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NON: Una questione di (ri)appropriazione

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Siamo lieti di inaugurare con questo articolo una nuova partnership editoriale con Art South Africa, una rivista dinamica, innovativa, sovversiva e intelligente, dedicata alla realtà presente e futura del continente africano. Perennemente ottimista, anche nelle riflessioni più critiche, Art South Africa si apre a nuove possibilità, celebra il sogno ed esalta l’innovazione. Ispirandosi alle trasformazioni globali che hanno investito il mondo della comunicazione, i modelli di business, il pensiero creativo e le pratiche artistiche, Art South Africa si propone di mostrare e raccontare i risultati positivi che è possibile ottenere quando si ha il coraggio di rischiare. Dedicata alla cultura, alla creatività e all’arte africana, e in particolar modo alle arti visive, Art South Africa si fonda sulla convinzione che la vita non ha senso, se non è accompagnata dal sogno: è vuota, se priva d’amore, e ogni pensiero è pretenzioso, se non è intimamente sentito. La sfida più grande è riuscire a unire cuore e intelletto. Ed è questo ciò che Art South Africa si propone di fare. Ispirandosi ai medesimi ideali, lettera27 ha deciso di ripubblicare alcuni dei contenuti di Art South Africa all’interno della rubrica Why Africa?.

 

English Version

 

AA BYT July29 NON 1 Chino Amobi, a still from Illuminazioni, 2012. Digital Video, 17:02. Image courtesy of Chino Amobi.

 

NON è un collettivo di artisti, provenienti dall’Africa e dai Paesi della diaspora, che utilizzano il suono come mezzo privilegiato. Come essi stessi affermano, il loro intento è quello di “articolare le strutture visibili e invisibili che creano diseguaglianze all’interno della società, promuovendo una redistribuzione del potere e creando sonorità in grado di opporsi ai canoni contemporanei”.

 

Fondato da Chino Amobi (Stati Uniti), Melika Ngombe Kolongo, a.k.a NKISI (Regno Unito), e Angelo Valerio, a.k.a Angel-Ho (Sudafrica), NON è uno spazio all’interno del quale artisti africani provenienti da tutto il mondo possono sfidare, con le loro opere, i canoni eurocentrici tradizionali attraverso cui si definiscono i confini dell’arte contemporanea. Attualmente, infatti, il mondo dell’arte occidentale tende a presentarsi come universale, come “il mondo dell’arte” tout court, sfuggendo a ogni forma di auto-riflessione critica. Da un punto di vista discorsivo, ciò che consideriamo come storia dell’arte contemporanea non è altro che una prospettiva propagandistica, costruita nel corso degli ultimi tre secoli, che sancisce la supremazia patriarcale e coloniale del maschio bianco. Ancora oggi, il mercato dell’arte continua a essere governato dal potere monopolistico del capitale bianco, che punta a presentare l’arte “africana” come merce priva di un reale spessore intellettuale e creativo. È così che vengono etichettati gli artisti che operano in Africa e nei Paesi della diaspora. E questo rafforza un sistema di potere all’interno del quale gli artisti europei e americani sono considerati “artisti”, mentre tutti gli altri sono relegati a delle sottocategorie.

 

È in questo scenario che NON afferma la propria visione. Utilizzando un mezzo effimero come il suono, che non si presta a essere fisicamente messo in mostra e venduto come prodotto artistico, e attraverso una pluralità di stili e generi de/ri-costruiti, gli artisti del collettivo mettono in discussione le convenzioni del sistema di categorizzazione e assoggettamento del potere neo-liberale, capitalista, eteronormativo e patriarcale, fondato sulla supremazia dei bianchi. Attraverso paesaggi sonori che evocano scenari di guerra e generano un senso di inquietudine, o la rivisitazione di filmati realizzati con droni, le immagini e i suoni prodotti da NON costituiscono una forma di resistenza attiva alle tradizionali nozioni occidentali di genere e arte. Da un punto di vista estetico, la maggior parte delle opere curate da NON appaiono come volutamente ostili, ricche di sonorità disturbanti.

 

AA BYT July29 NON 2 Chino Amobi, a still from Burning Tower, 2016. Digital Video, 13:25. 

 

Angel-Ho dà vita a composizioni complesse, stratificate e cariche di tensione, sonorità dal ritmo serrato che riproducono respiri affannosi, clangori metallici di spade, rumori di motori e spari, evocando una varietà di atmosfere e stati d’animo. Come afferma lo stesso artista: “Vorrei che la mia musica fosse uno strumento di emancipazione e unione per tutti coloro che la ascoltano. Per le nostre comunità nere, queer e trans, affinché tutti noi possiamo vivere ogni giorno con coraggio e senza compromessi”. Il pezzo “Bury Me”, tratto dall’album Emancipation (2016), è stato realizzato da Angel-Ho insieme all’artista e musicista Desire Marea. Nel crescendo finale del pezzo, Desire, in lingua zulu, chiede giustizia per i torti subiti dai suoi avi. “Nel pezzo – afferma Desire – canto delle richieste di denaro, il denaro appartenuto ai nostri padri oppressi, attraverso le voci degli antenati queer i cui nomi sono stati cancellati dalla storia”.

 

NKISI intreccia una varietà di sequenze elettroniche dal ritmo incalzante, dando vita ad atmosfere euforiche, ricche di energia, che si mescolano a un sottofondo urban pervaso da sonorità dark. Il nome NKISI deriva dal bacino del Congo, nell’Africa centrale, e allude a un oggetto dotato di poteri spirituali o che racchiude uno spirito. L’opera d’arte che accompagna l’album DJ KITOKO VOL.1 (2016) raffigura in negativo, come fosse una radiografia, una scultura umanoide in legno. L’integrità corporea della figura è intaccata da ciò che appare come un filo metallico e un insieme di chiodi che sembrano soffocarla. Inseriti nel contesto europeo, e in particolar modo a Londra, artefatti come questa scultura sono stati sottratti alle loro culture d’origine e strappati al loro contesto dall’imperialismo europeo. L’opera d’arte che accompagna l’album denuncia tale violenza, mentre la musica parla di nuovi modi d’essere e identità ibride create e vissute dalle persone come forme di resistenza a questi spazi violenti.

 

In quest’epoca di dis/connessione sociale e realtà virtuale, la guerra è qualcosa a cui assistiamo, in misura sempre maggiore, in HD e a distanza – dalla realtà protetta dei Paesi avanzati – mentre chi vive nei Paesi del terzo mondo ne sperimenta le conseguenze fisiche. Da Afghanistan, Iraq, Siria, Pakistan, Yemen e Somalia a Ferguson e Marikana, i sistemi repressivi dei Paesi fautori della supremazia bianca continuano a uccidere i neri. Tutto questo fa parte di uno stato di guerra permanente all’interno del quale i Paesi avanzati, assetati di profitto, non provano alcun rimorso nel mietere vittime tra coloro che vivono in territori ricchi di risorse. È a questo scenario di distruzione e agitazione continua – alimentato e giustificato da xenofobia, razzismo, sessismo e omofobia – che si ispira la musica prodotta da NON. Obiettivo del collettivo è infatti quello di cogliere la connessione tra la dimensione macro e quella micro dei sistemi di oppressione globalizzati.

 

La ricerca estetica di NON ruota intorno a ciò che viene etichettato come controcultura. Un brand che comprende una rivista trimestrale disponibile gratuitamente online (e aperta a chi desidera collaborare), articoli di abbigliamento e arte visiva. L’uso del branding come forma di resistenza contro il potere istituzionale è rintracciabile già nelle opere precedenti di Amobi. Nel suo film del 2012, intitolato ILLUMINAZIONI e disponibile su YouTube, e nelle creazioni musicali realizzate con il nome di Diamond Black Hearted Boy, Amobi utilizza il format e il linguaggio tipici del corporate branding per veicolare i propri contenuti. ILLUMINAZIONI rappresenta un pastiche che unisce alla cultura mash-up di internet linguaggi istituzionali. Il film intreccia questi elementi per mettere in discussione il ruolo dell’identità nera nel contesto della cultura imperialista americana contemporanea, fautrice della supremazia bianca. E utilizza il linguaggio visivo di industrie che promuovono tale supremazia, come la CNN, il corporate branding, la cristianità occidentale e la storia dell’arte raccontata secondo la prospettiva maschile dei bianchi. Amobi gioca con questi linguaggi, veicolando il proprio messaggio attraverso gli stilemi della retorica tradizionale. E lo fa mettendo in discussione le logiche patriarcali legate alla cultura del gioco e le modalità attraverso cui attraversiamo, costruiamo e ci sottraiamo a queste realtà.

 

In un’epoca in cui l’appropriazione e l’istituzionalizzazione della cultura della resistenza da parte di quella mainstream procede di pari passo con il perdurare di una violenza istituzionalizzata, NON fornisce una varietà di spunti sovversivi per aprire un dialogo sull’autorialità e sulla produzione artistica degli artisti neri, nel contesto delle strutture di potere istituzionali dei bianchi. Le forme di controcultura promosse da NON rappresentano dunque una piattaforma autoriale in grado di sovvertire i canoni tradizionali, appropriandosi delle logiche curatoriali tipiche dell’epoca di internet e mettendo in discussione la validità di canoni esclusivi.

 

Joseph Coetzee è un artista e scrittore che vive in Sudafrica. L’articolo originale è stato pubblicato su Art South Africa. La traduzione è a cura di Laura Giacalone.

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Il suono come forma per resistere la supremazia patriarcale e coloniale del maschio bianco

Prenderli al volo prima che precipitino

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Il giovane Holden ha un momento di tenerezza davanti alla domanda della sorellina. Phoebe, questo il nome della piccola, gli chiede che cosa vuol fare da grande. Holden risponde che ci sono tanti ragazzi: “e intorno non c'è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull'orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo… io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”. È la parte più tenera del romanzo, quella che gli dà il titolo in lingua inglese il suo cuore: The Catcher in the Rye (l’intraducibile: Acchiappatore nella segale). Holden Caulfield prosegue: “Non dovrei far altro tutto il giorno. Sarei solo l'acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l'unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia” (Salinger, Il giovane Holden).

 

Una delle ultime opere di Cristopher Bollas s'intitola Catch Them Before They Fall, prendili prima che precipitino. Prima che cadano nel dirupo. Ciò che Il giovane Holden racconta alla sorellina Phoebe, sembra rispecchiare la missione di Bollas nel suo lavoro con gli schizofrenici.

Cristopher Bollas nasce il 21 Dicembre del 1943 a Washington. 

Negli Stati Uniti riceve formazione umanistica e letteraria, con predilezione verso gli studi storici. Bollas conosce l'opera di Sigmund Freud come pochi e sviluppa, nel corso della sua vita, una pratica clinica intensa. È il più noto esempio vivente di umanista che, fin da giovane, è immerso nel flusso della clinica, ricevendo – nel tempo, col suo trasferimento a Londra – la formazione psicoanalitica. È un'epoca in cui, nel Regno Unito, non si fanno distinzioni tra medici e laici, conta la passione clinica.

 

 

La sua vita si svolge tra gli Stati Uniti e Londra. Nell'ultimo libro Se il sole esplode. L'enigma della schizofrenia, uscito per Raffaello Cortina, Bollas racconta il suo lavoro con persone schizofreniche e la sua formazione clinica, come se le due cose andassero in parallelo. 

Bollas sembra sostenere che per lavorare con la psicosi, in particolare con la schizofrenia, l'essere psicoanalisti, o psicoterapeuti di qualunque scuola, non basta. Bisogna riconoscere che questo lavoro è una pazzia. Che il terapeuta ha bisogno di condividere la pazzia, di liberarsi dal terrore di venire contaminato, di essere, anche lui, un po' schizofrenico, folle, delirante; al punto da considerare il delirio nient'altro che un sistema complesso di libere associazioni. Un esempio di sovra-determinazione freudiana.

 

 

 

Autore prolifico – le opere di Bollas hanno avuto particolare successo in Italia, grazie a Raffaello Cortina, Astrolabio, Borla e Antigone – è tra i massimi psicoanalisti viventi e attivi. Mentre qui da noi ci sono ancora psicoanalisti che si chiedono se sia corretto usare la lampadina elettrica, dal momento che ai tempi di Freud si usavano le lampade a gas, Bollas, senza alcuna inibizione da psicoanalista, scrive delle sedute che fa per telefono, via Skype; lasciandoci surplace.

Durante le mie lezioni di psicologia dinamica, propongo a un gruppo di studenti un seminario su Cristopher Bollas. Gli studenti intitolano il paper, scaturito dal lavoro collettivo: Alla scoperta dei temi controversi nella psicoanalisi. Ne nasce un animato dibattito tra il gruppo degli studenti coinvolti, il resto della classe e me. Il gruppo dà questo titolo al seminario per sottolineare come una serie di argomenti di Bollas si sviluppi a partire da riferimenti critici, addirittura di rottura, rispetto alla psicoanalisi. Evocano Ronald Laing e, più in generale, l'idea di psichiatria democratica. Altri sottolineano che la cultura di Bollas è ricca di elementi storici, letterari, filosofici, che il libro sulla Mente orientale ricorda lo Zen e le considerazioni di Bateson su Bali. Altri ancora sostengono che il transfert in Bollas è il contrario dell'idea di neutralità nella psicoanalisi classica, che per molti aspetti Bollas somiglia a un terapeuta rogersiano, a un terapeuta narrativo sistemico, a uno psicoanalista della relazione. C'è chi, infine, dice che tutte queste tematiche sono recepite da buona parte dei membri della società psicoanalitica freudiana (la famosa IPA) e che oggi non si può più definire chi sia eretico in psicoanalisi. Chi, tra gli studenti, è già in terapia, dichiara che il suo terapeuta è come Bollas, ha lo stesso stile. 

 

 

Forse Bollas dà voce a un modo accogliente di fare terapia che è già diffuso in campo psicoanalitico, transazionale, sistemico, gestaltico. Non fa che descrivere la terapia, distinguerla da quel guazzabuglio di interventi coatti e autoritari che hanno dominato l'inizio del millennio e che – finalmente! –

stanno tramontando. Se così, dobbiamo dire che la sua voce è efficace, è un autentico metodo basato sull'evidenza; evidenza che la psicoterapia è, come la follia: creazione.

I racconti dei casi clinici, così come li scrive Bollas – in quello stile elegante tipico della letteratura anglosassone – sono opere letterarie, lontane dai gerghi psicoanalitici. Racconti didascalici, chiari, privi di espressioni tecniche. Bollas non usa la scolastica psicoanalitica in modo diretto. Quando la usa, come nel caso del termine inconscio collettivo, non dà mai per scontato che cosa significhi per lui e come mai, in quella circostanza, ha usato quel termine junghiano. 

Il lettore che legge i suoi libri non sente sul collo il fiato della psicoanalisi seria, di quella cosa che Foucault chiamerebbe pratica discorsiva. Mi capita spesso di leggere in parallelo un testo letterario e dei saggi. Mentre leggo Bollas, non mi accorgo della differenza, non sento il salto tra saggistica e narrativa. I suoi scritti partono sempre dal soggetto Christopher, piuttosto che dal dottor Bollas.

Bollas non ha dunque alcuna pretesa teoretica astratta, nessun modello filosofico/antropologico definitivo da proporre. Scrive partendo dalla vita e la vita è vita di relazione tra sé e i suoi casi clinici, casi della vita. Nel libro Il mondo dell'oggetto educativo, Bollas insiste in maniera singolare su un termine: coppia freudiana. Non si tratta di un nuovo concetto da inserire nel lessico psicoanalitico, si tratta di un lemma che riguarda la relazione terapeutica. 

 

Che cos'è la coppia freudiana? La coppia freudiana è un evento. Accade quando l'inconscio del soggetto che frequenta la terapia tocca l'inconscio del terapeuta. Questa definizione della traslazione in psicoanalisi non può non ricordare un autore che sta sullo sfondo del pensiero di Bollas, un po' come Nietzsche sta sullo sfondo del pensiero di Freud: Sandor Ferenczi. 

Il termine coppia freudiana evoca l'analisi reciproca di Ferenczi. L'opera di Bollas disegna il limite al quale si può spingere oggi l'analisi reciproca. Il coraggio di parlare di sé alle persone che frequentano le sedute e di scrivere di sé ai suoi lettori, non va scambiato con il narcisismo. È semmai il contrario. È immerso in un orizzonte di ironia e di curiosità terapeutica. È la maniera di mettere in comune le proprie esperienze con quelle del soggetto in terapia, di condividere le passioni, di reagire agli eventi, di riconoscere gli errori del terapeuta, di entrare in relazione. 

Insomma, la traslazione del terapeuta non è contro-transfert, semmai co-transfert, se vogliamo usare il gergo della psicoanalisi. 

 

 

 

Il terapeuta non è istruttore, interpretante, riparatore, è la parte di un incontro, non sempre dialogico, non senza conflitti. Ma la terapia è anche un mondo in cui i conflitti si gestiscono insieme.

Vorrei infine sottolineare l'uso diagnostico del termine psicosi per definire il periodo storico di una nazione: le tendenze psicotiche interne agli Stati Uniti negli anni Sessanta, secondo capitolo del suo ultimo libro, nome del capitolo: “La follia di una nazione”. 

Mi è capitato di recente di scrivere su doppiozero.com alcune note sull'epoca psicotica che stiamo attraversando in Europa – sto persino cercando di scriverci sopra un libro – e mi conforta sapere che le mie riflessioni sono corroborate da un autore ben più importante. Dall'assassinio di Kennedy alla guerra del Vietnam, venti psicotici hanno pervaso gli Stati Uniti così come oggi questi venti pervadono l'Europa; dai comportamenti delle banche e dei più potenti manager alle incursioni dello Stato Islamico, dal risorgere di venti fascisti e nazionalisti all'insorgenza dei massacri della crescente sociopatia. Come i bimbi dell'East Bay Activity Center di Oakland, in California, negli anni Sessanta sentivano la patologia della nazione dentro la pelle, così gli adolescenti che mi capita di incontrare nel mio lavoro quotidiano sentono i venti psicotici dell'Europa contemporanea. 

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L'opera di Cristopher Bollas

Manganelli, un cavallo verde e una sigaretta senza filtro

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“Sono da sempre persuaso che un giorno entrerà in casa mia un cavallo verde a chiedermi una sigaretta senza filtro, e sento fin d'ora il disagio che proverò dovendogli rispondere che non fumo”: come non condividere cordialmente l'attitudine di Giorgio Manganelli così deliziosamente presentata?

Cinque verbi di forma finita, in equilibrata alternanza: presente, futuro, presente, futuro, presente. Alta oreficeria. Meccanica di precisione.

 

Immagini: 

Pregiudizio

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Storie 

 

(a)

Quattro aperitivi analcolici, aveva ordinato al cameriere quello di loro che sembrava più a suo agio degli altri. Certo, era l’unico che aveva il cellulare alla cintura, i blue jeans e la camicia a scacchi colorata. Anche altri due di loro si muovevano con un certo agio, come chi ormai conosce i posti e ha imparato alcune abitudini di base. Era il quarto che si misurava evidentemente con quel mondo per la prima volta. Statuario, col suo fez col pon pon, si guardava intorno alla ricerca di segni accessibili e si muoveva con una certa pesantezza nel suo vestito lungo, sotto il quale spuntavano dei corti pantaloni e sandali di cuoio consunto. Gli altri tre no: avevano scarpe da ginnastica di quelle che non cambiano mai colore anche quando sono vecchie, e esibivano una certa confidenza col luogo. La piazza era quella di una città del nord est, medievale e curata da attenti restauri, nell’atmosfera di un sabato pomeriggio dei primi di novembre. Seduti al tavolo del bar avevano intavolato da subito una di quelle fitte conversazioni fatte di parole incatenate le une alle altre, interrotte solo da fragorose risate, che portano nei nostri pomeriggi perbene pezzi di mondi diversi e lontani.

 

Il cameriere aveva depositato sul tavolo prima di tutto la ciotola con le noccioline americane con un cucchiaio infilato al centro e solo dopo i quattro bicchieri ripieni a metà di un liquido rosso. Il parvenu, l’ultimo arrivato, quello con il fez, aveva subito allungato la mano, e preso il cucchiaio lo aveva riempito di noccioline e stava per portarlo alla bocca. Non aveva fatto in tempo ad avvicinare il cucchiaio alla bocca che il cameriere, giratosi di scatto, gli aveva intimato con un eloquente gesto della mano, di non fare così, invitandolo a riporre le noccioline e mostrandogli come si deve mangiarle. Aveva preso il cucchiaio e mimando il gesto di depositare nell’incavo della mano un po’ di noccioline riponendo poi il cucchiaio, simulava l’atto di mangiare le noccioline una alla volta, dicendo al parvenu:" vedi, si fa così". Fu a quel punto che il parvenu piazzò il suo colpo di teatro. “Ma come!, disse ai compagni, nel suo francese maghrebino, “sono venuti da noi che mangiavamo con le mani e ci hanno detto che eravamo incivili e non appartenenti alla specie umana per i nostri costumi selvaggi; ora ci dicono che dobbiamo tornare a mangiare con le mani, facendo ancora una volta quello che vogliono loro!”

 

(b)

Una sensazione vaga di essere osservato l’aveva avuta, come quando uno sfondo preme sulla figura pur rimanendo sfondo. Del resto la sua attenzione era protesa a leggere dal cartellone bianco l’ora d’arrivo del treno alla stazione di Lecco. Gli sembrava di essere in ritardo per andare incontro all’amico che arrivava da Milano. Purtroppo le domande di fine seminario non finivano più e poi, si sa, c’è sempre quell’ultimo partecipante che ha bisogno di un chiarimento riservato e non rinviabile sulla soglia della porta dell’aula. Dopo la doccia si era cambiato del vestito di lavoro indossando una tuta che era risultata più larga del solito. Negli ultimi tempi era dimagrito. La cosa gli aveva procurato un certo piacere. L’elastico dei pantaloni della tuta non gli stringeva più i fianchi, anzi il corpo ci giocava dentro e le linee affusolate gli avevano procurato un certo compiacimento. Di corsa fino alla stazione dove aveva dovuto affrontare il solito problema del parcheggio, si era rassegnato a lasciare l’automobile fuori posto con le luci lampeggianti. Era entrato in stazione dallo spazio laterale facendo gli scalini di corsa a due a due. Finito direttamente sul primo binario non aveva visto alcun treno e si era perciò orientato a cercare il cartellone degli arrivi. Era esposto sul muro dell’edificio della stazione che dava sul primo binario, a lato di una panchina di pietra, come accade nelle stazioni di provincia che ostentano ancora un certo tocco di liberty. Proprio su quella panchina erano sedute due donne, una giovane e una anziana che per lui erano null’altro che sagome di sfondo, concentrato com’era a capire dove fosse il treno del suo amico. Fu dalla donna giovane che venne la voce sibilante, quasi un urlo, nel momento in cui, sporgendosi per leggere l’ora d’arrivo del treno, si era sistemato i pantaloni della tuta, scesi leggermente sulla vita. In un italiano approssimativo ma chiarissimo, con un forte accento slavo, la giovane donna gli urlava che i suoi genitali lui li mostra a sua sorella, che non ci provi con lei, che non si permetta. A nulla era valso il suo tentativo di spiegare come stavano le cose, di dire che aveva semplicemente sistemato i pantaloni larghi.

 

Anzi, era stato peggio. La signora aveva urlato ancora di più brandendo due sacchetti di plastica pieni di roba e supportata dalla signora anziana che era con lei. Tanto era bastato perché in un attimo si formasse un capannello di persone accorse a commentare il fatto, e sentiva alle sue spalle la gente dire che al giorno d’oggi non ci si può fidare più di nessuno; guarda un po’, sembrava una persona per bene; e poi in piena situazione pubblica; qualcuno alludeva alla possibilità di chiamare la polizia e la signora urlava sempre più. Prima ancora di pensarci cambiò tono e urlando a sua volta, con la massima autorità di cui era capace disse: adesso basta! Non l’ho neppure vista e non ho fatto né farei niente che la riguardi, perciò la smetta! Non fu la giovane signora a cambiare atteggiamento ma le persone presenti. I loro commenti cambiarono di tono e qualcuno cominciò a dire che questi immigrati dovrebbero starsene a casa loro; che è inaudito che uno a casa propria non possa mettersi comodo e fare quello che vuole; che se loro vengono da mondi e abitudini barbare non è colpa nostra, e avanti di questo passo. Da potenziale stupratore si ritrovò paladino della guerra agli immigrati e dell’autenticità etnica. In entrambi i casi si sentiva stretto in una tenaglia. Per fortuna arrivò il treno, le signore si precipitarono a prenderlo, le persone del capannello si dileguarono e il suo amico apparve tra la folla del sabato sera, sul primo binario della stazione di Lecco.

 

Ridurre la varietà del mondo e le sue differenze a una forma sola: questo è quanto fa il pregiudizio quando si fossilizza in stereotipia. La più grave delle conseguenze, dentro l’illusione di sicurezza che ne deriva, è la negazione delle capacità creative. Il mind wandering si atrofizza e non vaghiamo più. La bellezza della plurale varietà del mondo, la sua vaghezza, appunto, si mortifica in una sola forma, sacrificando sull’altare della rassicurazione la molteplicità delle vie possibili. Del pregiudizio si sono dette tante cose, ma la sua capacità, nelle versione della stereotipia, di attaccare e neutralizzare la capacità creativa, è forse uno degli aspetti più caratterizzanti. Se creare è il modo naturale di funzionamento della mente, c’è da chiedersi come è possibile che quel modo naturale finisca per essere neutralizzato, messo almeno in parte a tacere, negato. Noi disponiamo, per via evolutiva, di una disposizione a scomporci, mettendo in discussione un ordine costituito, e a ricomporci, generando nuovi mondi e nuove prospettive. La creatività è un aspetto costitutivo dell'identità e della soggettivazione, che prende vita quando la mente riesce a fare proprie le percezioni e le sensazioni corporee e si completa con la creazione di quel magnifico ponte, per comunicare con se stessi e con gli altri individui, che è l'oggetto artistico. Così si esprime sulla creatività Stefano Calamandrei, in L’identità creativa. Psicoanalisi e neuroscienze del pensiero simbolico e metaforico, edito da Franco Angeli nel 2016. 

 

 

 

Basta osservare una bambina che gioca per comprendere che nella creatività, così come in quasi tutta la nostra esperienza, si realizza ancora una volta il primato dell’azione. Avevamo a lungo pensato che quella bambina componesse e scomponesse i suoi giocattoli o altri oggetti, li montasse e li smontasse a partire da “teorie mentali” o “immagini mentali” che applicava, trasferendole, alla realtà degli oggetti. Verifichiamo oggi che sono gli atti motori sostenuti dal sistema motorio che presidiano alle espressioni generative con cui il bambino smonta e ricompone in atti continuativi e interminabili gli oggetti del mondo, dando vita allo stesso tempo all’invenzione di animali fantastici, che pur non esistendo nella realtà, esistono per quella bambina e quel bambino. L’adulto non è da meno, se si ascolta, e se non censura la propria capacità generativa consegnandosi alla razionalità illusoria o al pregiudizio che diventa stereotipia. Tutto ciò pone una domanda: se la creatività è la principale attività della mente umana, come può accadere che si rinunci ad essa o se ne neghi la funzione e l’azione fino a non vedere di non vedere? Sì, perché il pregiudizio, quando si fossilizza in stereotipia è una forma di autoaccecamento; un sacrificio della creatività sull’altare della rassicurazione. Se creare è una disposizione naturale della mente umana, una capacità di scomporsi e ricomporsi per affrontare i continui mutamenti dell’ambiente, il pregiudizio che diventa stereotipia opera una specie di glaciazione di questa disposizione in nome di una rassicurazione nei confronti della paura di cambiare idea su qualcuno, su qualcosa o su un fenomeno del mondo.

 

È stato il premio Nobel Gerald M. Edelman a identificare il cervello umano come un “generatore di diversità”. Nelle dinamiche circolari corpo-cervello-mente-relazioni-contesto, quella capacità generativa, a un certo punto, pare essere investita per ostacolare o negare l’insorgere di differenze e per trattare le diversità come un pericolo. Mentre in molti casi il filtro degli stimoli esterni avviene con significativi investimenti di creatività da parte del sistema sensoriale, e si producono ipotesi differenti e continui raffronti per ogni stimolo ricevuto, nella situazione di pregiudizio stereotipante la mente è come se si privasse di vagare e si agganciasse a un solo appiglio, sempre quello, dismettendo la sua attenzione fluttuante. Si congela la capacità di finzione e l’esplorazione dell’ambiente di vita si affida a una sola prevalenza tra le vie per interagire con il mondo. La nostra mente, infatti, esplora l’ambiente, che comprende anche gli altri, e si accoppia con esso, provando paura per evitare pericoli; categorizzando le differenze del mondo; sentendo desideri; arrabbiandosi per rimuovere ostacoli; prendersi cura di se stessi e degli altri; giocare; immaginare.

 

A un certo punto, col presentarsi del pregiudizio e con la sua trasformazione in stereotipia, l' elevata varietà di queste dinamiche sembra ridursi a una, prevalentemente alla paura, che spesso si combina con l’aggressività e la rabbia. Quando la creatività si dissecca e implode, accade in buona misura perché non riusciamo a cambiare idea, a rimuovere un ostacolo affettivo e cognitivo che ci impedisce di vedere il valore di una differenza, o non ce la facciamo a sentire prossimo chi tale è. Se la creatività è figlia di una capacità umana specie specifica, essa dipende spesso anche da risposte all’angoscia. Possono esservi paure angoscianti che ne neutralizzano l’espressione a tutto vantaggio dell’affermazione di stereotipi e pregiudizi. Sia la stereotipia che il pregiudizio non tollerano il vuoto della ricerca e del dubbio, e così le differenze non fanno sentire vivi, non diventano forme vitali, ma sono vissute come minacce. Così come nell’atto creativo, che avviene nel mondo interno e cerca riconoscimento nel mondo intorno a noi, lo sguardo dell’altro è decisivo, nel pregiudizio stereotipato lo sguardo dell’altro non conta; anzi l’indifferenza e la saturazione del proprio sguardo, congelato nella certezza rassicurante, impediscono di considerare quello sguardo fino a negarlo, ad escluderlo, ad appartarlo.

 

La perdita è netta, se è vero come è vero che solo nello sguardo dell’altro ci riconosciamo, a partire dallo sguardo materno. La creatività è sempre caratterizzata da un difficile accordo tra mente e mondo: in quegli scarti si aprono problemi e disagi da elaborare, ma anche spazi generativi. Del resto il disagio è proprio relativo a quella particolare situazione in cui non si è perfettamente a posto. L’accordo tra mente e mondo sarà anche faticoso, ma è portatore di quella particolare tensione che può dare vita a quello che prima non c’era. Nel pregiudizio la mente si arrende alla realtà così come si ritiene senza dubbio che sia, patendone l’imposizione in cambio di una rassicurazione acritica e vissuta come definitiva. Definitiva fino alla sua naturalizzazione, alla sua normalizzazione naturale. Come scrive Ta-Nehisi Coates, in Tra me e il mondo, Codice edizioni, Torino 2016: “Gli americani credono nella realtà della ‘razza’ come a una caratteristica che appartiene in modo definito e indubitabile al mondo naturale” (p. 15).

 

La lingua è rivelatrice del processo di fissazione e naturalizzazione che la stereotipia pregiudiziale produce. Anche se è proprio la lingua a spostare l’attenzione dalla dura concretezza degli effetti del pregiudizio stereotipato verso una lettura che sembrerebbe indicare che quegli effetti potrebbero fermarsi ad aspetti di superficie. Non è così. Il pregiudizio attacca i corpi e genera molteplici forme di esclusione e distruzione. Scrive ancora Ta-Nehisi Coates: “La nostra stessa terminologia, relazioni di razza, divario tra razze, giustizia razziale, profili razziali, privilegio bianco, persino supremazia bianca, serve a offuscare il fatto che il razzismo è un’esperienza viscerale, che stacca pezzi di cervello, blocca vie respiratorie, strappa muscoli, estrae organi, spacca ossa, rompe denti” (p. 19). Rivolgendosi al figlio a cui indirizza la narrazione del libro, l’autore gli dice: “Non devi mai distogliere lo sguardo. Devi ricordare sempre che la sociologia, la storia, l’economia, i grafici, le carte, l’analisi della regressioni, tutto questo atterra, con grande violenza, sul corpo” (p.19). E approfondisce il proprio sentimento di vittima di pregiudizio stereotipato, affermando: “Ora ti dico che il problema di come si debba vivere dentro un corpo nero, all’interno di una nazione perduta nel Sogno è il dilemma della mia vita” (p. 21). La nazione del Sogno sono naturalmente gli Stati Uniti. Il pregiudizio stereotipico non solo nega, ma anche nasconde, cela, elude. Il volto pubblico e rassicurante degli Stati Uniti d’America, così sovente squarciato da eventi violenti e distruttivi prodotti dal pregiudizio verso i neri, si cela, infatti, sotto una falsa moralità. “Avevo il presentimento che la scuola ci stesse nascondendo qualcosa, drogandoci con una falsa moralità così da impedirci di vedere, di chiedere: perché per noi, e solo per noi, l’altra faccia del libero arbitrio, dello spirito libero, si traduce in un assalto contro i nostri corpi?”, così aggiunge Ta-Nehisi Coates (p. 39). La domanda inquietante apre alla necessità di un’analisi che sia capace di cogliere la complessità del pregiudizio, oltre le spiegazioni semplicistiche.

 

Da quando il fenomeno è stato studiato con una certa attenzione è stato possibile riconoscere l’importanza di evidenziarne la dimensione relazionale e intersoggettiva. Per un comportamento che denigra l’altro (eterodenigrazione), a cui corrisponde di solito un’autoesaltazione, sembra esservi dall’altra parte una posizione corrispondente di autodenigrazione e di eteroesaltazione. Come sempre non vi è vittima senza carnefice e non vi è carnefice senza vittima. Per comprendere questa dinamica di glaciazione delle differenze e di negazione della discontinuità creativa è necessario non perdere di vista la distribuzione delle responsabilità. Dalla costruzione di uno stigma fino alla violenza fisica sui corpi, non è possibile non considerare, per quanto possa essere difficile farlo, il comportamento delle vittime. Vale anche per la persecuzione degli ebrei e per i comportamenti collusivi che, perlomeno all’inizio, generarono una capacità di reazione tiepida. La nostra disposizione a restare sudditi, come dice Spinoza, non va mai trascurata. Ciò detto, è importante, inoltre, vedere nel pregiudizio anche una dinamica che, prima che diventi stereotipia, è abbastanza diffusa, poiché ogni giudizio è di solito preceduto da una valutazione preliminare, provvisoria e parziale che lo anticipa. Comunque si consideri, incluse queste dinamiche che lo caratterizzano, il pregiudizio che diventa stereotipo può essere riconosciuto come una delle cause principali della negazione della capacità creativa umana, e in questo sta la sua problematicità; da questo derivano le sue conseguenze più gravi. 

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La varietà del mondo in una forma sola

'O cammesone janco 'e Pulecenella

Camminare è la mente

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Continua l’intervento di doppiozero a sostegno del Progetto Jazzi, un programma di valorizzazione e narrazione del patrimonio culturale e ambientale, materiale e immateriale, del Parco Nazionale del Cilento (SA).


Gli Jazzi (da iacere, giacere) erano dimore temporanee, giacigli per il ricovero di animali da pascolo, punto di connessione tra tratturi e paesi: luoghi dell’indugio, della presa di contatto con le cose. Il progetto intende recuperare questo modo di abitare la natura, raccontando percorsi da attraversare con lentezza, riappropriandosi di spazi e luoghi e della loro storia, rinnovando esperienze – come l’osservare le stelle o il nascere del giorno – capaci di ripristinare il contatto con la natura, con il ciclo delle cose e delle stagioni. La sfida è anche quella di produrre innovazione e rigenerazione sociale, recuperando strutture e architetture rurali, mettendo in moto un circolo virtuoso di ospitalità diffusa che si nutra delle realtà esistenti e delle reti di relazione con i ‘nuovi viaggiatori'.

 

 

Quarantena.

La settimana ha celebrato la luce, il ritorno del Sole. L’inverno che non c’è stato ha donato oscurità e buio, invece del terso freddo che rende lontana ma visibile la grande vitamina della vita: l’astro che ci consente di essere non ha avuto grandi occasione per penetrare l’acqua abbondante. Queste giornate mi hanno ricordato il maggio 2002. Anche a Skye, il Sole era Re e in qualche modo tornerò dal sovrano tra quaranta giorni: so che mi accoglierà. Se così non fosse stato allora, quale ricordo avrei portato in me? Cosa avrei scritto? Che libro ne sarebbe uscito? In che modo il desiderio covato nel profondo per dodici anni sarebbe diventato l’attrazione verso la vita oltre questo tempo? Tornare a Rubha Hunish mi fa sentire come una pianta che esce dal terreno e si erge alla ricerca dell’orizzonte e della visione.

 

Penso all’epoca in cui mi trovo. L’epoca dove il tempo conta, perché se “corri affannosamente per catturare il sole che però affonda / fa tutto il giro e risale alle spalle / Il sole è lo stesso ma tu sei invecchiato”. Lo dice anche una delle canzoni più belle del mondo. Come piccole gocce di sudore prodotte da quel sole dobbiamo trovare un modo per non evaporare prima del dovuto. E allora mi tornano alla mente i giorni giovani, che chiaramente mi dissero questo: vivi, corri come il torrente, scivola come il fiume, se ti fermi nella palude, vai a fondo. Non “potevo immaginare allora che la palude sarebbe diventata così grande. E che troppe gocce di quel sudore avrebbero desistito, esauste. Sfinite. Aggiungendo palude a palude, buio a buio. Eppure queste gocce potrebbero essere vitamine capaci di rivitalizzare quell’ambiente sinistro, permettere alla luce di penetrare la superficie e prosciugare il male.

Tutto ciò è anche simbolo di quanto sia fondamentale camminare. Camminare (ri)dona il respiro naturale; camminare è l’azione che consente di comprendere meglio l’oscurità e i suoi demoni; camminare è la mente che decide di non soccombere all’immensa vastità di tutto ciò che è sbagliato, scegliendo di seguire la traccia di tutto ciò che è giusto.

 

Non è pensando da fermi che ci salveremo la pelle: ma permettendo al corpo di oscillare come un recettore nello spazio, potremo conoscere la pienezza del presente che poi lentamente svanisce e diventa vita. Il corpo è il più grande strumento che abbiamo a disposizione, la tecnologia più straordinaria: riceve, elabora, trasmette, collega, crea azione. Il corpo respira la luce e trasforma la nostra chimica poiché camminando comprende il ciclo del giorno e della notte. “Respirando si comprende che la notte non è per forza buio, perché essa cala soprattutto quando siamo fermi e immobili come un lamento consacrato all’oscurità. Le idee non possono nascere lì dove la vita rifugge e si fa tempo disperato, il sole della relatività e non l’astro della vita. Lo dico per esperienza, convinto che basterebbe poco per cambiare il mondo.

 

Ma se poco ci sembra tanto, tutto si capovolge, la canoa non scivola più leggera sullo specchio d’acqua, ma si capovolge e viene inghiottita dall’abisso. Camminando nella luce, capiremo che non possiamo chiudere fuori la Terra e arroccarci nel pensiero senza ossigeno, nel comodo sarcofago di cemento chiuso sopra la psiche. Ciò significa non completare mai la risalita dagli inferi oscuri della paura sino allo splendore della Vita che si rinnova di continuo: lì fuori, ogni problema può essere visto per quello che è. Qui dentro, nell’inverno buio della psiche, no.

 

Durante il mio primo giorno di Scozia, quell’anno portavo con me un insidioso male ai piedi. Ero in forma e non davo retta ai segnali. Gli occhi osservavano le Highlands, le gambe facevano male e non riuscivo a capire. Solo a sera compresi che la colpa era della mente: si era fatta soggiogare dal dolore fisico, oscuro, invece di lasciarsi avvolgere dalla luce e curarsi dal cammino. Il risveglio fu gioioso, la consapevolezza maggiore. La mia psiche aveva in mano il gioco, l’inerzia della partita che mi stavo giocando. Solo così riuscii a creare le condizioni per l’incontro a Rubha Hunish. Con Dàimon questo è stato già chiarito.

 

Tratto da Camminando, ebook, collana ZOOM wide, 2015, Feltrinelli, p. 120, € 4,99. Ed. in brossura Lubrina-LEB, p. 120, € 12.

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Progetto Jazzi

La vocazione metamorfica della letteratura

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A me l’assegnazione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan sembra una buona notizia. La ragione è quella che molti (fra cui Francesco De Gregori) hanno indicato subito: al di là della persona del premiato, il riconoscimento va a un intero settore della produzione culturale. Questo, almeno, all’ingrosso; conviene aggiungere qualche precisazione.

In primo luogo, considero fuorviante l’affermazione che anche le canzoni d’autore sono (o possono essere) «poesia». A meno che non si voglia riesumare un’idea di poesia di stampo crociano, qui non è questione di valore, ma di identità. Che la maggior parte dei testi delle canzoni abbia un valore poetico scarso importa poco: questo vale anche per i romanzi e le raccolte liriche. Il punto è che le canzoni rappresentano un uso poetico del linguaggio. Anzi, per dirla in termini più schietti: dell’uso poetico del linguaggio, oggi come oggi le canzoni rappresentano una parte assai cospicua. Senza inoltrarsi in questioni teoriche, valga qualche sintomo: i versi di canzoni che vengono ripresi come titoli di libri, che vengono trascritti sui diari e sugli zainetti degli adolescenti, che fungono da didascalie nelle firme elettroniche e nelle comunicazioni in rete… Del resto, a tutti noi capita, se non di cantare a voce spiegata, almeno di canticchiare a mezza voce, nelle circostanze più varie. Ebbene, questa è la radice della poesia: figurazioni di parole che si ripetono, sempre uguali, in un rapporto assolutamente libero e impregiudicato con il contesto in cui vengono profferite.

 

Intendiamoci. Dicendo che la poesia esemplifica un uso poetico del linguaggio non si vuole enunciare se non una possibilità; non è detto che si verifichi sempre. Se si ascolta una canzone straniera senza intenderne le parole, è chiaro che non ci troviamo affatto di fronte a un uso poetico del linguaggio. Idem se di una canzone si ricorda la melodia, ma non il testo. La canzone è una forma mista, la musica conta di norma più delle parole, e la memoria può trattenere l’una senza le altre; se di una poesia si dimenticano le parole, invece, non resta più nulla. Insomma, non c’è dubbio che la canzone occupi una zona di confine del dominio letterario. I confini sono importanti; ma sono, appunto, confini. Va bene il Nobel a Bob Dylan nel 2016; sarebbe invece bizzarro se nel 2017 venisse premiato Bruce Springsteen, nel 2018 Paul McCartney, nel 2019 Leonard Cohen – e non solo perché a quel punto sarebbe lecito chiedersi perché non Paolo Conte? o Chico Buarque?

 

In altre parole, il premio a Dylan è una buona notizia perché avvalora un’idea di letteratura estesa, multiforme, pervasiva, spuria, che a me sembra molto più fertile e interessante di una nozione esclusiva e ristretta, per sua natura incline all’aulico. Io, personalmente, ne diffido: è come ridurre il mondo delle bevande alcoliche ai distillati gran riserva. La grande forza della letteratura sta nella sua capacità di espansione, nella sua vocazione metamorfica. Se fosse esistito il Nobel in epoche passate, non avrebbe dovuto suscitare scandalo un premio a Lorenzo Da Ponte, o a Francesco Maria Piave, o a Jacopo Ferretti (dopodiché se il premio fosse andato a Jacopo Ferretti e non al suo amico Giuseppe Gioacchino Belli non sarebbero mancate le polemiche). Per la verità, l’Accademia di Stoccolma non ha mai proposto un’idea troppo sublimata e auratica di letteratura. Nel 1902 (seconda edizione!) venne premiato Theodor Mommsen, uno storico. Nel 1927 Henri Bergson. Nel 1950 Bertrand Russell. E nel 1997 Dario Fo, cioè un uomo di teatro che faceva della vocalità (oltre che della presenza scenica) uno dei suoi punti di forza, ben al di là della tenuta dei testi. 

 

 

Ma sull’operato dell’Accademia occorre intendersi. È chiaro, è ovvio che l’elenco dei vincitori del Nobel per la letteratura non offre un’immagine attendibile dei valori della letteratura mondiale. Non nell’insieme, e non nel dettaglio. Non nell’insieme: troppi occidentali, troppi anglosassoni, troppi francesi, troppi scandinavi. Sta di fatto però che l’idea di un premio mondiale è fiorita a Stoccolma, non altrove; una prospettiva eurocentrica era, e in parte è ancora, inevitabile. E inglese e francese sono le lingue occidentali di maggiore spicco, se si sommano prestigio culturale, diffusione internazionale, peso politico. Mancano troppi grandi all’appello, questo sì. A partire dal 1901 l’Accademia ha avuto un decennio di tempo per coronare Tolstoj, e non l’ha fatto (le altre scelte, Kipling a parte, sono al confronto quasi imbarazzanti). Nel 1921 ha premiato Anatole France, anziché Proust. Nel 1932 John Galsworthy, e c’era Virginia Woolf. Nel 1938 Pearl Buck, non Scott Fitzgerald. Oggi molti dicono: perché Dylan e non Philip Roth o Don DeLillo? Vero, ma di Nobel mancati ce ne sono tanti: Nabokov, Borges, Marguerite Yourcenar, e Calvino, e Primo Levi… Tanto basta per svalutare il premio?

 

A mio avviso no. In primo luogo perché un premio all’anno non permette di onorare tutti quelli che, su scala planetaria, lo meriterebbero. In secondo luogo perché trovo sbagliato considerare il Nobel come una scala di valori assoluti. La cosa importante è che, anno per anno, ci siano ragioni valide. Può anche entrare in gioco la politica (c’è da stupirsi?): nel 1915 aveva senso premiare Romain Rolland, uno fra i pochissimi intellettuali contrari alla guerra, anche se già allora Thomas Mann lo batteva di molte lunghezze (del resto Mann sarà laureato nel 1929), così come aveva senso premiare nel 1939 il finlandese Frans Eemil Sillanpää, o Aleksandr Solženicyn nel 1970. Poi ci sono i premi-sineddoche. Finalmente un latinoamericano, Gabriela Mistral nel 1945; finalmente un asiatico, Kawabata nel 1968 (solo parziale era stata l’eccezione di Tagore, 1913); finalmente un africano, Wole Soyinka nel 1986. E ci sono i premi che valorizzano letterature «minori» o aree culturali periferiche (Derek Walcott, 1992); e potremmo continuare. 

 

Concludo. Nell’anno di grazia 2016 un premio a Bob Dylan, cioè alla canzone d’autore, non solo ci sta benissimo, ma non è nemmeno più una provocazione: semmai, al contrario, può perfino apparire come un tardivo Oscar alla carriera. A posteriori, qualcuno potrà dolersi che il Nobel sia stato assegnato a Jean-Paul Sartre (che lo rifiutò) e non a Georges Brassens (che, forse, l’avrebbe accettato): e chissà se l’uomo di Duluth si prenderà il disturbo di prender l’aereo per Stoccolma. Ma non è troppo tardi per ricordare che nel vasto, variegato, poroso dominio della letteratura ci sono anche i componimenti in versi destinati alla musica; e che, quando si ascolta una canzone, è bene prestare attenzione al testo. Da questo punto di vista, se anche il Nobel a Dylan significherà poco per lui, potrà significare parecchio per noi: cioè per le centinaia di milioni di persone che ogni giorno ascoltano canzoni (non solo le sue), e che in questo modo esercitano la propria sensibilità per le parole, per il loro peso e il loro ritmo, e questo con la poesia c’entra, eccome. Che se ne accorgano oppure no. 

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Ancora sul Nobel A Dylan

La saggezza dell’agricoltore

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L’ultimo giorno di marzo di quest’anno sono andato in un villaggio a sud di Nara per incontrare Yoshikazu Kawaguchi, il più autorevole agricoltore giapponese che pratica l’agricoltura naturale. Come forse qualcuno di voi saprà, si tratta di un metodo di coltivazione elaborato da Masanobu Fukuoka, autore de La Rivoluzione di un filo di paglia. Il primo che mi parlò di Fukuoka e della sua rivoluzionaria tecnica fu Gilles Clément, uno dei paesaggisti francesi più conosciuti (ma lui preferisce definirsi semplicemente “giardiniere”), teorico del “giardino in movimento”, del “giardino planetario” e del “terzo paesaggio”, quando andai a incontrarlo nel suo atelier parigino alcuni anni fa. Subito dopo mi procurai il libro di Fukuoka e lo lessi, ma al di là di quella lettura non avevo mai conosciuta nessuno che praticasse quel metodo, né tantomeno avevo avuto occasione di osservare dal vivo i campi coltivati in quel modo. Probabilmente io, che ho i pollici poco verdi, non ero ancora pronto ad approfondire l’argomento. Qualche anno più tardi, in una conferenza a Tokyo, mi è capitato di assistere alla proiezione di un breve video che illustrava il lavoro di Kawaguchi. Non sono partito subito per Nara, ma sapevo già che un giorno sarei andato a conoscerlo. 

 

 

L’agricoltura è un’attività antichissima, nata in diverse zone indipendenti della Terra più di 10.000 anni fa. L’avvento dell’agricoltura contribuì a una crescita demografica ed economica fino ad allora mai conosciute dalla specie umana, permettendoci di abbandonare la vita nomade e dando avvio alla nascita delle civiltà. Sebbene abbia a che fare con le piante, paradossalmente è un’attività prettamente umana e tecnica: possiamo dire che l’allontanamento dell’uomo dalla natura ebbe inizio molto probabilmente con l’avvento dell’agricoltura stessa. Nel corso della storia ha conosciuto diverse forme e tecniche, ma fu il Novecento a industrializzare l’agricoltura con i suoi macchinari, l’uso intensivo di prodotti chimici, la monocoltura e le specie geneticamente selezionate, vale a dire tutte le componenti principali della cosiddetta Rivoluzione Verde introdotta dopo la Seconda Guerra Mondiale in molte zone povere del pianeta, allo scopo dichiarato di risolvere il problema delle carestie. Per contro, su questo tipo di agricoltura meccanico-chimica, oggi di gran lunga la più diffusa, ci sono anche forti critiche che le ascrivono perdita della biodiversità, dipendenza dai combustibili fossili, inquinamento, degrado del suolo, diminuzione drastica della popolazione agricola e via dicendo.

 

 

Da qui sono nate diverse forme di agricoltura più sostenibili, come l’agricoltura biologica, l’agricoltura biodinamica di Rudolf Steiner, la permacultura di Bill Mollison e David Holmgren, e anche l’agricoltura naturale di Fukuoka che, come vedremo più avanti, è una tra le forme più radicali, se non la più radicale, e la più sostenibile.

Torniamo al nostro incontro. Da Nara prendiamo un treno locale che percorre un tratto a binario unico attraverso un paesaggio rurale. Scendiamo in una minuscola stazione nei pressi di un famoso mausoleo imperiale del IV secolo. Anticamente, questa regione era chiamata Yamato e fu la culla della civiltà giapponese. Non a caso dal 2009 sono in corso gli scavi di un sito archeologico di grande importanza che giace in parte sotto gli stessi campi della famiglia Kawaguchi. Camminando per qualche centinaio di metri lungo una stradina in mezzo a poche case e negozi, arriviamo a casa sua. Il signor Kawaguchi, vestito di samue blu, l’abito tradizionale da lavoro che lo si vede indossare in tutte le fotografie che lo ritraggono, ci aspetta molto gentilmente sulla strada, davanti a casa sua.

 

 

Sapendo che di recente aveva avuto problemi di salute, prima di iniziare a intervistarlo gli chiediamo quanto tempo ci possa dedicare. Con nostra sorpresa dice: “Oggi sono tutto per voi, non vi preoccupate”. Noto subito che ha una parlata in giapponese giovanile e molto cortese. (Nella lingua giapponese, per rivolgersi al proprio interlocutore è possibile scegliere una forma tra le tante di “io” per definire il proprio atteggiamento verso l’altro: cordiale, indifferente, aggressivo, femminile, macho, anziano, giovanile, ecc. E la desinenza della frase può esprimere il grado di cortesia.) Nel corso della mattinata, in una grande sala normalmente utilizzata per i corsi di agricoltura naturale, Kawaguchi risponde a tutte le nostre domande e dopo pranzo, nel pomeriggio, ci porta a vedere i suoi campi per poi tornare nella sala precedente, per chiudere l’incontro. 

 

 

Conversione radicale obbligata 

 

Kawaguchi, oggi 76enne, è nato in una famiglia di contadini e dopo la prematura scomparsa del padre, terminata la scuola media, cominciò a lavorare nei campi con la madre per aiutare la famiglia. Dopo aver lavorato più di vent’anni, sempre utilizzando prodotti chimici (concimi e pesticidi), si ammalò gravemente. Era la fine degli anni Settanta e anche in Giappone era molto sentito il problema dell’inquinamento ambientale. Fu il libro Fukugō osen (Contaminazione complessa) di Sawako Ariyoshi (1975), una Primavera silenziosa giapponese, a convincerlo a cambiare radicalmente il suo modo di coltivare e anche di vivere. “Leggendo quel libro, ebbi davvero paura”, racconta oggi Kawaguchi, che non riuscì nemmeno a finirlo.

 

 

All’epoca erano già noti il metodo di Fukuoka (Shizen Nōhō) e quello di Heiji Fujii (Ten-nen Nōhō), entrambi traducibili in italiano come “agricoltura naturale”. Kawaguchi si mise a studiare questi metodi e a praticarli sui suoi campi, ma inizialmente fu un fallimento totale. Tanti anni di pratica agricola chimica e meccanica avevano reso sterile il suo terreno, che non rispondeva subito al metodo naturale. Dovette aspettare tre anni prima di avere un’accettabile raccolto di riso, e addirittura dieci anni per gli ortaggi. Ovviamente nel frattempo non aveva alcun reddito. Non oso immaginare quanto fosse difficile resistere alla situazione e alle critiche per mantenere la via scelta, avendo una famiglia con tre bambini piccoli. Ma lui ricorda quegli anni come un periodo felice. “Eravamo poveri, ma felici”. La sua incredibile serenità derivava in parte dalla convinzione assoluta della giustezza della decisione presa, ma soprattutto dal fatto che era riuscito a liberarsi dal terrore dei prodotti chimici: “Mai più avrei potuto tornare in quell’inferno”. 

 

 

Allo stesso tempo, Kawaguchi cominciò a studiare da solo anche l’antica medicina cinese, perché nessun medico sapeva come guarirlo. E oggi, dopo 38 anni, viene considerato anche un grande maestro della medicina cinese. Lui dice che tra la medicina che pratica e l’agricoltura naturale ci sono molte corrispondenze. Entrambe seguono gli stessi principi della natura.

 

Principi

 

A differenza dei quattro principi del metodo di Fukuoka, ispirati al concetto Zen di MUI– ovvero “non fare” (non arare/non concimare/non usare pesticidi/non diserbare) – i principi fondamentali secondo Kawaguchi sono tre: 

 

1. Non arare.

2. Non introdurre alcun concime - nemmeno quello biologico - nel terreno.

3. Non considerare nemici gli insetti e le erbe selvatiche.

 

Il rifiuto dell’aratura è il punto più fondamentale e radicale del metodo di Fukuoka. Noi tendiamo a pensare che arare il terreno o vangare l’orto sia una cosa normale da fare solo perché l’abbiamo sempre visto fare, ma non fa parte del modo in cui funziona la natura. Del resto sappiamo che non tutte le forme di agricoltura hanno usato l’aratura. Gli Indiani d’America, per esempio, non aravano i loro campi. Kawaguchi racconta di essersene convinto subito. Aveva intuito, con le sue già ventennali esperienze da agricoltore, che era giusto: da sempre osservava l’ottima qualità del suolo laddove il terreno non era mai stato ribaltato, per esempio ai margini dei campi. 

 

 

Quasi tutti i contadini, però, credono che sia indispensabile arare ogni anno i loro campi. In effetti, lo fanno quasi tutti. L’aratura consiste nel rovesciare il terreno, ritenendo di creare in questo modo un ambiente più ospitale alle piante, condizioni favorevoli al riscaldamento del suolo, all’inserimento dei concimi, ai movimenti dell’acqua, al soffocamento dei semi delle piante selvatiche e all’espansione delle radici. 

Tuttavia, rovesciando il terreno, esponiamo all’aria e al sole l’humus e tutti i suoi microrganismi aerobici e anaerobici, i veri “coltivatori” che alimentano le piante, facendoli morire. Ogni volta che ribaltiamo le zolle, in pratica noi azzeriamo la capacità della terra di alimentare le piante. In altre parole, provochiamo una sorta di semi-desertificazione, interrompendo periodicamente il meccanismo di autoregolazione insito nel suolo. E proprio per compensare questo deficit (da noi stessi causato) ricorriamo a un “doping”, cioè all’uso del concime. 

 

 

È molto simile all’atteggiamento della medicina allopatica occidentale, basata sul paradigma meccanicistico, che non considera molto la capacità di autoguarigione del corpo e cerca un rimedio alla malattia somministrando farmaci. Così come questa medicina ha difficoltà a riconoscere il nostro corpo come un organismo olistico dove scorre la vita, preferendo dividerlo in tanti comparti separati quasi fossero componenti di una macchina, anche la maggior parte dei contadini ha difficoltà a considerare il terreno come un’entità vitale. Henry David Thoreau, già a metà dell’Ottocento, notava questa “non vita” della terra coltivata rispetto a quella selvatica del bosco.

 

 

Arando i campi e introducendovi fertilizzante non prodotto dal suolo stesso, secondo i sostenitori dell’agricoltura naturale non facciamo altro che impedirgli di fare quello che è perfettamente in grado di fare: alimentare la vita. È come se considerassimo il campo come una fabbrica, dove senza approvvigionamento esterno di risorse materiali ed energetiche non accade nulla. Difatti, proprio seguendo questa visione, l’agricoltura in molte regioni del mondo è stata industrializzata a partire dalla seconda metà del Novecento. Persino l’agricoltura biologica, permettendo l’introduzione nel terreno di concimi biologici prodotti altrove, segue sempre lo stesso paradigma dell’agricoltura meccanico-chimica, quindi, a sentire Kawaguchi, non è una pratica che rispetti veramente i principi della natura.

L’agricoltura naturale, al contrario, si fida e si affida alla capacità del terreno e delle piante, e riproduce quanto più fedelmente le condizioni naturali nei campi. In questo è molto vicina all’idea di Gilles Clément, che si affida alla creatività delle piante cercando di ridurre al minimo l’intervento umano. Il vero autore dei suoi giardini, dice Clément, non è il giardiniere o il paesaggista, ma la collaborazione tra la natura e l’uomo, dove l’uomo fa quasi da assistente. Un rapporto simile tra uomo e natura si ritrova nell’agricoltura naturale. 

 

Allo stesso modo, come la salvaguardia della biodiversità è fondamentale per Clément, lo è anche per l’agricoltura naturale. Questo metodo rifiuta infatti la monocoltura, praticando la coltivazione di piante diverse una accanto all’altra nella stessa unità di terreno. Inoltre non elimina mai a priori alcun insetto, alcuna erba selvatica. Kawaguchi dice che non esistono né “erbe infestanti” né “insetti nocivi”, i quali sono solo concetti umani, “perché in natura non ci sono né buoni né cattivi”. Ritroviamo lo stesso principio nella medicina orientale antica. Kawaguchi però, a differenza di Fukuoka, non dice di non diserbare mai, anzi taglia le erbe selvatiche con il suo inseparabile falcetto seghettato, ma solo laddove è indispensabile perché potrebbero impedire la crescita delle sue pianticelle ancora piccole. Le erbe tagliate poi non vengono eliminate, ma lasciate sul terreno a marcire. 

 

Non usando pesticidi, arrivano anche gli insetti considerati dannosi alle piante. Ma arrivano anche altri animali e insetti antagonisti. In Giappone i coltivatori di riso temono particolarmente i cicadellidi, ma se anche questi insetti mangiassero un po’ di foglie della pianta di riso, la loro moltiplicazione sarebbe controllata dalla presenza di ragni (presenti grazie all’assenza dei pesticidi). E i cadaveri degli stessi insetti, così come le erbe tagliate, contribuiranno all’arricchimento del terreno. 

E difatti lo strato superiore dei campi di Kawaguchi è costituito da questi corpi morti, vegetali e animali. Mentre visitiamo i suoi campi, a un certo punto l’anziano agricoltore si accovaccia e solleva un pezzo di terra per farci vedere l’humus che lui chiama, appunto, “strato di cadaveri” (nakigara no sō). Sono circa 20 cm di spessore di terra scura e morbidissima. È impressionante. Al di sotto, uno spesso strato di argilla molto friabile e poroso, ottimo per la diffusione di ossigeno e acqua. Quei 20 cm di terra nera e grassa rappresentano la storia di 38 anni di pratica di agricoltura naturale. Dice Kawaguchi: “Il terreno è un palcoscenico di vita e di morte, di vegetali e animali che si ripetono e si accumulano”.

 

È il “palcoscenico della fertilità”, dove l’uomo deve lasciare che i suoi attori si esprimano al meglio, spontaneamente. In altre parole, Kawaguchi insegna che bisogna affidarsi alla creatività della natura, seguire il più possibile le regole della natura e non quelle fissate dall’uomo. Kawaguchi ripete sempre: seguire, affidarsi e accompagnare. Bisogna seguire i principi della natura e affidarsi alle sue capacità. L’uomo non deve cercare di fare troppo: “È sbagliato pensare di dover arricchire il suolo, preparare un suolo fertile. Il suolo si fa da solo”. Ma allo stesso tempo, ammonisce Kawaguchi, bisogna accompagnare attentamente l’intero processo, seguire il clima, le condizioni dei campi, e le caratteristiche delle piante che si decide di coltivare. Quindi, anche se s’interviene il meno possibile, il processo è sapientemente accompagnato con grande flessibilità. Solo allora, dice, si ottiene un buon risultato.

L’agricoltura naturale, che comporta che il lavoro sia interamente eseguito a mano, sembra molto più faticosa e meno efficiente dell’agricoltura oggi prevalente. Ma Kawaguchi fa notare che “in realtà risparmiamo il tempo e il lavoro che servirebbero per arare, concimare e spruzzare pesticidi”. Infatti, una volta avviata l’attività, questo metodo richiede molto meno tempo rispetto al metodo consueto. Nel periodo della nostra visita, avvenuta nel mese di marzo, Kawaguchi lavorava solo quattro ore al giorno sui campi (ha solo una giovane aiutante), ma va detto che oggi ha a coltura appena 2500㎡, che comunque gli bastano sia per la sussistenza della famiglia che per la scuola di agricoltura.

 

 

Se consideriamo anche il tempo e le risorse materiali ed energetiche necessari a produrre macchinari e prodotti chimici, oltre all’inquinamento prodotto da tali processi, il discorso è ancora più convincente: l’agricoltura naturale richiede complessivamente meno tempo, meno energie e meno materiali, ed è molto più sostenibile (si calcola che l’agricoltura meccanico-chimica spenda fino a dieci calorie per produrne una).

Per quanto riguarda la resa, Kawaguchi sostiene che i suoi campi hanno più o meno la stessa resa quantitativa dell’agricoltura convenzionale, ma la qualità dei suoi prodotti e la vitalità in essi contenuta sono di gran lunga superiori. 

 

La terra insegna

 

Dopo dieci anni dalla sua conversione all’agricoltura naturale, Kawaguchi ha cominciato a insegnare questo metodo a quanti erano interessati. Dal 1991, in una zona rurale a terrazzamenti tra la provincia di Nara e quella di Mie, tiene regolarmente dei corsi in modo non istituzionale. È una specie di “libera scuola” senza statuto né regole, chiamata Akame Shizen Nō Juku (Scuola di agricoltura naturale di Akame). Ognuno partecipa e collabora con la propria competenza e responsabilità. Per la maggior parte i partecipanti non sono agricoltori professionali, sono invece spesso cittadini sensibili alle questioni ambientali. Dopo i corsi c’è chi torna a casa e inizia a fare l’orto, chi decide di andare a vivere in campagna, e anche chi comincia a fare l’agricoltore. Ma la libertà è fondamentale. Kawaguchi dichiara di non voler diventare il guru dell’agricoltura naturale, né di voler costituire una comunità autoreferenziale. Chiede a ciascuno dei partecipanti di essere autonomo, non dipendente da questi corsi, di avere libera iniziativa nella vita e il coraggio di fare quello che vuole. Non esalta l’agricoltura naturale, si limita a trasmettere come funziona il metodo. Non cerca di convincere nessuno a praticarla se già non ne è convinto. Anzi, a volte, se si accorge che la persona interessata non è portata, cerca di dissuaderla. 

L’esperienza di questi corsi condotti da Kawaguchi sembra dare a molti l’opportunità di comprendere qualcosa di più profondo che non una tecnica agraria.

 

 

L’insegnamento di Kawaguchi si estende spesso a dimensioni filosofiche. Poiché in questi corsi si è necessariamente in stretto contatto fisico e mentale con la natura, con il suo ciclo di vita e di morte, si ha la grande possibilità di capire profondamente le leggi della natura che, secondo Kawaguchi, costituirebbero “la via della vita”, la dimensione più fondamentale. Se la segui bene, la natura ti dà tutte le possibilità per vivere, ma allo stesso tempo l’uomo ha su di sé tutta la responsabilità di sfruttarne l’opportunità. Questa è la dimensione della “via dell’uomo”, che contiene la dimensione etica. E se perseveri, trovi la tua “via personale”, puoi capire esattamente cosa vuoi fare della tua vita. 

Le tre vie (via della natura, via dell’uomo, via personale) di cui parla Kawaguchi, ricordano molto le tre ecologie di cui parla Félix Guattari – ecologia nell’ambiente naturale, ecologia nell’ambiente sociale, ecologia nell’ambiente mentale delle singole persone – ma facendo capire in maniera ancora più concreta come le tre dimensioni siano organicamente connesse tra loro e soprattutto quanto sia fondamentale rispettare le leggi della natura, quelle che Thoreau chiamava “leggi superiori”. Queste leggi superiori sono essenziali anche nella dimensione umana, ma non corrispondono sempre alle nostre norme sociali: permettono anche di uccidere, nel senso che vivere significa ricevere la vita uccidendo altre vite. Siamo vivi grazie alle vite tolte.

 

Niente cadaveri, niente vita. Sembra un’affermazione esagerata, ma è solo reale. Semplicemente, la nostra società moderna è fatta in modo che i suoi cittadini non affrontino questo fatto potenzialmente traumatico. In realtà, ogni singolo essere vivente vive e sopravvive grazie al fatto che uccide (anche indirettamente) altre forme vitali, animali o vegetali che siano. È un atto fondamentale, “bello e solenne”, dice Kawaguchi. Sarebbe molto importante ricordarsi di ringraziare la vita che ogni giorno noi prendiamo per sopravvivere, piuttosto che ignorare questa dimensione “selvaggia” della vita che è spesso nascosta sotto il cellofan dei supermercati. Bisognerebbe recuperarne la consapevolezza, e la pratica dell’agricoltura naturale è in questo molto efficace, a cominciare dal termine “strato di cadaveri”. 

 

Natura, etica, bellezza

 

Abbiamo detto “bella e solenne”, ma per Kawaguchi la componente della bellezza ha sempre avuto una grande importanza. Da giovane sognava di diventare artista. Disegnava, dipingeva e scolpiva. Ancora oggi possiamo ammirare nel suo giardino una sua scultura giovanile, un nudo femminile a grandezza naturale. Accanto alla quotidiana attività agricola, ha frequentato la scuola d’arte, ha trovato il tempo per visitare le mostre, i musei, i templi. Ha un’ampia conoscenza dell’arte moderna, ma sa distinguere anche le qualità delle importanti sculture buddhiste antiche. Anche se ora non dipinge più, penso che in un certo senso pratichi l’agricoltura come un atto artistico. Ovviamente la sua poetica non risponde solo all’estetica, fatto culturale, ma ha radici profonde che scendono fin nella natura. Possiamo forse dire che la sua poetica è composta dalle leggi della natura, dell’etica e della bellezza. Di nuovo le tre dimensioni: natura, società e mente, che sono profondamente connesse dentro questa straordinaria figura di agricoltore. 

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Non arare, non usare concimi, non considerare nemici gli insetti

Bruno Munari. Creatività

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Nel 1971, in piena temperie contestativa, subito dopo il Sessantotto, Bruno Munari dà alle stampe presso l’editore Laterza un libretto dal titolo indicativo: Artista edesigner. Quella e di congiunzione è anche una e di disgiunzione; meglio: potrebbe essere una o di scelta (Artista o designer), se non fosse che Munari non è mai esclusivo, bensì sottilmente inclusivo. Anche quando critica, come fa in questo libretto dedicato al processo creativo, non mette mai fuori gli aculei, non ferisce o punge, bensì ironizza. L’obiettivo polemico del suo libro, che è tutto un inno alla professione di designer, è appunto l’artista: la figura romantica per eccellenza che sembra ritornata in auge dopo le barricate di Parigi nel maggio ’68, ovvero “l’artista romantico (che una volta si ubriacava e oggi si droga) esiste sempre”. A lui oppone “il designer oggettivo” che “ha come meta l’estetica come tecnica pura”. Il problema dell’artista nasce secondo Munari dalla separazione della figura classica dell’artista da quella dell’artigiano che lavorava “su regole pratiche nate dall’esperienza professionale”.

 

Munari non potrebbe essere più esplicito di così. Nel corso della sua esposizione – il libro è un ottimo esempio di pedagogia munariana: costruito con materiali di riporto e di note a margine, giocato su più livelli grafici, scritto con un linguaggio semplice ma denso – spiega che l’artista fa opere singole, il designer invece multipli. Di più: il designer “è un progettista dotato di senso estetico, che lavora per la comunità”. Nonostante tutto siamo in pieno Sessantotto, all’esordio dei Settanta, visto che Munari pone l’accento su questo aspetto fondamentale della progettazione, che non è solo industriale o estetica, ma anche sociale e politica. La creatività è per lui un fatto collettivo.

Ma non anticipiamo. Seguiamo piuttosto Bruno Munari, giovanissimo sessantenne, nel suo ragionamento. Il designer, spiega, non è un artista perché lavora in gruppo e non da solo. Il designer non ha stile: lo interessa risolvere i problemi in modo ottimale. Il designer non produce opere d’arte, bensì oggetti.

 

 

Il designer non ha una visione personale del mondo, nel senso estetico, ma un modo per affrontare i problemi. Il designer non ha segreti del mestiere. Il designer è uno che lavora con la logica e non con l’estetica: se un oggetto è bello, è perché è prima di tutto buono per l’uso. Il massimo per lui è il designer anonimo, ignoto, sconosciuto, senza nome. Munari propone un Compasso d’oro a lui, al “designer ignoto”: il creatore della sedia a sdraio, delle forbici del sarto, della pinza del vetrinista, del treppiedi dell’orchestrale, ecc.

Il centro del ragionamento munariano sulla creatività si trova nel capitolo intitolato “Fantasia e creatività” del libretto Artista e designer: l’artista lavora con la fantasia, il designer con la creatività. La fantasia altro non sarebbe che una “facoltà dello spirito di inventare immagini mentali diverse dalla realtà nei particolari e nell’insieme, immagini che possono anche essere irrealizzabili praticamente”. La creatività è invece “una capacità produttiva dove fantasia e ragione sono collegate per cui il risultato che si ottiene è sempre realizzabile praticamente”. Insomma, la prima è libera ma non concreta, la seconda invece concretissima. La fantasia vola nel cielo, la creatività si muove sulla terra. Di più: nella fantasia non c’è la ragione, così che l’artista vede quello che pensa – pagine prima ha parlato delle “visioni” come effetto delle droghe tipico dell’artista romantico – mentre il designer non vede proprio niente: “non sa che forma avrà l’oggetto che sta progettando finché non avrà risolto e armonizzato creativamente tutte le componenti del problema”. Il risultato finale è sempre una sorpresa.

 

La contrapposizione non potrebbe essere più netta. Ma davvero le cose stanno così? Davvero lui stesso, il giovane Munari, senex-puer della creatività, lavora così? C’è da dubitarne. Facciamo qualche passo indietro, o in avanti (come si preferisce). L’arte, dice Munari, non pone regole, mentre, al contrario, il progetto vive di regole. Il designer e grafico milanese non è davvero un utopista. 

O meglio: la sua utopia, se c’è, è sempre concreta. In questo è un antiplatonico, più aristotelico di Aristotele. Il miglior progettista, ripeteva nei suoi laboratori, agli allievi, ai clienti, ai committenti e agli amici, è quello che viene dimenticato, pur continuando i suoi oggetti ad esistere. Si può dire che Munari è il Perec del design: votato alla contrainte, alla sfida imposta dalle regole, che segue pedissequamente, eppure contravviene. Tuttavia la variazione che contraddice la costrizione è nascosta: leggera, invisibile, imprendibile. Un autore dopo la morte dell’Autore. Per questo è così simpatico, così leggero, così fine: finge di non impegnarci, e ci impegna. Per dirla con Caillois, teorico del gioco, Munari è per il game, fingendo di fare del play. Regole ferree che si nascondono nel “trastullo”, il “divertimento”. E in effetti si “di-verte”, gira contro se stessa la regola. Ecco le bellissime lampade, in cui il packaging, l’imballaggio è già una forma, e insieme una funzione: la lampada si piega e ripiega, ed entra perfettamente nel sottile cartone che la contiene. Aperta si dispiega: piegarsi, ripiegarsi e spiegarsi sono i tre verbi della sua attività di scrittore di libri (bellissimi, inventivi,didattici e insieme trasversali).

 

Paolo Fossati, suo acuto interprete in Codice ovvio, libro-riassunto di Munari, stampato nello stesso anno di Artista e designer da Einaudi (vetrina del suo pensiero e pensiero che si mette in vetrina), ha spiegato in modo mirabile nella postfazione la differenza tra artista e designer cui è dedicato il volumetto edito da Laterza: il primo “stacca il suo prodotto dal flusso fenomenologico o fisico o psicologico, collocandolo in opposizione ad esso sia come rispecchiamento, sia come definizione culturale”; il secondo, cioè Munari, “resta in quel flusso, lo chiarisce nella sua dimensione specifica, nella sua qualità di conoscenza e di riconoscibilità, e la definisce e intensifica in quanto tale: che è poi anche una pedagogia visiva”. Meravigliosa doppia definizione che ci permette di capire, anche contro Munari e le sue tesi, la specificità stessa dell’arte italiana, la sua intrinseca parentela con il design. Meglio: come il design – nel caso di Munari, e di Achille Castiglioni, Sottsass, Enzo Mari, ecc. – nasca in stretto rapporto con l’arte, ma rovesciandone la modalità stessa d’azione. I designer italiani, a differenza di quelli svedesi, danesi o giapponesi, non producono oggetti, ma incrementano il flusso, lo evidenziano e lo punteggiano d’opere. Quello che fanno – la modernità postmoderna di Munari – resta sempre in contatto con la conoscenza e la riconoscibilità. Ecco perché davanti a una lampada di Castiglioni, a una libreria di Mari o all’Abitacolo di Munari, si ha la sensazione di averli già visti; un’impressione di famigliarità, ovvero la riscoperta di quel flusso cui appartengono le chiese romaniche e i templi barocchi, l’affresco della chiesetta di campagna come il Tempio Malatestiano – e naturalmente i quadri di Boccioni e di Morandi, ma anche i segni di Giulio Paolini e i sacchi di Burri o le putrelle di Kounnellis.

 

Munari è uno dei padri del design italiano. Meglio: ne è lo zio, visto che come parente laterale, né padre né madre, può praticare il proprio eccentrico nomadismo culturale, sviluppare la sua nicchia progettuale, divertirsi e farci divertire, senza quasi pagar dazio. Ex-futurista come Palazzeschi, è l’autore di una “Sedia per sedute brevissime”, che come molte sue creazioni accorcia il tempo dell’azione e al tempo stesso la prolunga in una infinita, ma leggerissima, coazione a ripetere.

A leggere con attenzione il discorso sul metodo della creatività (Artista e designer) ci si accorge che Munari ha in qualche modo voluto aggirare il problema. Di più: ha barato, dal momento che in lui è fortemente presente l’artista. È un artista che fa il designer obliando continuamente la sua fantasia a vantaggio della creatività. Si dovrebbe dire: trasferisce la fantasia nella creatività, la ordina, la organizza e la trasforma in metodo. È un fantasista creativo, come è evidente in un altro libro, Fantasia, che corregge parzialmente Artista e designer, non a caso uscito proprio nel 1977, anno fatale per il ritorno della fantasia nelle strade. A un certo punto del libricino deve affrontare “i segreti del mestiere”. Se il designer è uno che non ha stile prefissato, ma risolve problemi (problem solving), non avrà un metodo personale. Se ce l’avesse rischierebbe di essere un artista. Ricadrebbe nella fantasia, in quanto la fantasia è pre-visione dell’opera. 

 

 

No, il designer, insiste Munari, ha un metodo che non è né fantastico né estetico. E allora cos’è? Qui il nostro geniale artista e designer cade in contraddizione. Lo fa, probabilmente, per vanità, per quel po’ di vanità che è una delle molle segrete della creatività, e dunque del designer. Racconta come ha prodotto con la fotocopiatrice della Rank Xerox delle immagini mosse di un’automobile e di una motocicletta. Sono immagini celebri, già spiegate in un aureo libretto sull’uso creativo della fotocopiatrice, ovvero della macchina che riproduce l’identico. Munari mette un’immagine sopra il vetro e la sposta con la mano nei cinque secondi della lettura per la riproduzione. La sposta non a casaccio, bensì in modo sapiente, così da ottenere delle immagini di qualcosa che si “muove”. Un’immagine artistica, si direbbe. Lo è. Certo da artista concettuale, non da Leonardo del Cenacolo. Un artista all’altezza dei suoi tempi; un artista-bambino, sperimentatore, che immagina con la fantasia quello che vuol ottenere, e lo fa con un semplice gesto della mano. Dato che viviamo nell’ “epoca della riproducibilità”, allora anche noi, non-artisti e non-designer, possiamo rifare il lavoro di Munari. Ma lo possiamo rifare perché l’ha fatto lui. Munari si accorge della contraddizione. O meglio: che ha messo dentro un libro tutto dedicato al designer e alla creatività un capitolo da artista, una lode occulta della fantasia. Come se la cava? Introducendo una categoria che è il vero anello di congiunzione tra arte e design: il pre-design. Lo definisce così: è un campo del design particolare nel quale “vengono compiute ricerche su materiali o su tecniche per meglio conoscere questi due aspetti della progettazione”. Questi due aspetti non sono nient’altro che il lavoro di gruppo e il lavoro del singolo.

 

Troppo poco per distinguere. Munari si contraddice, poiché ha capito che ha fatto entrare dalla finestra quello che aveva espulso dalla porta. Il pre-design non è nient’altro che la fantasia della creatività, la fantasia che usa il designer, quella che è in lui stesso nel senex-puer milanese. Il lavoro di Munari esprime l’assoluta potenzialità del fare: è realizzazione virtuale. Detto altrimenti: il suo design – attività a cui si è dedicato in forma piena solo tardi, negli anni Sessanta, visto che prima ha fatto l’artista, il grafico, il cartellonista, il didatta, l’inventore – è concettuale, un processo aperto che resta per sua stessa natura sempre in fieri. Non s’invera in oggetti. Piuttosto li produce, ma poi fugge via, perché il concetto che c’è dentro – o fuori o sopra o sotto o a fianco – non si riconduce completamente all’oggetto. Sono idee. Non so bene se nel senso platonico del termine – Munari non è un filosofo. O forse no: è un pensatore, uno che fa opere di pensiero. Insomma, Munari è l’anello mancante tra il Moderno e il Postmoderno, il punto di passaggio dal razionalismo di forma-funzione al decorativismo sovversivo di Memphis, ma anche l’anti-Sottsass, per dire del grande designer scomparso da poco: per Sottsass l’emozione viene prima della funzione, per Munari, all’opposto, la funzione crea l’emozione. Il suo approccio alle “cose” – libri, fontane, mobili, lampade, grafica editoriale, ecc. – è sornione, come ha scritto Marco Meneguzzo (Bruno Munari, Laterza 1993).

 

Usa l’ironia, ma non nel senso postmoderno del termine, bensì moderno: vuole smascherare le convenzioni, non per irriderle o smontarle, piuttosto per spiazzarle, senza mai negarle. E lo spiazzamento è, come in una sua celebre foto che lo ritrae mentre fa gesti di luce, uno stare sospesi nell’aria, fare segni con una lampada, segni visibili, e insieme invisibili, che l’occhio vede, eppure non fissa, e che l’istantaneità paradossalmente fa durare. La dialettica è tra leggerezza e solidità, tra visibile e invisibile, tra forma e funzione. Quale funzione hanno dei segni fatti nell’aria o nell’acqua?, si chiede Munari. Nessuna, sono dei processi mentali versus processi reali. Più vicino a Cage che non a Duchamp, anche se con quest’ultimo condivide l’idea di spiazzamento linguistico. La cosa più importante che ha fatto Munari è stato separare la definizione di artista da quella di designer, in modo secco, questo per farci capire che in realtà le cose sono più complesse di così e che lui è stato, e ancora rimane, l’esempio più eclatante di un artista che è anche designer, designer che è anche artista. A suo modo, naturalmente, alla Munari: con la fantasia della creatività.

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24 ottobre 1907

Amleto. Conversazione con Fabrizio Gifuni.

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Dal suo alto scranno l’arbitro sussurra nel microfono ai tennisti: «Please, play». L’invito diventa ancora più poetico, e opportunamente ambiguo, se a proporcelo è Fabrizio Gifuni, impegnato come è – da, si può dire, sempre – in serissime meditazioni amletiche. Al principio della sua formazione teatrale ci sono due anni spesi all’Accademia con il maestro Orazio Costa in un lavoro esclusivo su Amleto (ricorda sempre: «ognuno di noi alla fine lo sapeva tutto a memoria, in ognuno dei ruoli»). In anni più recenti, una scena capitale della Cognizione del Dolore gli aveva fatto intuire il carattere amletico del protagonista gaddiano: così nel suo L’ingegner Gadda va alla guerra i diari e le invettive antimussoliniane di Gadda si interpolano con brani shakespeariani (del resto un Gadda ormai vecchio, intervistato in tv, bofonchiava: «Rileggo solo l' Amleto»). All’inizio di questo ottobre, per Le vie dei Festival, Gifuni ha presentato un Concerto per Amleto– brani del dramma alternati a movimenti delle due Suite che Dmitrij Šostakovič scrisse per un Amleto teatrale (op. 32) e per uno cinematografico (op. 116), con la direzione musicale di Rino Marrone con l’Orchestra sinfonica abruzzese.

 

«Costa ci diceva: ognuno di voi si porterà per tutta la vita un fondo di Amleto e si imbatterà di continuo in personaggi attraversati da questa corrente. Io me ne sono accorto subito, il mio debutto teatrale è stato un Oreste nell’Elettra di Euripide, uno degli spettacoli più belli di Massimo Castri. Vendicatore del padre, Amleto discende anche da quei rami, come ci ha raccontato una volta per tutte Giorgio De Santillana, nel Mulino di Amleto.

E così quando molti anni dopo mi sono imbattuto nella scena gaddiana in cui don Gonzalo Pirobutirro stacca il ritratto del padre dalla parete e lo calpesta, davanti alla madre, mi è parso immediato il cortocircuito con la scena in cui Amleto fa confrontare alla madre i ritratti del padre e dello zio. Ne parlai con diversi critici gaddiani e rimasi inizialmente sorpreso dal fatto che loro non ci avessero pensato. Ma a ben guardare non era poi così strano. Credo fosse proprio quella ‘corrente amletica’, quella specie di febbre, ad acuire il mio sguardo e a farmi leggere in controluce quel nesso. A livello di ‘studi’ più diretti, lo scorso maggio ho presentato un Omaggio ad Amleto al Salone del Libro di Torino, per i 400 anni dalla morte di William Shakespeare. In quell’occasione ho condotto il lavoro musicale e sui suoni insieme a Giupy Alcaro. Infine potrei dire che anche il mio recente lavoro sullo Straniero di Albert Camus viveva, sia pure in maniera più indiretta, di attraversamenti esistenziali di marca amletica».

 

E ora di Amleto ha fatto un concerto.

 

«Il maestro Rino Marrone mi ha fatto conoscere le due Suite di Dmitrij Šostakovič, composte a distanza di trent’anni una dall’altra, per due diverse occasioni. Le due Suite sono costruite per scene, ogni quadro/movimento ha un titolo, come ‘Il monologo di Amleto’ o ‘Il duello’. Lavorando sul testo abbiamo conservato alcuni dei riferimenti, in altri casi ci siamo sentiti più liberi. Sulla scena musica e testo si alternano, con diversi momenti di convivenza e sovrapposizione».

 

Lei non ha mai portato in scena un Amleto completo.

 

«Prima o poi potrebbe capitare. Dati gli anni meglio prima che poi». 

 

Fra i tanti Amleti altrui, ce n’è uno più «suo»?

 

«Ne vedo tanti, non resisto alla curiosità di sapere come vengono sciolti certi nodi. Di recente mi è piaciuto quello di Benedict Cumberbatch, che però ho visto solo al cinema e non in teatro. A livello interpretativo mi aveva colpito molto l’Amleto di Richard Burton, e mi dispiace non riuscire più a far funzionare il lettore vhs per rivedere dopo anni la cassetta che mi ero procurato a Londra. Come spettacolo, invece, a Madrid mi ha convinto un Amleto con regia inglese e compagnia spagnola. Sottolineava un punto cruciale, spesso trascurato: la Corte, il Palazzo. Amletoè una tragedia regale, non un dramma borghese, domestico. E con tutte le battute goffe che Shakespeare pure gli ha riservato, Polonio non è la macchietta fessacchiotta delle messe in scena più superficiali: governa con sapienza la macchina del potere. Senza questo aspetto, Amleto non c’è più».

 

Lei con quali chiavi entra nell’Amleto, per il suo Concerto?

 

«Con quella del gioco, più di tutte le altre. Uso un frammento di Eraclito, uno dei più belli: “il Tempo è un bambino che gioca, spostando i pezzi sulla scacchiera: il Regno di un fanciullo”. Fin dal prologo del concerto accosto questo frammento alla battuta che Amleto pronuncia dopo aver incontrato gli attori: “The play is the thing/wherein I’ll catch the conscience of the King”. Play si può tradurre come teatro, recita, dramma ma anche alla lettera: “Il Gioco è la cosa/ con cui prenderò la coscienza del Re”. Il gioco non è solo chiave di conoscenza dell’uomo e del mondo, ma è anche un modo per attenuare il dolore e reagire. Fino al più estremo dei pensieri della cultura occidentale: solo chi sa giocare resta in vita, altrimenti la Sfinge lo inghiotte».

 

È il momento in cui il teatro entra nel teatro.

 

«Amleto è un intellettuale, ma anche un uomo di corte; è ludico e depresso, innamorato e crudele, figlio, principe e guerriero. Shakespeare ha travasato in lui tutto il proprio amore per il teatro facendone un vero esperto. Amleto conosce le compagnie, i testi, i gusti del pubblico, diventa drammaturgo egli stesso per smascherare l’usurpatore. Dice: metti dieci versi dentro questa tragedia un po’ bolsa e vediamo cosa succede. Lo fa perché ha udito“che persone colpevoli sono state colpite così in fondo dal potere che c’è negli spettacoli da rivelare subito la colpa”. A riprova che certi magnifici giochi possono avere effetti serissimi sull’animo umano».

 

 

È così che Amleto risolve il suo proverbiale dilemma?

 

«Se non lo risolve quanto meno conquista grazie al teatro la ‘prova regina’. Gli attori sono gente seria, non cortigiani, dice a Polonio. Trattiamoli bene, sono loro che scriveranno il nostro epitaffio».

 

A proposito di lemmi e dilemmi, ci sono poi i giochi di parole, così difficili da tradurre…

 

«In Shakespeare sono continui ma nell’Amleto sono sempre funzionali all’azione. Words/worms, parole/vermi e via dicendo..».

 

Lo stesso Amleto recita una parte...

 

«È la famosa “antic disposition”, il comportamento buffonesco. Amleto, da bambino, ha avuto un modello: Yorick  il buffone che infinite volte lo aveva portato in spalla. Ma anche l’unico che a corte potesse dire qualsiasi cosa, pronunciare l’impronunciabile, con una sorta di salvacondotto speciale. Del resto il gioco teatrale oscilla sempre fra la seduzione e il mostruoso. E anche il buffone se spezza certe regole del gioco rischia la testa.

Nella prima battuta lunga, rivolgendosi alla madre, che gli ha chiesto perché la morte del padre non gli sembri un fatto naturale, Amleto sembra rivendicare un primato della vita sulla finzione: "Seems, Madam ? Nay, it is. I know not seems – Sembra, Signora ? No, è. Io non conosco i ‘sembra’. Non sono le gramaglie, buona madre, né l’uso solenne del nero rituale né i forzati sospiri né le lacrime né lo smunto pallore, insieme agli altri aspetti e modi e forme dell’angoscia a definirmi; questo infatti ‘sembra’, perché se ne può fare finta e scena. Ma quel che è in me va oltre lo spettacolo. Quelli sono costumi, scene, addobbi”. Ma successivamente sarà proprio il primato del teatro a determinare un’inversione nell’ordine del reale".

 

Proprio sul mostruoso lei interrompeva il delirio gaddiano, nella sua pièce del 2010.

 

«Sì, alla fine dello spettacolo parlavo improvvisamente con la mia voce, come ‘uscendo’ dalla parte. Però le parole erano di Shakespeare. “Ma secondo voi: non è mostruoso che un attore, solo in una finzione, come dire... in un sogno di passione, possa forzare la sua anima così al suo proprio concetto che per opera di quello tutto il suo volto impallidisce, lacrime negli occhi, smarrimento nell’aspetto, la voce che si rompe e tutte le sue funzioni rispondenti nelle forme al suo concetto… e tutto questo per cosa? Per niente? Per Ecuba?”. Il teatro vive tutto in questa oscillazione e Amletoè teatralmente magnifico perché costringe l’attore a stare sul confine labilissimo fra mondo reale e rappresentazione, ad andare dentro e fuori dalla propria vita e da quella del personaggio Così come Amleto è costretto a vivere alla corte di Claudio e ricordare il padre».

 

E così come anche lo spettatore è continuamente sollecitato a pensare perché sia andato a teatro. Nell’Amleto c’è una specie di ribaltamento: alla luce del sole c’è Claudio, di notte c’è il fantasma del padre.

 

«Orazio Costa è stato ossessionato fino all’ultimo istante della sua vita dal problema di come si potesse mettere in scena il fantasma senza cadere nel ridicolo. All’epoca di Shakespeare si dava per assodato che i morti potessero tornare e in fondo tutti i grandi prodotti dell’ingegno letterario, dai miti fino a oggi, sono storie di fantasmi. È questo che i grandi sanno fare: far parlare i vivi con i morti. Il teatro spegne le luci, è fatto di ombre. La seconda battuta di Amleto nella tragedia all’inizio del primo atto contiene un gioco intraducibile, perché quando dice “I am too much in the sun”, Sono fin troppo al sole, in inglese si sente l’eco di “son”, come dire “Sono fin troppo figlio”. Così come quando Claudio interrompe la rappresentazione che per lui si è fatta intollerabile, chiede che sia fatta luce in sala».

 

È il modo per restaurare la sua regalità?

 

«A me ha sempre incuriosito quanto il potere sia inquieto nei confronti del teatro. Teatro e processo giudiziario nascono in Occidente nello stesso momento. Plutarco racconta come Solone, il grande legislatore ateniese, fosse molto preoccupato dalle prime forme di rappresentazione del divino fatta da uomini. Anche nel Rito di Ingmar Bergman, un giudice indaga sull’oscenità di uno spettacolo dionisiaco messo in scena da tre attori e prova a interrompere la recita. Colui che istituisce la norma, Solone; un re che viola la norma, Claudio nell’Amleto; e colui che applica la norma, il giudice di Bergman: tre personaggi sconvolti dalle ombre che il rito teatrale proietta sulla Legge. Amleto parla appunto di questo: è l’intellettuale che ha colto la valenza profonda del gioco, la sua potenza e il suo pericolo».

 

Conosce il recente libro di Franco Cavallone, La borsa di miss Flite, storie e immagini del processo (Adelphi)? È per certi versi vicino a questi temi.

 

«No, ma me ne hanno parlato e intendo procurarmelo al più presto. Processo e Teatro discendono entrambi in origine da rito sacro. Il processo è il dispositivo con cui la società isola l’impuro; nel rito c’è sempre un capro da sacrificare e chiunque di noi può impersonarlo. Vorrei dire a questo proposito che in tutto questo parlare di garantismo e giustizialismo nelle cronache italiane degli ultimi vent’anni mi sembra che alcuni aspetti sotterranei ma cruciali della questione – fra cui quello dei meccanismi profondi del dispositivo arcaico e rituale del processo – non siano stati minimamente presi in considerazione. Con l’effetto paradossale di aver creato una sorta di gabbia superficiale da cui sembra impossibile uscire». 

 

Anche nel gioco c’è un’oscillazione, fra i diversi livelli di realtà e fra regole e libertà.

 

«L’antropologo Victor Turner in quel magnifico saggio che è Dal rito al teatro (Il Mulino) ha proposto un’analisi semplice ed efficacissima: rito e mito sono stati assieme fino a che la società ha continuato a seguire le stagioni e i cicli della natura. L’avvento della rivoluzione industriale ha invece spaccato in due il tempo: produzione e consumo nel tempo delle cose “serie”, mito e rito nel tempo “libero”. E tutte le attività legate al mondo dell’arte sono sprofondate nel cosiddetto ‘tempo libero’. I dibattiti sulla cultura, sui tagli ai bilanci – un po’ come quelli su garantismo e giustizialismo – si agitano nel vuoto se non prendono coscienza di quell’analisi. 

La frattura sociale di cui parla Turner forse è insanabile, ma ognuno può sanarla per sé. Se l’uomo smette di giocare e pensa che il tempo del gioco –

che è anche il tempo del mito, del rito, e dell’arte – sia secondario rispetto al tempo “serio”, dedicato a produzione e consumo, allora è destinato alla nevrosi. Esiste solo un tempo, quello della nostra vita e io sono convinto che le attività relegate nel cosiddetto ‘tempo libero’ siano necessarie alla vita di un cittadino, alla sua formazione sociale, molto più di quanto non si pensi comunemente.

Non c’è un altro motivo perché io faccia il lavoro che faccio se non quello di poter continuare a giocare con quella folle serietà che hanno i bambini».

 

Propone una specie di «play therapy» sociale? 

 

«I greci la sapevano lunga non solo sulle tragedie, ma anche sui giochi: salva la città chi risolve un indovinello».

 

E chi riconosce nel ritratto mostruoso di un enigma la soluzione, che è l’uomo.

 

«Fino all’età scolare, i bambini hanno la disponibilità fisica per diventare qualsiasi cosa. Poi la facoltà di immaginarsi diversi non è più considerata una cosa seria. Ma questa è una perdita pazzesca per la società. Un bambino che “fa” la locomotiva o il vento o il cavallo diventa quella cosa. Così come sa benissimo che le regole del gioco sono un perimetro da tracciare e condividere assieme agli altri, altrimenti non ci si diverte e quel gioco non può neppure iniziare. I bambini sanno spiegare questo banalissimo assunto a qualsiasi adulto con grande chiarezza. Forse anche questo – a proposito di attualità –

sarebbe il caso di ricordarcelo. 

 

Il Concerto per Amleto– drammaturgia e voce di Fabrizio Gifuni, musiche di Dmitrij Šostakovič, direzione d’orchestra di Rino Marrone – è stato eseguito dall’Orchestra sinfonica abruzzese sabato 8 ottobre all’Auditorium Parco della Musica di Roma, sala Petrassi, nell’ambito de Le vie dei Festival 2016, e martedì 11 ottobre al Teatro Massimo di Pescara.

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La passione di una vita

Dalai Lama: un divo per necessità

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Una delle prime immagini che lo ritrae dai primi anni Sessanta, il volto appare tirato sotto un occhiale da sole scurissimo. Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama, è immortalato mentre sta salendo su un’automobile; alle sue spalle un folto gruppo di autorità e militari indiani assistono a questo passaggio. Il bianco e nero della foto ci restituisce una scala di grigi dalle varie intensità, ma senza troppe difficoltà immaginiamo il colore di quelle stoffe, un rosso scuro e un arancione che avvolgono la figura giovanile e slanciata del Dalai Lama. Colori ai quali ci siamo abituati. Sembra un’immagine pubblicitaria di moda, con quel bianco e nero estetizzante stile anni Novanta. 

 

È un giovanissimo Dalai Lama, giunto da poco tempo in India, esiliato e lontano da quel Tibet di cui era guida spirituale e riferimento politico, vertice teocratico di un paese essenzialmente agricolo e legatissimo alla sfera religiosa. Questa foto rappresenta una ferita, lo squarcio su una tela che non si potrà più ricomporre, i cocci di un vaso rotto: è la storia di una lotta impari, di un braccio di ferro vinto in maniera schiacciante. Ma è anche una storia simile a moltissime altre e, in un certo senso, un copione già visto del nostro Novecento: una potenza enorme invade un territorio vicino in nome di una sovranità storica e naturale che – si crede – provenga dai secoli passati. In barba alle belle dichiarazioni dei diritti umani che hanno idealmente disegnato l’universo delle relazioni umane del secondo dopoguerra, il paese aggredito e invaso soccombe davanti a tanta potenza e dispiegamento di mezzi e forze. È stato questo il destino del Tibet: durante gli anni Cinquanta, la giovane Repubblica Popolare Cinese – sotto la guida di Mao – ne occupò militarmente il territorio, mettendo così fine all’indipendenza del paese, dichiarata dal precedente Dalai Lama nel 1911. 

 

Dalai Lama con Giuseppe Sala.

 

Il XIV Dalai Lama, classe 1935, era ancora un ragazzino, quando ebbe inizio l’invasione cinese: i reggenti, vista la situazione, gli chiesero di assumersi prima del tempo le proprie responsabilità. Tenzin Gyatso, come da tradizione, era stato riconosciuto come l’incarnazione e il successore del Tredicesimo Dalai Lama, colui che aveva dato precise indicazioni su come e dove trovarlo, in una capanna dalle tegole azzurre, in un piccolo villaggio della regione Amdo, nel nordest tibetano. Trasferito fin dalla primissima infanzia al Potala Palace di Lhasa, quel bambino era dovuto crescere in fretta. 

 

Alla metà degli anni Cinquanta, il giovane Dalai Lama aveva trascorso un lungo periodo in Cina, nel tentativo di trovare una conciliazione alla situazione che si era creata, con la speranza di rimettere insieme i cocci di quel vaso rotto. Fu il primo di una lunga serie di viaggi, ma non portò a niente: difficilmente i cinesi avrebbero dato retta a un capo spirituale, proprio loro che predicavano l’assoluta inconsistenza della sfera religiosa. La situazione diventò ingestibile nel marzo 1959 quando nella capitale Lhasa furono organizzate le più importanti rivolte anticinesi della storia tibetana, rivolte che furono represse con una violenza senza precedenti (soprattutto pensando al fatto che il Tibet aveva a mala pena riorganizzato l’esercito). Morirono decine di migliaia di persone. Fu in quell’istante della Storia che il Dalai Lama – interrogati gli oracoli – comprese che era davvero giunto il momento di lasciare il Paese. E dunque scappò nella vicina India, dove il capo del Governo Nehru gli aveva garantito l’asilo, assieme ai componenti dello spodestato governo tibetano. Si trattò di un momento storico per il Tibet: mai il capo spirituale di quel Paese si era allontanato. Senza il loro capo i tibetani si sentivano perduti, come privati di una bussola. 

 

L’occupazione cinese scardinò completamente e violentemente l’assetto della società tibetana: migliaia di monasteri furono distrutti e dati alle fiamme, decine di migliaia di monaci furono uccisi oppure obbligati al lavoro, molti di loro vennero incarcerati come dissidenti, senza un processo e senza un motivo. I cinesi introdussero la suddivisione in classi sociali e coloro i quali in passato avevano posseduto qualche forma di ricchezza vennero trattati con accanita ferocia. 

 

Il pubblico milanese del Dalai Lama.

 

Le violenze degli anni Cinquanta e Sessanta non sono ancora cessate, la questione tibetana non è affatto risolta. Anzi, si può dire che non sono stati fatti nemmeno grandi passi in avanti: il Tibet è divenuto una regione cinese a tutti gli effetti; via via il governo tibetano in esilio ha dovuto accettare, suo malgrado, questo stato di cose. Il Dalai Lama non è mai più tornato nel suo Tibet. Rifiutò, nel 1977, l’offerta cinese di farvi ritorno in cambio dell’accettazione della supremazia cinese sul territorio. Rifiutò e continuò a occuparsi da Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio, di dare accoglienza ai cittadini che riuscivano a scappare (al momento sono poco meno di centomila i tibetani accolti in India). Ma se la questione tibetana, pur non avendo subito evoluzioni, è ancora attuale lo dobbiamo proprio al Dalai Lama, al suo carisma, alla straordinaria apertura verso la modernità che ha saputo articolare con il suo viaggiare e il suo dialogare con i media. Pur definendosi un “semplice monaco”, il Dalai Lama ha saputo giocare con il proprio tempo, ha attraversato gran parte del Novecento cavalcando il suo ruolo e rendendolo stranamente al passo con i tempi. 

 

Seguitissimo dai buddisti e osannato da Hollywood, Tenzin Gyatso è riuscito a portare in giro per il mondo la storia del Tibet, a far conoscere e mantenere vive le tradizioni del Paese delle Nevi. Oggi quelle vallate che il Dalai Lama non vede da molto tempo sono attraversate da un treno che collega Lhasa a Pechino. Quelle vallate sono oggi percorse da teorie di colonne e ponti: se per alcuni sono il segno del progresso che arriva anche in Tibet, per altri sono un colpo al cuore, la violenza marcata su un paesaggio violato. Le poche città tibetane hanno cambiato il loro volto e oggi accolgono turisti da tutto il mondo e tour operator pronti ai migliori affari; ristoranti e catene commerciali mondiali investono a Lhasa e, nelle campagne, le estrazioni minerarie cadenzano un nuovo vivere quotidiano. 

 

Treno Lhasa Pechino.

 

La tradizione del Tibet è oggi affidata quasi esclusivamente al Dalai Lama. Il suo pubblico è eterogeneo e non necessariamente legato a lui da un sentimento religioso. Tenzin Gyatso, premio Nobel per la Pace nel 1989, è in grado di riempire intere fiere, come è successo qualche tempo fa a Rho, dove una platea emozionatissima lo ha salutato e abbracciato. Ad introdurlo c’era un fedelissimo, ossia Richard Gere, che lo ha presentato alla platea come “la persona più piena d’amore di tutti i tempi”. Milano gli ha conferito la cittadinanza onoraria e da parte cinese non sono mancati gli ammonimenti che da anni si ripetono sempre uguali nei confronti degli Stati che lo ospitano. La figura del Dalai Lama è un misto di valori di pacifismo, non violenza, compassione e benevolenza che se da un lato richiamano l’ideale gandhiano, dall’altro rimandano a un inedito mito di massa della contemporaneità globale. 

 

Grande viaggiatore e instancabile osservatore del mondo, il Dalai Lama è riuscito a far breccia nel cuore di generazioni diverse. Chi lo conosce da vicino non smette di sottolinearne la curiosità e la rapidissima capacità di apprendimento: uno dei primi a dichiararlo fu Heinrich Herrer, alpinista e scrittore austriaco, autore del libro Sette anni in Tibet, che – per vie traverse – fu uno dei tutori del giovanissimo Dalai Lama, incaricato di insegnargli basiche conoscenze di inglese e di geografia. Fu lui che introdusse il giovane Tenzin al mondo del cinema: fu una figura importante perché capitò in Tibet a cavallo dell’invasione cinese e per questo laggiù fu uno dei primi messaggeri della civiltà europea. 

 

Nonostante la sua età, il Dalai Lama non smette di stupire il mondo e di catalizzarne la sua attenzione. È un divo, suo malgrado, seguitissimo dalla gente. Un divo per necessità. Solo grazie al suo carisma ha saputo mantenere viva l’attenzione sul Tibet, anche dopo essersi fatto da parte nella questione politica tibetana. Nel 2011, alcuni emendamenti della Costituzione degli esuli fecero sì che, per la prima volta, il destino politico del Tibet si distaccasse da quello del Dalai Lama, che rinunciò a qualsiasi tipo di potere e influenza politica, avviando un importante processo di democratizzazione interna. Ma non è tutto: Tenzin Gyatso ha parlato anche del suo successore. È la prima volta che un Dalai Lama trascorre la (quasi intera) esistenza lontano dal Tibet: il suo successore dovrebbe essere scelto – per tradizione – all’interno del Paese. Ma questo difficilmente accadrà. Per questo motivo, di fronte ai fatti, Tenzin Gyatso ha affermato che la sua istituzione ha fatto il suo tempo, non sa se si reincarnerà e se dovesse farlo vorrebbe rinascere altrove, lontano dal Tibet, forse negli Stati Uniti o in un paese occidentale, magari in un corpo di una “donna attraente”. 

 

Sono considerazioni a dir poco sorprendenti se pensiamo alla lunghissima storia dell’istituzione del Dalai Lama, ma d’altro canto la realtà dei fatti non concede la possibilità di un happy ending. Si tratta di considerazioni che hanno fatto infuriare Pechino che da anni tenta una appropriazione anche della dottrina religiosa tibetana, dopo avere “nominato” un proprio Panchem Lama (la seconda carica del buddismo tibetana, legata a strettissimo filo al Dalai Lama) e dopo aver fatto sparire da oltre venti anni colui che era stato identificato come il Panchem Lama da Tenzin Gyatso. Pechino ha dichiarato che il Dalai Lama sta minando dall’interno la longevità delle tradizioni buddiste e tibetane (sic!); l’agenzia Reuters ha battuto un’agenzia di stampa bizzarra titolandola “Pechino ordina al Dalai Lama di reincarnarsi”. Che ne sarà del futuro del Tibet non è facile da prevedere (o forse è solo banale?): per certo è vero che l’identità tibetana così come si è mantenuta per secoli difficilmente la vedremo traghettare nel futuro. Il Dalai Lama difficilmente potrà salvare una situazione talmente pregiudicata, ma la speranza è che il suo estro e la sua moderna intraprendenza qualche sorpresa ancora la possano riservare in questa storia maledetta del Novecento. 

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Seguitissimo dai buddisti e osannato da Hollywood

Puškin nella vita quotidiana russa

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Parco Gor’kij di sera. «Per me il sublime è Puškin». Segue breve precisazione su cosa ognuno di noi intende per sublime. Appuriamo che per il mio interlocutore russo è un sentimento generato dal contatto con il sommamente bello, in grado di suscitare reazioni non sempre prevedibili. Per me, influenzata dalla concezione romantica, il sublime ha a che fare piuttosto con il soverchiante stato d’animo che si prova di fronte alla natura sconfinata. Eppure, sentire da un russo che Puškin è il sublime non mi stupisce. 

Qualche tempo dopo, in una tiepida giornata di sole che annuncia l’imminente primavera, sono seduta su una panchina nella piazza delle Arti, di fronte al Museo Russo di San Pietroburgo. Guardo la statua di Puškin al centro della piazza, sorridendo della sua posa un po’ televisiva, da presentatore di varietà. Tra le mani stringo due libri proprio su Puškin, presi poco prima su una panchina lì vicino: “libri gratis” si leggeva su un rettangolo di cartoncino posto sopra una trentina di bei libri d’epoca. Due bambini si rincorrono intorno alla statua. Poi uno si avvicina alla madre, seduta sulla panchina accanto alla mia, e grida felice: «ASPuskinu!», ripetendo ciò che ha appena letto ai piedi della statua. La giovane signora sorride dolcemente e corregge il figlio: «Aleksandr Sergeevič Puškin». Poi con una punta di orgoglio e scandendo bene le parole, aggiunge: «Il nostro grande poeta».

 

Il mito di Puškin è duro a morire, e lungo da ripercorrere nel suo snodarsi. Di certo affonda le radici nella tragica fine del poeta, tradito dallo zar e dalla sua corte, e ucciso dal corteggiatore di sua moglie, lo straniero D'Anthès. Ma i miti su Puškin iniziarono già durante la sua vita: bambino prodigio, giovane genio, futuro gigante, si diceva di lui quando studiava ancora al liceo di Carskoe Selo; poeta romantico fuggitivo, sempre innamorato e ispirato, era considerato negli anni dell'esilio di Michajlovskoe. Il mito del poeta nazionale fu poi modellato da Gogol' e prese slancio nei due anniversari celebrati alla fine dell'Ottocento: nel 1880, quando a Mosca fu eretto il suo monumento, inaugurato dal memorabile discorso di Dostoevskij, e nel 1899, nel centenario dalla nascita. L'acme del mito puškiniano, e una certa internazionalità, si raggiunse poi nei festeggiamenti del 1937, nei cento anni dalla morte.

 

Martire, Proteo, cantore della libertà, sole della poesia russa, ultima manifestazione del Rinascimento, Puškin è stato definito in centinaia di modi, ed è la pietra miliare della letteratura russa. Ma come scrive lo storico della letteratura Paul Debreczeny, non è necessario leggere le sue opere per cadere nel fascino del suo mito. Ed è esattamente ciò che penso anch’io quando sento dire dai miei interlocutori che «Puskin è il nostro tutto», secondo la nota definizione del critico Apollon Grigor’ev. Mi raccontano che il poeta nazionale si studia bene a scuola e che accompagna gli scolari per tutti gli anni del liceo: i primi anni si leggono le poesie, poi l’Evgenij Onegin e negli ultimi anni la prosa. Ciò non significa necessariamente che quando sostengono convinti che Puškin è il loro tutto hanno piena cognizione di ciò che dicono, ma il sorriso con cui alleggeriscono il peso di una citazione abusata tradisce un certo amore.

 

 

Nei discorsi pronunciati in varie città d'Europa dagli intellettuali emigrati russi in occasione dell'anniversario dei cento anni dalla morte (1937), una delle parole più ricorrenti in riferimento al poeta è proprio ‘amore’. «Noi amiamo Puškin». Qui per amore bisogna intendere un legame profondo, velato di patriottismo, orgoglio e malinconia per la patria lontana e preclusa. Anche in Unione Sovietica, nella stessa occasione, si parlava di amore, che a detta di molti si approfondì proprio durante la preparazione dei festeggiamenti del giubileo. Quando parlo di questo amore a un’amica, signora di mezza età non particolarmente incline a sentimentalismi, conferma che è proprio così, ancora così, e annuisce seria: «Noi amiamo Puškin». 

Si ripete ormai da decenni che ogni generazione ha trovato in Puškin ciò che lo rende attuale e in linea con i valori di quell’epoca. Pressoché chiunque abbia avuto o abbia a che fare con l’arte – in senso ampio – ha avuto a che fare anche con Puškin, in qualità di effigie da ritrarre, di modello a cui ispirarsi o di ideale interlocutore. Come già disse qualcuno, egli è come un vicolo cieco che costringe a voltarsi indietro per poter andare avanti, impone inevitabilmente di farci i conti. Una conseguenza pratica di ciò è l'onnipresenza di Puškin nella vita quotidiana russa. Il suo volto compare ovunque, spesso inaspettatamente, come alla mostra su Aleksandr Gerasimov, ritrattista ufficiale di Stalin che dipinse il leader sovietico nelle situazioni più disparate.

 

Tra membri e congressi di partito, qualche quadro dai soggetti bucolici degli anni giovanili e poi della senilità, il visitatore non pensa affatto a Puškin. E invece eccolo nell’ultima sala, su una tela di media grandezza, ritratto mano nella mano con Adam Mickiewicz, il grande poeta romantico polacco, sicuramente prima che la loro amicizia si raffreddasse. Il quadro non è bello, la banale espressione di Puškin ricalca l’iconografia più stereotipata, eppure Puškin c’è.

 

Questa quieta onnipresenza prende varie forme. Quelle che tipicamente dimostrano il letteraturocentrismo della Russia, per cui il volto del poeta campeggia sui teli di carta plastificata che coprono i lavori stradali dalla vista dei passanti; prende le forme che in alcuni paesi sono riservate ai miti del passato: la cartolina d’epoca con il ritratto più famoso del poeta, il busto in finto marmo accanto a quello di Lenin sul banco polveroso del mercatino dell’antiquariato, la matrioška che odora ancora di vernice posta tra quella di SpongeBob e quella di Putin. Prende poi forme più usuali: statue e busti innumerevoli disseminati in tutta la città (solo nel giardino delle sculture antistante la nuova Galleria Tret’jakovskaja se ne contano una decina). L'onnipresenza puškiniana ha preso infine le forme della contemporaneità. Puškin si è fatto strada nel mercato dei gadget e delle mascherine per gli smartphone. Persino la pelle si può includere tra i nuovi supporti su cui la nota effigie viene rappresentata. È in libreria che, indugiando tra gli scaffali, noto il profilo di Puškin sul muscoloso bicipite di un ragazzo sulla trentina. Colpisce il contrasto tra le scarpe da corsa, i calzoncini corti, i muscoli, la canotta che li mette in mostra e il grosso tatuaggio con il famoso autoritratto del poeta di profilo.

 

Anche il mondo delle serie televisive è stato espugnato. Contrariamente a quanto il titolo farebbe pensare, però, la serie Puškin non racconta quasi nulla del poeta e non ha niente in comune con i film-documentari elencati in una apposita pagina Wikipedia (goo.gl/VZx3ny). È la storia di un giovane ladruncolo dai folti favoriti che, vestito in abiti ottocenteschi, si fa fotografare come sosia di Puškin insieme ai turisti, per poi derubarli. Finché un giorno le cose vanno diversamente dal solito e il ladro viene scoperto dalla polizia. Al giovane verrà offerta una via d’uscita dal mondo del cinema, grazie alla sua somiglianza con l’attore che recita il ruolo di Puškin in una grande produzione cinematografica sulla vita del poeta. In seguito all’infortunio del Puškin-attore, quest’ultimo verrà sostituito dal Puškin-ladro. 

A prescindere da queste edulcorate manifestazioni pop, è indubbio che la vitalità di Puškin nella Russia contemporanea sia soprattutto esteriore. Non mancano però segnali indicativi di una più celata vitalità sostanziale, di cui certo è più difficile accorgersi e sondare la profondità.

 

La sua percezione richiede più tempo e un contatto ravvicinato con le fibre della realtà. Ma quando il contatto si stabilisce, si noterà che il vicino in metropolitana legge La figlia del capitano, che tutti, a qualsiasi età, conoscono a memoria dei versi di Puškin e che il commesso della libreria parla con disinvoltura delle mistificazioni puškiniane. In una limpida serata di fine inverno capiterà persino di sentir dire che Puškin è il sublime.

Quasi perfettamente coetaneo del nostro Leopardi, Puškin convive con i russi in una simbiotica onnipresenza. Come scrisse il poeta Aleksandr Kušner: «È disciolto nell'aria che respiriamo, nel pane che mangiamo, nel vino che beviamo». Vive nelle vecchie e consuete forme, e nelle forme nuove della contemporaneità. Il suo mito continua a (r)esistere, soprattutto per forza d'inerzia dal passato. C’è chi sostiene infatti che prima o poi Puškin verrà scalzato da un nuovo mito. È probabile, come è probabile che si dimentichi il primo amore.

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Il poeta onnipresente

Specchio concavo

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In ambito esoterico si tramanda che lo specchio concavo sia un mezzo per focalizzare l’attenzione sul mondo astrale e per esercitare la capacità di osservazione più sottile. Sibille, profetesse, streghe, vaticinanti e sciamani hanno utilizzato questo medium per migliorare le loro doti di chiaroveggenza. Fissavano nel cavo dello specchio attendendo immagini rivelatrici. Agivano telepaticamente, pensando per immagini. Spostavano nell’aria atomi e molecole per mezzo di illuminazioni e intuizioni. Di notte, riempivano di acqua la ciotola concava per osservare le luci e i flussi delle stelle catturate nella trasparenza del loro “de-siderare”. Alcuni scoprirono misteri della natura molto prima che la scienza giungesse alla verità delle cose. Ricercando tracce e documenti e arretrando nel tempo storico, si può appurare che ci sono stati personaggi in avanguardia, o semplicemente profetici, i quali hanno veduto verità che sono state confermate scientificamente nel XX e nel XXI secolo. A prescindere dagli esperimenti scientifici o dalle proiezioni fantascientifiche, è interessante la suggestione, da cui partire per condurre ulteriori collegamenti di senso, evocando la presenza di spazi e risonanze ultrasottili, di flussi che possono essere assorbiti, riflessi e focalizzati.

 

Alessandra Spranzi, Cose che accadono, 2002-2005.

 

Queste risonanze sono il soggetto principale indagato con l’aiuto delle fotografie e dei video presenti nella mostra Lo Specchio Concavo, come se fossero zone di mistero da cogliere con la prontezza di spirito e con la velocità dell’intuito. Attraverso una molteplicità di sguardi, qui interessa segnalare sia le dissonanze che scaturiscono dalle innumerevoli contraddizioni che accadono negli inciampi del tempo e della storia, con i loro cortocircuiti, sia le zone misteriose nella realtà intuite dallo sguardo femminino, che si manifestano in modo sorprendente entro un territorio che è sempre esistito, tra l’interiorità delle persone e il mondo, nelle pieghe del tempo e tra le fessure del quotidiano. Si rivolge l’attenzione sull’energia che comprende questo elemento dell'inaspettato, sulla necessità che non può essere contraddetta, sulla verità che rivela che cosa racconta ed esprime la vita, la sua stessa esistenza, con la frizione delle sue forze opposte perennemente in lotta fra loro. Abbiamo selezionato fotografie che documentano sia registrazioni obiettive, sia proiezioni visionarie, sia testimonianze personali entro contraddizioni politiche, sia interpretazioni e trascrizioni fedeli al contempo della realtà storica e di quella privata, sia approcci empatici o dissociati. Altre fotografie invece indagano e evocano anche segreti di un segreto, ciò che si può percepire oltrepassando un limite o una soglia. Immaginiamo la piccola Alice del romanzo di Carrol mentre entra nello specchio del suo delirio e intraprende un viaggio in un’altra dimensione, fantasmagorica. Entrando in un mondo al rovescio,  solo i controsensi hanno senso.

 

Alice front edited.

 

E in questa dimensione si può credere all’impossibile. Si possono fare sogni che, alla fine, non si sa nemmeno se siano nostri davvero. Alice impara nel suo mondo, al di là dello specchio delle apparenze, che solo perdendosi ci si può trovare. E poiché il suo specchio ha ribaltato ogni cosa si può a ben ragione pensare che sia concavo, e che abbia messo in azione risonanze psichedeliche.

Nella tradizione iconologica lo specchio è inteso come un’immagine ambivalente, che, a seconda del contesto in cui è inserita, rimanda a molteplici significati, anche opposti fra loro. Come simbolo positivo allude alla conoscenza interiore, riflessiva, iniziatica, e se impugnato dalla Prudenza è inteso come strumento necessario per vedere cosa accade alle spalle. Con accezioni negative è invece associato a Narciso, a chi si rimira compiaciuto di se stesso, all’idea della vanità, ai peccati di lussuria e superbia, e alla bellezza, con rimandi all’approssimarsi dell’invecchiamento e alla morte. Ma ne’ Lo specchio concavo interessa indagare la portata evocativa di un altro specchio, quello che ribalta la figura di chi cerca una speculazione nella superficie riflettente, nella concavità che mostra l’immagine capovolta della realtà, dove sia l’io interiore nascosto sia le immagini del mondo entrano capovolte nella retina dello sguardo, e qui subiscono un’elaborazione, una transmutatio o un’assimilazione.

 

Anish Kapoor, C-curve, 2007, courtesy of the artist and lisson gallery London.

 

Per non essere impietrito da Medusa, Perseo guarda e si muove con l’ausilio di uno specchio magico, ricevuto in dono da Pallade Athena, la dea greca della sapienza. Proviamo a procedere con una speculazione simile a quella raccontata dal mito, ma concava.

Lo specchio concavo è documentato già in epoca antica. Archimede utilizza specchi ustori concavi per convogliare la forza del sole e incendiare le navi nemiche durante l’assedio di Siracusa nel 212 a.C.

Specchio come arma, anche, uno specchio ardente, ovvero un’immagine presa come un simbolo eloquente dal movimento femminista italiano degli anni Sessanta e Settanta. Uno specchio che cerca di far comprendere la complessità della differenza: “Secondo me una causa maggiore di confusione è nel linguaggio che parla di differenza come se fosse qualcosa che sta tra donne e uomini spartendo l’umanità in due. Mi chiedo se la tua critica di «pensiero binario» non venga da una confusione di questo tipo.

 

Elisabetta Benassi, first a bomb blast looked from bikini, 2011.

 

La differenza non è tra. Essa è in me, mi è interna e immanente, mi impedisce di identificarmi con quella che sono, mi mette in relazione con quella che non sono. Non c’è un’identità sicura e stabile nell’essere chiamata donna, e in questo si comincia finalmente a vedere un pregio. Io ho accettato di essere identificata come donna con una vera e propria decisione politica, che ha coinciso con l’impegno per un senso libero della differenza sessuale. A rigore possiamo aggirare il nostro chiamarci donne/uomini, così come si può non misurarsi con l’imposizione biologica della sessuazione. Ma si può veramente?” (L. Muraro, Il pensiero della differenza va capito. Una lettera aperta a Benedetta Selene Zorzi, autrice del libro «Al di là del 'genio femminile'», “Il Manifesto”, 8 ottobre 2014).

 

Haris Epaminonda, untitled, 2008-2009.

 

Ma qui, per ora, – visto che abbiamo coinvolto artiste che hanno utilizzato il medium della fotografia per esprimere le loro poetiche e le loro ossessioni – a noi interessa l’idea metaforica e il gesto di utilizzare uno specchio concavo nella camera oscura per innescare un ribaltamento di un’immagine capovolta. Nel XVI secolo Giovanni Battista della Porta descrive la possibilità di utilizzare uno specchio concavo nella camera oscura per raddrizzare le immagini all’inverso che entrano nel foro stenopeico, provenienti dall’esterno e passanti attraverso una lente per renderle più nitide. Il filosofo intende una stanza buia, come quella ottocentesca che si è conservata fino ai nostri giorni nel castello Sanvitale, a Fontanellato, costruita per l’osservazione agevolata del paesaggio esterno assolato. Il principio è identico a quello delle macchine fotografiche reflex, che hanno un sistema in grado di proiettare l’immagine dall’obiettivo verso un vetro interno. Già un semplice specchio concavo, comunque, può proiettare un’immagine su una superficie piana. 

 

Joan Jonas, performance, 1969.

 

Attualmente – ma è un fenomeno che dura già da molto tempo e cresce esponenzialmente – ogni persona è circondata e saturata da innumerevoli immagini, film, fotografie. In questo momento di transizione si cerca di riflettere sul senso delle immagini contemporanee e sullo strumento fotografico. Desiderando comprendere, qualcuno si rifugia in una camera oscura della coscienza (cercata, costruita, o trovata casualmente) e contempla ciò che entra da fuori: osserva lo scorrere della vita e vive l’esperienza senza bisogno di fermarla con scatti fotografici o con riprese, né con disegni o altro. La camera oscura si può intendere anche come spazio in cui la realtà esterna, con la sua serie di immagini o di accadimenti che scorrono in sincrono con la vita, si riflette in parallelo nel buio della stanza. Avviene dunque una duplice prospettiva, identica ma con un capovolgimento. Molte volte c’è bisogno di un altro spazio e di un’altra dimensione per vedere ulteriormente o per guardare con più attenzione ciò che scorre davanti agli occhi normalmente ogni giorno. Camera oscura come luogo per far convergere meglio l’attenzione sui dettagli del mondo, quindi. Ogni fruitore sta dentro lo spazio scuro per cogliere con più nitidezza ciò che gli sta attorno. In questa sostanza allegorica il fruitore percepisce di essere una sorta di presente continuo nel tempo. Inoltre questa camera oscura materializza una considerazione su cosa significhi riprodurre immagini. Esemplare è l’esperienza Campo San Samuele 3231, realizzata da Zoe Leonard nel 2012 a Venezia, nel Palazzo Grassi.

 

Zoe Leonard, Campo San Samuele.

 

Dopo un lavoro trentennale con il medium della fotografia, l’artista americana ha messo in scena, nella sua opera-camera oscura, immagini non registrate, non analogiche né digitali, ma semplicemente solo luce che penetra attraverso un buco nella finestra e respira e vive (capovolta) su una superficie piana. In questo passo indietro rispetto ai mezzi della fotografia e dei video, e in questo arretrare rispetto a tutte le sofisticate e artefatte riflessioni dell’arte contemporanea, Zoe Leonard ottiene il modo più diretto e semplice per contemplare ciò che si vede, osservando come agiscono il nostro cervello e il nostro sguardo. In questo arretramento verso le origini si innesca un ulteriore tentativo di capire come la persona pensa alla sua vita quotidiana quando si trova in uno spazio del presente.

 

Magia naturalis sive de miraculis rerum naturalium 1559, by Gianbattista Della Porta, 1535-1615, engraving edition of 1659, library of Catalonia, Barcelona, Spain.

 

Nel catalogo e nella mostra non si utilizzano parole per “spiegare”, singolarmente e nell’assieme, le opere scelte. Le immagini sono consegnate direttamente ai fruitori, alla loro capacità di creare connessioni o altro. Nella sequenza sono disseminate zone di mistero, ombre luminose che accompagnano i corpi, punctum barthesiani, fatalità che pungono e afferrano l’attenzione, particolari che inducono e muovono pensieri, ricordi, sensazioni. In alcuni casi, le immagini contenute negli scatti proiettano qualcosa degli spettatori oltre ciò che le fotografie di primo acchito danno a vedere. Alcune enunciano l’interiorità dei soggetti senza concedere l’intimità del privato. Altre evocano l’inaccessibile, la profondità di ogni possibile interpretazione, la superficie immobile dell’esteriore su cui si può posare lo sguardo. Altre ancora rimandano a un tempo non definito, all’azione pura e semplice. Le più riuscite si possono vedere senza guardarle una seconda volta, perché sono entrate nell’immaginazione e nella memoria sensibile, muovendo altre vite e altre esperienze. 

 

Lo specchio concavo, 22.10.2016 - 27.11.2016. A cura di Sara Benaglia e Mauro Zanchi. Palazzo della Misericordia, Via Arena 9, Bergamo (spaziobaco@gmail.com e info@altartecontemporanea.it).

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22.10.2016 - 27.11.2016, Bergamo

Vie Festival: immagine, trasmissione, remake

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Il rapporto tra rappresentazione dal vivo e immagini riprodotte, la pedagogia, il remake. Sembrano queste le linee guida della recente edizione di Vie Festival, un’invenzione di Emilia Romagna Teatro. È difficile sempre in un festival che non dichiari un indirizzo tematico individuare fili rossi. Eppure in quest’ultima rassegna internazionale di autunno firmata dal direttore uscente Pietro Valenti, tra molti spettacoli presentati, quelle tre tracce sembrano balzare evidenti, con alcune intersezioni particolarmente interessanti, con un evidente rilievo affidato al tema della trasmissione (della didattica, della pedagogia), strategico oggi nel nostro sistema teatrale (e politico e sociale) smemorato, alla deriva. Per questo lo conservo per ultimo, affrontando per primo quello del remake, denunciando subito di non aver visto tutti i numerosissimi spettacoli in cartellone tra Modena, Bologna, Vignola e Carpi.

 

Remake: CollettivO CIneticO e Motus

 

Prendi un balletto ottocentesco, La sylphide di Maria Taglioni, 1832, e viralo (o anche solo citalo, magari insieme al suo primo remake di Fokine del 1909) in una sfilata di moda postpunk o postnerd, intrisa di umori fantasy e manga. Sylphidarium. Maria Taglioni on the Ground di CollettivO CineticO rievoca le origini della danza romantica, l’atto di affermazione del tutù e dei passi sulle punte. Francesca Pennini non solamente riapre i conti della danza contemporanea con l’avo balletto classico, come stanno facendo anche altri coreografi, per esempio Alain Platel in Nicht Schlafen: nella leggerezza sognante romantica, in una storia di amore e morte piena di esseri immaginosi, immette ginnastica, acrobatica, culturismo, peso fisico, deriva immaginativa mediatica, in un affettuoso smontaggio ironico del canovaccio ottocentesco. Introduce l’elemento di terra nello slancio aereo, mostrando la natura di freaks degli esseri magici dell’armamentario fantastico romantico. Il confronto con il diverso – interpretato attraverso corpi spesso bloccati nei loro slanci e con costumi da Conan il barbaro o da Trono di spade– salda le trasfigurazioni del passato e la freddezza matematica, algoritmica, richiesta per attraversare le seduzioni dei tempi presenti. 

 

Sylphidarium, ph Camilla Caselli.

 

Un altro remake (autoremake, in questo caso) è quello di Splendid’s di Motus, poiché la compagnia ritorna al testo di Genet quattordici anni dopo la prima versione. Come in quella, con l’attuale Raffiche. Rafales>Machine (cunt) fire siamo in una camera d’hotel dove è asserragliato un gruppo armato di mitra che ha rapito un esponente del sistema. Nel 2002 erano uomini di una banda criminale; qui sono donne che combattono per affermare la libertà queer d’identità, ugualmente in un balletto della ribellione, della tensione erotica, del conflitto, del tradimento. Sullo spettacolo torneremo in altra occasione: qui ricordiamo solo che il testo non è più quello di Genet, ma una nuova pièce scritta da Magdalena Barile e da Luca Scarlini, perché l’agenzia che gestisce i diritti dell’autore francese ha vietato il cambiamento di genere dei personaggi, un assurdo per uno scrittore che ha fatto del travestitismo e della lotta per la libertà la sua bandiera estetica. Di quel lavoro del 2002 rimangono i balletti con i mitra come figura ritmica conduttrice e l’ambientazione, a stretto contatto di pubblico, in una suite di un grande albergo (per Vie era il Carlton di Bologna, dal 5 al 7 gennaio sarà il Grand Hotel di Rimini).

 

Splendid’s rivive diverso, così come molti altri lavori del passato di Motus vengono riproposti dal vivo o in installazioni video nella rassegna bolognese Hello Stranger, che osserva dal punto di vista del presente i venticinque anni di attività della compagnia. Quello che si è chiamato “nuovo teatro”, e anche la sua “terza ondata” degli anni ’90 alla quale i Motus appartengono, è quasi banale dirlo, ha ormai una tradizione che permette sguardi retrospettivi e dovrebbe indurre analisi in profondità di quello che è stato fatto, dei muri aperti o abbattuti e delle occasioni mancate. Raffiche, con questa trasposizione-reinenzione, permette di confermare l’idea che l’ensemble riminese ha lavorato quasi sempre su una icasticità virale da rivista di moda, individuando, per ogni stagione, un tema da declinare in forme e formati glamour, intercettando un qualche “spirito dei tempi” in una bidimensionalità priva di profondità che corre omologa alla società dell’assenza, della trasparenza, del vuoto, dell’estraneità (Hello Stranger).

 

Raffiche motus, ph Endna.

 

Così in Rooms c’erano stanze di motel e vite di passaggio, in Ics si agitava il tema della gioventù no-future della nuova Europa senza identità, nei contest della ribelle Antigone, nel lavoro con Judith Malina, nella Tempesta emergevano la crisi e la reazione militante di Occupy Wall Street e degli Indignados e ora – in modo forte e spigoloso in MDLSX, come in un disincantato, ironico musical in Splendid’s/Raffiche– viene esplorato il tema del queer e del gender. Con mezzi che superano il teatro nella relazione con l’immagine riprodotta, con la musica e con playlist spesso molto heavy, con il balletto come in Raffiche, con protesi varie che mettono in secondo piano l’abilità dell’attore (e proprio in Raffiche, dove le protesi a momenti non sono sufficienti e la distanza dal pubblico è ravvicinata, alcuni interpreti di fronte al testo risultano funzionare sottotono).

 

Video teatro, film live

 

E qui siamo già passati al secondo filo del festival, anche se per via trasversale, più attraverso Motus che grazie al loro spettacolo. In Vie 2016 moltissimi sono stati i lavori che si misuravano con il video in scena, con l’immagine riprodotta in diretta o in differita, con l’immagine in dialogo con la musica. Cito solo, a quest’ultimo proposito, il concerto dei C’Mon Tigre su figure di Gianluigi Toccafondo e Più Giù di Stefano Ricci, che disegnava dal vivo, raccontando, come nel suo ultimo libro edito da Quodlibet, la madre Loredana, accompagnato da Giacomo Piermatti al contrabasso e da Antonio “Rigo” Righetti al basso.

Lo spettacolo di apertura del festival, Tristesses di Anne-Cécile Vandalem, era un thriller ambientato in un’isoletta della Danimarca. La scena era costituita di casette colorate: ciò che avveniva negli interni, nelle stradine tra l’una e l’altra, nei punti oscuri e nascosti era mostrato in video sopra la scenografia. Si trattava di una storia segnata dal fallimento dei macelli dell’isola, dalla fuga della popolazione, da intrighi di banche. Dominava la vicenda l’incombere di uno di quei partiti ultranazionalisti che pullulano in Europa facendo leva sulle conseguenze della crisi. Uno spettacolo “politico”, che avrebbe avuto bisogno del genio grottesco di Mathaler per decollare, e che invece restava ancorato a semplificazione e tautologia, nonché a una tristezza opaca di paesaggio nordico o di certi film belgi. 

 

Tristesses, ph Cristophe Engels.

 

Ben più trascinante era Kiss & Cry, un vecchio lavoro della danzatrice Michéle Anne de Mey, un curriculum che vanta presenze nella compagnia di Bejart e in Rosas di Anne Teresa de Keersameker, e di Jaco van Dormael, il regista di Toto le héros e di Dio esiste e vive a Bruxelles. Lo spettacolo avveniva tutto su schermi, per mani danzanti, per pupazzetti, stazioncine, treni giocattolo, avvolti nelle nebbie di amori svanenti, di brume o liquidi inghiottenti, di vite cui sfugge l’amore. Sul palco rumori prodotti dagli animatori e dai tecnici e un set avvolto nel buio, squarciato da lucine che si accendevano via via sui diversi soggetti, con varie telecamere che riprendevano le animazioni, creando una vicenda malinconica sullo svanire dell’amore, sul passare del tempo e il volar via della vita, in uno spettacolo seducente, coinvolgente.

Tutto in immagine si svolgeva Perhaps All TheDragons dei Berlin, ogni spettatore davanti a uno schermo in cui una persona, di varia nazionalità, raccontava una storia vera. Poi si veniva invitati, varie volte, a cambiare schermo, e così a poco a poco si creavano intrecci tra le varie vicende, rimandi e dialoghi da un video all’altro, a illustrare la legge dei sei gradi di separazione, viaggiando con ironia, in modo virtuale, tra diverse realtà, in queste intersezioni “aumentate”.

 

Belarus free theatre phalex brenner.

 

All’immagine documentaristica in scena non sapeva rinunciare Burning Doors, lo spettacolo di denuncia del bielorusso Balarus Free Theatre su repressione, incarcerazione , tortura di militanti e dissidenti nelle carceri dell’impero di Putin, un lavoro che non aggiungeva molto a quello che si conosce o la faceva a un livello superficiale, acquistando spessore solo grazie alle parole del solito Dostoevskij, insistendo sul lato emozionale più facile con corpi sbattuti, colpiti, incarcerati, tirati da corde, con colpi, sussurri e grida, giocando smaccatamente con il bisogno di adesione politica e di solidarietà del pubblico. Qualcosa di parecchio già visto dai tempi del Living e di Grotowski, mai più con l’intensità di Malina, Beck o Cieslak.

Così come finiva molto nel didattico con la ricostruzione di vari anni di lavoro con i ragazzi disadattati, prima figli di operai e altri emarginati delle periferie, poi migranti, The Misfits del Backa Theatre di Göteborg (Svezia). Un lavoro politico vecchio, un brechtismo di maniera, semplificatorio ancora una volta, che immaginiamo abbia un senso nelle situazioni di intervento, ma che a noi risulta solo, in modo esasperante, testimoniare la buona volontà di impegno sociale di chi lo svolge, con mezzi più agitatori e alleviatori di cattive coscienze che efficaci.

 

Piugiu, Stefano Ricci prove, ph Acrolando Paolo Guerzoni.

 

Trasmissione

 

Con la compagnia svedese, però, siamo sulla soglia del passaggio all’altro filone, quello della pedagogia, della trasmissione, perché si ripercorrono quarant’anni di attività mostrando anche il lavoro dei giovani inseriti nella compagnia. Terrò per ultimo il lavoro che di più secondo me attraversa le tracce individuate. Accennerò solo al fatto che il festival vive, ormai da anni, grazie a un’accorta politica di legami internazionali, in particolare con il progetto Prospero che coinvolge vari teatri del vecchio continente. Alcuni spettacoli vengono coprodotti, ridistribuendo così i costi e incrociando attori e registi di differenti nazionalità. Quest’anno erano presenti alcune scuole per attori nate all’interno del programma. Tra tutte ricordiamo, ancora, la scuola di alta formazione di Ert, quella che ha prodotto Santa Estasi di Antonio Latella, il mirabile spettacolo saga raccontato la settimana scorsa da Maddalena Giovannelli in questa rubrica, un viaggio nella tragedia greca, in alcune tragedie rese storie capaci di parlare ai nostri tempi con una lingua modernissima (sugli aspetti pedagogici del progetto si veda anche l’articolo di Renzo Francabandera su “Paneacqua culture”).

 

Santa estasi elena, ph Brunella Giolivo.

 

Antonio Latella ha formato un gruppo eccellente di giovani attori (speriamo che resti unito, che possa proseguire a rappresentare questa opera e possa cimentarsi con altre creazioni), accompagnati da un più ristretto gruppetto di giovani drammaturghi, sfidando entrambi, attori e drammaturghi, con il compito difficile di attraversare le origini del nostro teatro, la tragedia (anche questo un remake), interrogandola se ancora ha qualcosa da dire a corpi di giovani e a occhi e orecchie di spettatori dell’era liquida e virtuale. La scommessa è stata vinta, dimostrando anche come una scuola di teatro (in questo caso un corso di alto perfezionamento post diploma) debba essere legata a una pratica concreta, a compiti precisi di confronto con testi e situazioni sceniche, affrontati senza reverenze. È una strada con un bel respiro progettuale, in un momento in cui molti teatri si sono affrettati a creare, per rispondere ai requisiti della nuova legge, scuole con poca anima, che duplicano di fatto istituti già esistenti, in un settore in cui la disoccupazione, la sottoccupazione, la mancanza di orizzonti è la regola.

 

Perhaps all the dragons, ph Marc Domage.

 

Un altro passaggio pedagogico importante del festival è stato il dare palco a giovani compagnie e a drammaturghi alle prime o seconde prove, per permettere loro di confrontarsi spesso per vari giorni con un pubblico vero. Ricordiamo Allarmi! di Emanuele Aldrovandi, messo in scena da ErosAntEros, un lavoro riuscito a metà sui nascenti neonazismi. In certi passaggi risultava superficiale e prevedibile il testo, che pure riservava qualche bel colpo di scena e una buona dose d’ironia; eccessivamente stereotipata era la protagonista, che avrebbe forza drammatica se solo abbandonasse i troppo facili modelli, mentre gli altri attori riservavano prove divertenti, anche se con il rischio a volte della macchietta. Delicato e un po’ slabbrato era Deliro bizzarro di Carullo e Minasi, un viaggio in un Centro di salute mentale in cui i ruoli, a un certo punto, sembrano confondersi, ribaltarsi, invertirsi; efficace Scusate per il disagio degli Omini, prima tappa di un bel progetto sulla Porrettana, una linea ferroviaria minore, in decadenza, e sulla popolazione che la percorre e la popola ogni giorno. 

 

Giorgio Morandi – Virgilio Sieni

 

Dove vari fili si uniscono è in Ballo 1890_Natura morta di Virgilio Sieni, a un primo sguardo una sfida guascone e impossibile, quella di attraversare i quadri di Giorgio Morandi con la danza di cento interpreti: un coro, la Corale Savani di Carpi, più una cinquantina di non professionisti, di corpi normali, di varie età, belli, con la pancia, bassi, grassi, anziani, giovani, prestanti o con qualche fragilità fisica. Questo lavoro, oltre a implicare la trasmissione e la diffusione della danza, in fondo è anche un tipo particolare di remake: Sieni, con la sua Accademia sull’arte del gesto, da anni parallelamente alle creazioni con i professionisti esplora le possibilità dell’arte coreutica in varie situazioni di massa o di gruppo dove agiscono corpi normali, indagati nelle loro componenti fisiologiche e archeologiche, nelle possibilità dello scheletro, nelle fessurazioni che con il movimento espressivo si possono aprire nelle posture quotidiane. I corpi sono potenziati e portati verso una forma di bellezza democratica mossa dal desiderio di costruire una nuova comunità in divenire. Ballo 1890 (la data di nascita di Morandi) diventa una tappa, una riproposizione, una variazione di un percorso che ha accumulato già vari, differenti episodi. 

 

Motus raffiche, ph Luca del Pia.

 

L’immagine, come in altri spettacoli considerati di Vie, è anche qui elemento narrativo di riferimento, ambientazione, sfondo; a differenza degli altri però non compare in scena, ma rimane come un rimando e come un’assenza. Parlo delle figure apparentemente ferme delle tele di Morandi, le bottiglie, le ciotole e i poveri oggetti ripetuti in vari quadri dal pittore bolognese. Una serie, quella di Morandi, sempre variata, un continuo remake che apre ogni volta orizzonti imprevedibili, di composizione, di luce, di ombre, di proporzioni, proprio come nei lavori con i non professionisti di Sieni – che lui preferisce chiamare (a ragione) amatori o addirittura amatori emozionali –, creazioni in cui la grammatica e la sintassi della danza sono semplici, modulari, ma la tensione compositiva e espressiva diviene altissima.

Nello spettacolo siamo davanti a una massa che si muove su uno sfondo di suoni pulviscolari, con il muro compatto della Corale, ogni tanto riassorbito dai danzatori o pronto a incorporarli in sé. Una figura si trascina su gambe inerti, un’altra di una ragazza sottile e malferma rimane isolata, il gruppo rientra, riprende, incamera, svela un dondolare di due linee di danzatori seduti al centro che si tengono in reciproco equilibrio per le braccia, mentre la massa si chiude su di loro, poi si riapre, mette in evidenza un’anziana signora come dispersa, poi ancora l’uomo dalle gambe inerti, crea un gruppo a destra, a sinistra, poi assorbe la Corale, poi la Corale si sposta a destra, a sinistra, riemerge dalla massa, lasciando un gruppo di figure a terra che si distendono, e si rialzano, e tornano mucchio, in movimenti che si ripetono e riempiono lo spazio come il pulviscolo della luce che avvolge le opere di Morandi, i suoi oggetti, e che li staglia su quegli sfondi inerti.

 

Ballo 1890 natura morta, ph Sonia Maccari.

 

Musica fatta di piccoli moduli, ugualmente ripetuti, di parole spezzate, vocalizzate, sbriciolate dal coro diretto da Giampaolo Violi, una figura carismatica e sognante, con i lunghi capelli bianchi che con gesto ampio e saltelli abbraccia gli occhi e le voci dei suoi cantanti che ripetono, spezzano parole poco decifrabili, simili a quelle di Arvo Pärt o di qualche altro compositore nordico, e scopriremo che sono termini, frasi in dialetto, carpigiano, per non dare allo spettatore facili appigli. La semplicità del dialetto smontata, evidenziata, reso metafisico pullulare, risplendere, come fa Morandi con le bottiglie, con le stoviglie. 

Ed è un lavoro di trasmissione, di scoperta dei corpi, di ascolto: per cui per esempio vedrete aggirarsi una figura quasi immobile, semplicemente ritta, che non fa molto, ma che risalta dai controcanti degli altri ballerini. Scoperta di abilità, partendo dalle possibilità e dalle difficoltà motorie di ognuno. Tensione verso l’estremo, prestando attenzione alla verità dei corpi. Gruppi si formano e si disfano, in serie, e dalla tensione delle membra, delle figure, dalla composizione, penseresti alla pittura manierista: ma cosa c’entra il manierismo con Morandi? E invece la chiave è proprio quel ripetere, quel dare una forma artistica (là le ciotole e le bottiglie, qui i corpi, le voci e i loro movimenti in serie, con continui piccolissimi scarti) alla cosiddetta realtà, trasfigurare per elementi noti. 

 

È un lavoro, quello di Sieni, come quello di Morandi, per ricordanze tonali, con soggetti che girano al minimo, con simboli necessari, vocaboli sufficienti a evitare le secche dell’astrattismo assoluto; sullo stesso pretesto egli ha potuto rendere timbri sentimentali diversi e sempre diversamente inclinare la sua severa elegia luminosa, in un impegno d’interiorità spoglia. Quello che avete appena letto è un montaggio di frasi che Roberto Longhi usa per raccontare, a suo modo, la pittura di Giorgio Morandi, in uno scritto del 1945. Parole che si adattano benissimo al meraviglioso tentativo (riuscitissimo) di Sieni di danzare le nature morte del “monaco” di via Fondazza, che “nella sua cella è dunque il contrario dell’esteta nella sua torre d’avorio” (Longhi, ancora). Una danza che si riscopre nella sua tendenza a un’umanissima ascetica astrazione, una semplificazione che diventa complessità, pronta a narrare l’umile magnificenza del corpo e degli incontri che permette; una danza che si trasmette, che diventa comunità accompagnata dal suono muro, dal suono culla, dal suono viaggio fisico e interiore della Corale Savani. Per finire, tutti insieme, ballerini e coristi, con le mani alzate, nella luce corpuscolare, crepuscolare, come in un atto di resa, come in un supplizio, o come piuttosto in un abbraccio di accoglienza della luce stessa, del respiro, del ritmo, del mondo.

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Teatro internazionale con Ert

Siamo i più intelligenti del reame?

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«Specchio, specchio delle mie brame, chi è il più intelligente del reame?». Sembra sia questa la domanda che oggi ossessiona etologi, evoluzionisti e neuroscienziati. Ne è convinto Frans de Waal, etologo e primatologo olandese di fama internazionale che all'intelligenza degli animali ha dedicato un saggio molto interessante e altrettanto piacevole: Siamo così intelligenti da capire l'intelligenza degli animali? (Raffaello Cortina). Finito, e speriamo per sempre, il tempo in cui, con stentorea e ottusa fermezza, si dichiarava che senza alcun dubbio gli uomini sono più intelligenti delle donne e i bianchi lo sono più di tutti gli altri; oppure – suscitando meno sgomento – che il cane lo è più del gatto, l'attenzione degli studiosi di scienze naturali sembra essere tutta presa a dimostrare che, almeno, l'essere umano è più intelligente degli altri animali. 

 

Intelligente, certo, ma anche un po' ondivago. Un tempo, infatti, dire più intelligente degli altri animali, e non semplicemente degli animali, sarebbe stata un'affermazione intollerabilmente offensiva per orecchie umane, perché implica che gli uomini appartengano al mondo animale. Per questo motivo de Waal sostiene che in realtà, «il confronto non è fra gli esseri umani e gli animali, ma fra una specie animale – la nostra – e una grande varietà di altre». Oggi le cose sono molto cambiate. Il nostro punto di vista sugli animali, il modo in cui li percepiamo e ci rapportiamo con loro deriva dalla consapevolezza che non abbiamo di fronte, come si pensava un tempo, delle sorte di «macchine stimolo risposta» o dei «robot dotati geneticamente di istinti utili». Come potremmo vederli così quando sappiamo, afferma de Waal, che i ratti possono pentirsi delle decisioni prese e le cornacchie sono in grado di usare e addirittura costruire utensili, o che i polipi riconoscono le facce mentre le scimmie hanno neuroni che «permettono alle une di imparare dagli errori delle altre»?

 

 

E qui il nostro atteggiamento ondivago: non solo oggi i media pubblicano sempre più informazioni, storie e video in cui si mostra quanto gli animali ci assomiglino, ma escono articoli e studi – sempre scientifici e sempre di prestigiose università, soprattutto americane – che ci instillano piano piano il dubbio che forse siamo meno intelligenti di loro. Uno recente, ad esempio, sostiene che i cani non ubbidiscano ai comandi dei proprietari quando questi danno ordini non intelligenti (per fortuna il mio cane di solito mi ubbidisce!). De Waal non ritiene corretto questo modo di confrontarsi con gli animali in termini gerarchici, perché ogni specie ha le sue proprie competenze, ma ritiene che la cognizione umana – intesa come la capacità di trattare le informazioni a proprio vantaggio – sia una varietà della cognizione animale. Condivide, dunque, l'opinione darwiniana secondo cui «la differenza mentale tra gli esseri umani e gli altri animali [è] di grado e non di genere».

 

L'ostacolo fondamentale che si frappone allo studio e a una corretta valutazione dell'intelligenza animale, secondo de Waal è il nostro antropocentrismo. Da millenni siamo abituati a pensare il mondo biologico collocandolo su una scala naturae elaborata da Aristotele, sulla quale al gradino più alto stanno gli esseri umani poi, via via, scendendo, tutti gli altri, dai più simili a noi fino ai più diversi, come insetti e molluschi che occupano i gradini più bassi. Tendiamo, perciò, a valutare ogni altra specie in rapporto a noi stessi: quanto è più simile a noi, tanto più ci sembra intelligente e capace. Di conseguenza commettiamo l'errore di valutare gli animali in base alle nostre capacità invece che in base alle loro, mentre «l'unico modo per apprezzare pienamente l'intelligenza animale» è di guardare il mondo come lo guarda l'animale stesso, considerando l'ambiente in cui vive, le sfide che gli pone e il modo in cui le affronta e le risolve, perché gli animali di norma «sanno solo quello che hanno bisogno di sapere». Questo problema, afferma de Waal, è molto importante soprattutto per quanto riguarda la preparazione di test adeguati: «Come si fa a sottoporre a un test del quoziente d'intelligenza uno scimpanzé – o un elefante, o un polpo, o un cavallo?... I dettagli metodologici sono molto più importanti di quanto tendiamo ad ammettere, cosa che è particolarmente pertinente quando confrontiamo specie diverse.» Si è visto, per esempio, che i ricercatori maschi provocano una condizione di stress nei topi, il che non accade quando gli esperimenti sono condotti da ricercatrici; la cosa ha probabilmente a che fare con il loro diverso odore.

 

Ne consegue che i risultati dei test condotti dagli uomini e dalle donne sono diversi. È solo un esempio tra i tanti che de Waal riporta per sottolineare la necessità di sottoporre gli animali a test che siano in accordo con la loro biologia e lascino sullo sfondo il ricercatore: «Solo sottoponendo a test scimmie con scimmie, lupi con lupi e bambini con adulti umani, noi possiamo valutare la cognizione sociale nel suo contesto evoluzionistico originario». Per dirla in altre parole, se gli scimpanzé conducessero un esperimento su dei bambini per valutarne le capacità rispetto a quelle che per loro, gli scimpanzé, sono importanti, i bambini molto verosimilmente non li supererebbero. Parafrasando il titolo del saggio di de Waal, possiamo chiederci se gli scimpanzé sarebbero così intelligenti da capire l'intelligenza umana! Il punto non è questo, evidentemente, ed è indubbio che gli altri animali non sono in grado di valutare la nostra intelligenza, mentre può essere vero il contrario. Però, avverte de Waal, per capire l'intelligenza degli altri animali non bastano la nostra intelligenza e la nostra ingegnosità, ci vogliono anche onestà intellettuale, apertura mentale e rispetto per loro. 

 

Opera di Ericailcane.

 

Negli ultimi decenni gli etologi hanno studiato il comportamento di diversi animali – primati soprattutto, ma anche delfinidi, balene, corvidi, fino ai molluschi dei quali il polpo ha rivelato cose davvero sorprendenti – sia nel loro habitat sia in cattività. De Waal è diventato famoso per i suoi studi sul comportamento sociale dei primati che l'hanno convinto della loro capacità di risolvere conflitti, di provare empatia, di sapersi mettere nei panni di un altro, di condividere e di cooperare per raggiungere un fine comune. Tanto da ritenere possibile parlare di qualche forma di autoconsapevolezza e di comportamenti che non possono non suggerire un germe di cultura in alcuni primati. Questioni molto sottili e tecniche sulle quali l'accordo anche tra gli scienziati è molto difficile, anche perché spesso è imbastito di questioni interpretative soggettive. Complesso è, ad esempio, il tema del linguaggio considerato generalmente il tratto distintivo dell'umanità e al quale si lega strettamente quello della coscienza, come abbiamo visto parlando, su Doppiozero, del saggio del neuroscienziato Joseph LeDoux, Ansia– un libro in cui si possono trovare punti di vista diversi da quelli di de Waal e altrettanto interessanti. De Waal si dichiara scettico riguardo al ruolo del linguaggio e afferma: «La mia diffidenza nei confronti del linguaggio è ancora più radicata, non essendo io convinto del suo ruolo neanche nel processo di pensiero.

 

Non sono sicuro di pensare con parole e mi pare di non avere mai sentito alcuna voce interiore». Un'affermazione forse un poco provocatoria, che l'autore mitiga poche pagine più avanti asserendo: «Non mi sentirete dire spesso cose come queste, ma io ritengo che l'uomo sia l'unica specie linguistica. Sinceramente non abbiamo prove di una comunicazione simbolica ricca e multifunzionale come la nostra al di fuori della nostra specie. Questa sembrerebbe la nostra fonte magica, quella da cui scaturisce qualcosa in cui siamo eccezionalmente bravi... Uno scimpanzé non ha alcuna possibilità, a posteriori, di spiegare come siano andate le cose… ho fatto mia l'opinione piuttosto semplice che il primo e principale vantaggio del linguaggio sia quello di trasmettere informazioni che trascendono il qui e ora…».

Il libro di Frans de Waal ci spinge a riflettere su quanto sia ingiusto e superficiale il modo in cui ci rapportiamo agli altri animali. Nei loro confronti pecchiamo di crudeltà e di superbia. Dobbiamo cambiare atteggiamento, il che non vuol dire umanizzare gli animali – un'altra forma di disprezzo venato di condiscendenza – né diventare vegetariani, anche perché come molti di loro siamo carnivori.

 

Significa rispettarli, capire che abbiamo delle responsabilità verso di loro come verso tutto il creato. Se davvero pensiamo di essere i più intelligenti del reame questa intelligenza superiore deve manifestarsi per quello che veramente implica: abbiamo più responsabilità di tutti gli altri. Nel mondo antico, animista, si cacciavano gli animali ringraziandoli perché il loro sacrificio permetteva agli uomini di vivere. Oggi gli animali domestici sono trattati come figli, mentre altri animali d'allevamento sono costretti a vivere vite tremende per essere poi uccisi senza alcun riguardo per le loro sofferenze fisiche e la loro paura. Questo non è degno di un essere umano consapevole e intelligente. Io non dimenticherò mai il senso di vergogna che ho provato guardando negli occhi un orango chiuso in una gabbia allo zoo di Berlino, molti anni fa: mi guardava con un dolore e un disprezzo che mi hanno costretta a distogliere lo sguardo. Ma cos'è che ci rende umani?

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Umani e animali: diversamente intelligenti

Jean Talon, Incontri coi selvaggi

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È quando perdono qualsiasi significato credibile che le parole acquistano una seconda esistenza, integralmente poetica. Un po’ come accade alle vecchie monete nelle collezioni numismatiche. Un tempo valevano determinate quantità di cibo, di stoffa, di terreno coltivabile, e adesso eccole qui, coi profili dei tiranni e gli animali araldici, capaci al massimo di valere altri soldi, esiliate per sempre dai confini della vita. Non molto diverso è il destino di tutte quelle parole destituite di fondamento da veri o presunti progressi delle conoscenze. Fanno tutte parte, almeno in potenza, della letteratura perché solo un timbro personale, un allegro o disperato soggettivismo, può conferire loro una parvenza di animazione. Fra questi zombie lessicali, «selvaggio» è una vera risorsa per l’immaginazione. Una delle caratteristiche più attraenti della parola, è quella, abbastanza palese, di essere moralmente riprovevole, per i noiosi motivi che tutti sanno. Non solo non è mai esistito un solo selvaggio se non nella mente malata dell’uomo bianco, ma è risibile lo stesso concetto di «stato di natura», con il suo corollario del «buon selvaggio». Solo i mentecatti credono buona la natura, e comunque la natura – questa indomabile e malvagia psicotica – non ha mai insegnato all’uomo nulla di buono.

 

Ma è proprio su questa tabula rasa che il fantasma del selvaggio, escluso dal reale, diventa un ottimo espediente letterario. Soprattutto in senso comico o ironico, come dimostra Jean Talon nei suoi avvincenti Incontri coi selvaggi (Quodlibet, pp. 204, euro 15): uno di quei rarissimi libri contemporanei che addirittura, giunti all’ultima pagina, si vorrebbero più lunghi. Talon coglie perfettamente l’aspetto comico della questione. Come si sa, il comico è il più conservatore dei registri artistici: nel senso che si avvale di espedienti eterni, che poi sono gli unici efficaci. Se leggiamo Euripide, o lo vediamo a teatro, difficilmente proveremmo qualcosa di simile alla catarsi di Aristotele – non sappiamo più nemmeno cosa significhi realmente la parola. Aristofane, invece, in mano a un buon regista, fa ancora ridere, eccome. Ora, uno dei trucchi più eterni ed efficaci del comico è il totale sovvertimento di tutta la sfera del reciproco comprendersi. E Jean Talon ha buon gioco nel pescare i materiali dei suoi racconti nelle relazioni di viaggi in paesi remoti, e poi nei diari e nei libri di etnografi, esploratori, antropologi. Si va dalle memorie di Alvar Nunez Cabeza de Vaca, partito nel 1527 alla scoperta della Florida, fino ai Cannibal Tours organizzati alla fine del secolo scorso da agenzie che promettevano ai clienti «il viaggio più esotico che si possa fare al mondo». Ma il risultato è sempre lo stesso: si potrà pure ritornare a casa sani e salvi dal «mondo selvaggio», il che è già molto, e magari pure con un bagaglio di conoscenze tutt’altro che trascurabili. Ma l’ombra di un beckettiano fallimento incombe, a conti fatti, su tutti questi incontri ravvicinati con l’alterità. Da questo punto di vista, il libro di Talon (non so quanto volontariamente) potrà essere interpretato come una salutare antidoto a tutta quell’aura di sublimità che una certa nobile filosofia, soprattutto francese, ha attribuito ai concetti di «altro», «alterità» e così via. Fondare un’etica e una visione del mondo sul presupposto della bontà dell’«altro» è una follia uguale e contraria al pregiudizio sulla sua malvagità.

 

 

Talon si ritaglia uno spazio narrativo vagamente fantozziano, libero da questa opprimente alternativa, nel quale l’«altro» è qualcuno che fa ridere o, in alternativa, qualcuno che ti piglia per il culo. Questa è la vera utopia, il paradiso in terra. Tanto più che il non comprendere, o se vogliamo la comprensione parziale e deformata, sarà un problema dal punto di vista angustamente scientifico, ma è capace di creare meravigliose mitologie. Si legga in questa chiave il capitolo del libro di Talon intitolato Bronislaw Malinowski e l’amore libero. Vivendo tra i nativi dell’arcipelago delle Trobriand, Malinowski scoprì, o pensò di scoprire, una società così libera dal punto di vista dei costumi sessuali da giustificare lo scalpore suscitato, ben oltre i confini accademici, dal suo capolavoro, La vita sessuale dei selvaggi, pubblicato nel 1929. Un freudiano geniale e poco ortodosso come Wilhelm Reich non aspettava altro che una documentazione del genere per elaborare le sue teorie sulla morale sessuale coercitiva. In realtà, quella documentazione era tutt’altro che oggettiva. Stranamente, lo stesso Reich non sospettò nemmeno l’ombra di una gigantesca proiezione. Quanto alla libertà, quei melanesiani vivevano in un reticolo di tabù diverso, ma non meno coercitivo di quello di moltissime società. Il fatto è che la libertà sessuale è un fatto possibile, ma meramente individuale: nessuna società è in grado di promuoverla. L’errore, come sempre, era nel tipo di domande che lo studioso poneva ai suoi informatori. Decenni dopo, qualche vecchio nativo si ricordava ancora di quel bizzarro uomo bianco che, a differenza dei missionari, continuava a fare domande imbarazzanti sul sesso: non tanto imbarazzanti, però, da far rifiutare ai nativi il tabacco offerto in cambio delle interviste. In qualche modo, siamo tutti trobriandesi, perché se siamo trattati bene, tendiamo a rispondere a chi ci interroga fornendogli proprio le informazioni che vorrebbe sentire.

 

Come se ne esce? Ne esce solo chi ha la saggezza di cominciare la sua ricerca solo dopo aver capito qual è la domanda giusta. Una sola assenza mi ha stupito nel libro di Talon, quella del grande Marcel Griaule, lo studioso della cosmogonia dei dogon del Mali, l’autore di Dio d’acqua. Mi aspettavo di trovarlo in Incontri con i selvaggi perché Talon, prima di diventare uno scrittore, ha rivestito i panni, non meno difficili da indossare, di personaggio di un libro altrui. È lui infatti il deuteragonista, o se si vuole la «spalla», delle strepitose Avventure in Africa di Gianni Celati. Ad ogni modo, Griaule aveva trovato una chiave per entrare in una delle culture più enigmatiche e diffidenti del mondo, e questa chiave non era una teoria o una scoperta, ma una domanda da porre. «Chi viene a bere il sangue dei sacrifici?» Quando i sapienti dogon si sentirono interpellati in quel modo, capirono che parlare con quel francese armato di taccuino e matita non sarebbe stata una perdita di tempo. Noi passiamo la vita a cercare risposte, e poco ci occupiamo di come formulare le nostre domande. Ed è per questo che il nostro tempo trascorre nell’ignoranza. I Griaule si contano sulle dita di una sola mano: e non sto parlando dell’antropologia, ma del sistema delle conoscenze in generale. Tornando al libro di Talon, mi colpisce l’unico caso di autentica empatia e reciproca comprensione che ci viene raccontato. Perché da una parte c’è un uomo, il grande esploratore artico Knud Rasmussen, e dall’altro un tipo molto particolare di «selvaggio»: un orso bianco. Quella di Rasmussen inizia come una storia di caccia. Ma a un certo punto, la situazione cambia radicalmente, perché il cacciatore e la bestia cacciata si ficcano in un guaio letale per entrambi. E mentre lottano per la vita, Rasmussen scorge negli occhi dell’orso qualcosa che non avrebbe mai immaginato di vedere: la riconoscenza.

 

Cosa ci vuole dire Talon, infilando questo aneddoto nella sua raccolta di incomprensioni? È più facile intendersi con un orso bianco che con un qualunque bipede appartenente alla razza umana, che sia un cannibale della Nuova Guinea o nostra moglie? È un bel tema da meditare, mi sembra. Che l’uomo sia l’unico animale dotato di linguaggio ce lo insegnano a scuola; che poi capisca quello che dice e quello che ascolta, è tutta un’altra faccenda. 

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L'altro che ci fa ridere

Genitori a scuola

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“Il mondo esiste solo grazie al respiro dei bambini nelle scuole,” dice una massima ebraica, in cui l’immagine chiave è nelle scuole, cioè nel sociale del bambino. Questa massima è contenuta nella raccolta di leggi ebraiche Yoreh Deah (245:5) ed è scritta da Rabbi Jacob Ben Asher. Il respiro del bambino sono le sue scoperte, invenzioni, acquisizioni: cose di cui i genitori vanno fieri, pur non essendo sempre disposti a considerare che non è per i genitori che lui “respira”. Il respiro del bambino è per il mondo. Ci immaginiamo di doverlo proteggere dal mondo, mentre lui sta già imparando quel mondo che lui – non noi – abiterà, quello che lui – non noi – dovrà modificare anche con la sua sola presenza. Mentre noi quel mondo che temiamo per lui – ma che non temevamo affatto per noi – lo vorremmo dimenticare, tenere fuori dalla porta. 

 

Non è solo a causa del degrado del suo funzionamento che oggi la famiglia non riconosce piú la scuola come altra agenzia educativa: la realtà piú segreta è che la sente come competitiva, come uno sgradito limite al familiare. I genitori sembrano non amare il relazionarsi con un contesto che non sia una copia fedele dei propri valori interni. Alla scuola si è persino chiesto di evitare i compiti nel fine settimana e, per appoggiare tale richiesta, i sostenitori hanno riesumato una circolare ministeriale del 1969, fortunatamente divenuta inapplicabile: evitare i compiti a casa è avallare l’ingiustizia sociale che favorisce gli allievi provenienti da famiglie piú colte, che beneficiano di un quotidiano allenamento a una lingua piú corretta e a concetti piú complessi. Il senso di questa pretesa sembra essere che nei giorni festivi i genitori vogliono godersi i bambini senza interferenze scolastiche. I compiti possono significare che nemmeno per i genitori è vacanza, ma solo se essi assumono un atteggiamento di continuo affiancamento.

 

Opera di Loretta Lux.

 

A lasciare i ragazzi soli con i loro compiti si temono brutti voti – che, peraltro, non hanno mai ucciso nessuno – mentre li si priva dell’esercizio dell’autonomia e della responsabilità, con danno ben maggiore. 

Per evitare il confronto con gli altri educatori, visti come concorrenti di cui diffidare, c’è addirittura chi fa scuola in casa, l’homeschooling, con i genitori come docenti. Non si tratta piú solo di un’eccentricità di alcune famiglie americane che vivono lontane dai centri abitati, ma sta diventando uno status frettolosamente riconosciuto anche da governi di paesi che non hanno le difficoltà di spostamento dovute ai grandi spazi. È legale anche in Italia: è sufficiente sostenere un esame finale alla scuola pubblica, ed è possibile fino alla terza media. In Groenlandia, invece, che pure ha il problema delle grandi distanze, è illegale; la scuola a casa è vietata anche in Svezia, che l’ha proibita nel giugno del 2010: forse perché questi paesi già conoscono le conseguenze psichiche dell’isolamento. Una variante dell’homeschooling, ancora piú problematica, è l’unschooling, la non-scuola, scelta da genitori che non vogliono imporre al bambino un programma, ma si lasciano guidare dai suoi interessi (!). 

 

Come può esserci formazione per un bambino confinato in un claustrum gestito da genitori full time? Quale allenamento al sapere può offrire una scuola uterinizzata? Come si dice in Africa, per fare un uomo ci vuole un intero villaggio, ci vogliono legami di alleanza oltre che di sangue, cultura oltre che natura. La rete del collettivo ha funzione di sponda allo smarrimento che ogni essere umano prova di fronte alle interrogazioni sulla vita, la morte, la sessuazione. Per questo la famiglia è insufficiente. La scuola, il sociale del ragazzo, è l’ambiente in cui non solo si forma, ma attraverso il quale può salvarsi. 

Il film Noi siamo infinito – il cui titolo originale è I vantaggi di essere un ragazzo-tappezzeriaracconta di un adolescente introverso che soffre di allucinazioni fin dall’epoca dell’incidente mortale della sua amatissima zia, sorella della madre. I due ragazzi piú in vista della scuola, fratellastri solidali, lo prendono sotto la loro ala, affezionandosi sinceramente a lui e apprezzandone l’intelligenza e le peculiarità. Anche un suo professore ne nota il talento e lo inizia alla letteratura, generando in lui il desiderio di diventare scrittore: la scuola può offrire incontri che accendono una passione e una luce. Significativamente, la piú grande scoperta intima del protagonista avviene attraverso il tempo trascorso a fare esperienze con gli amici, e nell’incontro con la sessualità: la scena in cui la ragazza che lui ama gli sfiora il sesso è quella che attiva il processo di rivelazione.

 

In quel momento, la realtà si scompone per lui in un caleidoscopio di immagini al centro delle quali vi è il gesto della giovane che si fonde con quello, sessualmente abusante, della sorella della madre. È cosí che, a posteriori, il protagonista mette a fuoco ciò che non sapeva di sapere, e cioè la terribile verità che l’amore della zia morta non era amore. Il ragazzo piomba in un delirio psicotico e l’analista che lo prende in carico in ospedale, quando lo congeda alla fine del percorso, gli dice che “se non possiamo cambiare da dove veniamo, possiamo, però, decidere dove andare”. Naturalmente, senza garanzia di arrivarci. In questo film inusuale, la famiglia resta il luogo da cui si viene, mentre quello dove si va, l’orizzonte, si gioca sul registro del collettivo. Il ragazzo diventerà uno scrittore; ciò che lo ha salvato è l’Altro, sebbene tramite un percorso doloroso. 

La passione per il sapere è eros: e l’eros è meglio non consumarlo in famiglia. 

 

Lacan ha dedicato un intero seminario alla relazione tra sapere ed eros, in cui reinterpreta la figura dell’analista attraverso Socrate e il transfert analitico alla luce di una rilettura della relazione tra Socrate e Alcibiade. Il desiderio manca sempre l’oggetto: la lettura di Kojève della dinamica servo-padrone di Hegel, assunta da Lacan, mostra l’illusione della reciprocità. Tuttavia l’eros, pur con questi limiti, è l’unico modo attraverso cui il sapere può avere effetto sulla vita, sia nella forma del sapere cosa desidero che nella domanda su cosa l’altro vuole da me: domanda destinata a non avere risposta certa, ma per investigare la quale il soggetto attiva una serie di ipotesi inconsce. In ogni caso, sembra dirci questo seminario, ogni sapere che si vuole tenere al riparo dal coinvolgimento e, quindi, da eros e pathos, è morto, vuoto. Il sapere che conta è quello che è costato la pelle, dice Lacan, non quello della prestazione, dell’informazione, dei tecnicismi o dell’obbedienza, ma il sapere legato al rischio, connesso alla passione, che contrasta l’apatia e va in un’altra direzione rispetto all’anestesia contemporanea. Nella svalutazione inconscia del collettivo da parte del discorso dominante, i ragazzi non vengono sollecitati a sentire la scuola come luogo di libertà e di futuro, in cui possono già fare esperienza di socialità e di amore per quel sapere che rende liberi. Nei discorsi familiari – anche non espliciti – la scuola è umiliata, valutata con sufficienza, degradata. La concorrenza familiare la disconosce non tanto sul piano della competenza tecnica quanto di quella educativa, perché è la famiglia che vorrebbe avere l’ultima parola sul figlio. L’asse genitore-insegnante si è infranto e il primo è intollerante alle critiche sui figli, sentite come offese personali. Se la scuola è un istituto per alcuni versi migliorabile, per altri presenta non solo isole d’avanguardia, ma anche una grande occasione per un ragazzo: il possibile incontro tra eros e sapere. 

I bambini escono poco: dopo la scuola e le attività extrascolastiche, subito a casa, o a casa dell’amico.

 

Opera di Loretta Lux.

 

Fino a poco tempo fa si giocava in cortile o nelle piazze, ma oggi i cortili sono vuoti, le piazze silenziose di voci infantili e le aree giochi deserte, a meno che non sia l’ora dell’uscita da scuola, quando, se è bel tempo, si riempiono di mamme, tate e bambini. Anche qui, la paura di ciò che c’è fuori è esagerata: gli anni settanta, per esempio, per alcuni versi erano ben piú pericolosi, ma i ragazzi vivevano fuori dalle mura domestiche. Persino nei paesini dove si conoscono tutti e il problema dell’estraneo che gira per le strade è meno avvertito, i bambini di oggi stanno in casa. Niente piú che somigli al tacito e atteso appuntamento che i ragazzini si davano al campetto, o in cortile, sicuri di trovarci sempre qualcun altro, magari l’amico preferito. Oggi un bambino quasi non sceglie piú l’amico, perché spesso se lo trova già confezionato: è il bell’e pronto figlio dell’amica della mamma o il compagno di scuola che abita vicino. Il cortile era il luogo, anche metaforico, in cui la scoperta dell’altro bambino impegnava il pensiero e modulava nuovi affetti, amicizie, incontri e anche inevitabili scontri. Era un primo allenamento alla diversità e all’implicita garanzia che il forte affetto per l’estraneo, per l’altro bambino, era consentito e normale, cosa oggi non cosí ovvia. Ho sentito genitori che cercano di ridimensionare i sentimenti dei figli verso i compagni di giochi, banalizzandoli perché fugaci, o arrivano addirittura a svilirli perché nessun amore sarebbe paragonabile, per intensità e durata, a quello di un genitore (!).

 

Dal mio osservatorio vedo che anche molti genitori delle coppie “alternative” sembrano essere toccati da questa claustrofilia: focalizzandosi sui bambini trasmettono l’idea che ciò che conta avviene dentro, non fuori, e con ciò dimenticano che è stato proprio il collettivo, l’esporsi nella sfera sociale, che ha permesso loro di esistere in termini di riconoscimento pubblico. 

L’uomo non ha mai vissuto in una società tanto allertata sul tema della sicurezza e al tempo stesso tanto sicura come quella attuale. A questo proposito, una curiosità: in Francia, all’apertura dell’anno scolastico 2014-’15, ha cominciato a circolare la pubblicità di un giaccone integrato in un sistema di tracciamento GPS, in modo che i genitori possano sorvegliare gli spostamenti dei figli. L’indumento è stato opportunamente ritirato dal commercio dopo qualche mese. L’essere controllati come sorvegliati in libertà vigilata non insinuerà in loro un sottile ma atroce legame tra controllo e amore? 

La claustrofilia passa anche nei corpi: nella mia altra attività, quella di insegnante di canto, negli ultimi anni noto tra i ragazzi l’aumento di una particolare postura contraria a una buona emissione della voce, come fossero corpi che non mettono radici. Scrive Jung: 

 

Ci sono molte persone che non sono ancora nate. Sembra che siano qui e che camminino ma, di fatto, non sono ancora nate perché si trovano al di là di un muro di vetro, sono ancora nell’utero. Non hanno ancora creato un collegamento con questo mondo; sono sospese per aria, sono nevrotici che vivono una vita provvisoria.

 

Questa non-nascita l’ho notata tante volte nei piedi che ho definito “volanti”, quelli che non toccano mai bene la terra; corpi poco radicati perché mai staccati dall’origine. Per nascere occorre abbandonare l’utero, la casa, per abitare il mondo e non per starci “provvisoriamente”, come se si fosse ancora in una sospensione amniotica. È la paura che ci fa valorizzare esclusivamente la casa che, come un’ambra, è attraente ma, al pari di un insetto fossile, il figlio lí incluso è morto.

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Claustrofilia

“Freaks” di Tod Browning

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Da tempo, ormai, storici come Tom Gunning o Vanessa Schwartz hanno rintracciato le origini dello spettacolo cinematografico in quel peculiare intreccio fra il positivismo dei gabinetti scientifici e le trovate spettacolari dei circhi, dei vaudeville, delle Esposizioni Universali. È un'epoca in cui, come ricorda Gian Carlo Roscioni, trionfa «quel gusto per il laboratorio come spettacolo», dove «dietro la facciata della divulgazione – ostentata in ossequio alla nuova fede nella tecnica e nel progresso – si nasconde la rinascita di una “curiosità” che poco o nulla ha di scientifico». Come nell'American Museum (1841-65) di P.T. Barnum, nel quale ci si sforza di “re-incantare” una Natura ormai quasi del tutto “disincantata” dalle scoperte scientifiche. È un luogo in cui vengono esibite autentiche “meraviglie” umane: il minuscolo Charles Sherwood Stratton – alias Tom Thumb – con la sua consorte, l'altrettanto minuta Lavinia Warren, i gemelli siamesi Cheng e Eng Bunker, l'ipertricotico Jo-Jo Yevtishchev, la gigantessa Anna Swan. Trovare «lo straordinario nell'ordinario»: non è forse  la stessa cosa che, secondo un celebre aforisma godardiano, farà l'obiettivo dei fratelli Lumière qualche anno più tardi?

 

A dispetto delle innumerevoli letture che se ne possono dare, forse conviene partire da qui per affrontare un film come Freaks, in questi giorni nuovamente nelle sale ad opera della Cineteca di Bologna. Racconto crudele di amori impossibili ambientato fra i carrozzoni di un circo, prima condannato e poi esaltato, avvolto in un alone di mistero (qual era il metraggio originario della pellicola? Che cosa contenevano le scene tagliate, e che fine hanno fatto? Davvero è andato tutto distrutto?), il film di Tod Browning – con i suoi tableaux vivants dei “mostri”, la sobrietà quasi documentaria, da “cine-attualità”, di molte inquadrature – è probabilmente l'estrema propaggine sopravvissuta di un “cinema delle attrazioni” già estinto, di fatto, all'epoca delle riprese.

 

https://www.youtube.com/watch?v=GEgFrVxuN50

 

L'anomalia di Freaks nel contesto della Hollywood del 1932 è talmente lampante da prestarsi con facilità a una lettura autorialista. Scavando nella carriera di Browning, in effetti, gli elementi a sostegno non mancano, dall'apprendistato circense alla sua sensibilità per l'eccentrico e l'anormale testimoniata da film come The Unholy Three (1925) o il bellissimo The Unknown (1927): tutte opere imperniate sulla deformità fisica e la “diversità”, caratterizzate dal ricorso a performance attoriali ad altissima intensità come quelle del grande Lon Chaney. Sotto questa luce, Freaks sarebbe allora il coronamento di un percorso, la summa di oltre un decennio di carriera, con Browning nei panni dell'artigiano eccentrico e a suo modo geniale che, per incoscienza o per troppo coraggio, osa sfidare gli Studios con un film talmente disturbante da meritarsi il perpetuo esilio dalla Mecca del cinema. Browning come Stroheim, dunque. Ma è davvero così?

 

Certo, che Freaks possieda una notevole carica eversiva è indubitabile. Lo dimostrano i ripetuti tentativi di disinnesco operati dalla produzione prima (che attraverso i tagli provò a riportare la pellicola nei più “rassicuranti” binari del puro e semplice horror) e dalla distribuzione poi (si veda il cartello introduttivo apposto alle copie riedite negli anni '60 per il circuito dei b-movies: «I progressi della scienza e della teratologia stanno rapidamente cancellando dal mondo questi sbagli di natura», quasi un elogio della selezione eugenetica). Anche la polarizzazione dei giudizi sul film è significativa. Al momento dell'uscita, Freaks si attirò addosso riprovazione e disgusto, oltre a diversi provvedimenti di censura (il più celebre, forse, è quello trentennale imposto in Gran Bretagna). In seguito, dopo una fortunata proiezione a Cannes nel 1962 e il progressivo emergere della controcultura, che ne fece uno dei propri cult movies, il film di Browning è stato generalmente accolto come una denuncia della “mostruosità morale” dei “normali”, in contrapposizione alla schietta umanità dei “mostri”: lo proverebbero, fra le altre, le immagini della dolce M.me Tetrallini circondata dai suoi pupilli, «innocenti come bambini», protetti dallo sguardo benevolo del Creatore. 

 

 

Tuttavia, entrambe le letture non esauriscono la complessità del film: anche la seconda, ormai fatta propria dai manuali di storia del cinema, suona un po' troppo semplicistica e “politicamente corretta” per convincere fino in fondo. Non siamo lontani dall'ipocrita elogio della diversità pronunciato da Cleopatra, la trapezista: «Non c'è niente di bello quanto l'essere diversi!». Forse ha ragione Leslie Fiedler quando scrive, in un volume indimenticabile dedicato all'argomento: «Mi sembra che tutto sommato nessuno possa occuparsi dei freaks senza sfruttarli in qualche modo per i propri fini. Nemmeno io». E, aggiungo, nemmeno Browning.

 

La ricchezza e la bellezza di Freaks, infatti, risiedono tutte nella sua ambiguità di fondo. Da un lato, il regista sembra voler sistematicamente frustrare ogni possibile spettacolarizzazione delle difformità dei suoi interpreti (e difatti buona parte del film si affida ai toni della commedia, persino con più o meno espliciti richiami erotici, non certo a quelli dell'horror), suscitando disagio nello spettatore: che cos'ha di diverso la sua vita da quella di questi individui eccezionali? Al tempo stesso, non rinuncia fino in fondo al piacere del numero, dell'attrazione. Rivedendo Freaks, un momento mi ha colpito in modo particolare. È in una delle sequenze più celebri del film: quella in cui “Prince” Randian, il torso umano, trasforma un'operazione di quotidiana banalità, com'è quella di accendersi una sigaretta, in una vera e propria dimostrazione di destrezza. Un attimo dopo aver aperto la scatola dei fiammiferi, lancia un fugace sguardo (neanche tanto fugace, a pensarci bene: difficile dire se sia intenzionale o no) verso la macchina da presa. Quasi volesse assicurarsi che lo spettatore del film, come quello di un qualsiasi freakshow, stia guardando bene, che non si perda nemmeno un secondo del suo numero più unico che raro. Oppure no, niente di tutto questo: l'occhiata di Randian è invece il muto rimprovero nei confronti del pubblico, al suo sguardo ingordo di meraviglie e orrori, al suo voyeurismo. Quale che sia il suo significato, è uno sguardo che riassume bene la posizione dello spettatore nei confronti di questo film, costantemente sospeso fra partecipazione e curiosità morbosa – per questo ci turba.

 

 

Ma è soltanto voyeurismo il nostro, o forse c'è una ragione più profonda ad attrarci (e turbarci) nel film di Browing? Se lo è chiesto anche un grande lettore/decifratore d'immagini come Jean Louis Schefer nel suo L'uomo comune del cinema. Davanti a Randian e al suo numero si domanda: «Questo coso è ancora un uomo? Questo essere ridotto a un membro e a un'azione […] minaccia in noi l'ultimo resto d'umanità. […] Noi siamo “questa cosa”». Il corpo del freak “eccede” (per eccesso o per difetto) l'umano, ne è una rappresentazione distorta, ancorché riconoscibile – e per questo ancora più inquietante. «Di fronte a lui [il tronco umano] sentiamo che le nostre membra si serrano e le nostre braccia aderiscono al corpo», scrive ancora Schefer, quasi intravedendo in questa «larva veterana» una possibile fantasia (o incubo) di regressione a uno stadio pre-umano. Viene in mente un grande ammiratore del film di Browning come Werner Herzog, che durante le riprese di Anche i nani hanno cominciato da piccoli, la notte si svegliava di soprassalto per controllare, in preda al terrore, di non essere rimpicciolito durante il sonno. 

 

 

E se invece che pre-umano, il freak anticipasse l'uomo del futuro, il post-umano? Un'umanità – pardon, una post-umanità – composta esclusivamente da uomini-gallina o da nani? Forse è questa l'ipotesi che ci spaventa davvero. È ancora una volta Schefer a suggerirlo, di fronte a un'altra celebre scena del film, forse la più famosa di tutte. La crudele Cleopatra ha deciso di sposare per interesse il nano Hans, da sempre innamorato di lei (ma lo spettatore già sa che la donna ha intenzione di assassinarlo per impossessarsi dei suoi beni). I freaks organizzano un sontuoso banchetto in mezzo alla pista del circo: «Gooble- gobble! Gooble- gobble!», cantano i commensali, con una filastrocca destinata a grande fortuna. «L'accettiamo, è una di noi, una di noi, una di noi!». Ma quando Cleopatra viene invitata a bere dalla coppa dell'amicizia che le viene offerta, si ritrae inorridita: «Freaks!», grida, rovesciando il contenuto delle coppa addosso agli invitati sbigottiti. Che si sia resa conto d'essere al cospetto di un'umanità più “evoluta” della sua? «Abbiamo abbandonato il corpo degli animali preistorici», scrive Schefer, «ma solo a costo di certi organi della vista e dell'udito, d'incalcolabili capacità di strisciare, di antenne vibratili, di straordinari prolungamenti di nervi, di branchie […] Essi [i freaks] si sono trasformati in fretta, molto più in fretta di noi stessi. […] Aspettano il loro mondo, un mondo che tarda a nascere – dov'è l'orrore?». Già, dov'è?

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“One of us! One of us!”

Mi fa male Chioggia

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Le carte geografiche, come si legge, alla voce omonima, nel “Nuovo soggettario Thesaurus” della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze – sì, al plurale –, sono Rappresentazioni approssimate, ridotte e simboliche della superficie terrestre, o di una sua parte, su un piano, con lo scopo di farne conoscere l’aspetto fisico, le divisioni politiche, i fatti economici o altre caratteristiche, le condizioni storiche di un determinato periodo, etc., indipendentemente dalla scala utilizzata. Senza scomodare (troppo) Tommaso d’Aquino che definiva rappresentazione quella facoltà, distintiva dell’intelletto, di contenere, per analogia o similitudine, l’immagine di una cosa qualsiasi, visibile o invisibile esistente fuori o dentro di esso, possiamo concordare che non sono possibili rappresentazioni neutre di nessuna cosa nel mondo e fuori, e neppure rappresentazioni neutre del mondo stesso. Né quando la rappresentazione si ferma all’intelletto, né quando la rappresentazione di un singolo intelletto, si renda visibile, e addirittura condivisibile, da altri intelletti. Costruire una carta geografica significa, in particolare, scegliere nella varietà del mondo vasto e largo cosa rappresentare e come, cosa inserire nella mappa e cosa lasciare fuori. 

 

Una carta è dunque, prima di tutto, l’espressione di un desiderio (anche in senso proprio, costruire una carta geografica che consenta di raggiungere le Indie, trovare il tesoro, arrivare a un appuntamento), ed è l’ostensione, la forma bidimensionale della memoria.

Julie Polidoro dipinge e disegna carte. Ciò che appare evidente è il tentativo di, e per meglio dire, la tensione a (termine più accosto a desiderio) disegnare mappe che siano rappresentazione non delle cose del mondo, non della loro posizione, ma delle relazioni tra oggetto e oggetto, luogo e luogo, perché c’è sempre qualcosa che si frappone tra la conoscenza e l’oggetto osservato: il tempo.

In questa accezione e riprendendo la definizione in apertura, le mappe di Polidoro sono rappresentazioni approssimate, ridotte e simboliche della superficie terrestre e di sue parti, su una tela, con lo scopo di mostrarne l’aspetto fisico, il portato emotivo, la visione politica, le intermittenze dei sensi, le rivoluzioni (primariamente in senso astronomico) del desiderio, le facciate (primariamente in senso architettonico) della memoria. L’ordine di grandezza che Polidoro sceglie, il suo fattore di scala – il suo metro di Duchamp – è l’essere umano. 

 

[ma si dica del tempo]

 

In una rappresentazione lineare del tempo c’è uno zero – un artificio, come ogni inizio, il punto dal quale il tempo comincia a scorrere e a essere misurato. Dallo zero, il tempo corre verso una fine, perché ha una direzione. Nell’opera di Julie Polidoro è possibile osservare almeno un’altra rappresentazione del tempo.

In Gribouillage: 24 couleurs pour 24 positions/temp [2013, crayons de couleurs et encre sur papier coton encadré, 60x80 cm], vengono rappresentate, sovrapponendole, 24 posizioni di uno stesso mappamondo, ciascuna posizione con un colore diverso, così che togliendo un colore alla volta, sarebbe possibile tornare indietro, nel punto del tempo dove si è tracciato il primo profilo, e nella posizione in cui si trovava il mappamondo. Il futuro dunque, che è il presente di chi guarda, e il passato di chi ha tracciato i profili, è una somma discreta di presenti, uno sopra l’altro, uno dopo l’altro. Il tempo si accumula e si avvolge come in un gomitolo. Questo futuro dato da un affastellamento di presenti è libero delle attese e delle aspettative, c’è di volta in volta, tanto che del presente serba la leggerezza nella quale esistono il gesto e il corpo. La permanenza dell’attimo, temuta da Faust, viene attuata attraverso una ripetizione. Sulla tela rimane la relazione col tempo di chi dipinge. E di chi guarderà.

 

Ri-essere non è un problema.

In tre dei quadri esposti nel 2011 ai Frigoriferi milanesi, la struttura accumulativa del tempo inscenata da Polidoro continua a rivelare, per gioco combinatorio, la sua forma circolare. Nelle tre tele dai titoli, Today is Yesterday’s Tomorrow, Yesterday is Today’s Tomorrow e Tomorrow is Today’s Yesterday [http://juliepolidoro.com/index.php?/recentwork/unstretched-canvas-ii/] rappresentanti cieli nuvoli ma tutt’altro che minacciosi (cieli che Credi di guardare e ti rammenti, con una piccola variazione su un tema classico di Baudrillard), il tempo si rincorre (oggi è ieri di domani, ieri è oggi di domani, domani è oggi di ieri), così che dal passato si vede il futuro, e viceversa. Così che tra il passato e il futuro non intercorrono nessi causali. Il passato e il futuro sono facoltà dell’occhio di chi guarda. Il tempo scelto da Polidoro, presentifica, non qualcosa che accade ma qualcuno che accade. Il rapporto tra il pittore e l’oggetto. Il rapporto tra lo spettatore e l’opera. Ora.

 

[e lo spazio?]

 

Lo spazio in Polidoro è funzione del tempo. La serie Tous le pays du monde en contact (2011-2014) parte da una tela sciolta in cui i paesi colano uno sull’altro (I – tecnica mista su tela di lino, 128 x 43 cm) lungo le piegature della stoffa sulla quale Polidoro dipinge, e si completa in quattro quadri, di formato più piccolo e intelaiati (Tous le pays du monde en contact II, III, IV, V, 2014, tecnica mista su tela, 91 x 63 cm ciascuno), nei quali quattro Pianeta Terra, in forma di mappamondo, dapprima con un reticolato di meridiani e paralleli, si compongono e colorano della sovrapposizione di posizioni successive di un mappamondo che pare girare in senso orario, ma anche in senso antiorario, secondo desiderio e occasione. 

In Tous le pays du monde en contact II, Polidoro mostra una prospettiva, ciascun paese è dipinto nella forma in cui Polidoro lo vede, in accordo alla posizione del mappamondo. La Terra, lo spazio nel quale ci muoviamo, è una funzione del tempo. La Terra, lo spazio nel quale viviamo, non esiste senza il tempo. 

 

[frigoriferi]

 

Il frigorifero è la più diffusa, economica e funzionante macchina del tempo. Al contrario del freezer, che fa subito pensare alla morte, il frigorifero tiene in sé la speranza che qualcosa si conservi e si sottragga innaturalmente ma quotidianamente alla consunzione. Il frigorifero rallenta un processo di decomposizione (che tuttavia si chiama vita). Inoltre, la contrazione dello spazio – come per chi viaggia alla velocità della luce – corrisponde a una dilatazione del tempo e così, nell’esiguo cassetto della frutta, le pesche durano più a lungo. 

I frigoriferi di Julie Polidoro – serie pittorica iniziata nel 2005 – sono carte geografiche come, io credo, sono carte geografiche tutti i dipinti di Polidoro. Non contengono solo cibi, essi sono macchine di memoria e di immaginazione (se c’è poi differenza). Ci si presentano aperti, in sezione, geroglifici quotidiani del contemporaneo. In “Frigo aperto da una bionda”, il contenuto del frigo è nascosto dal corpo di una donna che, di spalle, guarda all’interno, ed essendo nascosto, immediatamente, il contenuto si trova a essere desiderato. In “Frigo in cielo” ci sono aerei e nuvole, una famiglia di oche di Lorentz o di Nils Holgersson. In “Frigo abitato I” stanno due angioletti come in una cappella giottesca, aureolati.

Nello spazio fisico del frigorifero, e nel tempo di conservazione che ciascun prodotto ha in sorte, ci sono dunque cibi, parole, lacerti, etichette, sirene e marchi noti (Vuitton, Apple, BMW, Sony), l’hard discount di passato e futuro, di memoria, conoscenza ed esperienza al quale ci serviamo.

 

Julie Polidoro, Yesterday is today

 

E che tutto trasforma in prodotto, pure gli affetti, pure le mitologie, pure le parole che finiscono, immote, nella loro funzione di etichetta, e che, immobili, disegnano una costellazione dalla quale ciascuno può estrarre – d’altronde il portellone del frigorifero è aperto – un vaticinio o almeno un oroscopo. Le etichette recitano, a memoria o, per meglio dire, con beneficio d’inventario, “Tempo”, “privato”, “spazio pubblico”, “i nostri corpi” – più di una volta –, “invisibile”, “territori sconosciuti”. Nei “Frigoriferi” di Polidoro ci sono anche (soprattutto?) cose che non possono essere comprate ma solo consumate.

Ci sono anche un paio d’occhi, una mucca intera, ali(a), una giungla su fondo rosa, una maschera, un ventaglio e un mappamondo. Il frigorifero, nella commedia politica di dimenticanza, consumo e mutamento – non generali astratti ma particolari concreti, perché tutti abbiamo esperienza e presenza del frigorifero –, dipinta da Polidoro rispetta le tre unità aristoteliche, di luogo, di tempo e di azione. Le prime due sono costitutive. L’unità di luogo è il frigorifero, l’unità di tempo è l’intervallo di conservazione. L’ultima, l’unità di azione si ristabilisce ogni volta che l’osservatore sta davanti alla tela perché, come davanti a un frigorifero aperto e sconosciuto, egli comincia un’educata, forse silente, elencazione (ce l’ho, non ce l’ho), un gesto di puro e infantile nominalismo, e finisce a ritrovarsi nel ruolo e nella postura dell’indiscreto. 

Se, come osservava Simone Weil, il fondamento della mitologia è che l’universo è metafora delle verità divine, è possibile dire, con allegra certezza, che il fondamento della quotidianità è che il frigorifero è metafora delle verità umane. E le verità umane scadono.

 

[un’ipotesi sulle tele senza scheletro, eppure vive – performance della materia inerte]

 

Se quello che Polidoro mette in scena è una relazione sua (e pure di chi guarda le sue opere), specificata dalla contingenza che tra chi osserva e chi viene osservato c’è e passa il tempo (o tra cosa osserva e chi viene osservato come ne Le nuvole mi guardano [2009, pigment on canvas, Rome, Private Collection, 150 x 200 cm] allora il gran numero di tele sciolte, trasforma, per struttura una esposizione in una performance perché la tela, nonostante sia materia inerte, se libera di muoversi, di oscillare ai passi e alla prossimità dello spettatore, rivela colori diversi secondo l’inclinazione o l’ombra di una piegatura. 

Anche questo è un effetto, mi pare, della presentificazione del tempo di cui si è detto. La serie Folded colors fissa queste ombre, le irrigidisce, ma guadagna una dimensione fisica (perde in tempo ma guadagna in spazio), perché dalla tela si passa a una sorta di origami non figurativi. Solidi platonici scazonti che, in quanto tali, sono verità immutabili solo da un certo punto di vista, da un angolo. 

 

Julie Polidoro, Folded colors

 

[non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo noi]

 

Da bambina mia madre mi regalava molte cartine mute. Da principio, prima di capire cosa fossero e a cosa servissero, mi parevano mappe dell’Antartide. Invece erano per lo più carte geografiche delle regioni italiane e del Lazio in particolare sulle quali mamma mi faceva giocare sistemando città, paesi, paesini, fiumi e laghi, mano a mano che andava nominandoli. La geografia mi si è dunque subito presentata sia come luogo che come linguaggio (ancora non avevo letto Manganelli) e come desiderio. Per esempio, posizionavo Scauri – il paese dove vivevamo –, sempre un po’ più a nord rispetto a quanto dichiarava l’atlante, più verso il Circeo, perché mi piaceva l’oscuro promontorio che somigliava a un’isola ma non lo era. Nelle mie cartine mute e compilate, leggo a distanza di anni, questo desiderio. Ce ne saranno stati altri, forse meno evidenti o che non sono più in grado di riconoscere, e percepisco, guardando quelle cartine incerte e precise, un ossimoro, un errore di misura. 

 

Congo di Michael Crichton – una delle mie citazioni preferite – comincia con Solo un pregiudizio e un’errata lettura della proiezione di Mercatore può illuderci sull’enorme vastità del continente africano. Questo perché, se non hai un desiderio nel disegnare una mappa, lo avrai nel leggerla – voglio la cartina delle Indie per vedere come sono fatte, e seguire il corso dei fiumi con un dito. Crichton, come i bravi scrittori, non è mai solo metaforico, e dunque cominciare dalla considerazione che in una proiezione di Mercatore le dimensioni delle aree lontane dall’equatore, sono, per costruzione, esagerate. La cartografia di Polidoro – e.g. Precise scribble II, 2011, colour pencils on black paper, 150 x 188 cm  – pur utilizzando le mappe di google – basate su una proiezione di tipo Mercatore – sceglie un equatore variabile e dunque tutto, a turno, è rimpiccolito o esagerato, tutto è vicino, tutto è esatto tutto è mentito, tutto, almeno una volta, si trova ad avere la stessa dimensione del resto (Tutti i paesi grandi uguali, 2015, tecnica mista su tela, 191 x 200 cm). 

 

Poiché sono ancora una bambina o, meno vanagloriosamente, lo sono rispetto al piccolo, al grande, alla distanza, al tempo, anche per me tutto è vicino, e pertanto, mi sono ritrovata a essere un naturale osservatore delle opere di Julie Polidoro. 

Una carta in cui il principio di proiezione – Mercatore o meno – varia, è il principio di una nuova cartografia. L’idea per cui noi umani che mappiamo ogni cosa, ossessionati dalla nostra posizione nel mondo e dalla nostra distanza da ciò che amiamo o detestiamo, ci ritroviamo, semplicemente, davanti a questi quadri, come in un girotondo, ad assumere, passo dopo passo, il posto (lo spazio e il tempo) di un altro, e alla fine, per una forma di grazia, anche il nostro. Riconoscendoci e perdonandoci, a turno, siamo noi. 

 

«Le forme della natura – scrive Djerzinski – sono forme umane. È nel nostro cervello che si formano i triangoli, gli orditi e le trame. Noi li riconosciamo, li apprezziamo, ci viviamo in mezzo. In mezzo alle nostre creazioni, creazioni umane, comunicabili all’uomo. In mezzo allo spazio, allo spazio umano, noi creiamo misure, tramite tali misure noi creiamo lo spazio, lo spazio tra i nostri strumenti».

Michel Houellebecq, Le particelle elementari

 

 

Alive Fridge
3 novembre - 10 dicembre

Galerie Valérie Delaunay

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Tempo, spazio e vasetti di yogurt in alcune opere di Julie Polidoro

Ken Loach. Working class

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C'è ancora un gran bisogno di autori come Ken Loach, con la sempre più rara dote d'immergere lo sguardo tra gli strati sociali più umili, e di non perdere il contatto con una realtà che per il regista britannico ha il sapore famigliare. C'è ancora un gran bisogno che un ottantenne socialista figlio della working class ci racconti la storia di un operaio, perché a dispetto del senso comune imperante, la classe operaia non è andata in Paradiso, per citare Petri, ma è rimasta appesa in un limbo avvilente e pernicioso, indebolita da una sequela di provvedimenti politici che la stanno spogliando di molti di quei diritti che non assicurano agio e ricchezza, soltanto dignità.

 

Daniel Blake è inglese ma la sua storia potrebbe essere quella di qualsiasi esodato nostrano, persone che vivono ostaggio della burocrazia, il vero volto dello Stato dietro la maschera sempre più esile del welfare. La presunta efficienza della macchina statale mostra tutta la sua inettitudine proprio quando dei problemi di salute costringono Daniel, dopo una vita da lavoratore inappuntabile, a richiedere la pensione. Egli non può più svolgere il suo lavoro di intagliatore, ma al tempo stesso non può percepire il sussidio d'invalidità. Lo Stato non lo aiuta, anzi, lo costringe ancora a pagare la bedroom tax, eredità del governo tory di Cameron. A cinquantanove anni Daniel Blake è dunque costretto a rimettersi in gioco, frequentando corsi che gli insegnano a compilare un CV e ad apprendere l'utilizzo del computer. È interessante, nel dipanarsi di queste scene, la critica che traspare tra le righe, l'attacco fiero e deciso contro una cultura dell'omologazione. In questo senso, Loach va ben oltre le lotte operaie degli anni Settanta, e rinvia fin dal titolo, Io, Daniel Blake, a una rivendicazione dell'identità individuale. Non può esserci solo un modo, calato dall'alto, per rapportarsi con il mondo del lavoro.

 

 

Lo scenario kafkiano della vicenda aiuta a stemperare i classici temi socialisti tanto cari a Loach. Il nemico è invisibile, ma ben presente. L'inumanità non traspare soltanto dai meccanismi e dalle procedure, ma anche dai meri esecutori, fin troppo ligi al dovere, il contraltare offerto a un cast di gente comune con cui il regista ci aiuta a empatizzare, come l'impiegata Ann, che tenta ingenuamente, e con esiti sfavorevoli, di aiutarlo di nascosto. La battaglia di Daniel è solitaria, ma non priva della solidarietà dei numerosi comprimari che s'imbattono nel suo cammino, prima fra tutti la giovane madre single Katie, un'altra vittima del sistema burocratico inglese. Il cammino di Katie è parallelo a quello di Daniel, i due s'incontrano nei grigi uffici governativi, ma per la donna è più difficile restare aggrappata ai suoi sogni e alla dignità, con due figli a carico.

 

La critica di Loach si estende poi al mondo globalizzato di oggi, ricco di elementi contraddittori e reso nudo dall'agonia del welfare. Il regista esplicita il messaggio introducendo il personaggio di “China”, il giovane vicino di Daniel che, stufo e disilluso dalle istituzioni sociali, per sbarcare il lunario contrabbanda scarpe da ginnastica prodotte in Asia alle condizioni che, purtroppo, più o meno tutti conosciamo. È la dimostrazione definitiva di un duplice sfruttamento, oppure un meta-sfruttamento, con il sistema globalizzato che, escludendo gli esclusi, li costringe a sfruttare altri esclusi sotto di loro, in una scala sociale sempre più allungata verso il basso, e da cui sono in pochi (pochissimi) ad emergere. 

 

Il regista è stato abile a non cadere nel patetismo, presentandoci personaggi asciutti e lineari, reali come solo le esperienze di chi ha passato del tempo in mezzo ai banchi alimentari possono essere. Tuttavia, è difficile non stare dalla loro parte e, comunque, commuoversi. In questo senso Loach non tradisce la sua storia e la sua poetica, non disegna punti oscuri nella working class, non sono più i tempi del già citato Petri e del suo Lulù Massa. I lavoratori dei giorni nostri sono talmente alla mercé del mercato da non avere scelta, o di essere costretti a farne di estreme, come Katie. 

 

Kafkiano nella struttura, il film si rivela positivo e propositivo nello sviluppo. Daniel Blake non è uno sconfitto predestinato come Josef K., non si lascia avviluppare e schiacciare dagli intoppi o dagli ingranaggi, ma li affronta sempre a testa alta e lasciando trasparire una speranza per il futuro. Il messaggio della pellicola è piuttosto chiaro, ci sarà sempre da lottare e si continuerà a farlo, finché sopravvivrà l'esigenza di far rispettare la propria individualità, i propri diritti. Le accuse di veteroideologismo strisciane lasciano il tempo che trovano. Chi, se non i “vecchi” che hanno avuto e si sono guadagnati certi diritti, può insegnare alle nuove generazioni a non svenderli, dal primo all'ultimo? 

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Una visione kafkiana
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