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Secondo Comscore, su internet la visualizzazione di una pagina dura in media 26 secondi. Il 99,8 per cento delle visualizzazioni dura meno di dieci minuti. Leggere questo articolo fino in fondo sarebbe un comportamento marginale, residuale. Per gli algoritmi è irrilevante, anomalo, forse addirittura patologico. 

La logica dei signori della rete è impeccabile, efficientissima. Ma questa logica ci sta fregando, o forse ci ha già fregato. Perché accanto alla rete in cui navighiamo inconsapevoli, sono state create altre reti. Non le vediamo e proprio per questo sono ancora più importanti.

 

I due internet secondo Matthew Hindman

 

Esistono due internet, secondo Matthew Hindman, autore di La trappola di internet (traduzione di Daniele A. Gewurz, Einaudi, Torino, 2019, 286 pagine, 22 €). La prima è “l'internet 'di cui tutti sanno', che sta democratizzando la comunicazione e la vita economica”. L'aveva profetizzata nel 1996 John Perry Barlow in A declaration of independence of cyberspace (1996): la rete sarà immune a qualsiasi regola e completamente separata dal “Mondo Industriale”, destinata a diventare “la nuova casa della Mente”, in cui “qualunque cosa la mente umana possa creare può essere riprodotta e distribuita all'infinito senza alcun costo. Il trasferimento globale del pensiero non richiede più le vostre fabbriche”. 

Poi c'è l'internet reale, dove “un terzo di tutte le visite web va alle prime dieci aziende” e che “consente a due aziende di controllare più della metà delle entrate pubblicitarie online” (p. 201) e il 70 per cento della pubblicità online negli USA.
Hindman, professore associato di Media and Public Affairs e consulente della Federal Communication Commission statunitense, ha analizzato e modellizzato l'evoluzione dell'economia della rete. Le sue conclusioni sono drastiche. Il fattore decisivo per avere successo online è la stickiness, ovvero la capacità di un sito di attrarre e conservare i visitatori. L'obiettivo è quello che gli economisti chiamano lock in, che si realizza quando i costi di passaggio a un altro fornitore superano i possibili benefici.

L'errore di prospettiva è stato pensare che con il World Wide Web i costi di distribuzione delle informazioni si sarebbero azzerati: si sono solo spostati dal mondo fisico a quello virtuale. Non servono più camion, navi o aerei e fattorini, ma le server farms con migliaia di computer che inghiottono giganteschi flussi di energia, e sistemi di commutazione con una larghezza di banda di diversi terabyte al secondo, progettati e gestiti da un'aristocrazia di ingegneri del software. Il tutto affinato da continui e costosi test A/B per valutare le soluzioni migliori anche nei dettagli: dai titoli più efficaci ai pixel di un carattere o a una sfumatura di colore. Per quanto riguarda le notizie, la quantità vale più della qualità: “i consumatori leggono una gran quantità di contenuti mediocri e poco costosi” (p. 93). Meglio raffiche di spazzatura che reportage documentati e inchieste validate dal fact checking, meglio il gattino in bottiglia o il pettegolezzo sexy della recensione.

 

 

Il metodo di raccomandazione/filtraggio (per consigliare un libro su Amazon, una pagina su Google, un film su Netflix, un post su Facebook, un ristorante su Tripadvisor) si è via via affinato. Inizialmente a essere privilegiati erano i contenuti più popolari. In una seconda fase è intervenuto il filtraggio collaborativo: “via via che il sistema registra una quantità maggiore di dati sui clic, le raccomandazioni si basano sempre più sul comportamento passato degli utenti e degli interessi dimostrati” (p. 69). Ha fatto progressi anche la gestione dei contenuti, che usa “l'analisi del testo per abbinare gli utenti con i tipi di articoli che hanno apprezzato in passato” (p. 68). Le strategie più efficaci utilizzano un modello ibrido, che combina questi tre approcci. 

Nella lotta per la stickiness un piccolo vantaggio porta nel lungo periodo a “enormi differenze nel numero di visitatori” (p. 61). Le economie di scala favoriscono le imprese maggiori e creano monopoli, esattamente come era successo alla fine dell'Ottocento con i robber barons, gli odiati signori dell'acciaio e delle ferrovie. In rete trionfano i giganti. Oggi “internet non è affatto un ecosistema, ma un paio di monoculture commerciali” (p. 221)

 

Contro chi continua a considerare la rete il Paradiso dell'innocenza egualitaria, le analisi di Hindman dimostrano che negli USA, mentre i giornali locali “di carta”, una delle spine dorsali della democrazia americana, chiudono uno dopo l'altro, le nuove testate online restano marginali. 

Oltre a sottrarre pubblicità ai media tradizionali, Facebook e Google hanno affinato meccanismi “personalizzati” che promettono agli inserzionisti un'efficacia molto maggiore. Gli algoritmi usati dai giganti dei web funzionano per sei ordini di ragioni:

# “i sistemi di raccomandazione possono aumentare notevolmente il pubblico”;

# e “favoriscono le aziende digitali con ampi contenuti”;

# “avvantaggiano le imprese con hardware migliore e personale più qualificato”;

# e “favoriscono le imprese con più dati”, ovvero “i siti più popolari e più frequentati”;

# “i sistemi di personalizzazione promuovono il lock-in”;

# “i sistemi di suggerimenti incoraggiano la concentrazione del pubblico” (pp. 75-77).

 

 

Risultato? Se un sito raddoppia il suo pubblico, le sue entrate pubblicitarie saranno più del doppio (e i profitti cresceranno grazie alle economie di scala). Oltretutto “il pubblico dei grandi siti è molto più costante di quello dei siti più piccoli”, anche se “le fluttuazioni quotidiane del traffico rendono stabile la struttura del web” nel suo insieme. Ignoriamo se tra due o cinque anni Doppiozero avrà più o meno visite di oggi, ma sappiamo quante visite avrà il sito che occupa la sua posizione nella classifica del traffico. E la top ten cambierà di poco, a meno di clamorosi fallimenti (p. 106).

 

C'è un'altra costante, secondo Hindman: “la percentuale di pubblico che cerca le notizie rimane stabile da vent'anni al 3 per cento circa” (p. 203), limitato da una feroce competizione per l'attenzione. La conseguenza politica è immediata: “La nuova organizzazione politica basata sui dati beneficia di economie di scala enormi. La fortissima concorrenza per l'attenzione fa sì che sia ancora più difficile per gli attivisti su piccola scala farsi notare” (p. 208). Le vittorie elettorali di Barack Obama, Donald Trump e Boris Johnson, basate sui big data e sui meccanismi portati alla luce dallo scandalo su Cambridge Analytica, sembrano confermare questa ipotesi, anche se il successo planetario dei Fridays for Future di Greta e l'epidemia delle sardine in Italia lascia qualche speranza (anche se per certi aspetti questi due movimenti restano in una sfera pre-politica).

 

 

I due internet secondo Shoshana Zuboff

 

Esistono due internet anche per Shoshana Zuboff, professoressa alla Harvard Business School e autrice del poderoso Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell'umanità nell'era dei nuovi poteri (traduzione di Paolo Bassotti, Luiss, Roma, 2019, 622 pagine, 25 €). 

Il “primo testo” è quello che vediamo (o meglio, quello che potremmo vedere): sono i contenuti che ciascuno di noi pubblica (gratuitamente) sui social e in rete, e le nostre interazioni di tutti i generi ormai digitalizzate, per esempio quando facciamo la spesa, paghiamo una bolletta o andiamo dal medico. Come ha spiegato Hal Varian, a lungo chief economist di Google, “al giorno d'oggi c'è un computer di mezzo in quasi ogni transazione […] e ora che sono disponibili, tali computer vengono utilizzati in tanti altri modi” (p. 74). In particolare servono per:

# l'estrazione e l'analisi dei dati;

# le nuove forme contrattuali dovute a un miglior monitoraggio (pensate alle assicurazioni...);

# la personalizzazione e customizzazione;

# gli esperimenti continui (ovviamente a insaputa delle cavie, cioè noi). 

Questo primo testo – la nostra impronta digitale – è talmente gigantesco che nessun cittadino è in grado di vedere le informazioni che contiene (e men che meno di controllarle ed eventualmente farle correggere). Oltretutto molte di queste informazioni sono state raccolte a nostra insaputa, in violazione di qualunque principio di privacy e senza alcuna possibilità di controllo: “il diritto alla privacy, alla conoscenza e al suo uso è stato usurpato da un mercato aggressivo che ritiene di poter gestire unilateralmente le esperienze delle persone e le conoscenze da esse ricavate” (p. 17). 

In una prima fase questi dati venivano utilizzati a favore dell'utente, per garantirgli un servizio più efficace. Ma a partire dal 2002, in seguito allo scoppio della bolla di internet e all'imperativo di massimizzare i profitti, questo surplus comportamentaleè stato dirottato a favore degli inserzionisti: le informazioni (espropriate agli utenti) hanno prodotto un advertising mirato, attraverso forme di user profile information sempre più accurate (grazie alle economie di scala e agli effetti di rete), in grado di “inferire e dedurre i pensieri, le emozioni, le intenzioni e gli interessi di individui e gruppi” (p. 91) con crescente precisione. 

Oggi Google estrae surplus comportamentale da “qualunque elemento del mondo digitale: ricerche, email, messaggi, foto, canzoni, chat, video, luoghi, schemi comunicativi, atteggiamenti, preferenze, interessi, volti, emozioni, malattie, social network, acquisti e così via” (p. 139). Ma non è solo Google. L'estrazione è sistematica, ossessiva, invasiva. Già nel 2015 “chiunque avesse visitato i 100 siti più popolari aveva raccolto più di 6000 cookie nel proprio computer, l'83 per cento dei quali appartenenti a parti terze non correlate al sito visitato” (p. 146). 

 

 

Secondo Zuboff, ci siamo comportati come gli indigeni ai quali i colonizzatori facevano firmare contratti che non potevano capire, cedendo la proprietà delle terre in cambio di collanine e perle di vetro. In questo modo la nostra vita privata, la nostra esperienza e la nostra intimità ci sono state sottratte, in un “ciclo dell'esproprio” incessantemente ripetuto, basato sull'incursione dei vari dispositivi nelle nostre vite, sulla assuefazione al nuovo scenario, su un adattamento minimo in caso di eventuali resistenze e contestazioni, e sul reindirizzamento verso nuovi obiettivi. Senza nemmeno darci le perline...

I terreni da colonizzare e sfruttare si stanno moltiplicando. 

Lo spazio pubblico è controllato dalle telecamere di sorveglianza (e presto dai droni) che, con i meccanismi di riconoscimento facciale, sono ormai in grado di ricostruire i movimenti di veicoli e persone (vedi Madhumita Murgia, Who’s using your face? The ugly truth about facial recognition, “Financial Times”, 18 settembre 2019, e Silvia Bottani, L'occhio della macchina). Anche le nuove automobili intelligenti sono una miniera di dati.

Nelle nostre case l'IoT, l'internet of things, sta connettendo alla rete elettrodomestici, abiti, giocattoli... Assistenti personali come Alexa, Cortana e Siri convivono già con il 25 per cento degli americani adulti e trasmettono un costante flusso di informazioni, elaborate senza alcun controllo da parte dell'utente. 

 

Ma non basta. Il “primo testo” fornisce le materie prime per un secondo testo, un “testo ombra” ancora più invisibile e gigantesco, tanto complesso e dinamico che può essere gestito solo dagli algoritmi. Qui i contenuti hanno poca importanza: contano le relazioni che le macchine riescono a estrarre dalla “materia prima”, cioè gli utenti di internet. Come hanno scoperto nel 2011 tre ricercatori dell'Università del Maryland, “i semplici metadata (…) sono più utili e predittivi dei dati grezzi originali” (p. 287). I dati di scarto che intasavano i server di Google e degli altri giganti del web sono diventati la più preziosa delle merci.

 

 

Per capire che cosa pensiamo, che cosa desideriamo, qual è il nostro stato emotivo, è più utile – nel caso di Instagram, per esempio – guardare quali filtri usiamo, quanti post facciamo (e quando), quanti cuoricini mettiamo (e a chi), e chi mette i like sui nostri post (e quanti e quando). Quel che si vede nelle immagini è relativamente irrilevante, con buona pace di chi proclamava che “in rete il contenuto è re”. Per questo i social network e i motori di ricerca non sono interessati a eliminare le fake news: al centro dell'attenzione ci sono le azioni e le relazioni, e le fake news sono efficacissime nel generare “traffico”.

Il “secondo testo”, il nostro DNA digitale, viene estratto da quello ci è stato massicciamente sottratto senza che ce ne accorgessimo e senza chiederci permesso (o meglio, estorcendolo con quei contratti online che firmiamo senza leggere... e che è inutile leggere). Oggi tutti questi big data sono nelle mani dei “capitalisti della sorveglianza”, senza alcun controllo. Nella prima fase gli algoritmi hanno imparato a prevedere le nostre scelte, con margini di incertezza sempre minori. Ora si stanno attrezzando per orientare le nostre decisioni.

 

Le società di assicurazione vorrebbero da sempre ottenere un profilo preciso del cliente e del suo comportamento, per ridurre i margini di rischio ed eventualmente spingerlo entro determinati parametri comportamentali. Per farlo è necessario monitorare le azioni dell'automobilista, che però diffida di questa intrusione nella privacy e non si fida dell’azienda che vuole controllarlo. Se “il denaro non è abbastanza convincente, si consiglia agli assicuratori di presentare il monitoraggio del comportamento come 'divertente', 'interattivo', 'competitivo' e 'gratificante' (…) Questo approccio, noto come gamification, incoraggia i conducenti a partecipare a 'gare basate sulla performance' e a 'sfide fondate sugli incentivi'” (pp. 230-231). Meccanismi di condizionamento analoghi, che mirano a cambiare il comportamento degli utenti, si possono applicare alla sanità o all'istruzione. 

Se il presupposto è l'ubiquità della sorveglianza, l'obiettivo, il vero potere, “è quello di modificare le azioni in tempo reale nel mondo reale. (…) Le analisi in tempo reale si traducono in azioni in tempo reale” (p. 309). 

 

 

Anche in questo caso le strategie sono già affinate: 

# il tuning, che utilizza “indizi subliminali per dare forma impercettibilmente a un flusso di comportamenti” (ne sono esperti gli architetti delle case da gioco, per creare assuefazione negli scommettitori: ma anche internet e i social sono addictive);

# lo herding, che lavora sul contesto che circonda la persona (perché l'invidia e i meccanismi imitativi, ovvero “l'influenza sociale”, fanno parte del nostro bagaglio comportamentale) e punta a un “contagio emotivo”;

# il condizionamento, ben noto agli psicologi comportamentisti, che spinge gli animali (e dunque anche gli esseri umani) a selezionare i comportamenti di maggiore successo. 

Il risultato è devastante: “Affermando di poter modificare le azioni umane in modo segreto e a scopo di lucro, il capitalismo della sorveglianza di fatto ci esilia dal nostro stesso comportamento, cambiando l'espressione del futuro 'io vorrò' a 'tu vorrai” (p. 325). Per Zuboff, stiamo perdendo la nostra libertà a favore del Grande Altro che rende gli individui oggetti. Non siamo stati vittime di un colpo di Stato, ma di un coup de gens: consumatori e cittadini sono schiacciati da una gigantesca asimmetria dell'informazione, nelle mani di poche aziende e di un potere politico più o meno occulto ma sicuramente antidemocratico.

 

I due internet secondo Edward Snowden

 

Anche i servizi segreti americani hanno costruito un internet parallelo, in grado di raccogliere valanghe di informazioni sui cittadini americani (e non solo), a loro insaputa (e senza informare gli organi democratici). Quando si accorse dell'esistenza di questo deep State – il programma PRISM con la upstream collection, ovvero la “raccolta a monte” dei dati dei cittadini – Edward Snowden era un nerd che lavorava per la National Security Agency, ovvero i servizi segreti USA. Restò sbalordito, sconvolto, indignato, come racconta nel suo autobiografico Errore di sistema (Longanesi, Milano, 2019, 350 pagine, 18,60 €). 

“Immaginate di sedervi al computer per visitare un sito web. Aprite un browser, digitate un indirizzo e premete INVIO. La vostra azione equivale a una richiesta, e tale richiesta parte alla ricerca del server di destinazione. A un certo punto del suo viaggio verso il server, però, la vostra richiesta dovrà passare attraverso TURBULENCE, una delle armi più potenti dell'NSA”. Ogni interazione in rete viene filtrata. La NSA, se ritiene che ci sia qualcosa di sospetto, installa sul vostro computer un malware da usare contro di voi: “In meno di 686 millisecondi ottenete tutti i contenuti che volevate, assieme a tutta la sorveglianza che non volevate” (pp. 225-226), senza passare dal giudice. La Intelligence Community degli Stati Uniti aveva “hackerato la Costituzione”, alla quale Snowden voleva restare fedele. Si trovò lacerato da un dilemma tragico: tacere, per garantirsi una carriera e una vita tranquilla ma portandosi dentro quest'ombra, oppure... 

Scegliere di non lavorare più “per il governo” ma “per le persone” non fu una una decisione facile, per il rampollo di una dinastia di fedeli servitori dello Stato. Come Snowden sia riuscito a trafugare e rendere pubblici ai primi di agosto del 2013 migliaia di documenti segreti senza farsi arrestare e senza impazzire, diventando uno dei più celebri whistleblowers della storia, è meglio scoprirlo leggendo la sua emozionante epopea solitaria (e lo struggente diario della sua compagna Lindsay nei giorni cruciali).

 

 

Onniscienza, controllo, certezza

 

Nell'indifferenza pressoché generale si è generato un sistema feroce, mostruoso, occulto. Come sia stato possibile, ce lo spiegano Snowden e Zuboff. Le cause sono molteplici. Il rapporto costante tra i servizi segreti e le aziende, fin dalla nascita di internet, che in origine era un'infrastruttura militare (ARPANET). Un'ideologia neo-liberista e individualista, che ha ridotto le tutele di leggi e regolamenti, dando spazio all'iniziativa privata senza alcun contrappeso della società civile e dei lavoratori. La necessità di alcune grandi aziende di massimizzare i profitti e ripagare gli azionisti dopo la bolla del 2000. L'ossessione per la sicurezza dopo l'11 settembre 2001. 

Contribuisce anche, spiega Zuboff, la visione utopica di alcuni signori della rete. Larry Brin e Sergei Page di Google, come Mark Zuckerberg di Facebook, sono convinti che i loro algoritmi renderanno il mondo migliore: offrono “soluzioni ai singoli individui sotto forma di connessioni sociali, accesso all'informazione, risparmio di tempo, e spesso con l'illusione di un sostegno”, e offrono “soluzioni alle istituzioni sotto forma di onniscienza, controllo e certezza”. A differenza degli utopisti del passato, che erano filosofi squattrinati, questi profeti 2.0 dispongono di enormi risorse finanziarie per imporci le loro visioni. 

Il loro intento, avverte Zuboff, “non è quello di porre rimedio all'instabilità – la corrosione della fiducia sociale, la rottura dei legami di reciprocità, le conseguenze pericolose dell'ineguaglianza, i regimi basati sull'esclusione – ma lo sfruttamento delle vulnerabilità prodotte da tali condizioni” (p. 400). Il “cloud che lavora in armonia con i sensori intelligenti” dell'IoT sarà in grado di anticipare e prevenire le deviazioni dalla norma “prima che possano accadere”, ha annunciato nel 2017 Satya Nadella, amministratore delegato di Microsoft. Come ha avvertito Evgeny Morozov, diventa possibile prevenire (o reprimere) il dissenso ancora prima che si manifesti, e addirittura prima che gli interessati siano consapevoli di essere fuori dalla norma (Internet non salverà il mondo, traduzione di Gianni Pannofino, Mondadori, Milano, 2014, 454 pagine, 19 €).

 

 

Negli Stati Uniti, a guidare la danza sono le grandi aziende, alleate con l'apparato statale. La Comunità Europea tenta di frenare questa ingerenza con i suoi regolamenti sui monopoli, sul copyright e sulla privacy (GDPR). In Cina, è lo Stato (ovvero il Partito Comunista) a governare il meccanismo. 

Sesame Credit, il sistema di “calcolo dei crediti personali” di Ant Financial (Ali Baba), valuta il regolare pagamento di crediti e bollette, ma anche “gli acquisti (videogame anziché libri per bambini), livello d'istruzione, quantità e 'qualità' degli amici”. Usando questi dati, l'algoritmo decide chi può acquistare un biglietto d'aereo o per un treno ad alta velocità e chi deve invece viaggiare su un Regionale, chi può iscriversi al Partito e chi non può comprare una casa (Zuboff, pp. 407-408). Gli utenti di Sesame Credit hanno subito iniziato a ripagare i loro debiti alla banca. 

Di recente i big data sono stati integrati con la geolocalizzazione (la strada l'ha tracciata un esperimento di massa come Pokemon Go!) e il riconoscimento facciale: il risultato è il social credit personale, un incubo che sembra una puntata di Black Mirror, come racconta il documentario Social Credit: China's Digital Dystopia In The Making. Il social credit si rivela utilissimo per zittire ogni dissenso. Anche per questo la lotta degli studenti di Hong Kong è doppiamente eroica.

 

Una sovversione che viene dall'alto

 

Zuboff si chiede come possiamo resistere alla “macchina alveare nella quale rinunciamo alla libertà in cambio di una conoscenza perfetta che qualcun altro amministra per il proprio profitto” (p. 459). È un problema politico: “Chi sa? Chi decide? Chi decide chi decide?” È anche una questione di benessere psichico. “La scomparsa della società tradizionale e l'evoluzione della complessità sociale hanno accelerato il processo di individualizzazione”. Dunque “la connessione digitale è divenuta un mezzo di partecipazione sociale necessario”, ma dominato e strumentalizzato dal capitalismo della sorveglianza. Costruiamo la nostra identità sulla base del confronto sociale: ma più il bisogno degli altri viene soddisfatto (con il mix di esibizionismo e narcisismo tipico degli influencer), meno diventiamo capaci di costruire il nostro sé. Viviamo la fear of missing out (la “paura di perdersi qualcosa”) e cadiamo preda dell'invidia.

Secondo una ricerca di Holly B. Shakya e Nicholas A. Christakis pubblicata nel 2017 sull'“American Journal of Epidemiology”, mettere un like ai contenuti degli altri e cliccare sui loro link “sono azioni sempre collegate a problemi di benessere, mentre il numero degli status è collegato a una minor salute mentale […] Una deviazione standard di 1 nel numero di like, […] link cliccati […] o aggiornamenti degli status viene associata a una diminuzione che va dal 5 all'8 per cento nelle condizioni di salute mentale riportate dal soggetto” (p. 480). Inutile precisare che questi dati forniscono al “testo ombra” valanghe di informazioni sullo stato personale dell'utente. La nostra interiorità, le nostre emozioni, sono diventate trasparenti, conoscibili e dunque manipolabili. 

Tutto questo sta moltiplicando i profitti dei protagonisti del capitalismo della sorveglianza: i cinque big della rete (Amazon, Apple, Facebook, Google e Microsoft), ma anche i provider come Verizon, AT&T e Comcast, e poi le catene della distribuzione come Walmart, le grandi banche e assicurazioni, le piattaforme come AirBnB o eBay...

 

 

“La pressione del gruppo e la certezza computazionale sostituiscono politica e democrazia, annullando la percezione della realtà e la funzione sociale delle vite degli individui” (p. 31). 

Come uscire da questo ossessivo e vorace panopticon? Come evitare di sprofondare in un nuovo totalitarismo? Come salvare una zona di intimità di fronte all'invadenza dei dispositivi? Come difendersi dalla violenza “oggettivante” degli algoritmi? Come ridurre gli errori di sistema, visto che – per esempio – quasi tutti i programmatori sono maschi bianchi con un alto livello di reddito e di istruzione? C'è un paradosso. Gli algoritmi usano il passato per predire il futuro e dunque perpetuano e amplificano i pregiudizi razzisti e maschilisti: questa gigantesca macchina per prevedere e realizzare il più radioso avvenire è per sua natura reazionaria, come ha dimostrato Cathy O’Neil (Armi di distruzione matematica. Come i big data aumentano la disuguaglianza e minacciano la democrazia, traduzione di Daria Cavallini, Bompiani, Milano, 2017, 368 pagine, 18 €).

Di fronte all'opacità e alla segretezza che accompagna questa rivoluzione, che ci vuole ignari come le cavie degli esperimenti degli etologi, il primo passo è la consapevolezza e l'acquisizione di uno spirito critico. Il secondo gesto è autodifensivo e ironico: possiamo “trasformare l'atto di nascondersi in una scienza e un'arte” (Zuboff, p. 504). Ma naturalmente per difenderci dalla “sovversione che viene dall'alto” servono azioni politiche e strumenti legislativi, e soprattutto una ampia mobilitazione democratica. È questa la sfida che ci lancia il capitalismo della sorveglianza. Non sarà una battaglia facile. 

 

Ecco, sei arrivato fino in fondo a questo lungo post e dunque sei un'anomalia.

Per capire chi sei, mi basta guardarti in faccia e guardare le tue scarpe.

Lo stesso vale per te.

Adesso possiamo cominciare a parlare.

 

PICCOLA SITOGRAFIA ARTIVISTICA

Adam Harvey, AH Projects

SA Rogers, How to Be Invisible: 15 Anti-Surveillance Gadgets & Wearables, su weburbanist.com, a questa pagina 

Benjamin Grosser, Twitter Demetricator , a questa pagina.

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Due internet
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Brecce nel mondo murato

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Qualche esempio. Per avvicinare un’immagine che potrebbe risultare fumosa.

“Brecce nel mondo murato”, questa è l’immagine. Viene da lontano, da pensieri arrischiati (Kafka, Hannah Arendt), ma entra nei nostri giorni impalpabili, parla di questa “Età dei muri”, del desiderio di scavalcarli, dell’impeto di abbatterli, o semplicemente di aprire, nella loro superficie compatta, fessure, spiragli, bocche d’aria, o uno stretto pertugio da cui si possa vedere un pezzo di cielo. 

Non è un’idea, e neppure un concetto. È il movimento di un gesto, l’imponderabile insurrezione della nostra libertà.

Qualche esempio, allora. 

Il primo, che mi porto appresso da tempo come una stella d’orientamento, è il suono esile di un fischio. Cosa da poco un fischio, eppure può tenerci in vita. 

Una giovane donna, internata nel lager di Birkenau, “landa desolata, dove le ombre dei morti sono schiere, dove i vivi sono morti”, elabora una sua personale strategia di sopravvivenza (lo racconta Giuliana Tedeschi in C’è un punto della terra. Una donna nel lager di Birkenau, Giuntina, 1988). Alla morte quotidianamente incombente, resiste in un modo davvero semplice, che, ai miei occhi è parso stupefacente: fischia interi brani di Mozart, un Mozart dimesso, in un’esecuzione inevitabilmente sommaria. Quel leggero cuneo d’aria tra labbra appena schiuse, celato sotto la cappa della prigionia, diventa per lei il tracciato di un’evasione, una crepa nel muro, che sfugge ai carcerieri, solco o scalfittura quasi insignificante, capace però di forzare i confini di Birkenau. Taglia filo spinato, scavalca reti di recinzione, si sporge fuori dallo spazio del lager, mostrando in lontananza il mondo a cui Giuliana è stata strappata. Quando il suo fischio smuove l’aria del campo sibila la speranza. È un suono sottile, ma tenace. Vita che resiste.

 

Un secondo esempio, restando su Mozart, ma in una cornice assai diversa. Non Birkenau, ma Algeri. Più di dieci anni dopo. E non il soffio sommesso di un fischio, ma un’intera orchestra impegnata nell’esecuzione del “Don Giovanni”. È il febbraio del 1956, la guerra di liberazione algerina incendia il paese, l’avventura coloniale francese sta deflagrando, pochi mesi dopo “la battaglia di Algeri”. Un teatro della città programma il Don Giovanni. L’iniziativa desta scalpore. Ci si chiede: 

“Ma come! Mozart in mezzo alla storia più folle e pressante? Mozart di fronte all’Algeria piena di odio e alla Francia che rassegna le dimissioni?”. Risponde Albert Camus in un articolo sul settimanale “L’Express” del 2 febbraio: 

“Quando il mondo si ripiega su se stesso, quando le strutture della civiltà vacillano, è bene tornare su ciò che nella Storia non si piega”. 

Per Camus non è affatto scandaloso portare sulla scena il Don Giovanni nell’Algeri insanguinata del ’56, al contrario: gli appare necessario. La sua musica è “sorgente perpetua di gioia fresca, di libertà che insegna … e ancora oggi ispira al contempo la nostra resistenza e la nostra speranza… La nostra vita e i nostri lutti vi trovano allo stesso modo giustificazione”.

Mozart fa breccia nel “mondo murato” dell’odio e della guerra. Certo non lo abbatte, forse soltanto lo graffia. Niente di più. Ma spezza, provvisoriamente, l’assedio della violenza. È respiro; finalmente entra un po' d’aria dentro polmoni soffocati.

 

 

L’ultimo esempio sta appena a lato della nostra immagine. Nessuna “breccia nel mondo murato”. Occorrerebbe una forza che il “sospettato” Charlie Chaplin, “piccolo pover’uomo”, non ha. È lui il protagonista del nostro ultimo esempio. 

Il “sospettato”, secondo l’espressione di Hannah Arendt, il paria, l’escluso, il marginale, può soltanto eludere, con effervescente astuzia, i custodi del potere. Ruota vorticosamente il suo bastoncino, come se si disponesse a infilzare, con la sola arma dell’ironia, la corazza, o il muro, della loro arroganza. Il “sospettato” si muove leggero come una farfalla; il rappresentante della Legge è pesante e goffo. Ma il “sospettato” non è in grado di fronteggiare i guardiani del muro. Verso di loro si atteggia, dice Hanna Arendt, “come ci si ripara da un acquazzone in buchi, rifugi e fessure che si trovano tanto più facilmente quanto più ci si fa piccoli”. 

 

Celarsi fa parte della “ribellione dei piccoli”. Il caratteristico passo ondeggiante del “piccolo” Charlot, che ha suscitato l’ilarità del mondo intero, il fare incerto, perplesso e circospetto, è dovuto al fatto che sembra sempre sul punto di darsela a gambe. Sempre di passaggio, sempre sulla strada. Costantemente all’erta.

Non una breccia nel muro dunque, ma “buchi, rifugi, e fessure”. La risata provocata da Charlot contiene, di fatto, una lezione di disincantato, e amaro, realismo. La sua storia non ha epilogo: il “sospettato” è destinato a restare tale, il poliziotto non può che inseguirlo indefinitamente. Stasi assoluta, nonostante i convulsi movimenti degli attori sulla scena. È come se si muovessero restando fermi, agitandosi attorno alla porta della Legge, aperta, ma invalicabile, come si legge in un racconto di Kafka. 

Il muro sembra insormontabile. L’astuzia del piccolo Charlot per aggirarlo non basta più. La sua stella è destinata a declinare, osserva Hannah Arendt; sul finire degli anni trenta, fa irruzione una nuova favola, quella di Superman. Con lui, le masse urbane, sfiancate dal decennio della “grande depressione”, prosciugati i loro sogni, possono volare, e immaginare di tenere in scacco il male.

 

Vorrei aggiungere un’altra figura sollecitata da una piccola esperienza fatta in questi ultimi giorni: le “sardine” a Piazza San Giovanni, a Roma, sabato 14 dicembre. Una bella “breccia nel mondo murato”. La piazza, e cioè lo spazio aperto, come solo punto programmatico (lo ha dichiarato Santori, il loro coordinatore). Basta esserci, e dire di esserci. C’erano i giovani, i bambini, le mezze età, e i vecchi, e anche qualche carrozzella. E molte donne. Tutti abbastanza incuriositi dagli altri. Molti fantasiosi cartelli fatti in casa, e poche parole, male amplificate, almeno nel punto in cui mi trovavo. Poche parole, come può accadere a chi viene da un lungo inerte silenzio, e si accontenta di guardare, e di tornare a sfiorare gli altri. Una sorta di “grado zero” della politica, ma l’ingrediente essenziale. 

A San Giovanni non c’era un centro che catalizzasse l’attenzione, non c’era il protagonismo del palco, tutto scorreva in basso, come una libera corrente senza vincoli o strettoie.

 

Dico tranquillamente che mi è piaciuto, come mi è piaciuto ricordare il fischio di Giuliana a Birkenau, o il suono gaio di Mozart nella cupa Algeri del ’56, o le astuzie del piccolo Charlot. E mi piacerebbe parlare ancora di muri e di brecce, di piani e di sogni d’evasione, e cioè del nostro respiro.  

Ricordo che sulla piazza di “Doppiozero” (30 gennaio 2019) Enrico Manera ha portato una bellissima riflessione, che è anche un punto di prospettiva su tutti, o quasi tutti, i muri che oggi ci opprimono e ci separano. Poi, non si può non ricordarlo, c’è il libro di Carlo Greppi, L’età dei muri (Feltrinelli, 2019), un’ancora, che attorno ai muri raccoglie e legge molte sequenze significative della nostra storia (Manera gli dedica una prolungata attenzione). L’emblema del muro si sviluppa lungo tutto l’arco della nostra storia.

 

Riporto infine un auspicio, poco più che un fischio, o un sibilo di speranza: quello di Achille Mbembe (Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia, Laterza 2019). “Avremo davvero bisogno di una lingua che perfori, punga e scavi come un trapano … che costantemente roda il reale. La sua funzione non sarà solo quella di far saltare le sue serrature, ma anche di salvare la vita dal disastro che incombe … la lingua e la scrittura dovranno proiettarsi costantemente verso l’infinito dell’esterno, sollevarsi per allentare la morsa che minaccia di soffocare la persona soggiogata e il suo corpo”.

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CHA-CHING! L’arte del Risparmio

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Sono giorni di vacanza, tempo di regali. I nonni non si fidano delle proprie capacità tecnologiche e fanno bene: è meglio regalare soldi ai nipoti, che sceglieranno come usare il denaro ricevuto. Qualche nipote spenderà subito tutto; qualcun altro risparmierà, magari ficcando le banconote in un orrendo porcellino rosa, archetipo delle piccole cose di pessimo gusto. 

Con l’abituale, straordinario apparato iconografico, Franco Maria Ricci ha pubblicato un volume sull’arte del risparmio, Cha-ching: le fotografie di Mauro Davoli riproducono centinaia di salvadanai, appartenenti alla collezione del Museo del Risparmio di Torino, creato da Intesa Sanpaolo nel 2012. Cha-ching è il suono prodotto dalle monete quando cadono nel salvadanaio. Il volume contiene una prefazione di Gian Maria Gros-Pietro e testi dello stesso Ricci, Giancarlo De Cataldo e Guido Guerzoni. 

I salvadanai fotografati sono di ghisa, gesso, terracotta, latta, legno, metallo, ceramica, ottone, plastica. I soggetti sono i più diversi: maiali, altri animali, bambini, scatole di cioccolata, gambe di un tavolo, registratori di cassa, contatori del gas, proiettili, limoni, sacchi, radio, case delle bambole, cigni, scatole, cacciatori che sparano ad animali, libri, orci, mappamondi, pagliacci, uomini politici (ad esempio Kennedy, Churchill, Gandhi), modellini di auto, elmi da pompiere, distributori di benzina, personaggi famosi (come Tintin, Batman, Superman), corone aristocratiche, teschi, teste di uomini, di soldati, di bambini. Immancabile è la fessura che consente di introdurre le monete.

 

 

Come scrive Franco Maria Ricci, i salvadanai sono come i quadri di Lucio Fontana: hanno solo tagli, non sono né aperti né chiusi.

Tra le forme più ricorrenti del salvadanaio c’è il maiale. Secondo una prima tesi, il maiale è l’animale che mangia gli avanzi, e rappresenta un buon investimento in società agricole: non si butta nulla del maiale, dice l’adagio popolare. Secondo un’altra interpretazione, c’è invece un nesso con il materiale utilizzato per costruire piatti e vasi nell’Inghilterra medievale: era una creta aranciata, chiamata pygg. I primi salvadanai furono chiamati pygg bank, che non significa banca del maiale, ma banca di creta, banca di terracotta. Data l’assonanza tra le parole pygg e pig, col passare del tempo il maialino cominciò a indicare la forma del salvadanaio, non più il materiale con il quale era costruito. 

Il salvadanaio più antico è stato trovato a Priene, in Ionia, nell’odierna Turchia, e risale al II secolo avanti Cristo. Il ritrovamento è coerente con l’apparizione delle prime monete metalliche in Lidia, oggi Turchia, intorno a 600 avanti Cristo. 

 

 

Il giudizio morale, politico, economico sul risparmio ha goduto di vicende alterne. I greci avevano passato ai romani l’idea che la parsimonia fosse un valore (Gros-Pietro). Ma successivamente, nei contesti sociali più elevati, il risparmiare fu considerato socialmente riprovevole, un delitto contro natura (Guerzoni). Le classi più abbienti esaltavano la liberalità, posta nel mezzo dei due vizi dell’avarizia e della prodigalità. Fino alla fine del Settecento, viste anche le condizioni dei lavoratori – il salario era di sussistenza – non c’era spazio per il risparmio. Tutto cambia dalla fine del Settecento e soprattutto nel corso dell’Ottocento. Con il trionfo della rivoluzione industriale e della borghesia si diffonde il tema della tutela dei risparmi dei ceti rurali, degli operai, dei piccoli borghesi, degli emigranti. Sono gli anni della nascita delle casse di risparmio e degli uffici postali: gli uomini iniziano a preoccuparsi del futuro, perché l’aspettativa di vita aumenta, e il risparmio diventa encomiabile. Nasce un’educazione al risparmio. Alla fine dell’Ottocento i giovani ricevevano in regalo il libretto di risparmio e il salvadanaio. L’umanità comincia a risparmiare, si crede alle “magnifiche sorti e progressive”. Malgrado le tragedie delle due guerre mondiali, il Novecento ha visto una crescita del risparmio rispetto al secolo precedente. 

 

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, per decenni le famiglie italiane hanno risparmiato più di quelle di altri paesi. Non è più così; dopo la crisi finanziaria globale e la crisi dei debiti sovrani la propensione al risparmio delle nostre famiglie è scesa al di sotto della media dell’area dell’euro. Negli anni della lunga recessione, quando il reddito nazionale si è contratto, gli italiani hanno tagliato il risparmio per cercare di mantenere inalterati i consumi. Ancora oggi l’Italia cresce troppo poco: il Pil del Paese non ha ancora recuperato i livelli precedenti la crisi, un caso unico tra i paesi occidentali. Così il risparmio ristagna. I nostri porcellini rosa non sono pieni come tanti anni fa. Il miglior augurio per il 2020 e gli anni futuri è di tornare a crescere.

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Sandro Veronesi, Il colibrì

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A molti lettori capita, a volte, di essere un po’ prevenuti. A me è successo con l’ultimo libro di Sandro Veronesi. Già prima di cominciare la lettura avevo appreso che il titolo, Il colibrì (La nave di Teseo, pp. 366), era il soprannome del protagonista: il quale, causa problemi di sviluppo, aveva raggiunto una statura normale solo nella tarda adolescenza. Ora, potrei citare senza esitazione dieci o venti animali di piccole dimensioni che mi pare si prestino a veicolare l’immagine di una corporatura minuta molto meglio del colibrì, che nella mia mente si associa a connotazioni diverse. Ma si tratta, con ogni evidenza, di una fisima personale; tanto più che nel corso della narrazione la metafora del colibrì trova ulteriori e più persuasive motivazioni, una delle quali addirittura connessa all’escatologia azteca. 

La mia diffidenza è comunque durata poco. Il primo capitolo del Colibrìè un esempio perfetto di come l’inizio di una narrazione possa catturare l’interesse del lettore, puntando senza ambagi su un effetto di suspense. Al netto del diverso registro stilistico, l’avvio del Colibrì richiama alla mente il Vargas Llosa di La zia Julia e lo scribacchino (La tía Julia y el escribidor, 1977): anche se il Pedro Camacho dello scrittore peruviano (lo scribacchino del titolo) è un autore di drammi radiofonici rivolti a un pubblico di bocca buona, identico è il meccanismo per cui l’inattesa battuta finale del capitolo d’apertura spalanca una strada, varco o voragine, in cui il lettore è subito ansioso di inoltrarsi. E il resto del romanzo, pur nella varietà delle situazioni e dei ritmi, non tradisce le attese; tant’è che forse non sbaglierebbe chi sostenesse che Sandro Veronesi, approdato alla soglia dei sessant’anni, ci ha dato con il Colibrì il suo libro migliore.

 

In prima battuta, il modello narrativo di riferimento è uno dei più tradizionali e illustri che si possano immaginare, cioè la vita dell’eroe, Marco Carrera, dall’infanzia alla morte: quindi, nei suoi vari aspetti di figlio, fratello, marito, padre, nonno. Senonché la narrazione elude platealmente l’ordine cronologico. I capitoli di cui è composta, in numero di quarantasei (omaggio ariostesco?), ciascuno corredato da titolo e indicazione di anno, si presentano scompaginati, senza alcuna logica apparente; fanno eccezione solo gli ultimi due, o meglio il terzultimo e il penultimo, che sono gli ultimi a tutti gli effetti, giacché l’ultimo, a mo’ di epilogo, è una poesia che ci riporta a un momento precedente il primo, denominato Si può ben dire (1999), che annuncia ed innesca la crisi del matrimonio del protagonista. Detto altrimenti, la norma compositiva del Colibrìè l’esibizione dell’anacronia. A volte l’intervallo è breve (anni contigui, in un paio di casi addirittura coincidenti), a volte si spinge alla misura di venti o trent’anni, con la complicazione di date composte. Ad esempio, dalla quarta all’ottava posizione (i capitoli non sono numerati) troviamo Purtroppo (1981), L’occhio del ciclone (1970-1979), Questa cosa (1999), Un bambino felice (1960-1970), Un inventario (2008). Alla segmentazione della vicenda e allo scombinamento cronologico si aggiungono poi gli effetti della discontinuità espressiva: ai brani di carattere narrativo sono infatti intercalati dialoghi, lettere, rari scambi di messaggi elettronici. Ma lettere, soprattutto: lettere fra Marco e Luisa, la donna con cui egli intrattiene un pluridecennale amore epistolare e platonico, lettere di Marco al fratello Giacomo sulla gestione dell’eredità dei genitori, alla fine anche una lettera a Marco della nipotina.

 

 

Ovviamente una destrutturazione siffatta non è invenzione di Veronesi, né prerogativa della forma-romanzo: basti pensare al film che ha sancito il successo di Quentin Tarantino, Pulp Fiction (1994), dove peraltro l’anacronia si giocava su tempi molto più brevi e riguardo a una pluralità di vicende intrecciate, mentre qui la vicenda è unica e copre, come si diceva, un’intera vita. Certo è che gran parte dell’efficacia del Colibrì dipende dalla bravura con cui tale procedimento è maneggiato. Non sarà perciò ozioso chiedersi su quali meccanismi estetici si fonda, ossia quale tipo di reazione attiva. Le narrazioni destrutturate – s’intende: purché governate con abilità – offrono un piacere simile a quello della detection story classica, o dei solitari di carte: la transizione dal disordine all’ordine, il graduale ricomporsi del senso che rintuzza e mette sotto scacco la minaccia del caos. Il buon funzionamento della macchina narrativa dipende tanto dal dosaggio delle informazioni (la memoria di servizio del lettore dev’essere sollecitata il giusto, né troppo né troppo poco), quanto dall’avvicendamento di contesti e registri (gli sbalzi possono essere bruschi, ma non bisogna abusarne). In secondo luogo, la non-linearità della narrazione consente di ampliare immediatamente l’orizzonte del racconto sull’asse temporale, anche dove gli spazi siano contenuti, sfuggendo agli effetti di rallentamento indotti di norma dai flashbacks. Infine, un uso accorto della mescolanza episodica di passato e presente è suscettibile di evocare le concrete dinamiche della coscienza. Ad ogni momento dato, noi abitiamo virtualmente tempi diversi: anche dove la narrazione non persegua effetti di mimesi, quindi, il fluttuare dei ricordi nella mente, in un imprevedibile consorzio di stratificazioni e di emulsioni, è comunque evocato dal libero gioco della cronologia.

 

Ma ovviamente non è solo questione di tecnica. Una delle risorse migliori di Veronesi è la capacità – per la quale si potrebbe forse parlare di una funzione Moravia nella letteratura italiana – di ritrarre condizioni e contraddizioni di un ceto sociale, di una borghesia nazionale in cui albergano alcune non secondarie ragioni dell’evoluzione del Paese, anche se l’approccio rimane essenzialmente intimista. Quella di Marco Carrera è una vita interessante: una vita drammatica, segnata da lutti e lacerazioni (il suicidio della sorella, la separazione dalla moglie, le incomprensioni con il fratello, la perdita della figlia), punteggiata da casi fortunosi e percorsa da paradossi (la solidità emotiva e la tentazione del gioco d’azzardo, la ricerca dell’equilibrio e i lampi delle rivelazioni, la varia fenomenologia del tradimento), occasionalmente confortata o soccorsa da singolari amicizie (un ex-psicoanalista pieno di umanità, un coetaneo che si adatta alla professione di iettatore). Fra i personaggi secondari, resta nella memoria specialmente la figura della figlia Adele: frutto di una unione falsamente felice e perciò destinata a disintegrarsi, nell’infanzia accusa un disturbo allucinatorio dall’alta valenza simbolica (è convinta di avere un filo attaccato alla schiena), rispetto a cui la precoce fine, un incidente alpinistico, apparirà quasi un tragico contrappasso. 

 

Una vita, quella di Marco Carrera, che ha molti connotati tipici della condizione contemporanea vissuta dalla sua generazione (il protagonista è coetaneo dell’autore, oltre che suo concittadino). Una famiglia di origine usa a occultare i dissidi, che a conti fatti lascia una dolorosa eredità di divisione; relazioni a distanza o nate nella distanza, che fanno scontare duramente i momenti di felicità; il rimpicciolirsi delle famiglie, fatte solo di figli unici; il dilemma di una paternità al bivio fra assenza ed eccesso di presenza; e anche la sensazione di aver commesso errori, tanti errori, nonostante l’onestà dei propositi. E tuttavia Il colibrì è un libro meno amaro di quanto possa apparire da quanto detto fin qui. Marco è capace di una dedizione e di un attaccamento che alla fine gli garantiscono una sostanziale serenità, per quanto tormentose possano essere le contingenze che ha attraversato.

 

Chi gli sopravvive – così almeno sembra – potrà in futuro giovarsi della sua memoria. Questo vale per tutti: per Luisa, l’amante (in più sensi) mancata; per Giacomo, il fratello (in più sensi) fuggito; per l’ex-moglie Marina, già ex-miss Slovenia, sopravvissuta alla menzogna e al dissesto mentale; per la sua seconda figlia, Greta, nata in Germania, ma ben disposta a riallacciare i legami con l’Italia. E soprattutto per la nipotina di Marco, Miraijin, nome giapponese che significa, emblematicamente, «uomo del futuro»: miracoloso concentrato di virtù e di bellezza che illumina le pagine finali come un pegno di riscatto. A lei, forse, sarebbe convenuto meglio l’appellativo di colibrì, creatura alata dalle movenze agili e velocissime, capace perfino di volare all’indietro, frequentatrice esatta e aggraziata delle più variopinte corolle tropicali. Ma non fateci caso, è solo la fisima di un lettore. 

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L’origine di un pregiudizio

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Musi gialliè il titolo di un libro dello scrittore e giornalista Fabio Giovannini uscito nel 2011 per Stampa Alternativa: musi gialli, chinks o gooks, venivano chiamati gli abitanti dell’Asia in molti film di guerra hollywoodiani. Il più pericoloso muso giallo dell’immaginario occidentale è stato però Fu Manchu, diabolico mandarino che ordisce trame per rovesciare i rapporti mondiali, personaggio dei romanzi dello scrittore britannico Sax Rohmer.

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Cultura mediterranea: antidoto collettivo al food porn

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Cibum nostrum (Derive e Approdi, 2019) è un libro che, per via della centralità e del ruolo restituito al Mediterraneo nel farsi della storia d’Europa, ha un carattere eminentemente meridiano.

Maurizio Sentieri fa opportunamente della cultura alimentare una sorta di radice dell’intero, capace com’è di rammemorare e rimandare alla realtà dei luoghi e del saper vivere, e lo fa soprattutto lottando contro la retorica dell’alimentazione, contro i suoi luoghi comuni, a partire dal feticcio della falsa e abusata concezione della “dieta mediterranea”. 

 

In opposizione all’estetica del cibo, alla sua odierna, volgare spettacolarizzazione, portata avanti a reti unificate e su riviste patinate, in Cibum nostrum si ribadisce con Wittgenstein che nell’alimentazione, come nella vita, non c’è estetica senza etica, e che la nostra antica cultura culinaria affonda le radici ancora una volta in quel mare nostrum in grado di irradiarsi e inerpicarsi fino alle pendici degli Appennini e delle Alpi meridionali, dando vita a un sistema integrato alla costante ricerca di soluzioni dettate dalla continua necessità. Si tratta, ricorda l’autore, di riconoscere nella frugale molteplicità mediterranea, nel suo policentrismo, la scoperta di un equilibrio innescato dalla stessa fragilità o scarsità del mondo contadino. Insieme alla ricca biodiversità, è la precarietà – ricorda Sentieri con Braudel – il motore della fantasia culinaria italiana. Una cultura millenaria che inseguiva ambiente e stagioni, erbaggi, transumanze, rafforzatasi in nuove cristallizzazioni con gli alimenti provenienti dal continente americano e fissatasi poi negli ultimi cinquecento anni.

 

Dunque, Cibum nostrumè un invito a distinguere e contestualizzare, senza dimenticare che l’alienazione dell’individuo occidentale risiede anche in questa perdita di memoria, in questa incapacità di abitare e dimorare facendo convivere al meglio elementi positivi del passato con quelli irrinunciabili del presente. E che, se l’integrazione e la varietà dell’alimentazione facevano il paio con le mille attitudini degli abitanti, col rispetto del territorio e della biodiversità – fattori che hanno portato la dieta mediterranea a divenire patrimonio immateriale dell’Unesco – ebbene, con tale riconoscimento si premia non solo una cultura, ma un intero e complesso stile di vita conviviale e comunitario, da cui si può ripensare il rapporto stesso con i luoghi.

 

 

Beninteso, Sentieri, lontano da nostalgie verso le tante criticità della civiltà contadina, sottolinea che quel tipo di cultura materiale è stata però sostituita dal suo opposto, ovvero dall’eccesso di una società di stampo edonistico e narcisistico, in cui ognuno è ingranaggio, consumatore intermedio di una filiera gigantesca, eppure quasi occulta e invisibile, nella sua onnipotenza. Ecco che il sogno dell’assenza di necessità, una volta avveratosi, conduce al caos alimentare, per poi farsi problema ecologico e, dal punto di vista politico, problema democratico. Il punto è, sì, il rapporto tra fame e sazietà, ma anche la tensione ormai smarrita, e tuttavia imprescindibile, direbbe Günther Anders, tra libertà e necessità. A questo punto non basta che la tecnica abbia sconfitto il tempo, e che tutto sia possibile e illimitato, perché è lo spazio a presentare il conto proteiforme della tracotanza moderna: l’emergenza climatica, le nuove migrazioni, per esempio. 

 

Insomma, Cibum nostrum parte dalla distanza frapposta tra noi e il mondo per rimarcare il contrasto tra l’alimentazione vissuta come simbolo, come vita e relazione sociale, e il suo simulacro: maschera mortifera, predatoria, frivola e superficiale. E affida alla ricca sezione finale di ricette immateriali, dedicata alle terre marginali appenniniche, una raccolta di cibi e storie dagli aspetti pluridiscorsivi e polisemici, la soluzione dell’impasse. Le ricette selezionate hanno il merito di fugare ogni dubbio e restituire la relazione col cibo a una condizione materiale, al rapporto produttivo che si fa saggezza, attraverso un sapere declinato come conoscenza collettiva, basato su infiniti tentativi, esperienza, selezione, fino a tradursi in filosofia di vita e benessere. 

 

Per Sentieri, è chiaro, non si tratta qui di mero utilizzo, di assoggettamento, ma di vivere nella maniera più piena e appropriata, per costruire un mondo di cui possiamo realmente dirci partecipi. Per questo, Cibum nostrum si schiera a favore della profondità, del radicamento, della semplicità. E invita a riguardare le cose e le persone, a restare e trattenersi, nella comprensione di una totalità in grado di farsi gesto, maniera, rito, e nuovamente storia condivisa.

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Recensione (con divagazioni) a Silvia Ferrara. La grande invenzione

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Philip Roth in Operazione Shylock racconta così il modo in cui a scuola ha scoperto l'alfabeto: «le ventisei coppie asimmetriche suggerivano a un intelligente bambino di cinque anni ogni dualità e corrispondenza che una piccola mente potesse concepire»; «la processione che marciava immobilmente verso la porta dell'aula scolastica costituì una pesca miracolosa associativa di inesauribili proporzioni». Nella forma espositiva didattica e disciplinata che le coppie di lettere assumono sulla lavagna (Aa Bb Cc …) «il fregio dell'alfabeto» appare simile a «figure di profilo, nel modo in cui gli scultori di bassorilievi di Ninive rappresentarono nel 1000 a.C. la caccia reale al leone».

Non è l'unico passo dell'opera di Roth che associa le proprietà pittoriche e la magia ricombinatoria della scrittura alla gioia pura; la forza che deriva dal padroneggiamento del linguaggio è un «piacere corroborante», tale da «espandere così dinamicamente i limiti della coscienza». Non posso omettere come nel passo citato del romanzo compaia una sola, successiva, scoperta capace di competere in forza con la scrittura: il sesso, che per Roth coincide con la fine dell'infanzia.

 

Ho associato istantaneamente questo passo a un saggio recente che con una notevole forma narrativa si concentra proprio sulla magia delle lettere scritte e del suo rapporto di amore con la vita: «la magia sta nell'entrare nella testa di qualcuno che non è lì con voi, che non vi sta parlando, che non vi risponde». A scrivere è Silvia Ferrara, studiosa di lingue antiche e di scritture indecifrate, in La grande invenzione (Feltrinelli 2019): «è una magia imperfetta, perché la comprensione non è istantanea, va interrogata, e c'è margine di errore. Ma è in quel ponderare, in quel “pensarci su” che sta tutta la sua perfezione», continua l'autrice.

 

https://www.youtube.com/watch?v=UvmV4rMNmzk

 

Il libro di Ferrara regala scoperte intelligenti a ogni pagina ed è in grado di illuminare in modo festoso aspetti culturali e cognitivi di estremo interesse per qualsiasi lettore.

La grande invenzione, come recita il suo sottotitolo, è una Storia del mondo in nove scritture misteriose che colpisce l'immaginazione innanzitutto perché è scritta con lo stile sperimentale e magnetico di una lingua parlata. In estrema sintesi: c'era una volta una bambina affascinata dall'alfabeto e dalle lingue antiche che oggi insegna Filologia e civiltà egee all'università di Bologna e coordina il progetto INSCRIBE (Invention of Scripts and their Beginnings). Un gruppo di ricerca finanziato dall'European Research Council che svolge indagini sull'invenzione della scrittura con metodi di analisi interdisciplinare (linguistica, archeologia, percezione visiva e studi cognitivi, Digital Humanities) per capire «quante volte la scrittura sia stata inventata nella storia del mondo» in un'ottica di cooperazione e di convergenza di intenti tra studiosi. L'esperta di una disciplina tecnica e accademica abbandona qui le regole del gioco della pubblicistica disciplinare universitaria per spiegare in modo brillante e in termini concreti qual è il suo lavoro di ricercatrice e di insegnante. Ci mostra una serie di problemi in un settore che, lungi da essere arcaico, polveroso e noioso, si rivela essere una caleidoscopica Wunderkammer di questioni che chiamano in causa storia, archeologia, antropologia, scienza cognitiva e psicologia evoluzionistica. 

 

 

Il libro in particolare si concentra sulle scritture sconosciute e indecifrate come le quattro dell'area egea (il geroglifico cretese, la lineare A e il cipro-minoico, il disco di Festo), il proto-elamita, la scrittura della valle dell'Indo, quella mesoamericana precedente la scrittura maya, il khipu degli inca (un sistema di nodi fitti e su fili di colori diversi), il rongorongo dell'Isola di Pasqua... C'è poi la storia di scritture e alfabeti noti,  i geroglifici egizi naturalmente, il cuneiforme, così come gli ideogrammi cinesi e la loro evoluzione; ognuno è riportato con naturalezza nella sua rotonda bellezza al contesto del suo uso, diffusione, circolazione, in/decifrazione e di ognuno con disarmante franchezza sono sintetizzati la storia del dibattito, le teorie rivali e lo sviluppo della ricerca nel tempo (il che da solo basterebbe a farne un affascinante romanzo accademico).

 

Ferrara si muove nello spazio geografico in chiave di storia globale della “preistoria” (un termine che non so più cosa voglia dire) e descrive le rune scandinave così come il tifnagh berbero tuareg; dipana il suo discorso lungo l'asse del tempo per presentarci invenzioni individuali come l'alfabeto cherokee (inventato per la preservazione della lingua nativo-americana) e la scrittura pahawh ming (siamo tra Vietnam e Laos a metà del Novecento) o i segni delle tante scritture private e misteriose (il codice segreto di Ildegarda di Bingen e il celebre manoscritto Voynich ad esempio). L'equilibrio punteggiato della scrittura è dunque al centro di un incantevole racconto incardinato nelle tante singole esperienze, di cui ha poco senso dare qui una sintesi, oltre che per l'incompetenza di chi scrive anche per non togliere a nessuno il piacere della scoperta.

 

 

Più interessante per me è far notare come l'autrice spieghi con semplicità questioni di grande complessità e mobiliti punti di vista inconsueti, e tali perché abitualmente dati per scontati e naturalizzati nel paesaggio cognitivo. Si muove esibendo lo scarto tra linguaggio, lingua e scrittura e mostra come nascono, si affermano o si insabbiano le scritture a partire dalle loro caratteristiche (iconicità, sillabacità, sintassi) e all'interno delle società che se ne servono nelle loro tecniche culturali (ripetizione, ridondanza, proliferazione). Utilizzando il caso delle scritture nella storia, Ferrara sintetizza la logica dell'invenzione e le riconnette non tanto alle finalità evolutive di una prospettiva teleologica quanto all'adattamento progressivo e all'adozione di differenti strategie di organizzazione e comunicazione del dato percettivo e mnestico legato a funzioni e esigenze differenti.

 

Liberate dal monistico, deterministico e necessario legame unico con le strutture sociali, politiche ed economiche che le esprimono le scritture possono così brillare nella loro dimensione creativa, spontanea e naturale nei diversi contesti in cui sono utilizzate e si sono trasformate nell'arco di secoli o millenni. In un dialogo serrato e molto operativo, la discussione del nesso tra genesi della scrittura e della statualità chiama in causa e discute le teorie antropologiche sintetizzate e rese note da Jarred Diamond e Juval Harari (e mi ha ricordato anche la riflessione di David Graeber). Come mostrano i diversi casi citati il punto essenziale è come la scrittura, il cui successo storico è anche correlato alla sua adozione politica da parte delle realtà statuali e dalle culture di palazzo, sia in ogni caso eccedente e indipendente rispetto a queste e da riportare primariamente ai tanti fatti sociali che implicano il portare all'esterno una serie complessa di dati espressivi.

 

Questo è soprattutto un libro sulla meraviglia e sulla difficoltà della scoperta, sul piacere e sulla fatica della ricerca scientifica, sul confronto tra teorie e su uomini e donne che sognano di notte il loro lavoro e che è anche una forma di vita, come nella storia della decifrazione della lineare B: il racconto di Alice Kober e Michael Ventris che “dialogano” dai due lati dell'Atlantico è pura poesia. Il decalogo sulla decifrazione delle scritture proposto dall'autrice è, nella sua ironica comicità, un manifesto di onestà intellettuale e umana di rara efficacia.

 

 

Ferrara porta il lettore su temi di fronte ai quali le regole del campo accademico suggeriscono abitualmente di fermarsi. Temi trasversali, universali e generalisti di tale portata di cui il cultore medio di scienze umane o storiche – educato all'autocensura e al conformismo – si trova a dover parlare quasi di nascosto con pochi sodali dello stesso segmento generazionale, in coda a qualche evento destinato ad altri argomenti iper-specializzati e con il rischio di sembrare strambo. Trovano infatti posto considerazioni di tipo neuroscientifico in chiave di Deep history, sul rapporto tra substantia nigra, ipotalamo e amigdala e sul ruolo che possono aver avuto nella poligenesi della spinta antropogenetica alla figurazione e alla scrittura. A dimostrare come le discipline archeologiche siano oggi un'avanguardia nell'interdisciplinarità in un contesto come quello italiano in cui le “due culture”, umanistica e scientifica, sono cresciute separate e rimaste fino a anni recentissimi poco comunicanti.

 

L'invenzione della scritturaè prima di tutto un discorso aperto e appassionato sul significato emotivo che ha avuto il lasciare segni sulle pareti di una grotta paleolitica e, per estensione, farlo oggi su uno dei tanti dispositivi tecnologici tardomoderni. Si tratta di registrare le declinazioni private di simboli condivisi di una intenzionalità collettiva, come ci ha mostrato la contemporanea filosofia della scrittura (penso, ad esempio alle opere di Maurizio Ferraris).

 

Lettere vive, scrive Ferrara, che parlano di essere ricordati, oltre il tempo e l'intenzione immediata. A rischio di prendere una divagazione personale, rischiosa e senza ringhiera, vorrei sottolineare la pregnanza di questa prospettiva nella contemporanea scienza della cultura. Carlo Ginzburg (in Storia notturna) ha definito semiofori quegli «oggetti portatori di significato» i quali «hanno la prerogativa di mettere in comunicazione il visibile con l’invisibile», eventi o persone lontani nello spazio e nel tempo». Così Sapiens userebbe le ossa degli animali uccisi e l’ocra per le sepolture per designare l’assenza, attuando una capacità simbolica di origine biologica. Mettere in comunicazione visibile e invisibile e garantire la continuità culturale dell'eredità della specie oltre la morte individuale sono le funzioni che fondano ogni ulteriore discorso su memoria e immortalità. Thomas Macho (in Morte e lutto nel confronto tra le culture) ha ipotizzato come la storia della rappresentazione inizi con quella della gestione della memoria dei morti e della manipolazione dei corpi e ha visto come la «materialità di ossa e immagini» sia stata «traslata» in quella grafica delle lettere: «la svalutazione delle immagini nel culto mortuario greco ed ebraico cominciò non da ultimo con l'affermarsi dell'alfabeto scritto; [...] furono le iscrizioni sugli ossari o pietre tombali ad assumere la funzione della rappresentazione del defunto». Fino a suggerire che se la progressiva ossificazione della materia organica è parallela alla stilizzazione della memoria nel tempo, in modo analogo la corrispettiva dimensione grafica procede nella direzione della semplificazione che dall'iconicità va verso la forma agile delle lettere e del loro valore fonetico.

 

 

Tornando al dettato del testo, è vertiginoso pensare come la scrittura sia nella storia evolutiva una recentissima e imprevista invenzione verso la quale altre attitudini biologiche sono state riconvertite: in una vera e propria riconfigurazione cognitiva «i nostri neuroni hanno imparato a riciclare parti preposte a captare altro e le hanno usate per captare i segni. Le aree programmate per riconoscere forme e contorni degli oggetti sono state riutilizzate per distinguere le forme dei segni» (Ferrara).

 

Lettere e vita, dunque, all'interno di un rapporto nel quale l'invenzione della scrittura si pone come plesso storico tra la natura e la cultura e produce nuova storia. Nel passo del romanzo con cui ho voluto aprire questo articolo l'incontro del bambino con la scrittura alfabetica – che poi diventerà così familiare da diventare scontata – dischiude il mondo sotto altra luce a chi la scopre, perché ne riorganizza e reindirizza l'esistenza, lo fa culturalmente diventando una nuova natura. Continua Roth, stringendo il giunto tra scrittura e persona nella storia individuale: «tutto quello che ho per difendermi è l'alfabeto; è quanto mi hanno dato al posto di un fucile».

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Nanos Valaoritis, esiliato al centro del mondo

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“Mi sono svegliato a quarant’anni”, era solito dire Nanos Valaoritis, poeta greco che ha lasciato una traccia durevole nei modernisti inglesi, i surrealisti francesi e la Beat Generation statunitense, prima di diventare, a 90 anni, uno dei portavoce della protesta ateniese contro le pretese tedesche dei primi anni 2010. Colui che resterà sempre un “contemporaneo capitale” per varie generazioni ci ha lasciati il 13 settembre 2019, a 98 anni. 

“Nanos ha accettato di vederla”, mi scrive Ersi Sotiropoulos, “può chiamarlo da parte mia”. A 91 anni, questo poeta che si dice sia stato il più grande della diaspora ellenica da Cavafis in poi si è appena lanciato in una dura battaglia politica, al limite talvolta oltraggiosa, in cui rivivono tutti i dolori dell’invasione italo-tedesca del ’41 e del debito di guerra mai pagato a una Grecia martirizzata. Per la prima volta, la sinistra radicale rappresentata da Syriza appare un’alternativa elettorale credibile, senza sapere troppo se, una volta al potere, avrà i mezzi per realizzare tutto il programma o perlomeno una parte. Per cercare di capire meglio cosa succede ad Atene in questo giugno 2012, ho deciso di andare a sentire cosa hanno da dire i poeti. 

 

Cosa dicono i poeti 

 

La Grecia è uno dei rari paesi d’Europa in cui la poesia contemporanea, lontana dagli spasmi del post-modernismo, conta ancora un po’, e Nanos Valaoritis è quindi conosciuto da tutte e tutti. Devo decidere, quasi come si accorda un immenso privilegio, chi tra tutte le persone che conosco qui, condividerà la mia fortuna di incontrarlo. E scelgo Nikos, l’amico di Parigi, tornato ad Atene poco tempo prima della crisi, e che ora vive ormai parzialmente in strada. Diventerà più tardi un personaggio del romanzo del giornalista Léonard Vincent, Athènes ne donne rien (pubblicato in Francia nel 2014, non tradotto in Italia, ndt). 

Nanos – è così che si fa chiamare – vive nel quartiere Kolonaki, un po’ lontano dalle piazze scelte dagli avversari del giorno per i loro ultimi meeting: a Piazza Omonia – letteralmente della concordia – parlerà Tsipras, mentre il favorito della destra parlerà a Piazza Sintagma – la costituzione.

 

 

Concordia o costituzione? Sembra che dietro quest’ultima alternativa geografica si nasconda un messaggio sul futuro del continente.  O forse non è che una maniera come le altre di presentare un dilemma. 

Quando arriviamo, Nanos ci accoglie con sua figlia nella penombra di un antico appartamento, le persiane mezze chiuse per proteggersi dalla canicola di un’estate precoce. Mi ricordo i suoi capelli scompigliati, la sua barba rigogliosa e i suoi vestiti, semplici e logori, apparentemente in contrasto con un discorso nel quale fluiscono senza fermarsi le tracce di una cultura classica, di cui hanno potuto beneficiare solo i figli benestanti della sua generazione. 

 

Da Parigi a Londra 

 

Nato a Losanna, da una famiglia cosmopolita, che conta tra gli antenati un poeta e deputato dei tempi eroici dell’indipendenza, Nanos studia ad Atene, dove ben presto vive l’occupazione tedesca, che gli lascia un trauma profondo: come dimenticare in effetti che, dopo la Polonia, la Grecia è il paese che ha pagato il più caro tributo al nazismo in proporzione della sua popolazione globale. Mi ricordo bene del suo gesto quando indicò un’altra stanza dell’appartamento: “Qui stavano i tedeschi”. 

Più tardi fuggì verso la Turchia, poi l’Egitto, e in Inghilterra, dove abitò 10 anni e dove si associò al circolo dei poeti modernisti. Quel pomeriggio, evoca come ama fare, cosciente o no dell’effetto che provoca, i nomi di T.S. Eliot che ha frequentato a Londra, o di Lawrence Durrell e di Henry Miller, incontrati in Grecia, o di altri ancora, come quelli di W. H. Auden o di Dylan Thomas. Resto pietrificato davanti a questo signore anziano, così presente al mondo, i cui ricordi sono quelli di un museo vivente. 

Nel corso degli anni Cinquanta risiede a Parigi, dove incontra una pittrice surrealista californiana dallo sguardo ipnotico, Marie Wilson. I due si sposano, e lei lo presenta a André Breton. Mi rievoca un’agata perfetta trovata nel letto del fiume vicino a Saint-Cirq Lapopie, dove il capofila del surrealismo, che lì si trasferì nel 1950, ha “finito di desiderarsi altrove”. Nella sua casa aperta a tutti, il tesoro finì per essergli sottratto. 

 

“Scombussolato d’amore”

 

Ma Nanos, eterno espatriato, è di passaggio in questo movimento come in altri, ma vi resta abbastanza perché nel 1991 gli venga affidata la grande mostra del Centre Pompidou sul surrealismo greco. 

Anche dal punto di vista politico, si collega a una sinistra non marxista, in un’epoca nella quale queste idee non sono tra le più convenienti. Rientrato in Grecia, è costretto nuovamente all’esilio con l’arrivo dei Colonnelli. A San Francisco, frequenta Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti. 

Al termine della nostra intervista, riparto con le braccia piene di libri, tra i quali una magnifica antologia della poesia greca tradotta in inglese. Nikos mi sorride senza dire nulla. È lui che mi scrive, dopo qualche anno di silenzio, una strana lettera, che inizia così: “Conservo sempre un dolce ricordo di quella visita”. Mi annuncia poi che Nanos ci ha appena lasciati, nella forza dell’età oserei dire, la forza dei suoi 98 anni. 

Nei mesi successivi al nostro incontro, io e lui ci siamo scambiati qualche lettera. Nell’ultima che ho ricevuto, c’era una poesia in allegato che non ero riuscito ad aprire. Venendo a sapere della sua morte, ho fatto tutto il possibile per capirne il contenuto. Eccolo dunque, nella traduzione dell’autore:  

 

“Con le mie due mani

Respingevo la pietra tombale

Ho rinnegato il mio giuramento

E ho compiuto la mia metamorfosi

In scimmia e lo sono ancora

Quello che ero e quello che sarò 

Mago poi incantatore 

Sempre buon oratore

Scombussolato d’amore”

 

Testo tradotto da Elena Caruso dal testo originale “Le poète grec Nanos Valaoritis, exilé au cœur du monde” di Olivier Favier, pubblicato su RFI.com il 18/09/2019.

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C. Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme

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Mani al lavoro: mani di donna che disegnano e rumore del carboncino sulla tela. Sono le prime cose che ci fa vedere e udire l’inizio di Ritratto della giovane in fiamme, di Céline Sciamma. Poi arriva, fuoricampo, una voce, anch’essa femminile, che dà indicazioni su come definire il contorno e la silhouette, e a quel punto ecco un primo piano: sugli occhi di una, due, tre, quattro giovani che guardano e ritraggono. La loro attenzione progressivamente si sposta sulla maestra/modella di disegno (Noémie Merlant), e poi, dietro di loro, sul ritratto di una giovane donna in riva al mare, raffigurata di spalle, con un abito in fiamme. Lo sguardo di quelle giovani fanciulle in fiore – stavolta non ammirate e sognate, ma messe, loro, in una posizione di osservatrici – precisamente quello sguardo, funziona sia da varco visuale e narrativo sia da cifra espressiva del film che abbiamo cominciato a vedere. Percezione e memoria hanno avviato l’opera, come strumenti di un concerto. Da quel momento parte, in flashback, e per l’intera durata del film, fino alla soglia finale, il racconto della storia dietro a quel misterioso ritratto, che funziona dunque tanto da soggetto quanto da inquadratura. 

 

 

Ritratto della giovane in fiamme (Portrait de la jeune fille en feu) è bello e importante, perché non dimostra, ma mette in scena, trasformandoli in linguaggio cinematografico, alcuni motivi cruciali: cosa vediamo e cosa facciamo vedere quando dipingiamo – anche attraverso le altre arti – il mondo? Cosa guardiamo in un quadro? Tutto il film è un lavoro sul vedere e sui modi di vedere, che ruota attorno a due vicende centrali. C’è il racconto di una storia d’amore, fatta svolgere e mostrata come suspense, incontro, enigma dell’altro e, soprattutto, non come emozione generica ma come l’esperienza travolgente (e bruciante) che si può provare – anche una sola volta, se va bene – quando ci si innamora di quello che davvero vediamo dell’altro (certe suggestioni “hitchcockiane” nei pedinamenti di Héloïse sembrano lavorare a questo livello). E poi c’è il racconto della “donna artista”, vale a dire come persona appartenente a un destino storico che ha escluso e minorizzato le donne – tanto come soggetti ritratti quanto come artiste. 

 

Così come l’hanno rappresentata le arti, e ragionando in termini prospettici e di lunga durata, l’identità femminile è stata per lo più una situazione visuale (che appare, scompare, si sogna, si ammira, si insegue, si spia da lontano). L’identità maschile, invece, non ha mai indossato un abito esclusivamente visuale: perché, in termini di logica narrativa, funziona principalmente per il potere e l’azione che incarna e promette. Le donne, nei quadri e non solo, per lo più sono esistite per essere guardate e per il potere che attraverso lo sguardo si può avere su di loro, anche desiderandole e cercandole. Ritratto della giovane in fiamme rielabora e riattiva questo immaginario, restituendo eloquenza espressiva e invenzione cinematografica proprio al potere simbolico di questa solitudine storica, lavorando sul silenzio (dentro il quale si compie uno straordinario trattamento del suono), sugli spazi e, soprattutto, sulla visione: tutto il film si regge su due protagoniste affiancate da altri due archetipi di una genealogia del margine: la madre (Valeria Golino) e la serva (Luàna Bajrami). Tutte mandano avanti la vicenda guardandosi, spiandosi, cercando il ritratto l’una dell’altra. 

 

Le scene iniziali del racconto in flashback suggeriscono subito un destino di precarietà tempestosa, buttandoci nel mezzo di un mare agitato che ricorda certe atmosfere di Lezioni di piano (Jane Campion, 1993). Siamo attorno al 1770, in un’isola della Bretagna, e Marianne, pittrice, è arrivata in una solitaria dimora dove dovrà realizzare il ritratto di Héloïse (Adèle Haenel). Se il dipinto piacerà al nobile milanese a cui Héloïse è stata promessa al posto di sua sorella, suicidatasi, la giovane e sua madre si trasferiranno a Milano per le nozze. Una storia circolare e senza via d’uscita: esattamente venti anni prima, la madre, nobile italiana, era stata preceduta in Bretagna dal suo ritratto: «Quando sono entrata nella sala mi sono trovata davanti la mia immagine appesa al muro. Mi stava aspettando». 

Ma Héloïse si rifiuta di posare, perché respinge il matrimonio. È come dire che rifiuta di essere esibita, ed è per questo che Marianne è stata assunta dalla madre: per dipingerla in segreto, fingendo di essere una dama di compagnia; per rubarle l’immagine, in un certo senso. 

 

Guardare e sorvegliare: la storia ruota attorno a questa corrispondenza che ha funzionato per secoli come dispositivo di dominio; ma se ne appropria creativamente. Ritratto della giovane in fiamme svolge infatti il tema del rapporto con la propria immagine come relazione quasi inaggirabile con un terreno in cui essere visualizzate (ovvero riconosciute attraverso delle immagini: di bambina buona, bella, fanciulla, ninfa, promessa sposa, brava madre, anziana matrona) e essere sorvegliate sono due azioni che si aggrappano l’una all’altra, in una reciprocità nervosa. 

 

 

Ma oltre a riprendere e reinventare, la sceneggiatura immagina e sviluppa anche un esito imprevisto, perché Héloïse si ribella all’immagine di lei dipinta da Marianne. E lo fa proprio come se l’ombra di Euridice, mentre risaliva dagli Inferi, fosse rimasta al di qua del mondo dei vivi non perché Orfeo si è voltato a guardarla, ma perché lei ha gridato: “voltati! (guardami!)” – questa, in una scena del film, è la lettura del mito pronunciata dalla giovane. Contemporaneamente, proprio la reciproca ricerca attorno all’immagine individuata dell’altra fa esplodere, proprio come un fuoco che arde progressivamente, la passione tra le due donne.   

 

Nel 1971, quasi mezzo secolo fa, vale a dire dentro una storia di studi ricerche e pubblicazioni che hanno fatto del Femminismo una “cultura” tra le più importanti e rivoluzionarie del secondo Novecento, che certo può anche essere discussa o contraddetta ma in ogni caso va tenuta presente se si sceglie di non essere ingenui o in mala fede, in un saggio scritto da una delle storiche dell’arte più importanti, e intitolatoPerché non ci sono mai state grandi artiste donne? Linda Nochin ha mostrato quanto per le donne fosse difficile accedere a una formazione artistica all’interno delle accademie, dove fino a fine Ottocento – come racconta anche una delle protagoniste del film – non potevano neppure seguire i corsi di nudo, e di conseguenza non potevano impossessarsi delle competenze indispensabili per diventare brave pittrici. «Il difetto non è in una nostra predestinazione, nei nostri ormoni, nei nostri cicli mestruali, o negli spazi vuoti del nostro apparato genitale, ma nelle istituzioni e nell’educazione che riceviamo». Tuttavia, all’interno di una situazione così inaccessibile, ci fu, scrive Nochin, un gruppo di «donne eroiche», capaci di accettare, con sofferenza, un temperamento ribelle e la disposizione all’anticonformismo. 

 

Come Marietta, figlia di Tintoretto, come Artemisia, figlia di Orazio Gentileschi, anche Marianne è figlia di un illustre pittore – nella parte finale si dirà anche, en passant, che i quadri realizzati da lei erano firmati dal padre. E certamente Sciamma attraversa questo sapere, dialogando anche con le esperienze artistiche visuali che negli anni Settanta sono state ispirate da esso. Ma lo fa in maniera non didascalica: potrà risultare strana, certo; come quando incontriamo un film che usa coordinate e assetti di sguardo differenti, non convenzionali. Come quando si vede un film importante. 

 

 

Annegret Soltau, “Serie Self”, 1975-76.


Armen Susan Ordjanian, “Self Portrait”, 1981.


 

A otto minuti dall’inizio di Ritratto della giovane in fiamme e della vicenda raccontata, di notte, dopo la traversata, Marianne, appena giunta nella dimora della madre di Héloïse, una volta nella sua stanza, si spoglia, per asciugare gli abiti, e si siede nuda, sul pavimento. La macchina da presa ce la mostra di profilo, davanti al focolare, mentre si fuma del tabacco, con una fotografia che ricorda certi quadri di Georges de La Tour. Guardandola, così come ce la fanno vedere l’occhio dell’inquadratura e la composizione della scena, si ha quasi il sospetto che sia incinta, per quella prominenza quasi straniante di un ventre evidentemente non messo in posa e pancia in dentro. Quel corpo è bello, giovane, ma, come i seni nudi abbandonati di Héloïse, non ha niente dell’idealità con cui la pittura della sua epoca ha per lo più spogliato e ritratto i corpi delle donne. Niente, di quella figura, suggerisce seduzione; è il corpo di una donna mostrato da occhi (di donna) che non hanno in mente, come punto di arrivo e di legittimazione di questa visione, uno sguardo spettatoriale che si aspetta che offrire piacere e seduzione siano l’unica funzione significativa di un corpo femminile senza abiti addosso. C’è un’erotica, in quell’immagine; ma non è un’erotica del dominio. Anche quello, in effetti, è un ritratto, un portrait, per la capacità di parlarci di una persona singolare, di un corpo libero, slegato dall’aspettativa di uno sguardo che la possieda.   

 

 

«Voleva essere quello che sembrava e sembrare quello che era», dice la narrazione di Isabel, la protagonista di Ritratto di signora (The Portrait of a Lady, 1880-81, da cui Jane Champion ha tratto il film del 1996). Anche in quel romanzo, come nel film, il tema dell’immagine (portrait), in quanto bisogno di essere vista e guardata, come situazione visuale in cui si incrociano aspettative altrui e immaginazione di sé. Riguardando retrospettivamente, proprio a partire dal Portrait, i film sinora realizzati da Sciamma, e in particolare Tomboy (2011) e Bande de filles (2014, sciaguratamente tradotto in italiano con un titolo orientalista come Diamante nero perché le protagoniste sono ragazze di origini africane), tutti questi lavori (compresa la sceneggiatura di Ma vie de Courgette: La mia vita da zucchina, 2016) svolgono una riflessione su corpi “non conformi” alle regole previste dal genere, scavando nell’attrito tra l’immagine sociale e l’immagine di sé («Fugere non possum» Non posso fuggire, cantano le donne streghe in una scena importante). 

 

François Boucher, “Madame de Pompadour”, 1756, Alte Pinakothek, Monaco (dettaglio).


 

Sciamma non risolve questa frattura semplicemente come dissidio tra forma e vita, perché anzi si tratta di reinventare, anche cinematograficamente, il potere performativo della propria identità – e con evidente risonanza con le categorie di una pensatrice come Judith Butler. In questo senso, l’anima del film Ritratto della giovane in fiammeè duale: perché colei che ci lascia il sentimento e la riflessione intorno a cosa sia l’amore e, intrecciato ad esso, il destino della donna artista, non è solo una delle protagoniste, ma il sistema incrociato dei loro ritratti. Non è soltanto Héloïse, che nei panni di Euridice avrebbe gridato: «Voltati!», e non è neppure soltanto Marianne, che come Orfeo, preferisce comportarsi da poeta e mantenere la memoria della donna amata. Il cinema, come arte di far vedere e reinvenzione dello sguardo, tiene insieme entrambe: Héloïse e Marianne. Separate da un destino storico, ma riprese, rimesse in scena e fatte rivivere dalle immagini che funzionano come scrittura del silenzio. Je sais à quoi tu penses (So a cosa pensi): si legge sulle celebri tele, che ci guardano, mute, nell’Histoire(s) du cinéma, (1988-98) di Godard. 

 

Jean-Luc Godard, “Histoire(s) du cinéma”, 1988-98, cap. 2a: Seul le cinéma.


cap. 2b: Fatale Beauté.


Immagini, allora, in mancanza d’altro. Come quando, dopo l’aborto della serva, Héloïse chiede a Marianne di dipingere quell’evento, di farlo esistere ancora; e di non trattarlo, assieme a tutto il resto, come evento passeggero, ma come condizione profonda che chiede di essere vista. 

Ritratto della giovane in fiamme non è un film in costume; né è un’opera dedicata a rimozioni e conflitti risolti e conclusi. Lo mostra, senza dirlo, la scelta stessa di far eseguire i molti quadri usati nel film da un’artista contemporanea, Hélène Delmaire, autrice di opere come questa:

 

Dipinto di Hélène Delmaire (fonte: Contemporary Art Curator Magazine).


Il film di Sciamma è cinema che agisce anche nel senso che ci fa rivivere e rivedere che accettare il modo in cui l’arte, anche l’arte del passato, agisce su di noi, non è mai un gesto neutro. Spostare completamente il discorso sull’arte, passando dal piano dell’esperienza vissuta di cui la musica la letteratura la pittura e anche il cinema ci parlano, al piano dei puri valori formali e della Bellezza, non è un’azione innocente. So a cosa pensi, dice Godard alla donna malinconica di Le Balcon di Manet; So a cosa pensi, diciamo noi spettatori, guardando di nascosto, assieme a Marianne, nell’ultima scena del film, Héloïse che piange e ride in silenzio, ascoltando finalmente, da un palco teatrale, l’Estate di Vivaldi eseguita da un’orchestra. Mentre rivive la memoria di un destino impossibile e invisibile, in mancanza del quale resta, tuttavia, l’immagine. So a cosa pensi.

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Paolo Billi: le orme dei figli

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Lirico spettacolo d’immagini e voci, perse in una foresta di foglie, in nubi riflesse nell’acqua con rami di alberi, in sentieri di fango segnati da orme per seguire strade, per perderle, per inventarle. Questo ultimo lavoro di Paolo Billi e del Teatro del Pratello rinuncia alla trama e si affida totalmente alle suggestioni, agli archetipi, alle visioni, a voci giovanissime di corpi che appena si distinguono o ad altre più anziane che prendono la luce di una scena arsa, rocciosa. 

Lo spazio di Le orme dei figliè chiuso da un telo lattiginoso, che impedisce la visione di ciò che avviene nel palco, a meno che questo non sia illuminato da dentro. Ma anche quando ciò avviene, le proiezioni video nascondono, travisano e in certi momenti rivelano i corpi degli attori. Sono giovanissimi ragazzi in carico ai servizi della Giustizia minorile esterni al carcere, quasi tutti affidati a comunità di recupero. Ma con loro ci sono anche le ragazze, anche loro giovani, della compagnia Botteghe Molière, come negli ultimi spettacoli visti a Bologna, all’Arena del Sole, quasi sempre all’inizio dell’anno, firmati dal regista che dal 1999 lavora con l’adolescenza, quella ristretta nel carcere minorile, quella che frequenta le scuole superiori, quella delle comunità, seguendo l’idea che simili sono alcuni problemi, diverse le situazioni personali, molte volte determinate dalla nascita, dalle occasioni, dalle tentazioni, dal caso... Dopo un baluginare di foglie, nuvole, specchi di acque, alberi, con figure che appaiono deformate, solarizzate, o che si inseguono su virtuali sentieri, l’apertura dello spettacolo è affidata a due persone anziane, un uomo e una donna, in un deserto che si apre dopo le apparizioni iniziali del video di Simone Tacconelli e Elide Blind. Sono un fratello e una sorella, gli orchi della fiaba di Pollicino, lui in cerca di carne umana, lei più materna, misericordiosa. Ma sono anche Laio e Giocasta, che scacciano la minaccia del figlio Edipo, che potrebbe detronizzarli o desiderarli oltre ogni limite.

 

 

Maschere bianche in cima all’erto pendio che si scorge sul fondo della scena. Corpi distesi, accucciati, oppure che vengono in primo piano, frontali, a dire, in costumi a pezzette colorate, come teneri Arlecchini disarmati. Di figli minacciati o sentiti come minacciosi, figli che cercano di scomparire, nascondendo le proprie orme su altre che già marchiano il terreno, è fatto questo lavoro, composto come sempre attraverso un laboratorio che raccoglie le scritture dei ragazzi, poi messe in copione dallo stesso regista, Paolo Billi. Le parole, pronunciate con empito romantico, con sfumature ora stupite, ora indignate, ora patetiche, ora incalzanti, ora racchiuse come in scrigni di voce, ora lanciate contro mura invisibili, si intrecciano con le immagini, senza sviluppo, in una ricerca di strade da percorrere, spesso sbarrate dal fuoco di fila delle aspettative degli adulti, in preda all’errore o allo sgomento di non poter sbagliare. 

Le musiche di Gurdijeff, un piano sentimentale, una malinconica chitarra, sonorità orientali, accompagnano le azioni che si risolvono, nella piattaforma fortemente inclinata dietro lo schermo, in arrampicarsi, scivolare, celarsi, rivelarsi. “Nel buio non vedrò chi non dovevo vedere”… “Ragazzo selvaggio, figlio della fortuna trovato su un monte”… “Lasciatemi andare nel deserto che mio padre e mia madre mi avevano assegnato”… “Non lascio traccia, come il battito d’ali di una farfalla”… “Non lasciarti trattenere dalle orme visibili di chi mai si è perso”… Vento che non lascia pedate sul terreno, come il guizzare di una serpe. Ombre, pietre che coprono i volti, dissolvenze, nubi, nebbia, segni nella terra di un camminare che non cancella le impronte lasciate da altri o di passi che provano a sfuggire alla sequenza, inventando strade nuove. Figure invadono lo schermo, ricoprono gli attori come un puzzle, come un sudario di foglie, di pietre di fiume. Voci che vorrebbero vivere selvagge, e qualche padre minaccia il manicomio, invoca la quieta normalità… 

 

 

Sono vent’anni che Paolo Billi e il Teatro del Pratello lavorano con gli adolescenti. Prima a Bologna, poi anche in altri luoghi, in una sperimentazione che non accetta mai di mettere in scena direttamente i vissuti, ma che filtra la condizione reclusa, quella emarginata, le inquietudini di un’età di ansie e splendori attraverso la letteratura, spesso con una cifra grottesca che mette a gambe all’aria gli stereotipi; confrontandosi con le esperienze dei ragazzi, rivissute, trasformate, cercando di sfuggire alle strade troppo facili da percorrere. Questa storia racconto in un libro appena uscito da Titivillus, Teatro del Pratello. Vent’anni tra carcere e società. Testi processi spettacoli, montando materiali differenti di un lavoro che di diversità si nutre, sporcandosi continuamente le mani con i sogni, le aspirazioni, i dolori. 

Le orme dei figli segue il lavoro dell’anno scorso, ugualmente realizzato in un progetto del Coordinamento teatro carcere Emilia Romagna e intitolato Eredi eretici. Là si parlava di eredità lasciate o non lasciate dai padri, di eredità cercate o rifiutate. Qui si tratta di padri che dovrebbero risalire il corso della corrente e seguire le orme di figli capaci di rimproverarli, da ombre che alludono a quelle della coscienza, per promesse non mantenute, viltà, compromessi di generazioni che si sono ribellate alla miseria per poter accedere al superfluo. Che cosa hanno consegnato ai figli? Quanto hanno guardato in volto, dentro, a fondo, quei ragazzi?

 

 

Tutto diventa un pullulare di immagini, di domande, di voci tenere e incrinate, desiderose di gioia. Ha scritto uno dei ragazzi che lavorava da tempo a questo spettacolo e che non è arrivato in scena, perché ha scelto, alla fine, di abbandonare la comunità, rendendosi irreperibile: «Io non sono altro che un frammento di una stella / sono la luce che sporge in fuori / ma da dentro sono solo il buio in persona / mi muovo come l’ombra / e non mi faccio prendere dalla luce / perché il buio non sparisce mai / Volete sapere se posso morire? // Io sopravvivrò / sono in ognuno di voi dentro di voi / e il mio nome esisterà anche dopo di me”.

Lo spettacolo si è trovato nei pasticci, perché lui, Karim, che doveva essere uno dei protagonisti, se n’è andato. Un altro ragazzo su cui era stata costruita un’altra parte importante ha avuto il perdono giudiziario ed è tornato nel proprio Paese. Questo lavoro teatrale con gli adolescenti è così, esposto continuamente alla necessità di ricalibrarsi, di fare i conti con una realtà in movimento continuo. 

Nel finale tornano i due anziani come turisti nel deserto e danno il via a uno spietato allegro tiro a segno contro palloncini che piovono dall’alto, mentre ripetono, ridendo con cinica levità sotto musichette felliniane, frasi che potrebbero essere dette dai ragazzi, che cercano un rifugio, un tetto, un abbraccio, come lo scoglio su cui si appoggia il gabbiano, come la conchiglia del paguro, che sono convinti di avere un segreto o dal segreto essere posseduti, come il buio fa dentro al luce, come Edipo, come il piccolo Pollicino che deve sopravvivere alla crudele fame dell’Orco. E poi li sparano, con allegria swing, a uno a uno quei ragazzi e quelle ragazze, come Crono che divora i propri figli.

Le luci, tra il vedere e il non vedere, sono di Flavio Bertozzi, il video di Simone Tacconelli e Elide Blind, realizzate con i ragazzi dell’Area penale esterna col coordinamento di Susanna Accornero, la struttura di scena di Gazmend Llanaj, scenografia e maschere di Irene Ferrari. Laboratori di scrittura a cura di Filippo Milani, Viviana Santoro, Eleonora Scriva. Maddalena Pasini è aiuto regista, Elvio Pereira De Assunçao ha curato le coreografie, Amaranta Capelli l’organizzazione. In scena la Compagnia del Pratello con Abdullah, Angelica, Christian, Emini, Kevin, Khadim, Soufiane, Youssef e Botteghe Molière con Ester Ceccaroli, Marianna Cumani, Giorgia Ferrari, Bianca Porazzini, Viola Urso, e la partecipazione dei senior Anna Guglielmi e Giuseppe Ferrentino. 

 

In scena all’Arena del Sole di Bologna fino a domenica 12 gennaio.

Le fotografie che illustrano l’articolo sono di Veronica Billi.

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Robert Walser: il poeta, la neve e il diavolo

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Poesie (Gedichte) si intitola il volumetto di Robert Walser ora riproposto dall’editore Casagrande di Bellinzona nella traduzione, con testo a fronte, di Antonio Rossi. Il volume, arricchito dalle bellissime incisioni di Karl Walser, raccoglie in tutto quaranta componimenti. Sono poesie giovanili, composte perlopiù tra il 1898 e il 1900, tra le prime cose in assoluto scritte da Walser (che era nato nel 1878). Ma nel 1909, anno in cui il libro viene pubblicato per la prima volta in un’edizione per bibliofili a tiratura limitata (300 copie in tutto), Walser è già «uno scrittore». Per diventarlo si era trasferito nel 1905 a Berlino forte del suo primo libro, Fritz Kocher’s Aufsätze, pubblicato presso l’editore Insel di Lipsia l’anno prima, quando a Zurigo faceva ancora «l’assistente». Le vicende berlinesi di Walser si lasciano ora ricostruire attraverso il carteggio riedito in tre tomi (1897-1920 e 1921-1956 più un volume di apparati) che ha inaugurato l’anno scorso la nuova edizione commentata di tutte le opere di Walser presso Suhrkamp (la cosiddetta “Berner Ausgabe”). Appena sbarcato nella metropoli tedesca, dunque, il 13 aprile del 1905 Walser, che vive in casa del fratello Karl (pittore, scenografo e illustratore già affermato e molto apprezzato negli ambienti intellettuali berlinesi), scrive al suo editore per riscuotere il resto della quota dell’onorario che gli sarebbe spettata una volta che le vendite del Fritz Kocher’s avessero coperto i costi di produzione. «Vi prego» – scrive dunque fiduciosamente Walser – «di sbrigare la faccenda a stretto giro di posta». E a stretto giro di posta arriva infatti la risposta dell’editore: «Gentile signore, […] ci consenta in tutto rispetto di comunicarle che delle 1300 copie stampate solo 47 sono state fino ad oggi vendute».

 

Il resto, solo pochi anni dopo, sarebbe finito al macero. In giugno Walser rientra a Zurigo. Alla sorella Fanny, che vive nei pressi di Berna, scrive: «A Berlino […] passavo delle ore a guardarmi in quattro specchi molto belli appesi nel salotto blu, eppure non riuscivo a cavarne nulla, anzi, mi istupidivo sempre più. Poi andavo a far delle visite e tornavo a casa sempre affamato. Bisognava prendere il treno ed era bellissimo. […] Portavo un cappotto elegante, lungo, nero, attillato, una veste blu argento, dei pantaloni non proprio giusti, un cappello alto e, in mano, un paio di guanti appallottolati. Avevo un aspetto magnifico, che un tale abbigliamento ti fa diventare una persona come si deve. Ma io mi ero ripromesso di rimanere una persona onesta e mi tirai di dosso quegli abiti eleganti. Presi in mano la mia misera valigia da falegname e issai le vele. Quando montai in carrozza caddi in terra inciampando nella valigia e mi dissi: “Ehi, brocco, dico a te: vai di fretta?” Adesso sto pigramente a Zurigo e comincio a rendermi conto quanto era bello stare a Berlino». In settembre Walser di fatti è di nuovo a Berlino. L’8 ottobre manda al suo editore un manoscritto contenente 34 liriche (un primo nucleo di quelle poi apparse nel 1909) chiedendo se sia possibile pubblicarle entro natale. L’editore rifiuta il manoscritto, «poiché non c’è speranza di venderne abbastanza copie». Fino a dicembre Walser lavora come inserviente presso il castello di Dambrau in Alta Slesia. Nel febbraio del 1906 ha pronto «un romanzo di circa 400 pagine». A Carl Seelig dirà di averlo scritto «in tre o quattro settimane» e, «per così dire, senza correzioni»: I fratelli Tanner esce così presso l’editore Bruno Cassirer nel gennaio del 1907. Il romanzo ebbe una buona eco nella stampa dell’epoca e procurò a Walser una certa notorietà.

 

A Christian Morgenstern, che aveva seguito l’editing del romanzo, Walser scrive: «mi sto preparando ad “intraprendere” presto qualcosa, una sorta di carriera». Sta già pensando al secondo romanzo, pensa di partire per un viaggio oltremare, ci ripensa: «Non ci si può dare alla fuga in paesi così lontani, poiché potrebbe facilmente accadere di perdere l’empatia (Fühlung) con tutto ciò che ancora ci lega all’arte e alla vita d’artista. E poi è così bello essere nulla, vi è un ardore superiore rispetto all’essere Qualcosa. La professione è un ostacolo ma è anche una cosa bella, conclusiva, ma chi vorrebbe concludere, e io poi, no, di andare in Africa per adesso non ho voglia e non ne posso avere. Riterrei un’esperienza più profonda il finire in carcere, ma questo è un parlar da stupidi». Sembra una frase di Beckett. Nello stesso 1907 Walser inizia a collaborare alla rinomata rivista internazionale Die Schaubühne. «Sono uno scrittore» – scrive alla redazione – «e sto cercando di capire se sono in grado di “rendere”». Entro la fine dell’anno vi pubblicherà più di venti pezzi in prosa.

 

 

A Praga Franz Kafka diventa un suo appassionato lettore. Hugo von Hofmannsthal lo invita a scrivere sulla sua rivista. Nel 1908 esce il secondo romanzo, Der Gehülfe (L’assistente) seguito, nel 1909 dal Jakob von Gunten e dalla sua prima raccolta di liriche, Gedichte, appunto. È l’inizio di una brillante carriera. Ma ancora una volta Walser ci ripensa e si ritira dalla scena. I salotti mondani non fanno per lui. Il 17 luglio del 1908 aveva scritto a sua sorella Fanny: «Di recente ho fatto un volo in mongolfiera. Per un pelo non siamo finiti nel Mar Baltico. […] Qui tutti sono convinti che io abbia dormito durante l’intero volo. Il chiacchiericcio della gente è inquietante. Le persone onorabili qui si contano sul palmo di una mano. Ma c’è assuefazione alla moda, e l’artista deve cercare di soddisfare tali bisogni». Ma non è ciò che cerca Walser, che ancora una volta smette gli abiti eleganti per impugnare la propria misera valigia da falegname. L’arte è una cosa seria. Si salva dalla depressione tornando a fare lo scrivano, il segretario, il Gehülfe; quasi fosse questa l’unica condizione possibile per fare lo scrittore. Rimasto senza lavoro, all’inizio del 1913 rientra in Svizzera. Nel ’14 scoppia la guerra. A Berlino, Walser, non sarebbe mai più tornato. Nel 1933 viene ricoverato, contro la sua volontà, in una clinica psichiatrica di Herisau, presso San Gallo. Da questo momento in poi Walser non avrebbe più scritto. In vita la sua opera fu molto apprezzata da una ristretta ed eletta cerchia di lettori, ma rimase sostanzialmente ignota al grande pubblico. Il 25 dicembre del 1956 il corpo esamine di Walser viene trovato riverso sulla neve. Il bastone lì accanto. Era uscito per fare la solita passeggiata.

 

La neve, i paesaggi innevati, gli alberi sono motivi ricorrenti nelle liriche giovanili di Walser. Un’illustrazione ritrae di spalle un uomo che passeggia sulla neve in collina. Qualche albero spoglio qua e là. Sul margine basso a destra una casetta in fondo alla valle. Al centro dell’immagine la sommità della collina verso la quale il personaggio, leggermente decentrato rispetto ad essa, si sta dirigendo. All’orizzonte la neve che scende copiosa come un sipario che impedisce di vedere oltre: «Nevica, nevica, la terra è coperta / da un bianco peso così esteso, esteso. // Sfarfalla così dolente giù dal cielo il brulichio dei fiocchi, la neve, la neve». I paesaggi, la neve. Ein Landschäftchen, “Un piccolo paesaggio”, si intitola un’altra poesia, posta al centro della raccolta: «C’è un alberello sul prato / e con lui molti alberelli graziosi. / Una fogliolina trema nel vento gelido / e con lei molte singole foglioline. / Un mucchietto di neve scintilla sul bordo del ruscello / e con lui molti mucchietti bianchi. / Una piccola cima di montagna ride sulla valle / e con lei molte basse cime. / E in tutto questo c’è il diavolo / e con lui molti poveri diavoli. / Un angioletto volge altrove il suo viso piangente / e con lui tutti gli angeli del cielo». Cosa ci dice questa coazione all’uso ripetuto del diminutivo? Cosa ci dice la presenza inquietante e ingombrante del diavolo? E cosa ci dice quell’angioletto che piangendo volge via il proprio sguardo?

 

Ci dicono che questo paesaggio, questa natura non sono natura: siamo in pieno manierismo, del manierismo inteso in quanto categoria metastorica. L’incisione che accompagna la poesia sottolinea ulteriormente questo aspetto: al centro, su un mucchietto di neve, si erge un albero spoglio il cui tronco si riflette nel ruscello antistante sul margine inferiore del disegno. A destra dell’albero, ritto anch’esso su un mucchietto di neve e riflesso fino al busto nel medesimo ruscello, il diavolo con la coda, le corna, gli zoccoli caprini. Dietro di lui, sul margine destro, la cima di una montagna innevata davanti alla quale si erge la punta di un campanile. Finalmente, nell’angolo in basso a sinistra, bianco come la neve, con la schiena girata verso l’albero e il diavolo, lo sguardo rivolto verso il basso, la mano sul volto, l’angelo piangente, la cui sagoma sembra una proiezione in miniatura dell’albero che al centro domina il disegno. Il quadro ci presenta una natura artificiale, abitata da figure demoniache, da apparizioni che generano stupore e inquietudine, in un mondo mostruosamente deformato che trova il proprio archetipo nel Sacro Bosco di Bomarzo, capolavoro manieristico del Cinquecento. Ma il principio che genera la distorsione del quadro in una sorta di realtà parallela e unheimlich, è lo sdoppiamento dell’io che è il vero tema di questa lirica. L’angelo e il diavolo sono una proiezione dell’io lirico, la cui presenza è rifratta nel paesaggio e si manifesta quindi nel difforme. Il difforme è dunque qualcosa che parla al di là dell’«io», un fantasma dell’oltre, uno scarto schizofrenico, un’emanazione dell’es. Di quell’«es» che si materializza verbalmente nella poesia intitolata Weiter come una forza ineluttabile alla quale l’io non può opporsi e che malgrado le sue resistenze («volevo fermarmi») lo trascina sempre oltre («weiter»), senza sapere dove.

 

O che ancora si manifesta come un subitaneo «accanto» (Beiseit), una fulminea scissione dell’io che d’un tratto, di rientro da una passeggiata, nel verso finale si trova accanto a un implicito Altro, con uno straordinario effetto straniante che lascia il lettore in preda a una sorta di stupore. Abitato da questa presenza latente che di tanto in tanto si manifesta, lo spazio del mondo lirico di Walser è tendenzialmente incolore come i paesaggi invernali (dominano il bianco e il nero, accanto a sprazzi di verde), immerso in un sostanziale silenzio in cui tuttavia risaltano con singolare nitidezza i pochi suoni che si palesano. È uno spazio surreale, come quando la luna diventa «la ferita della notte», trasformando il cielo notturno in un grembo sinistro («gocce di sangue sono le stelle»); o come quando la neve immerge tutto in una distanza siderale e il mondo sembra popolarsi di manichini: «com’è piccola qui la vita / e come grande è il nulla. / Il cielo, stanco della luce, / l’ha data tutta alla neve». 

Tutto questo discorso si trova in fondo riassunto nella poesia intitolata Zu philosophisch (“Troppo filosofico”), quasi un condensato del mondo lirico del giovane Walser: «Com’è spettrale la mia vita / nell’affondare e nel risalire. / Sempre mi vedo far cenni a me stesso / e a me stesso sfuggire. // Mi scopro risata, tristezza / profonda, selvatico / intrecciatore di discorsi / e tutto ciò affonda nell’abisso. // In nessun tempo forse / vi è stata giustizia. / Sono destinato a vagare / in spazi dimenticati». 

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Napoli Napoli. Di lava, porcellana e musica

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Meraviglia e malia suscitati dal connubio fra la regalità di Capodimonte e la magia della musica, dell’arte e del teatro: Napoli Napoli. Di lava, porcellana e musica, è una mostra empatica e stupefacente. Visitabile alla Reggia di Capodimonte fino al 21 giugno 2020, mette in scena la cultura come festa, presentando la vita di corte nella Napoli settecentesca e facendola artificiosamente rivivere ai visitatori/spettatori. 

All the world is a stage: mai verso è stato più veritiero se attribuito alla città e alla gente di Napoli, allora come ora.  

Ma non basta. Se fosse riferito a Napoli, In visceribus urbis, titolo di un capitolo della Storia di Venezia di Manfredo Tafuri, per parafrasi, suonerebbe invece: urbis viscera in urbe, le viscere della città nella città (e anche dentro e pure sopra ed ancora sotto), dove per visceraè da intendersi l'anima stessa di Partenope, insieme a quella della sua gente, che vive ‘consustanzialmente’ nelle case e nelle cose, nei pensieri e nei modi, nelle forme e nell’essenza della sua e della loro vita quotidiana. Infatti, in ogni manifestazione, fisica o spirituale, reale o virtuale che la riguardi, “Napoli è" la propria anima (oh, l'intuito di Pino Daniele e della sua Napul'è!).

 

Per mettere in mostra questa verità (che Napoli è troppo impegnata a vivere) ci sono però voluti due francesi, un curatore, Sylvain Bellenger (attuale direttore del complesso di Capodimonte, in carica dal 2016 e recentemente riconfermato) e un allestitore, Hubert le Gall, architetto e scenografo. Così come l'anima partenopea l’ha saputa cogliere e immortalare in romanzi e racconti e persino in un dizionario (Le Dictionnaire amoureux de Naples, Plon, 2007, pubblicato in italiano nel 2018 da Il Mondo di Suk) un altro francese innamorato di Napoli, Jean Nöel Schifano. E questo perché fra Napoli e la Francia c'è sempre stata sintonia, dagli Angioini (che molto vi si sono prodigati) ai Borbone, non escludendo i Bonaparte, esse hanno condiviso un identico amore per il bello, esente da ogni moderazione.

 

Napoli Napoli. Di lava, porcellana e musicaè l’acme di una trilogia di mostre (Carta Bianca, 2018; Capodimonte Imaginaire, depositi di Capodimonte) concepite dal suo direttore per valorizzare le collezioni di uno dei più bei musei d’Italia. Con il catalogo di Electa (pp. 220, € 32,00), che l’ha anche promossa insieme al Teatro San Carlo, ambientata al tempo di Carlo e di Ferdinando II di Borbone, la rassegna occupa 19 delle 54 sale che oggi formano l’appartamento reale al piano nobile della Reggia, esponendo al pubblico oltre 1000 oggetti. Di pezzi di porcellana, preziosissimi, se ne contano ben 378, provenienti dalle Reali Fabbriche di Napoli e di Capodimonte, dalla Manifattura di Sèvres, da quelle di Meissen e di Vienna e da altre manifatture europee, oltre a cineserie, tutti attualmente parte delle collezioni delle principali residenze reali borboniche. 72 sono le pitture (tra cui i piroclastici acquarelli di Pietro Fabris per sir William Douglas Hamilton) e moltissime le sculture, tra le quali i puttini di Giuseppe Sanmartino (autore del Cristo Velato nella Cappella Sansevero) e La Notte di Bertel Thorvaldsen (autore del modello del monumento funebre a Corradino di Svevia in Santa Maria del Carmine, quello stesso Corradino di cui Jean Nöel Schifano ha narrato la tragica fine ne La danza degli ardenti, Pironti, 1994). 

 

Sala della Musica Sacra: Giuseppe Sanmartino, Puttini. Sala del Grand Tour: Bertel Thorvaldsen, La Notte, 1835.


Vi sono esposti anche 326 mobili, per non parlare degli strumenti musicali (i pianoforti di Paisiello e di Cimarosa e l’arpetta Stradivari), appartenenti al Conservatorio di San Pietro a Majella, uno dei quattro sorti a Napoli nel cinquecento con la missione filantropico-sociale di tenere lontani i bambini poveri dalla strada educandoli al bel canto. 

Indosso a manichini neri, mascherati e teatralmente atteggiati, nella rassegna compaiono oltre 150 costumi, direttamente usciti dalla sartoria del San Carlo (la più parte risalenti agli anni ottanta, alcuni a firma di Ungaro, di Odette Nicoletti, di Giusi Giustin), le cui parrucche sono dei veri e propri ‘bals en tête’ che avrebbero fatto invidia a Marie Antoinette, al suo famoso parrucchiere Léonard, e a tutta la sua corte di Versailles. Vi sono poi esposti anche numerosi oggetti d’arte e di arredo e poi minerali e animali impagliati, di proprietà dei Musei Mineralogico (inaugurato nel 1801) e Zoologico (nato nel 1813), oggi annessi all’Università Federico II. Insomma, si può ben dire che questa allestita a Capodimonte sia la wunderkammer più ricca che si sia mai veduta da che mondo è mondo ed anche la più grande, non già riservata a pochi eletti, come quelle un tempo allestite nei gabinetti dei principi, bensì offerta allo sguardo di tutti coloro che scelgono di visitarla. Ma è anche un presepe laico, con statuine a grandezza d'uomo, con suoni, con luci e con artifici scenografici, che, come nella miglior tradizione presepiale napoletana, celebra il genio di un popolo e il suo amore per la vita e per l'arte espressa in tutte le sue declinazioni.

 

Sala della Musica Profana: gruppo di manichini in costumi settecenteschi.


Sala del Grand Tour: gruppi di manichini in costumi settecenteschi. Dai viaggiatori stranieri, Napoli era allora percepita come un luogo mitico ed esotico, per la presenza del Vesuvio e degli altri fenomeni vulcanici, dei Campi Flegrei e della Solfatara di Pozzuoli, ma anche, e soprattutto, per le rovine di Ercolano e di Pompei e per il Lago d’Averno, che, secondo la tradizione classica, dava accesso all’Ade (Virgilio, Eneide, Liber VI; Dante Alighieri, Inferno).


Sala della Parrucca: una scena. Da un articolo tratto dalla rivista Haude-Spenersche Zeitung, Berlino, 1775: “Le signore si distinguono per altre bizzarrie, come quella di far diventare ogni giorno più alte le loro acconciature. […] Vediamo così una dama con un villaggio in testa, un’altra con un bosco intero, un’altra ancora con un bel prato o un gran ponte. […] Un artista ha sfruttato l’occasione per impreziosire ancor più gli ornamenti ricorrendo alla meccanica, cioè nascondendovi scatole musicali che ogni tanto suonano, o anche canarini gorgheggianti.”


Questa è una mostra ‘notturna'. Si procede al buio, attratti dalle ‘luci di scena', sapientemente orientate, come a teatro, sull’evento da osservare, di volta in volta rappresentato dai manichini e/o dalle opere, così che ciascuno di essi si disvela agli occhi piano, piano, come per effetto di magia, come accade nei sogni, sortendo effetti di stupore e d’incantamento.

Ma è soprattutto l’udito a essere totalmente coinvolto, perché la musica regna sovrana in ogni stanza (ascoltabile in cuffia), quella di Giovanni Pergolesi, di Domenico Cimarosa, di Giovanni Pacini, di Giovanni Paisiello, di Leonardo Leo, di Niccolò Jommelli, con brani selezionati da Elsa Evangelista, direttore del Conservatorio di San Pietro a Majella, e con commenti critico-musicali di Alessandro De Simone, nipote del Maestro Roberto De Simone, a cui la mostra è dedicata. Si tratta della musica della Scuola Napoletana, che proprio nel XVIII secolo ha fatto di Napoli la capitale mondiale di quest’arte e alla quale hanno guardato persino Händel, Haydn e Mozart, che, nel 1778, le ha persino reso omaggio ambientando proprio a Napoli e sulla sua costiera Così fan tutte.

 

‘C'era una volta’… è l’incipit di tutte le fiabe e Napoli Napoli. Di lava, porcellana e musica ci narra la “favola bella” della Napoli del settecento, per di più, come sono usi fare i giochi virtuali, essa ci introduce in una dimensione fantastica, ma lo fa per davvero, rendendoci fisicamente partecipi di quel mondo, con il mettere in scena, per il tramite delle cose dell’arte, il gran teatro della sua vita.

“La storia è un incessante conflitto fra l’unione e la divisione” scrive Sylvain Bellenger nella sua prefazione al catalogo “la decomposizione e la ricomposizione. Studi, specializzazioni, poteri, campanilismo istituzionale e politica cancellano mondi che una volta parlavano la stessa lingua, avevano lo stesso profumo, la stessa retorica. Questa dunque è la sfida (e il compito) più grande per gli storici, soprattutto per gli storici dell’arte: ritrovare e ricomporre l’armonia sensibile di un’epoca.

E questa è la sfida della mostra Napoli Napoli. Di lava, porcellana e musica: dimostrare, mettendole in scena, che tutte le scienze e le discipline sono figlie dell’estetica, e che l’estetica è la più profonda verità di ogni tempo.”

 

Sala dell’Eruzione: pietre di lava e porcellane della Reale Fabbrica di Capodimonte raffiguranti scene notturne del Vesuvio in eruzione. Per tutto il settecento, si susseguirono ben 15 eruzioni e il Vesuvio dette spettacolo ai viaggiatori ispirando anche artisti come il francese Pierre-Jacques Volaire, specializzatosi proprio nella rappresentazione notturna del Vesuvio in eruzione.


Nel corso dei secoli, la maggior parte delle sale dell'Appartamento Reale di Capodimonte ha subito manomissioni tanto negli apparati decorativi, quanto nella destinazione d’uso ed esse sono state anche private di molti arredi originali e del loro corredo di dipinti, sculture e suppellettili. I motivi vanno sì ricercati in cause storiche o politiche, ma anche nelle oscillazioni del gusto dei regnanti residenti, legate alle mode. Però sono state anche spesso effetto di spoliazioni istituzionali, operate dai Bonaparte, prima, dai Savoia, poi, e persino dallo Stato Italiano, che, di volta in volta, ne hanno dislocato i pezzi ‘altrove’, come se si fosse trattato di masserizie comuni e non già di opere d'arte intimamente connesse al luogo per il quale erano state create o nel quale si trovavano, con esso in armonica, secolare, fusione. Ma le alterazioni sono state causate pure da saccheggi e da distruzioni perpetrate prima dalla soldataglia napoleonica, e poi dalla folla in varie contingenze rivoltose. Solamente dall’ultimo decennio degli anni novanta del secolo scorso è in atto, laddove possibile, una ricomposizione filologica degli arredi e delle suppellettili che ornavano le diverse stanze, operata in seguito alla consultazione di documenti d'archivio e allo studio degli elenchi dei depositi sabaudi e delle relazioni dei vari sovrintendenti che si sono succeduti all’ottocento ad oggi. Questa mostra spettacolare e fastosa, nelle intenzioni dei curatori e degli enti promotori, è volta a sensibilizzare il grande pubblico internazionale, ma anche quello napoletano, alla conoscenza del patrimonio inestimabile delle collezioni della Reggia e del Museo Real Bosco di Capodimonte. 

 

“Perché alla fine" come ha scritto in catalogo Hubert Le Gall “la trama dell’esposizione è raccontare Napoli, quella del XVIII secolo ma anche quella di oggi. […] La mostra segue la disposizione degli appartamenti reali e sviluppa quattordici temi [Musica Sacra; Musica Profana; Potere; Grand Tour; Egittomania; Chinoiseries; Materia; Natura; Eruzione; Pulcinella; Caduta di Giganti; Gioco d’azzardo e destino; Miseria e nobiltà; Parrucche] che evocano un passato ancora molto attuale. Sono pochi i musei che possono sviluppare un progetto altrettanto ambizioso e creativo ma, come dice spesso il direttore Sylvain Bellenger, solo a Napoli i miracoli si possono realizzare.”

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Unbelievable: odissea nello stupro

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Le serie televisive che si ispirano a un fatto storico o a un caso di cronaca sono le più difficili da scrivere e realizzare: penso alla polemica piuttosto manichea che si è scatenata recentemente su Chernobyl; i bias cognitivi ci spartiscono in modo netto tra coloro che non accettano che uno storytelling prenda strade originali sul sentiero della “verità”, e gli altri che invece apprezzano lo sforzo di attualizzazione e reinvenzione del plot che indirizzi a una riflessione etica o emotiva dell’accaduto: “se accadesse a me, oggi?”. Pensiamo a quei videogame che ci danno opzioni nello sviluppo della narrazione: giro a destra o a sinistra? Prendo questo jewel o quest’altro? Quest’arma o quest’altra? L’episodio unico degli autori di Black Mirror, Bandersnatch (2018) ha fatto il salto, concependo l’interattività delle svolte con la attitudine del programmatore del gioco; lì si arrivava addirittura a finali completamente diversi, che oltre il “divertimento” (letterale, di-vertire, cambiare strada) permettevano al giocatore-spettatore di farsi autore di catene causa/effetto alternative e sbalorditive.

 

Un’inchiesta realizzata nel 2015 dai giornalisti americani Christian Miller  e Ken Armstrong per “Pro Publica”, una newsroom indipendente, vinse il Premio Pulitzer per il giornalismo investigativo l’anno dopo: era la storia di una adolescente, Marie Adler, che aveva veramente subito anni prima uno stupro nella comunità dove viveva sola in una stanza; un uomo caucasico molto robusto, dagli occhi chiari, incappucciato, era entrato all’alba nella sua camera, l’aveva legata, bendata, minacciandola con un coltello da cucina prelevato in situ; con calma, per ore, l’aveva ripetutamente stuprata, con pause in cui la fotografava ripetutamente in mises “erotiche” che inscenava con alcuni oggetti fetish che aveva con sé in uno zainetto; infine, invitava la vittima a un lungo accurato bagno, accudendola in ogni fase dell’operazione. I poliziotti chiamati dalla vittima rilevarono che sulla scena del delitto lo stupratore aveva accuratamente ripulito ogni evidenza di proprio DNA: aveva indossato guanti, e sembrava conoscere accuratamente le procedure della scientifica.

 

 

Marie, sin dai primi interrogatori, si mostrò frastornata, “antipatica”, e la via crucis della vittima di stupro (primo interrogatorio del poliziotto di pattuglia, secondo interrogatorio del detective, terzo interrogatorio dei medici all’ospedale, nuovo interrogatorio alla stazione di polizia, dichiarazione autografa da firmare per il fascicolo della denuncia che apriva le indagini) diventò per lei una progressiva disgustosa iterazione dei flashback del trauma. Come si difese Marie, abbandonata da bambina piccola in orfanotrofio dai genitori biologici, sballottata poi negli anni in vari affidi, a volte con maschi abusanti? Richiudendosi progressivamente in una rinnovata sfiducia nei confronti di una rete politically correct del sistema democratico pubblico; ogni step garantisce alla persona socialmente sinistrata di avere tutela, ma in quella catena (che vediamo molto bene anche oggi qui in Italia, tra servizi sociali, nuclei di prossimità, sportelli di ascolto psicologico nelle scuole ecc), c’è un affastellarsi di documentazione burocratica che certifica che «noi abbiamo fatto quello che dovevamo fare», una ronda di paraculismi ufficiali che infine toglie al soggetto debole l’ultima chance: la speranza di essere veramente ascoltato, e amato, e protetto da qualcuno. 

 

Marie Adler aveva perso da tempo quella illusione, e nel distacco scettico delle procedure commise il fatal error di esporre in modo distratto i fatti, svogliata nel ripetere e ripetere, sino al paradosso: l’accusa che la portò clamorosamente a essere lei stessa incriminata per falsa testimonianza! Come finì la vera storia? Come finisce Unbelievable, la serie tv ideata, scritta diretta da un team di donne? Finì che, grazie a un mix di fortunati accadimenti, ma soprattutto grazie a due detective donne particolarmente tenaci nel non mollare la presa, si arrivò a scoprire che un ex militare che si era studiato bene un manuale di procedure della Polizia Scientifica aveva imparato a commettere il reato in diversi distretti di polizia, e poi diversi Stati, rendendo ogni caso di impossibile soluzione per mancanza di evidenti prove a carico e dunque da archiviare. Le due detective Stacy Galbraith e Edna Hendershot con difficoltà e diffidenza iniziali reciproche arrivarono infine a costituire un team investigativo intelligentissimo, e in un faticoso, ora entusiasmante ora frustrante, alternarsi di intuizioni di indagine e di binari morti riuscirono infine a sbattere in galera il criminale, e a vederlo condannato all’ergastolo.

 

https://www.youtube.com/watch?v=447lEBXr76I

 

La regista Lisa Cholodenko e la sceneggiatrice Susannah Grant negli otto episodi di Unbelievable (CBS-Netflix 2019) procedono con una lentezza che soltanto in produzioni eccellenti è possibile maneggiare: a poco a poco capiamo che empatizzare con Marie non è così semplice perché la sua vicenda di abusi l’ha resa ispida, respingente, sleale; a poco a poco capiamo che i poliziotti maschi che svolgono le indagini dietro il paravento della correttezza procedurale possono essere più o meno determinati nella soluzione del caso, e più o meno maschilisti nell’annidare la loro indifferenza alla gravità della violenza dell’abuso. Le due detective sono interpretate da due attrici (Toni Collette e Merritt Wever) che definiscono due personaggi diversissimi tra loro (una, madre di famiglia cristiana praticante e empatica; l’altra, donna di azione e “tough”) che progressivamente convergono sul punto essenziale; fare forza con l’unione, imporre a un apparato maschile infine meno ostile di quel che temono la questione di principio:  lo stupro è un reato criminale di enorme violenza morale e psicologica prima ancora che fisico e sessuale; svelare che anche nel maschio più empatico e open minded, nel suo cervello limbico, rettile, si annida ancora una qualche indulgenza verso la prevaricazione sulla donna come persona.

Kaitlyn Dever, che interpreta Marie, allunga la lista di nuovi straordinari attori teen allevati dalla complex tv: “impenetrabile”, antipatica, desertificata, depressa, si riscatta quando decide di ricominciare, aiutata per caso da un avvocato (maschio) affidatole a forza da una impiegata del Tribunale. Costringere il sistema “politically correct” a darle giustizia è il primo passo della sua nuova vita.

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Cina: storia e spazi

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Ho trascorso qualche giorno a Pechino, ed era la prima volta che mettevo piede in Cina. Le mie impressioni sono quindi abbastanza banali e forse non meriterebbero nemmeno di essere registrate per iscritto. Salvo forse una, che dirò fra poco.

Molte cose della Cina ovviamente colpiscono subito. Le dimensioni (degli edifici, delle vie, delle stazioni, degli aeroporti). L'efficienza dei trasporti (treni, metropolitana). La pulizia delle strade e degli ambienti (sui marciapiedi non c’è una cartaccia minima né un mozzicone di sigaretta, si raccolgono meticolosamente le foglie secche da ogni prato, aiuola, bordura, si puliscono perfino le superfici ghiacciate di fossati e corsi d'acqua). La rapidità della modernizzazione: un albergo di dieci anni fa è considerato quasi vecchio, ci sono tanti alberghi più recenti. In generale, per la generazione alla quale appartengo – quella dei baby-boomers– il volto e l’emblema del progresso era ancora l’America: se uno voleva vedere che cos’era la modernità, andava a New York.

 

Oggi si va a New York come si va a Londra o a Parigi: si visita una città che in una certa epoca poteva essere considerata il centro del mondo, ma oggi non lo è più, lo spessore storico prevale sulla spinta all’innovazione. E questo a dispetto delle novità che da quelle parti pure continuano a verificarsi, come gli Hudson Yards, il nuovo quartiere di Manhattan che ha ridisegnato la fisionomia di Midtown West (personalmente, non trovo nemmeno tanto geniale il monumento ideato da Thomas Heatherwick, il Vessel, sistema spiraliforme di scale alto 46 metri che ricorda una pigna o un favo, o, come qualcuno insinua, un kebab). Oggi la modernità ha il volto delle città dell’Asia: non della Cina solo (si pensi a Seul), ma della Cina in primis. Una modernità enorme quanto a misura, travolgente quanto a velocità. Così mi trovo a osservare Pechino – anzi, Beijing – che pure non manca di monumenti storici (ma su questo tema il discorso sarebbe lungo) e intanto penso a una città lontana quasi 2000 km, di cui ho appena appreso l’esistenza, Chóngqìng: l’area metropolitana ha una popolazione pari a quella dell’intera Polonia.

Sono arrivato in Cina atterrando al Terminal 3 del Beijing International Airport, progettato da un prestigioso architetto americano, Norman Foster, e inaugurato poco prima dei Giochi Olimpici del 2008.

 

Un edificio mirabile, almeno al mio sguardo profano. Ma parlando con un cinese bisogna guardarsi dal chiamarlo il «nuovo» aeroporto. Quello nuovo ovviamente è un altro, l’hanno inaugurato poco più di tre mesi fa, il 25 settembre, è il Daxing International Airport, spettacolare realizzazione dello studio di Zaha Hadid a forma di stella marina (anche se ha sei bracci e non cinque).

 

Ph Greg Girard.


Occorre specificare che è il più grande terminal aeroportuale del mondo? Ma la cosa più interessante, a mio avviso, è un’altra. Daxing si trova una quarantina di km a sud di Pechino, a 30 km da una città relativamente piccola, Lanfang (5 milioni di abitanti), a 120 km da Tianjin (alias Tientsin), 12 milioni di abitanti, cioè a mezz’ora di treno, verso est; e il progetto del governo cinese prevede un forte sviluppo urbanistico a ovest. In questo modo l’aeroporto di Daxing si verrà a trovare al centro di una grande area popolata da svariate decine di milioni di abitanti, distribuiti in agglomerati connessi da collegamenti ferroviari superveloci. 

 

Noi siamo abituati a pensare all’aeroporto come a una struttura che sorge nei pressi di una città, se non proprio adiacente ad essa. La città è il centro, l’aeroporto è un satellite, un annesso: un terminale periferico per una certa categoria di trasporti. Quella che sta prendendo forma a Pechino è invece un’organizzazione dello spazio per cui al centro c’è un aeroporto, e la città, o meglio, le città le fanno corona tutt’attorno. È il trionfo dell’idea di movimento. Spostarsi è l’attività principale, il resto si adegua. Una specie di rivoluzione copernicana. Nel cuore dei nostri centri storici, che un tempo erano città cinte da mura, la cattedrale contrassegnava la centralità dell’abitare, del risiedere, e insieme simboleggiava uno slancio verso l’alto, verso la dimensione ultraterrena. Anche gli aerei si sollevano da terra, e volano anzi a quote ben superiori a quelle di qualunque torre o campanile: ma lo fanno per accelerare gli spostamenti da un punto all’altro della superficie terrestre, che non si curano di trascendere. Lo stesso discorso si potrebbe ripetere per il sottosuolo. Le gallerie delle metropolitane sono scavate a profondità molto superiori rispetto a qualunque cripta o sepoltura: ma la loro ragion d’essere rimane la superficie.

 

Ecco, dunque, il nocciolo della mia impressione cinese. La storia da cui proveniamo ha strutturato lo spazio abitato privilegiando di necessità la stasi e ipostatizzando una stratificazione. Non che in passato non si viaggiasse, beninteso; ma lo stare contava più del muoversi, e la vita intratteneva un dialogo strutturale con l’aldilà, cioè con la memoria e con l’attesa del futuro, rappresentata dalle due dimensioni del basso e dell’alto, qualitativamente connotati. Da ciò discendeva un assetto topologico tridimensionale: una porzione di spazio non isolata ma circoscritta, virtualmente aperta alla verticalità (non solo in senso religioso). Oggi una parte dell’umanità si sta dirigendo invece verso un’organizzazione dello spazio che celebra la centralità assoluta del movimento, e si estende con impeto, proiettandosi senza ripensamenti e senza esitazioni sulla dimensione orizzontale. Edificando, dilaga.  

Questi i pensieri che mi frullano per il capo mentre a tavola cerco di imparare a usare le bacchette. I miei progressi sono penosamente lenti, devo ancora fare molta pratica per imparare a maneggiarle senza troppa goffaggine. Mi domando quanti nuovi alberghi sorgeranno a Pechino, nel frattempo. 

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Ritornare a Proust

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Non credo basti il desiderio di celebrare i cent’anni dell’assegnazione del premio Goncourt a All’ombra delle fanciulle in fiore a spiegare l’ondata di pubblicazioni proustiane che ha caratterizzato l’anno che si sta chiudendo. In Francia – ma, in misura minore, anche in Italia – l’opera e la biografia di Proust hanno trovato, recentemente, un pubblico sempre più esteso ed entusiasta; come se riconoscere un contemporaneo nell’autore della Ricerca fosse più facile per i lettori del XXI secolo che non per quelli del secolo delle avanguardie e delle neo-avanguardie. E se di Proust, dopo le biografie di Painter, di Tadié, di Citati, si poteva avere l’impressione di sapere moltissimo, la curiosità ora si è spostata sulle figure più rilevanti del suo entourage. Ha così riscosso un meritato successo, uscendo simultaneamente in italiano e in francese, il bel saggio di Lorenza Foschini (Il vento attraversa le nostre anime, Mondadori, 2019) dedicato al rapporto, prima d’amore e in seguito d’amicizia, tra il romanziere e il musicista Reynaldo Hahn, figura melanconica di enfant prodige che non realizzerà a pieno le promesse della prima giovinezza, refrattario quanto l’amico scrittore a tutte le mode egemoni in campo letterario, musicale e mondano. 

 

Se della complicità tra Marcel e Reynaldo si sapeva comunque già molto, da quando, nel 1956, il grande specialista americano Philip Kolb aveva pubblicato la loro corrispondenza, altre figure sono emerse recentemente dall’ombra in seguito alla scoperta di testi o epistolari inediti. Le passa in rassegna, in una serie di saggi scritti tra il 2010 e il 2019, e ora raccolti in volume, Jean-Yves Tadié, che di Proust ha pubblicato nel 1996 la biografia più esauriente ed equilibrata e che ha diretto la più recente edizione della Recherche nella Pléiade. Incontriamo così, nel suo Proust. Esquisse d’une épopée (Gallimard, 2019) personaggi finora un po’ trascurati: Lionel Hauser, il cugino banchiere e teosofo che irritava infinitamente il romanziere consigliandogli, con pari insistenza, passeggiate all’aria aperta e investimenti assennati, e finì per salvarlo dalla rovina; René Peter, commediografo mondano di bell’aspetto, che nell’autunno del 1906 fu una presenza quotidiana nella vita appartata e un po’ misteriosa che Proust conduceva allora in un grand hôtel di Versailles, cercando di riprendersi dalla morte della madre; la signora Williams, nevrotica e solitaria vicina di casa al 102 di boulevard Haussmann, che con Proust condivise l’amore per la musica e la lotta contro i rumori molesti; infine il bel Pierre de Polignac, che diverrà principe di Monaco in seguito a un favoloso matrimonio e preferirà lasciar cadere le affettuose profferte del quasi stalker Marcel, deciso a far di lui uno scrittore e a prendere la direzione della sua vita, come il barone di Charlus vorrebbe fare con il narratore della Ricerca.

 

A questi saggi ricchi di novità biografiche si affiancano, nel volume di Tadié, ampi studi critici (su Jean Santeuil, su Un amour de Swann) e testi che fanno il punto su temi e fonti della Recherche (dai giardini alle serre, dalla musica alla pittura, da Debussy a Romain Rolland) con una costante attenzione ai risultati delle ricerche più recenti.

Paradossalmente, però, in questo volume così prodigo di informazioni aggiornatissime, le pagine più commoventi guardano al passato: sono quelle dell’Introduzione, in cui Tadié rivive il suo incontro con Proust, sui banchi del liceo. Siamo nel 1953, in un prestigioso istituto parigino dei Gesuiti, e il professore, un eminente teologo dalla voce grave e suadente, legge e commenta il brano del Tempo ritrovato in cui il narratore, inciampando in due lastre mal livellate nel cortile di palazzo Guermantes, rivede per una resurrezione della memoria il Battistero di Venezia e compie così i primi passi verso il “ritrovamento” del suo passato. Nonostante l’ironia dell’insegnante, che mette in guardia i suoi allievi contro la mania di Proust di “tagliare i capelli in quattro”, il sedicenne Jean-Yves è colpito al cuore:

 

Quella lettura ad alta voce fu come un’illuminazione. La mia vita ne sarebbe stata cambiata. Dalla cattedra, il professore poteva ben ironizzare su quelle frasi lunghe, ero sicuro, quanto a me, di aver sentito passare il vento del genio.

 

Tadié sottolinea come Proust fosse, in quella Francia degli anni ’50, fortemente condizionata dal magistero di Sartre, un autore fuori moda; insieme a Bergson veniva relegato d’ufficio in un anteguerra di patetica inattualità. Qualche segnale, però, cominciava a indicare un’inversione di tendenza: è del 1952 la pubblicazione del romanzo giovanile inedito Jean Santeuil, del 1953 la fortunata monografia dedicata all’autore della Ricerca da Claude Mauriac nella collana di Seuil Écrivains de toujours. Gli anni che vanno dal ’52 al ’71 sono anni di una scoperta che si potrebbe paragonare alla scoperta di Troia da parte di Schliemann: la rivelazione della lunghissima e tormentata genesi della Ricerca. Quel romanzo che i primi recensori avevano scambiato per un’autobiografia, in cui un narratore accumulava a caso i dettagli insignificanti della sua oziosa esistenza, era invece il risultato di un infinito e complesso processo di riscrittura, cominciato nel 1896 con l’incompiuto Jean Santeuil, proseguito a zig zag nei quaderni del Contro Sainte-Beuve, incanalato nella sua direzione definitiva a partire dal 1909 ma destinato ad attraversare, sino alla morte dello scrittore, ancora molte fasi tormentate e contraddittorie. 

È proprio con l’edizione della Recherche uscita nella Pléiade tra il 1987 e il 1989 e diretta da Tadié che il grande pubblico dei lettori non specialisti viene messo a parte di questo processo: ricchi apparati di abbozzi e varianti rendono accessibile a tutti il laboratorio di Proust dove si accumulano, come le tele scartate nell’atelier di un pittore, personaggi ed episodi che non figureranno nella versione finale della sua opera. Ma, prima di Tadié e della sua agguerritissima équipe, chi aveva esplorato e pazientemente portato alla luce gli antecedenti della Ricerca? I protagonisti di questa storia, in parte ancora da scrivere, sono Maurice Bardèche (1907-1998) e Bernard de Fallois (1926-2018). 

 

 

Rendere omaggio ai meriti di Maurice Bardèche, grande studioso del pensiero e della biografia di Balzac e primo ricostruttore in solitaria della genesi della Ricerca, non è cosa che si riesca a fare a cuor leggero. Simpatizzante sin dagli anni ’30 del fascismo, cognato e intimo amico del poeta Brasillach, che sarà fucilato per collaborazionismo, Bardèche, estraneo ad ogni attività politica ai tempi dell’occupazione tedesca, si è però distinto, dopo la guerra, per un pervicace impegno filonazista e negazionista. Questo forse spiega quanto raramente vengano ricordati i due volumi del suo Proust romancier (Les sept couleurs, Paris, 1971) in cui per la prima volta, sulla base dei quaderni manoscritti dello scrittore, sono ricostruite le grandi linee della genesi del capolavoro proustiano, senza gran rigore filologico ma con un’impressionante conoscenza intuitiva del metodo compositivo di Proust. 

 

 Estraneo, come Bardèche, al mondo accademico è l’altro grande pioniere dello studio dei manoscritti proustiani, Bernard de Fallois, che scoprì, trascrisse e pubblicò nel 1952 Jean Santeuil e nel 1954 il Contro Sainte-Beuve. Duramente criticato dagli specialisti per la disinvoltura con cui “montava” i brani manoscritti privilegiando la leggibilità del testo sulle ragioni della filologia, Bernard de Fallois, dopo la pubblicazione del Contro Sainte-Beuve, disertò il mondo dei proustiani per l’editoria sino a fondare, nel 1987, una propria casa editrice, le Éditions de Fallois. È stata questa casa editrice a raccogliere in due volumi, dopo la sua morte, alcune sue conferenze su Proust del 1998 e un suo ampio saggio di introduzione alla Recherche; ma la novità più importante emersa dai suoi cassetti è uscita presso Les Belles Lettres, a cura di Luc Fraisse. Si tratta del saggio Proust avant Proust. Essai sur Les Plaisirs et les Jours. Scritto negli anni ’50, doveva costituire la seconda parte di una “biografia intellettuale” del romanziere e identifica con stupefacente sicurezza anche i più tenui fili tematici che nella prima produzione, edita e inedita, del giovane Proust preannunciano la sua opera maggiore. 

 

Non è un caso che Luc Fraisse abbia pubblicato proprio ora questa magnifica analisi dei primi racconti di Proust, che è anche un attento studio sulla struttura di Les Plaisirs et les Jours, molto più calcolata di quanto si pensasse finora e sottoposta dal giovane autore a innumeri variazioni. Simultaneamente, infatti, lo stesso Fraisse ha curato per le Éditions de Fallois un volumetto di inediti proustiani che proprio Bernard de Fallois aveva raccolto e messo da parte, forse in vista di una pubblicazione che però non è andata in porto: Le Mystérieux Correspondant et autres nouvelles inédites. Si tratta di testi contemporanei a quelli raccolti da Proust in I Piaceri e i Giorni, ma che lo scrittore decise di non includere in quella sua prima opera e lasciò, a volte, incompiuti. Alcuni soltanto si possono definire “novelle”: in particolare Il Misterioso Corrispondente, Ricordo di un capitano e il singolare racconto fantastico La coscienza di amarlo, mentre altri hanno piuttosto il carattere di brevi saggi o poemi in prosa. Il Misterioso Corrispondente mette in scena due giovani donne, Françoise e Christiane, molto amiche. Una delle due, Christiane, deperisce lentamente per un male misterioso, di cui nessuno riesce a determinare l’origine. Nel frattempo, Françoise, molto turbata, riceve delle misteriose lettere d’amore da un corrispondente ignoto, che afferma di morire d’amore per lei. Quando Françoise giungerà a scoprire la verità, vale a dire che il “corrispondente misterioso” altri non è che Christiane, per un momento considererà la possibilità di salvare l’amica cedendo ai suoi desideri; ma rinuncerà dopo aver consultato il proprio confessore.

 

L’omosessualità, non più femminile ma maschile, è al centro del Ricordo di un capitano e del “dialogo di morti” Agli inferi. Il Ricordo di un capitano è la struggente rievocazione di un gioco di sguardi tra due giovani, carico di promesse ma privo di futuro. Di tutt’altro carattere è il dialogo Agli Inferi, in cui Sansone, maledicendo Dalila che ha causato la sua perdita, fa l’elogio dell’amore tra uomini, ne discorre con un mignon di Henri III e ascolta infine una ponderata riflessione del filosofo Renan, che riabilita il fascino femminile ma non condanna l’amore tra giovani in cui lo stesso Socrate non vedeva nulla di male. Non ci sono dubbi sulle ragioni che hanno consigliato a Proust di escludere dal suo volume in fieri i testi nei quali era presente l’omosessualità: da un lato rischiavano di mettere in imbarazzo i suoi famigliari, dall’altro di attirare su di lui, in società, commenti malevoli e curiosità morbose. Resta invece più misterioso il motivo che l’ha indotto a scartare il testo forse più bello e più commovente tra quelli pubblicati da Fraisse: Il dono delle fate. Tra le fate che si raccolgono intorno alla culla del protagonista una, la fata delle delicatezze incomprese, gli preannuncia una vita di amori non corrisposti e di amarezze causate dallo spettacolo dell’umana stupidità, sterminato come una buia foresta. Quella stessa fata, però, gli farà dono di una chiaroveggenza che trasformerà quello spettacolo in fonte di ispirazione: “Sarà come se in mezzo alla foresta io ti avessi tolto le bende dagli occhi e come se tu ti fermassi con allegra curiosità davanti a ogni tronco, a ogni ramo”. Giustamente commenta Luc Fraisse: “queste novelle dicono la capacità di meravigliarsi davanti alla bellezza, la vita racchiusa nei misteri, negli enigmi da risolvere, e quella ricchezza inalienabile che tutti possediamo, l’esplorazione del nostro mondo interiore.”

 

E nelle librerie italiane, che cosa c’è di nuovo, oltre al contributo biografico già citato di Lorenza Foschini? Per i lettori del Proust romanziere desiderosi di familiarizzarsi con il Proust saggista, Elliot ha affidato a una traduttrice di altissima classe, Chetro de Carolis, la sezione di Pastiches et Mélanges intitolata In memoria delle chiese assassinate. Le “chiese assassinate” sono – quando Proust sceglie questo titolo, nel 1919 – quelle danneggiate o addirittura distrutte durante i bombardamenti della prima guerra mondiale; ma le pagine raccolte sotto questa suggestiva dicitura sono anteriori alla guerra e raccontano i “pellegrinaggi “di Proust sulle orme di John Ruskin, da lui studiato e tradotto nei primi anni del Novecento. Traduttrice per Marsilio di Mallarmé, Chetro de Carolis rende con l’eleganza più precisa, più nitida questo Proust innamorato delle “supreme altitudini di pietra” dove convivono apostoli, angeli e piccioni. La bellissima introduzione di Simone Dubrovic dà conto di tutto quello che la cultura di Proust deve all’estetologo inglese – in particolare la rivelazione della cattedrale come unità vivente di natura e tradizione, “scrigno e sogno collettivo, ideale di creazione artistica, vittoria della vita sul tempo” – ma sottolinea anche il modo in cui l’estetismo ruskiniano viene superato nella Ricerca:

 L’incanto della bellezza dei lavori proustiani giovanili viene ora come filtrato attraverso un nuovo e necessario cammino di conoscenza, che salva, in un certo senso, quel mondo, trascendendolo nella luce aurorale della verità, avviandolo a nuove consapevolezze e a un lavoro che, dall’ebbrezza iniziale, arriva a un’indagine interiore severa, rigorosa, che metterà a un vaglio quasi spietato le stesse ragioni dell’amore per l’opera di Ruskin. Il mondo intorno si spopola progressivamente e dal dolore nasce il compimento dell’esperienza intellettuale.

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Vivere con gli dei. Il peso politico della religione

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Alla fine del secolo scorso ben pochi avrebbero scommesso che le religioni avrebbero mai più avuto un peso politico di rilievo, che avrebbero influenzato l'assetto politico del mondo o che si sarebbero riaccesi i fuochi sopiti di conflitti religiosi tanto antichi da essere ormai dimenticati. L'evidente secolarizzazione dell'Europa, sempre più diffusa e inarrestabile, ci induceva a pensare – con un atteggiamento che fino a non molto tempo fa avremmo definito arroganza culturale e che ora, invece, più appropriatamente dobbiamo chiamare provincialismo culturale – che, essendo ormai pari a zero il peso politico delle religioni nel nostro continente, ciò significasse la sua fine per sempre e ovunque. Come succede spesso, la Storia ci ha sorpresi e dobbiamo ammettere di esserci sbagliati. Infatti, in diverse parti del mondo compresa l'indifferente Europa, sorgono scontri, guerre e ostilità in cui diversi gruppi identitari nazionali e culturali sbandierano i vessilli delle religioni tradizionali per rianimarsi e radunare persone che in quei simboli, in qualche modo, si riconoscono. Come mai sta accadendo? E davvero non era immaginabile?

Neil MacGregor, direttore dal 1987 al 2002 della National Gallery di Londra e dal 2002 al 2015 del British Museum, attualmente direttore dell'Humboldt Forum di Berlino, e autore del saggio Vivere con gli dei (Adelphi) sostiene che avremmo potuto immaginarlo, perché il riapparire sulla scena politica mondiale delle religioni organizzate e delle politiche identitarie a loro associate è "solo un ritorno al precedente modello delle società umane". È sempre stato così, lo è ancora oggi e, nonostante tutto, la religione – qualunque religione – non è il male assoluto.

 

Partendo da questa premessa forte l'autore spiega la sua tesi e lo fa iniziando dalle prime testimonianze di religiosità, all'alba dei tempi, per giungere fino ai giorni nostri e alle forme di religione secolarizzata del Novecento come i nazionalismi, l'ateismo di Stato o l'adorazione di un leader. Il percorso, lungo e affascinante, procede attraverso l'osservazione e l'interpretazione di oggetti, luoghi di culto, immagini sacre che, in una successione cronologica e in diversi contesti culturali, raccontano come, sin dalle più remote origini dell'umanità e nei più diversi luoghi della Terra, i gruppi umani abbiano osservato e interpretato il mondo e il proprio ruolo in esso – da vivi e da morti – e come, attorno a tali narrazioni, abbiano costruito forme sempre più complesse di convivenza. Che si tratti di fede, di ideologia o di religione, le credenze e i presupposti che "trascendono la vita dei singoli individui e sono parte di un'identità condivisa" definiscono i rapporti, stabiliscono le regole, informano i comportamenti, pongono i limiti. Permettono, insomma, di vivere e lavorare insieme, anche in gran numero. Prima di essere l'oppio dei popoli, secondo la famosissima espressione di Karl Marx (cfr. Critica della filosofia del diritto di Hegel), la religione è stata il collante dei popoli; e proprio da questo punto di vista vuole raccontarla Neil MacGregor. 

 

Sin dall'era glaciale società o, meglio, gruppi d'individui che dobbiamo pensare piuttosto ridotti e con scarsi mezzi, hanno dedicato enormi risorse alla realizzazione di oggetti usati nei riti e nella costruzione di luoghi in cui riunirsi per celebrare insieme. Tra i tanti reperti che lo testimoniano MacGregor sceglie una straordinaria figura d'uomo con testa di leone, chiamata Uomo-Leone, alta circa trenta centimetri, finemente scolpita in avorio di mammut, databile attorno a quarantamila anni fa e ritrovata nei pressi di Ulm, nel sud-ovest della Germania. Perché privarsi di una risorsa preziosa e in più sobbarcarsi il peso di una bocca improduttiva per permetterle di dedicarsi alla creazione, veramente impegnativa in termini di tempo e abilità visti gli strumenti che poteva usare, di un oggetto del tutto inutile? Tra i luoghi, oltre al notissimo Stonhenge, MacGregor cita un sito irlandese ancora più antico, precedente alle piramidi egiziane, Newgrange, a una cinquantina di chilometri da Dublino (inciso personale: io l'ho visitato molti anni fa ed è bellissimo!), dove si trova una grande struttura in pietra – una tomba circolare cui si accede attraverso un lungo e stretto corridoio di grandi megaliti – orientata in modo tale che alle 8,58 del mattino del Solstizio d'inverno un raggio di sole entra, ne colpisce il centro e la illumina. Questa "enorme struttura di pietra", nota MacGregor, "ideata, orientata e costruita per quei diciassette ineffabili minuti" in cui la luce del sole entra e rimane quasi a riportare vita ai morti, rappresenta una grande impresa architettonica che ha richiesto non solo grande maestria e innumerevoli osservazioni, ma anche "l'investimento di risorse fondamentali in vista di un futuro beneficio esistenziale e non materiale". Come questo molti altri luoghi sulla Terra testimoniano il ruolo fondamentale dei culti nello sviluppe e nell'organizzazione delle società preistoriche.  

 

L'interesse dell'autore di Vivere con gli dei non ha per oggetto la fede dei singoli né la loro spiritualità, le dottrine o la teologia, ma le pratiche religiose, "ciò che intere società credono e fanno". Cerimonie, luoghi di culto, oggetti sacri usati dai fedeli dei quattro continenti raccontano la loro esperienza del mondo e quale ritenevano fosse il loro posto in esso; le credenze e le pratiche condivise formano, confermano e rafforzano identità e appartenenze. In tal senso è indubbio che la religione abbia avuto una funzione politica e sociale. Potrebbe addirittura esserci lei all'origine anche della prima e più fondamentale svolta della civiltà umana, la rivoluzione agricola, avvenuta circa dodicimila anni fa. L'ipotesi, fondata e ben documentata da recenti scoperte archeologiche, è proposta dall'archeologo tedesco Klaus Schmidt, cui si devono la scoperta e gli scavi, dal 1994, del sito di Göbekli Tepe, collina panciuta, odierna Sanliurfa, nella Turchia sud-orientale, vicino al confine con la Siria, recentemente aperto al pubblico. Si tratta del sito più importante e antico nella storia degli edifici di culto, testimonianza che dodicimila anni fa "un'intera società di cacciatori-raccoglitori unì le forze per costruire un colossale monumento di pietra": 200 colonne alte fino a 6 metri con bassorilievi di animali come leoni, avvoltoi e serpenti disposte in cerchio.

 

 

Seimila anni prima di Stonhenge e diecimila prima della piramide di Giza, molti esseri umani hanno dovuto lavorare e organizzarsi per costruire un luogo immenso in cui riunirsi per celebrare insieme. È possibile, ritengono gli studiosi, che, contrariamente a quanto si è creduto a lungo, la sedentarizzazione e l'agricoltura non occasionale ma sistemica, sia stata una conseguenza della necessità di alimentare un grande numero di persone adibite a un lavoro e impossibilitate, perciò, a procurarsi cibo da sole cacciando. Ed è probabile anche che Göbekli Tepe sia stato il prodromo della civiltà urbana apparsa nei millenni successivi nelle zone limitrofe della Mesopotamia. "In altre parole, conclude Mac Gregor, prima di vivere vicini gli uni agli altri, abbiamo vissuto con gli dei."

 

Demolire un tempio è molto più grave di un atto di profanazione, è un attacco alla comunità cui quel tempio appartiene. La rappresentazione pubblica e ritualizzata della vita spirituale, in cui ognuno è spettatore e attore, dimensione fondamentale in tutte le religioni, crea coesione spirituale e sociale; la fede assume una dimensione pubblica nella quale "l'aspetto politico e quello religioso sono intrecciati in modo stretto. Negli edifici sacri e negli atti rituali di offerta e di sacrificio le società esprimono la loro visione del corretto ordine delle cose del mondo." E alla dimensione sociale appartiene la festa, che avvicina tra loro gli uomini nella gioia e li unisce agli dei, perché non solo si vive ma anche si festeggia insieme a loro, e a tutte le generazioni, passate e future. La festa è un collante straordinario, ed è formidabile la sua capacità di perdurare, trasformandosi nelle forme e nei significati che le si attribuiscono, sopravvivendo attraverso i tempi e le culture. Ne è un esempio peculiare e divertente il Natale "la festa più amata di una religione mediorientale, che si sovrappone a un'antica festività romana, assorbe il culto della natura importandolo dalla Germania, viene rimodellata e messa in versi a New York, e finisce per condurre agli addobbatissimi grandi magazzini di tutto il mondo". 

 

Un segno della forza della religione è la violenza con la quale si è cercato di eliminarla. Per esemplificarlo MacGregor menziona due esempi. Il primo riguarda la Francia ai tempi della Rivoluzione del 1789, il primo caso di uno Stato ateo della Storia. Il governo rivoluzionario abolì la religione, confiscò i beni della Chiesa, proibì il culto cristiano, perseguitò fedeli e religiosi tagliando molte teste. Tuttavia, comprendendo l'utilità politica delle feste e non potendo ignorare la necessità di nominare i mesi, i giorni e così via, sostituì alla religione cattolica il culto della dea Ragione, cambiò i nomi dei giorni della settimana e dei mesi e, insomma, fece un putiferio sanguinario. Dopo il Terrore, tutto tornò come prima. Anche l'Unione Sovietica decretò l'ateismo di Stato, ma nonostante tutto la religione ortodossa restò più viva che mai, sotto le ceneri delle sue cattedrali distrutte. MacGregor riporta una piccola fotografia della demolizione della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca per ordine di Stalin nel 1931 e un'altra in cui la stessa cattedrale è ricostruita in tutto il suo splendore negli anni Novanta. Il motivo per cui in entrambi i casi, come in molti altri, la religione non poté essere cancellata o dimenticata va rintracciata, secondo MacGregor, sia nei sentimenti di coesione e di impegno sociale che la religione produce sia nella rabbia e nel malessere "per la distruzione di modelli di vita comunitaria consacrati dal tempo" impossibili da sradicare del tutto dal cuore della gente.

 

Vivere con gli dei non è soltanto un libro originale, piacevole da leggere e con delle immagini molto belle. Sviluppa anche una tesi chiara: mostrando l'altra faccia della medaglia della funzione politica della religione, ne mette in luce la capacità di creare fortissimi legami tra gli individui (d'altra parte è questa l'origine etimologica della parola religione), di formare identità collettive e di normare i rapporti tra le persone rendendone possibile la vita sociale e il lavoro collegiale in vista di un fine comune. Oggi le società devono affrontare un'enorme sfida dal cui successo dipende la sopravvivenza del vivere civile, quella di fare in modo che le religioni, intese nel senso più ampio di insiemi di narrazioni, regole di comportamento reciproco, visioni e prospettive riguardo al futuro, siano elemento d'unione e di civilizzazione per l'umanità intera, e non strumenti di prevaricazione o di dominio. Scegliamo noi quale lato della medaglia vogliamo far prevalere.

 

"A mio giudizio – conclude MacGregor – il declino del ruolo delle religioni istituzionali ha condotto a una seria perdita del senso di comunità, e i fedeli di un tempo si sono trasformati oggi in consumatori sempre più atomizzati. Tutte le tradizioni che abbiamo esaminato affermano che la vita del singolo è più soddisfacente se viene vissuta in seno a una comunità, e tutte offrono modi per tradurre in realtà questa affermazione. È famosa la frase di J-P Sartre, secondo cui 'l'inferno sono gli altri'. Le narrazioni e le pratiche che abbiamo esaminato in questo libro sostengono l'esatto contrario: che vivere armoniosamente con gli altri, vivere insieme, è la cosa più vicina al cielo che ci è dato di raggiungere". E chiude riportando l'immagine di una scultura lignea del 1480 ca., una Madonna della Misericordia, che ritiene possa simboleggiare perfettamente questa sua idea. Maria tiene allargato con le braccia l'orlo del proprio mantello al cui riparo si raccolgono molte diverse persone, "guarda risoluta verso il futuro e… sta facendo un passo avanti, e loro con lei".

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Sicuri che sia l'oppio dei popoli?
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Dalla parte del suono: voci di un cambiamento

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I suoni orientano, guidano e dirigono il senso degli eventi che caratterizzano la nostra società, trovando nell'ascolto, soprattutto quello clandestino, la spinta creativa e la forza generatrice del cambiamento.

A partire da questa ipotesi, Giovanni Fiorentino si è messo dalla parte del suono, focalizzandosi su un modo e su uno spazio peculiari della sua produzione: la radio nel Meridione d'Italia, un connubio che ha significato libertà e protesta, sperimentazione e effervescenza comunicativa, elementi che hanno determinato le caratteristiche contemporanee del medium. Difatti, in “Dalla parte del suono. Radio, Sud e Mediterraneo. 1943-1978” (Sette Città 2019) Fiorentino evidenzia come, nel corso degli anni, clandestinità, polifonia, connettività e innovazione radicale siano unite a filo doppio in un sistema coeso, terreno germinale elettivo della ri-mediazione attuata dalle Web radio – declinazione odierna delle radio libere – e dai podcast, contenuti scissi dalla fruizione in tempo reale, ma fedeli alla tradizione di esplorazione e sperimentazione della radiofonia analogica, in cui si erano già delineati, seppure in maniera rudimentale, la figura del prosumer– il mitologico produttore-consumatore – e il concetto di narrowcast, la trasmissione ristretta tipica di Internet.

 

Le voci e le anime vibranti della radio vengono raccontate da Fiorentino ricostruendo una memoria che, seppur privata delle immagini, resta vivida per via della sua immanenza nel quotidiano: collega di lavoro, rifugio dell’otium, fedele compagna dei tragitti in auto. La radio, dunque, ha acquisito negli spazi e nei momenti di vita un potere di costruzione e consolidamento dello spirito comunitario, prima locale e poi glocale, per cui consumare i suoni non è mai questione di affetto medio, bensì di passioni travolgenti, di fascinazioni uditive.

La radio, soprattutto durante la grande guerra, divulga e al contempo mantiene il segreto, si trasforma in una narratrice onnisciente delle storie che configurano la Storia con la S maiuscola, percorso intrapreso dallo stesso Fiorentino con l’obiettivo “di produrre un’ipotesi culturale alternativa”.

In tal senso, la peculiarità della radio del Mezzogiorno risiede nell’amplificare e nel magnificare i discorsi di un territorio che chiede a gran voce di essere raccontato e ascoltato per resistere e sopravvivere. I suoni donano nuova linfa a una popolazione annichilita dalla guerra, rinvigorendo le radici culturali anestetizzate dal fascismo, tanto che le radio si identificano con i luoghi da cui trasmettono Radio Palermo, Radio Bari, Radio Napoli, Radio Sardegna, incarnando e preservando i loro valori in gran segreto. Radio urbane, o meglio comunitarie, la cui collocazione geografica determina linguaggio e affetti, ma anche, e soprattutto, clandestine e connettive, abitate da una moltitudine di voci in opposizione al tono salmodiante dell’Eiar, sintonizzata soltanto sulle onde del regime.

 

 

Le radio locali smontano la propaganda fascista per costruire una nuova opinione pubblica da sensibilizzare al movimento partigiano e da abituare, con l’aiuto della musica, alla cultura “altra” degli alleati, foriera di speranza e di futuri possibili.

La democrazia nasce tra rulli di tamburi, jazz e V-disc, ma deve superare ancora una forma diversa di censura, quella degli alleati. A Napoli, ad esempio, la programmazione e i contenuti sono pilotati dagli angloamericani, ma equilibrati dalla “sezione prosa”, valvola di sfogo della creatività partenopea, tra cui spicca la trasmissione satirica Stella bianca, che vede, tra gli altri ideatori, un giovane Steno affinare gli strumenti del mestiere cinematografico, specialmente la vis comica e la capacità di organizzare configurazioni discorsive stereotipate come il sogno americano, attualizzando un immaginario proibito ora più accessibile per gli ascoltatori. Purtroppo, il fermento delle avanguardie di metà anni Quaranta dura poco, e, paradossalmente, l’instaurazione della democrazia coincide con una nuova supremazia di Roma come centro di diffusione mediatica. Il biennio 1943-1944 va considerato una breve parentesi in cui vengono piantati i semi che germogliano negli anni Settanta, precisamente alle 19.30 del 25 marzo 1970, momento in cui Radio Sicilia Libera è in onda, illegalmente, e lo sarà per le prossime ventisei ore sino all’arrivo dei carabinieri. Un’azione necessaria per la resistenza culturale dei poveri cristi capeggiati dal sociologo triestino Danilo Dolci, un esperimento culturale finalizzato alla sensibilizzazione e al coinvolgimento dell’opinione pubblica sui grandi temi dell’epoca o sulle questioni territoriali. Educare all’ascolto e alla responsabilità civile attraverso contenuti densi e sentiti, come i componimenti di Alessandro Scarlatti e di Ignazio Buttitta, che con La Sicilia camina, lancia un inno all’opposizione popolare i cui temi sono validi ancora nella contemporaneità.

 

La Sicilia era orba

caminava muru muru

ora vidi puro o scuru

e cu l'occhi fa un falò.

 

In questi versi emerge il significato culturale della libera espressione e della consapevolezza sociale, che Buttitta rende con la metafora della riacquisizione del senso della vista, reso più potente da una lucida volontà di cambiamento. In effetti, i frutti del tentativo rivoluzionario non tardano ad arrivare: il 28 luglio 1976, una sentenza della Corte di Cassazione liberalizza le trasmissioni via etere in ambito territoriale. Al bando il segreto, finalmente, in tutto il Mezzogiorno, le manopole del volume possono essere ruotate al massimo senza timori, aumentando l’intensità energetica della cultura di appartenenza. Siamo di nuovo a Palermo, in via Francesco Baracca, a Napoli di nuovo in via Chiaia, e poi a Bari, a cui si aggiungono Potenza, Messina, Cosenza: ogni città ha la sua colonna sonora e i suoi aedi personali.

In quel periodo a Cinisi nasce Radio Aut di Peppino Impastato, capace di trasformare le onde elettromagnetiche in un’arma per combattere la mafia, purtroppo non abbastanza potente da salvare la vita al suo ideatore, ma forte quanto basta da renderlo parte integrante della storia della lotta civile. La memoria di Impastato vive tutt’oggi proprio attraverso i media, trovando il suo culmine nella musica, il contenuto radiofonico d’elezione, con almeno otto canzoni a lui dedicate. 

 

Le radio locali non sono mai state solo una questione di “canzonette” – parafrasando Edoardo Bennato – bensì una fonte d’ispirazione che induce a non avere paura, a impegnarsi a fare meglio, a incanalare le speranze in maniera efficace, senza alcuna strumentalizzazione populista, facendosi ascoltare dalle strade e nelle strade delle città. In questo modo le radio locali si innestano nel tessuto sociale diventando amplificatori del pensiero libero, della partecipazione collettiva, evocando carnalmente i temi rilevanti per la comunità attraverso i dialetti e le sonorità familiari, in una proficua creolizzazione di generi e linguaggi. I trentacinque anni ricostruiti da Fiorentino rappresentano, nell’economia generale della storia italiana, peculiare esercizio di memoria collettiva, orientato alla riscrittura e al meticciato delle tradizioni culturali e sociali. La memoria del suono può plasmare il presente e diventare uno strumento di rinnovamento, permettendo alle novità di essere efficaci, ma soprattutto comprese, a partire da una loro collisione con l’immanente, che genera un sistema terzo, rinnovato, traducibile e negoziabile all’infinito.

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Il misterioso “primo uomo” di Camus

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Quando Albert Camus scrive Il primo uomo, alla fine degli anni Cinquanta, il neorealismo di ispirazione drammatica ha esaurito la sua forza d’urto ma sono rimaste le risacche nelle forme del diarismo autobiografico, dell’éngagément politico, della memorialistica testimoniale mentre la temperie esistenzialista si precisa sempre più in una ipertrofia dell’io intesa non a scavare ma a macerare l’animo umano. Il giorno in cui muore in un incidente stradale, il 4 gennaio 1960, Camus è nel pieno della sua opera di introspezione perché porta sempre con sé il manoscritto al quale sta lavorando, ancora ben lontano dall’essere in verità concluso e tuttavia già definito nel titolo, il “primo uomo” assumendo non solo il senso più manifesto di una rappresentazione del tema dell’infanzia e dell’adolescenza (uno dei cardini del realismo mitico di cui in Italia Vittorini è stato il principale artefice), ma sottendendo nel percorso del giovane che diventa adulto anche il prototipo di quell’“uomo in rivolta” teorizzato dall’autore franco-algerino nella sua dottrina della salvezza dall’assurdità del mondo. Sicché Il primo uomo (ripubblicato ora da Bompiani nel sessantesimo anniversario della scomparsa con la traduzione del 2001 di Ettore Capriolo, pp. 312, euro 14) integra sotto la specie narrativa L’uomo in rivolta e si pone nello stesso tempo a suggello di una parabola tesa sin dall’incipitario Lo straniero, quasi a coronare il compimento di un’attività letteraria e della vita stessa, proponendosi come testamento morale di un intellettuale sempre a metà tra narrazione e interpretazione. 

 

Entro questa prospettiva, se Lo stranieroè stato il vangelo di professione della estraneità dal mondo assurdo, Il primo uomo appare, a conclusione di un ciclo, l’epistola di riappropriazione di quel mondo, ancor più giovanile e intimo perché, in un’Algeri catafratta e incantata, l’uso della prima persona si serve qui di una impersonalità intesa a rendere più proprio e identitario un racconto che è soprattutto una confessione. Solo in un caso, parlando dei piatti che vengono annusati secondo una tradizione algerina, scrive: «Mi fanno ridere gli etnologi che cercano le ragioni di tanti riti misteriosi». Ma si tratta sicuramente di una distrazione, o forse di uno svelamento, perché Camus ha fatto di Meursault un Jacques Cormery nel quale egli traluce molto di più, pur con le riserve che vedremo, nella sua epifanica, coraggiosa e generosa propensione a rivelarsi il bambino poverissimo e felice che è stato, figlio delle «divinità indifferenti del sole, del mare e della miseria», discepolo della pensée de midi, il pensiero meridiano alla cui legge ha informato la propria educazione civile. Le analogie tra i due romanzi sono evidenti, quasi ricercate: l’autore divenuto adulto torna ad Algeri in un viaggio circonfuso nello spirito del nostos, per i funerali della madre in Lo straniero e per ritrovare tracce del padre in Il primo uomo

 

In entrambe le occasioni la riscoperta del proprio mondo sorregge anche l’avvistamento di sé dentro quel contesto ormai perduto, ridestando l’«angoscia gioiosa al pensiero di rivedere Algeri» e risentendo sulla pelle il caldo che «cuoceva le strade asciutte e polverose» nel bianco opalescente e diafano di un paesaggio torrido che porta Meursault all’omicidio e Jacques Cormery a essere «tranquillamente mostruoso»: tale che Veillard, il colono della fattoria dove Jacques pensa di essere nato, può dire che «gli uomini sono tremendi, specie sotto un sole feroce». In questa mostruosità tutta da interpretare agisce il fattore letterario che muove l’ultimo Camus, addetto a fare di Cormery un doppio di sé, non un altro straniero, ma inaspettatamente un nuovo mostro. In una nota così appunta: «Bisognerebbe sottolineare di più sin dall’inizio il lato oscuro di Jacques». E in un richiamo dei cosiddetti “Fogli”, posti in appendice come paralipomeni, scrive: «Non si può vivere con la verità – “sapendo”; chi lo fa si distacca dagli altri uomini, non può più condividere in nulla la loro illusione. È un mostro – ed è questo che sono io». 

 

Il progetto di Camus è del tutto in progress quando muore, per modo che non può dirsi che abbia lasciato un’incompiuta giacché ci è invero rimasto un manoscritto incompleto, fermo ai due soli capitoli relativi all’infanzia e all’adolescenza, ma destinati a svilupparsi almeno fino alla guerra di liberazione algerina di cui c’è traccia nell’Appendice. Sicuramente è a questo futuro stadio che Jacques Cormery avrebbe assunto una personalità propria diventando un personaggio autonomo, non più trasposizione fedele dell’autore.

 

Ma non lo sapremo mai per certo. Né quando muore lo sa lo stesso Camus, che non ha chiara la natura di mostro che Jacques dovrebbe in seguito adottare, se non in riferimento a un delitto che gli imputa e che ritroviamo in Appendice: quello di uno dei fantomatici “inseguitori” di cui Jacques è preda durante la fuga dalla redazione clandestina, circostanze che al manoscritto sono ignote, come tali sono anche personaggi quali Wanda e Saddok, tutti da venire. Jacques gli squarcia la gola e lo uccide «folle di disgusto e di furore» (furoreè il termine che Camus associa sempre al sole e agli effetti del caldo), non diversamente da quanto nel manoscritto riferisce di aver visto da giovane fare realmente a un parrucchiere che mentre radeva un cliente, «gli aveva tagliato la gola con un colpo di rasoio, e l’altro, sotto quel taglio delicato, aveva sentito solo il sangue che lo soffocava, ed era uscito, correndo come un’anatra sgozzata male, mentre il parrucchiere, immediatamente bloccato dai clienti, lanciava urla forsennate – come il caldo stesso in quelle giornate interminabili». E proprio un’anatra, anzi una gallina, da bambino Jacques aveva visto sgozzare alla nonna ricevendone uguale sconcerto. 

 

 

Echi, rimandi, evocazioni, impressioni dal vero: tra autobiografia e spirito di denuncia dei mali del suo tempo, Camus coltiva un progetto di libro che ci appare misterioso e disforico. Quel che leggiamo è un cartone preparatorio e non un romanzo: una bozza che senza dubbio prefigurava ben diverso svolgimento e che ci appare come una bella dama colta nella sua toilette anziché ammirata in salotto nella sua mise. La congerie di chiose che costellano il manoscritto provano che Camus era ancora lontano, sebbene febbrilmente impegnato nella sua ricerca, da un’idea consolidata del romanzo-trionfo. Nelle note che la figlia Catherine ha sistemato in appendice, decidendo nel 1994 di pubblicare il testo così come lo aveva trovato, forse tradendo la volontà del padre, leggiamo propositi inattesi e rivelatori: «Il libro deve essere incompiuto. Es.: “E sulla nave che lo riportava in Francia...”»; «L’ideale sarebbe che il libro fosse scritto alla madre, da un capo all’altro – e si scoprisse solo alla fine che lei non sa leggere – sì, sarebbe questo». Bastano questi soli elementi a dimostrare che Camus fu sorpreso dalla morte nel mezzo dell’opera da fare e privo di certezze sul da fare. L’autore sarebbe tornato certamente anche sul testo e forse per stravolgerlo, ma quantomeno per uniformare i nomi dati per esempio alla madre, prima Lucia e poi Catherine, allo zio, chiamato Ernest e poi Étienne, e poi al maestro di scuola che da Bernard assume quello vero di Germain. 

 

Quanto si può ipotizzare, incrociando note e testo provvisorio, è che Camus pensasse a un’opera-mondo nella quale fosse possibile riconoscere lui e la sua circostanza, l’Algeria natale e immagata negli eventi che dalla Grande guerra – e prima ancora dall’arrivo dei coloni francesi agli inizi dell’Ottocento – portano all’indipendenza lungo un’epica di storia europea e di vita familiare. E se allora una sottile differenza è percepibile tra Lo straniero e Il primo uomo, essa è proprio nello sguardo dell’autore che passa da un individuo posto di fronte all’assurdo a una famiglia “in rivolta” che cerca il riscatto e lo ottiene nel successo conseguito da uno solo, un successo non merito personale di Jacques ma frutto dei sacrifici compiuti dalla nonna, dalla madre, dallo zio e da un caro insegnante, del quale in conclusione la curatrice riporta un’accorata lettera in risposta a un’altra altrettanto autentica di Camus di sentito ringraziamento.

C’è tuttavia un labile indizio a gettare qualche luce sulla genesi del romanzo, laddove Camus, riguardo “l’incidente dello scaricatore” di cui nulla però ci dice, appunta in nota di ripromettersi di vedere il diario. Dunque esisteva un diario come Ur-text nel quale lo scrittore trascriveva da ragazzo i fatti principali e dal quale Il primo uomo ha tratto fondamento? Ed è stato questo diario riesumato a indurre il quarantenne Albert a ripercorrere la sua infanzia ad Algeri – tornandoci adulto (come già Vittorini negli anni Trenta torna a Neve dalla madre, preda di analoghi “astratti furori”) in un viaggio che è una quête esistenzialistica – e con essa quella dei suoi nonni e dei genitori? Camus pensava per certo a un diario che non fosse però incompiuto ma sospeso, come legato a un misterioso presagio che vedesse Jacques in mare tra l’Algeria e la Francia, senza però lasciare segnali che inducano oggi a guardarlo come un mostro. Quale mostro poi? E in che misura da vedere entro una chiave autobiografica? Cosa insomma si preparava a rivelare o a raccontare Camus? 

 

In mancanza di possibili risposte e alla ricerca di significati di fondo circa un’operazione letteraria così complessa e tutto sommato oscura, non resta che l’aruspicina dei presagi di cui il testo è certamente profilato: quello della morte innanzitutto, che Camus sente come incombente e immanente sui suoi parenti che «vivevano ora nell’imminenza della morte o, in altre parole, sempre nel presente»; quello della fuga, da una immaginaria redazione di giornale come pure da Parigi per l’Africa, gustando ogni volta «una sorda esultanza, un allargarsi del cuore, la soddisfazione di chi è riuscito a evadere e ride ricordando le facce dei secondini»; quello della svolta politica che è annunciata dall’attentato terroristico cui Jacques assiste, talché Gianni Amelio, trasponendo nel 2011 il libro in un film, parla di «intervento potente di un grande scrittore sulla tragedia del proprio Paese e del proprio tempo»; quello ancora dell’identificazione con il padre perduto, da cercare nei luoghi e nelle persone che sono rimasti, nell’intento di dissotterrare le radici di casa.

 

Quando nel ’53, all’età di quarant’anni, Jacques-Albert torna ad Algeri, nel “quartiere fulvo” incendiato dal sole dove è cresciuto, la decisione che prende è dovuta alla visita che rende alla tomba del padre caduto nella battaglia della Marna e sepolto nel cimitero di Saint-Brieuc, dove scopre che è morto a ventinove anni, a un’età di gran lunga inferiore alla sua, dimodoché è un uomo fatto quello che va a trovare il padre ragazzino nel giro di un effetto di straniamento che pervade l’intero libro, uno straniamento ricercato e insistito da parte di un uomo per tutta la sua breve vita rimasto straniero a se stesso. Come immaginando di dover morire presto, di tubercolosi però e non certo in uno scontro stradale, Camus si addice a mettersi allo specchio nello sforzo di riconoscersi e scrive un libro alla Svevo e à la Proust, primonovecentesco, come cura psicoanalitica per vedersi nudo e soprattutto non più straniero né in Francia né in Algeria, né come figlio né come fanciullo e poi come uomo. 

Forse Il primo uomo doveva rimanere in un cassetto perché ci dà un Camus che non vediamo intero, sennonché costituisce un atto anagrafico che porta non tanto a visitare la sua officina letteraria e scoprire come componeva le sue opere, quanto a sorprendere la pena e lo strazio che promanano da un tentativo a metà di uscire dall’abito di un arcano e imperscrutabile mostro in figura di spettro. L’assurdo è invecchiato come una malattia cronica ed è diventato assillo. Contro di esso e non contro un’altra autovettura è andato a scontrarsi e morire lo scrittore dell’indicibilità del mondo.

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La sensibilità della mela

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Che ci sia bisogno di un’altra mela, di un nuovo strappo che ci butti fuori da questo globo saturo in cui ci siamo ficcati? “Adamo ed Eva – dice François Jullien – non potevano immaginare un Fuori a cui aggrapparsi per tenersi fuori, “e-sistere”, avventurarsi. Mangiando la mela, però, hanno introdotto la fecondità di un’incrinatura in quell’ordine stabilito, hanno aperto uno scarto che li estraeva da quel mondo e dalla sua saturazione-soddisfazione” (Il gioco dell’esistenza, Feltrinelli 2019). Insomma, una sensibilità nuova, la sensibilità della mela, per l’appunto.

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Piccole donne di Greta Gerwig

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“Nessuno di noi avrebbe mai potuto amare tanto la terra, se la nostra infanzia non fosse trascorsa vicino ad essa; se non fosse quella stessa terra, dove ad ogni primavera rispuntano gli stessi fiori, che raccoglievamo con le nostre piccole dita […] Quale “nuovo” può valere quanto questa dolce monotonia dove tutto è noto, ed è “amato” proprio perché è noto?” È una citazione de Il mulino sulla Floss di George Eliot – pseudonimo maschile, come si usava in epoca vittoriana, della scrittrice Mary Ann Evans – e che Jo, la protagonista di Piccole donne, legge alla sorella Beth mentre sono in quella gita al mare, con tutta la famiglia e con l’amico di una vita Laurie, che diventerà momento esemplare di spensieratezza e felicità della famiglia March. E che nessuno poi nel corso del proprio approdo alla vita adulta riuscirà più a ricreare. 

 

 

Questa idea della nostalgia del passato e dell’oggetto perduto dell’infanzia, è solo uno dei tanti modi attraverso cui è possibile raffigurare il percorso tortuoso con cui soggettivamente si fa esperienza del desiderio o della ricerca della felicità. Poi ci sono quelli della mancanza, della frustrazione, dell’asimmetria e dell’enigma. O ancora quelli della creatività, dell’indistruttibilità, o persino della vita stessa, come vogliono le filosofie vitaliste e immanentiste. Alcuni insomma proiettano il desiderio al futuro, altri al passato (e altri ancora credono che possa essere sempre presente senza mai mancare). Eppure è profondamente lacerante e amaro, come accade in questo film, pensare che la nostra felicità dipenda tutta dal ritorno di qualcosa che è irrimediabilmente perduto. La gioia – ci parrebbe dire George Eliot – è qualcosa di monotono: è una ripetizione dello stesso. E invece – ahinoi – il tempo è destinato a spazzarlo via questo ritorno dell’identico e a farcelo sfuggire dalle mani. 

 

 

Non può essere un caso, se Greta Gerwig ha deciso di piazzare a metà del suo film questa citazione esplicitamente filosofica (che non c’è nel libro di Louisa May Alcott) di un passo di Il mulino sulla Floss dove il desiderio non è rivolto al futuro, ma è nostalgia di qualcosa che già si è avuto. Potrebbe essere una delle possibili chiavi per comprendere la più importante scelta stilistica di questa ennesima versione cinematografica di Piccole donne (sono almeno sei, senza contare le riduzioni televisive): quella cioè di strutturare il film con dei continui andirivieni temporali tra il presente di giovani adulte delle sorelle March (cioè di Piccole donne crescono) e quello del loro passato di pre-adolescenti nella casa di famiglia a Concord, Massachusetts. La sensazione è di avere a che fare continuamente con un passato idealizzato che continua – come un ritorno del rimosso – a riapparire nel disincanto del presente, dove tutte le scelte ormai sono già state prese. “Laurie ti manca?” chiede Beth malata e in fin di vita a Jo: “mi manca tutto” risponde lei. 

 

 

Il celebre incipit natalizio del libro arriva quindi solo dopo mezz’ora dall’inizio del film: dopo che abbiamo già visto Amy, la sorella aspirante pittrice, a Parigi con la zia; dopo che Jo ha già discusso col Professore Bhaer a New York riguardo alla sua carriera di scrittrice (assecondare o non assecondare i gusti del pubblico?); dopo che Meg è già madre di due figli e vive in una tale difficoltà economica da non potersi permettere un vestito nuovo da festa. La parte idillica di Piccole donne insomma compare già nella forma della memoria: già mediata dalla sua trasfigurazione nostalgica. Il cuore della vicenda ha in questo film le fattezze del passato: è un’esperienza che vediamo dal punto di vista della sua perdita. Dal punto di vista, per così dire, del passare e del morire delle cose. 

 

 

La frattura temporale – che il film rende quanto di più palpabile continuandoci a passare sopra scena dopo scena, saltandoci avanti e indietro – è quella che si porta dietro la definitività delle scelte (e degli inevitabili rimpianti): Jo ha già rifiutato Laurie, e la Gerwig quasi a voler aggiungere un surplus drammatico si inventa persino una lettera (che mai gli verrà recapitata) dove gli confessa di essersi pentita di aver respinto in passato la sua proposta di matrimonio; Amy ha già dovuto rinunciare alle sue velleità di artista e si è adattata all’idea di un matrimonio senza amore (e anche quando deciderà di sposare Laurie, percepiremo la sensazione agrodolce di essere lei una scelta di ripiego); Meg si è dovuta adattare a un matrimonio in povertà (dopo che sia la zia March che Jo avevano tentato in tutti i modi di dissuaderla perché “il matrimonio è sempre un contratto economico”); mentre Beth naturalmente farà da allegoria con la sua malattia alla fine di un’epoca della vita.

 

Eppure sarebbe sbagliato ridurre unicamente il film a un Bildungsroman disincantato, perché l’idea di fare di Piccole donne un ricordo nostalgico del passato ha anche un altro effetto, più postmoderno per così dire: quello di mettere a distanza la vicenda e renderla già da subito indistinguibile da una materia letteraria. Cosa che per altro ci viene mostrata già a partire dall’incipit del film che si apre su una contrattazione con un editore, e a cui segue – a mo’ di titolo del film – proprio la copertina della prima edizione di Piccole donne. È come se Greta Gerwig in quest’opera si pensasse soprattutto come lettrice e si accostasse alla vicenda già con un effetto di raddoppiamento e di distanza, secondo la sua tipica estetica autoreferenziale e citazionistica. 

 

 

Nonostante, trattandosi di una storia così ingombrante, sia inevitabile il confronto con gli adattamenti passati del libro della Alcott (su tutti, quello di Cukor del 1933), l’operazione di Greta Gerwig andrebbe confrontata alle caratteristiche che da sempre definiscono il suo cinema. Con l’idea, ad esempio, di mischiare volontariamente i piani tra la Louisa May Alcott scrittrice e il personaggio Jo March, fino a renderli indistinguibili, e includendo lo stesso romanzo di Piccole donne nel film, Gerwig fa un ulteriore passo in quella riflessione sulla narrativizzazione della vita che abbiamo visto in altre sue opere. Più di Lady Bird, c’è qualcosa in questo film delle sue precedenti sceneggiature con Noah Baumbach, o persino dei suoi trascorsi mumblecore con Joe Swamberg: quella sensazione di continua messinscena di se stessi e di narrativizzazione della propria vita che rende vita e arte così confusi e indistinti, e che caratterizza nel bene e nel male l’auto-riflessività narcisistica ed egocentrica dei ceti urbani contemporanei. Ma se in Mistress America o Frances Ha questa sensazione finiva per intrappolare claustrofobicamente i personaggi, qui l’epilogo è stranamente liberatorio e il confine tra il libro e la vita (e tra Louisa May Alcott, Jo March… e forse persino Greta Gerwig) finisce per smussare tutti gli spigoli più drammatici. 

 

 

È così che Greta Gerwig decide di risolvere il cuore del romanzo, e cioè l’enigma del desiderio di Jo: tanto volitiva, aggressiva e pronta a combattere quando si tratta della vita pubblica e della sua carriera di scrittrice, quanto timida e incerta quando si tratta di interrogare sé stessa e capire la natura del suo desiderio. “Lo ami Laurie?”, le chiede la madre; “Se mi chiedesse di nuovo di sposarlo, credo che gli direi di sì” risponde lei; “ma questo non vuol dire amare”. Ed è proprio quando Jo scopre che è troppo tardi per tornare indietro e che le scelte sono irreversibili, che la scrittura, frenetica e inarrestabile, entra nella sua vita a suturare quello che altrimenti sarebbe l’esposizione di un vuoto radicale (che è forse una delle migliori definizioni di ciò che nella modernità si è definito come soggetto). Lì mischiando tutti i piani, e chiudendo la distanza che separa la storia dalla vita, Greta Gerwig scioglie le aporie soggettive su cui si sono identificate generazioni di lettori e lettrici con quello che ha il sapore un po’ di un gioco delle tre carte. È una fuoriuscita che più che peccare di poca fedeltà alla lettera del romanzo – come qualcuno le ha fatto poco generosamente notare – rischia di depotenziarne un po’ lo spirito e di inventarsi una soluzione magari esteticamente efficace ma forse un po’ frivola. Una tentazione a cui spesso ha rischiato di soccombere il suo cinema anche in altri episodi. D’altra parte che importa – ci sembra dire la Gerwig – di come va a finire: non si trattava alla fine soltanto di un libro? Forse – ci verrebbe da rispondere – non si tratta maisolo di un libro. 

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Il libro e la vita
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