circolazione. Campi gerbidi, file di casamenti compatti con il vuoto intorno. La popolazione è mediamente di età avanzata e la realtà urbana che si scopre è contrastante: pulita e ordinata nella zona centrale, desolata e sciatta in periferia. In ogni caso, tragicamente tediosa. Ci sono bambini ma scarseggiano i giovani. Etnie diverse si individuano come tracce di alleanze politiche del passato sopravvissute ai cambiamenti o di più recenti flussi migratori. L’uggia della provincia non è diversa da altre analoghe realtà nel resto del mondo, ma qui la storia aggiunge capitoli particolari. E narra di un paese che, a dispetto di un innegabile recupero di libertà, risente pesantemente di un’identità perduta, di un’umiliazione subita. Sempre più spesso la stampa contemporanea pone il problema di come l’unificazione delle Germanie sia stata piuttosto una colonialistica annessione che all’ex Repubblica Democratica Tedesca, alla sua storia e alla sua cultura, non ha riconosciuto nulla di salvabile e a cui è stata imposta l’omologazione forzata al “vincente” modello occidentale. Da tempo ormai, negli ex territori tedesco-orientali si è scatenata l’Ostalgie, la nostalgia per l’est che, da accenti estetico-emotivi, è passata a riscontri politici preoccupanti. Neonazismo tra i giovani demotivati, simpatie elettorali per l’estrema destra, spopolamento di intere città e regioni, disoccupazione, economia rovinosa. Eisenhüttenstadt ne è testimonianza concreta e visibile. Una visita a questa città potrebbe essere illuminante e costruttiva per chi volesse provare ad andare più a fondo nel problema dell’ex DDR e non limitarsi alla folkloristica e rincuorante realtà dei turistici musei commemorativi.

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