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Piazza San Sepolcro. Il vero cuore di Milano

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Poco da fare: l’agonismo paradossalmente è connaturato in modo consanguineo a Piazza San Sepolcro, appartato luogo del centro milanese, dietro la Veneranda Biblioteca Ambrosiana, destinato a funzionare da simbolo in varie epoche della storia cittadina. Il 21 marzo 1919, qui ebbe infatti inizio la vicenda del Fascismo, per cui l’élite del Regime venne definita, per la sua pura fede della prima ora, sansepolcrista. Il Duce rimase comprensibilmente legato d’affetto alla piazza della sua giovinezza: vi tornò ogni tanto per discorsi dal balcone (più umile di quello di Palazzo Venezia, ovviamente, ma sempre d’effetto), come quello del 1936, testimoniato da un cinegiornale Luce. Mascelluto, armato di piccone, egli in quel momento dava inizio ai lavori per la ristrutturazione di Palazzo Castani, destinato a diventare sede provinciale dei Fasci Lombardi, a cui era stata aggiunta una torretta con balcone per i suoi comizi, fino agli ultimi, sempre più deliranti ai tempi di Salò, prima che l’edificio nel dopoguerra passasse a una inedita convivenza tra polizia e carabinieri.

 

 

Di fronte, dall’altra parte della piazza, si svolgevano ben altri agonismi, cimenti della preghiera, come voleva San Carlo Borromeo, fan di questo luogo che definiva perfetta “palestra dello spirito santo”. Dopo oltre cinquant’anni di chiusura, dovuta in primo luogo a problemi di stabilità, riapre ora al pubblico, sotto l’egida della Veneranda Biblioteca, lo spazio sorprendente e fascinoso della cripta che a tutti gli effetti è il cuore di Milano. Qui si trovava il Foro romano negli ultimi tempi dell’impero, quando la storia d’Occidente si trasferì a Mediolanum, di cui restano varie tracce tra il Duomo e Cadorna nella struttura della città. Le pietre che lo lastricavano vennero riutilizzate per la pavimentazione e si vedono oggi in tutta la loro diseguaglianza di forme e strutture. Qui nei tempi antichi si trovava il tempio della Dea Moneta, e la storia del complesso ha origine poco dopo il 1000, quando Benedetto detto Rozzone, figlio del maestro della zecca milanese (sempre per rimarcare la relazione profonda del luogo con il denaro), la fondò e già poco tempo dopo era teatro di eventi violenti.

 

Erlembardo Cotta, animatore della rivolta dei patarini, che volevano impedire la simonia del clero e esprimevano una intransigenza religiosa radicale, fu il primo, finiti gli scontri sanguinosi nel 1088 con la parte avversa, ad andare in terra santa e a diventare, per la città, cavaliere del santo sepolcro. Pochi anni dopo, in omaggio alla spedizione alle crociate di molti milanesi (sì, quelli cantati da Giuseppe Verdi nei suoi Lombardi), il pronipote di Rozzone volle che il tempio fosse consacrato proprio al nome del Santo Sepolcro, in una cerimonia officiata il 15 luglio 1100 dal vescovo Anselmo da Bovisio. Il tempio sottoterra era gemello di quello in superficie, e aveva un fortissimo potere simbolico: chi non si recava in Terra Santa poteva trovare una speciale indulgenza solo visitando la chiesa, o assistendo al rito. Questo luogo di fatto non è mutato nei secoli: Leonardo da Vinci, per le sue peculiarità uniche che prevedono due chiese speculari, volle riprodurne i tratti in due suoi disegni. Scendendo le scale si entra in un ambiente magnifico, con pochi segni delle numerose opere che lo adornavano in altri tempi (la chiesa sulla facciata aveva la nota Pietà di Bramantino, un tempo collocata sulla facciata e ora all’Ambrosiana).

 

I fantasmi di affreschi stanno alle pareti, insieme a stemmi delle famiglie gentilizie che hanno sostenuto il sacro luogo. La visione per lo spettatore diventa metafisica nel secondo vasto ambiente, che ha come centro esatto della rappresentazione una gabbia imponente, in cui si trova una statua coloratissima di terracotta di San Carlo, che qui veniva spesso per personali devozioni, definendo il luogo di raccoglimento “l’ombelico di Milano”. Egli è raffigurato in fervente preghiera di fronte a una replica del sepolcro di Cristo, con sculture in rilievo, trecentesca opera di uno dei Maestri Campionesi, che per tradizione si ritiene contenere terra che viene dalla Palestina. A sinistra della gabbia campeggia una palma, simbolo della sapienza, e a destra è invece una statua del Cristo deposto. Come sempre Milano dà il meglio di sé negli ipogei, nelle cripte, che a pochissimi metri dallo shopping più sfrenato di via Torino, permettono di capire, a un semplice colpo d’occhio, gli sviluppi storici di una città che nasconde sempre il proprio fondamento mitico in luoghi meno evidenti di quelli che usualmente sono scelti come simboli per le pratiche del turismo.

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Gli alberi pizzuti

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Non rammento, ma non mi dev’essere piaciuto, in prima media, mandare a mente le ventinove quartine di Davanti San Guido. Immagino che nulla m’avrà detto il «manzoniano/ che tiri quattro paghe per il lesso» o «il manzonismo degli stenterelli». Ricordo bene invece che le imparò per prima mia madre, me le fece ripetere con pazienza più e più volte, lei che a scuola raccontava di non esserci mai voluta andare nemmeno se l’alternativa era di portare al pascolo le mucche del nonno. Ma la poesia segue strane vie, si installa par coeur in modo inusitato.

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Mare e Sardegna

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“Finalmente ti sei organizzato delle belle vacanze”. L’approvazione di mia madre è il viatico a un’estate meno on the road del solito, con alcune giornate dedicate al mare, ai bagni, alla famosa “aria buona”, così rara quando si torna in città. E così, dopo un breve volo notturno Pisa-Alghero, eccomi sulla Carlo Felice in una Sardegna dove la notte coincide col buio.

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Insurrezione culturale

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L'ultimo lavoro del regista Jonathan Nossiter non è un film, è un libro, Insurrezione culturale, ed è un libro per certi versi ardito. 

Ardito perché tentativo di coniugare due mondi diversi, quello della cultura (chiamiamola "alta" per semplicità) e quello dell'agricoltura, anzi dei vini naturali.

Ardito dunque nell'accostamento (ma solo per chi non conosce l'opera di Nossiter) e poi perché, sebbene le parole cultura e coltura (coltivazione) abbiano la stessa radice, tutti lo abbiamo dimenticato e i due mondi restano per la maggior parte di noi agli antipodi. 

 

Del resto ci siamo dimenticati anche il significato di genuino, parola generalmente associata all'idea di naturale, positivo, sano, schietto, tradizionale, almeno in tutto ciò che ha a che fare (ma non solo) con il cibo.

Dimentichiamolo nuovamente... oggi la parola "genuino" può valere anche per la formulazione di una malta cementizia, di uno snack industriale o per un coro da stadio. In realtà è sempre stato così, ma solo perché l'idea di genuino (la parola ha un' etimologia un po' particolare, ma il significato è riconosciuto ) apparteneva ad una natura che bastava a se stessa e che non prevedeva l'artificiale, perché il naturale era semplicemente tutto. 

Oggi, in un mondo pesantemente artificiale, la parola genuino significa anche aderenza a una formula, a un modello. Così i tifosi di una squadra di calcio sono genuini nei cori e pure nelle invettive imbecilli, così come esistono migliaia di alimenti industriali perfettamente genuini, perché prodotti esattamente come la loro ricetta prevede. È pertanto genuino tutto quello che l'uomo produce, anche di industriale, anche di velenoso, purché aderente a una formula, a un modello dichiarato e quindi riconosciuto.

E cosa succede se la cultura e la coltura diventano sempre più artificiali, sempre più slegati dalla natura e dal loro rapporto con la vita? Decenni di ecologia e di educazione alimentare ci hanno reso in qualche modo consapevoli delle possibili conseguenze di una natura sempre più artificiale piegata dalle logiche industriali, dalla quantità a scapito della qualità, dai pesticidi, dagli ogm. Non altrettanta consapevolezza c'è per la cultura di cui ancora scontiamo forse una percezione "salvifica" alta...

Ebbene, Jonathan Nossiter in Insurrezione culturale ci dice che anche la cultura è diventata artificiale e artefatta, slegata dai suoi tradizionali valori.

 

È una delle tesi del libro, e non a caso per i primi capitoli l'autore ci conduce in un percorso lungo gli itinerari delle arti. Partendo da quella cinematografica certo, ma allargata al senso della cultura nella società attuale, al ruolo dell'intellettuale e dell'artista nella storia della civiltà occidentale. E si arriva ad un presente dove la percezione del lavoro creativo e artistico è qualcosa sempre più slegato al suo valore sociale. Soprattutto le arti visive – pittura, cinema, architettura, ma anche la letteratura – sono diventate espressioni solitarie, spesso narcisiste, disconnesse da una loro capacità educativa alla bellezza, alla sacralità, come incapaci di incidere nella vita sociale delle persone. E poi la ricerca della visibilità che tutto appiattisce, l'artista che diventa artista di se stesso mentre ogni opera di per sè vale zero, merce tra le merci, sottoposta alla domanda e all'offerta, probabilmente slegata da ogni motivazione originaria dell'arte, sacrale, estetica, sociale.

 

 

Come non sobbalzare da quest' ultimo punto di vista, dice Nossiter, se ci si interroga, ad esempio sull'abisso che separa l'opera di Pasolini da quella di un Jeff Koons? 

Così, il valore del prodotto artistico quasi sempre è solo il valore economico che gli viene dato con il contributo del marketing, del critico d'arte, dell'industria cinematografica, attraverso il riconoscimento di un personaggio tale solo per la sua visibilità. Una produzione drogata, come già da decenni è tale la maggior parte della produzione agraria ed alimentare.

Già, il mercato... ovvero il "luogo" dove avviene la disconnessione tra produzione e consumo con consumatori staccati dalla natura, così come siamo staccati da una cultura in cui sempre meno si ricerca una spiegazione del mondo e della propria umanità. In questo senso, Nossiter sembra dirci che bisognerebbe rivedere la "definizione": consumatore è anche chi inconsapevolmente vive una cesura tra la cultura e la propria vita.

 

Questa contaminazione è forse il pregio migliore del libro; un libro attraversato certamente da idee ma anche un libro che si nutre di empatia, vale a dire la capacità di riconoscere i problemi e l'umano oltre ogni mestiere, attraverso contaminazioni che alla lunga, danno luce. 

In Insurrezione culturale Nossiter non è il regista che ha vinto il Sundance film festival e che dà del tu a molti personaggi che fanno il presente e la storia del cinema, non è portatore di una costruzione razionale che tutto illumina (ma può esserci luce se nel presente sembriamo anime vaganti con una candela in mano?).

Allora meglio sporcarsi le mani dentro il reale e afferrare l'empatia da dove arriva.

Empatia che arriva dal movimento del vino naturale, un movimento di produttori che hanno rifiutato la chimica e che vanno oltre la "genuinità" delle doc e della stessa certificazione "bio". Un movimento, che in Europa è in forte crescita – silenziosa rivoluzione agraria – e che ha fatto della "sincerità" la sua bandiera oltre ogni etichetta di genuinità. La sincerità di una produzione senza alcun artificio, biologico e biodinamico naturalmente, ma soprattutto valorizzando ogni specificità del territorio, del "cultivar", della cantina, del suolo, del clima, dell'umanità che c’è in ogni produttore.

Sincerità... (dal latino sine ceris, senza la cera con cui anticamente venivano riparate le statue, ovvero senza artefatti, senza finzioni ) ed empatia perché la rivoluzione se non può arrivare da una cultura drogata e autoreferenziale, può essere allora nello sporcarsi le mani con la terra, la sincerità, l'empatia e un esempio possono arrivare dalla sensibilità e dall'insurrezione di agricoltori che ritrovano l'antico legame tra cultura e coltura, che forse non a caso hanno scelto "lo spirito" come lavoro e destino: "spirito" dell'impegno, del lavoro, della vita... e naturalmente quello dentro il vino.

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Sporcarsi le mani dentro il reale

Nella pelle dell’orso

Narcisismo

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Michelangelo Merisi da Caravaggio, Narciso.

 

Sarà forse la dismisura, ancora una volta, il carattere peculiare del narcisismo? Quella proiezione eccessiva con la quale ci attribuiamo più di quello che siamo, diventando superfici autospecchianti per evitare di andare in profondità? Per poi andare in frantumi non appena, specchio o stagno che sia, l’impianto mostra di non tenere? Camminiamo e ci muoviamo negli spazi spesso in stato di autocontemplazione. Indifferenti e insensibili attraversiamo sovente gli altri con i nostri sguardi autocentrati, come se loro non esistessero. Costruiamo campane di vetro insonorizzato intorno a noi, investendo per curare con ossessione la nostra immagine e farcela bastare. Lo stagno che ci riflette diventa il mondo intero e in esso ci esauriamo illudendoci di esaudirci. In quell’acqua stagnante affoghiamo ritenendo di essere il massimo immaginabile. Replichiamo così William Blake: “Chi non cambia mai idea è come l’acqua stagnante, alleva rettili nella testa”.

 

 

 

Il mito di Narciso ci dice che si tratta di qualcosa che viene da lontano: ergersi su se stessi e considerarsi, ha prodotto in noi “homo sapiens” qualcosa di eccessivo. Si può anche capire, ma si tratta di una faccenda che rischia di costarci cara. È probabile, infatti, che la più acuta manifestazione di narcisismo noi umani l’abbiamo espressa ponendoci al di sopra degli altri animali, mammiferi inclusi, nella natura di cui siamo parte. Come sia accaduto non è facile descriverlo, ma una delle motivazioni potrebbe avere a che fare con lo sforzo necessario per elaborare il proprio svantaggio neotenico, il fatto che alla nascita abbiamo bisogno di un tempo di dipendenza molto più lungo delle altre specie. O anche per il fatto di essere una specie giovane e fragile che per affermarsi deve aver faticato non poco. Ne è emersa una assunzione di presunta superiorità che ci ha portato a separarci dalla natura di cui pure siamo parte, fino a ritenerci narcisisticamente superiori. Le nostre distinzioni specie specifiche sono diventate per noi fattori che hanno autorizzato la presunzione di supremazia sul resto del sistema vivente. Un modo per evidenziare l’incidenza del narcisismo è quello noto, relativo alle ferite narcisistiche che è stato ed è necessario elaborare nel corso del tempo, in conseguenza della crisi di quella superiorità presunta. Galileo, Darwin, Freud, per citare solo alcuni “demolitori” della presunta centralità superiore, ci hanno deposto dal centro del sistema solare, dal centro del sistema vivente, dal centro di noi stessi.

 

Così decentrati e perfino abbandonati dagli dèi che da tempo hanno lasciato la Terra, abbiamo fatto tentativi di prendere bene le misure per fondarci su noi stessi in modo appropriato e consapevole della nostra caducità e finitudine ma anche della nostra bellezza e capacità, ma presto abbiamo esagerato perdendo il senso della misura. A parte pochi momenti storici, come ad esempio i tempi di Marco Aurelio e di Adriano, per riferirsi alla Roma antica, in cui evidentemente un tentativo di qualche valore specifico lo abbiamo pur fatto, per il resto ci siamo sentiti o mendicanti in una valle di lacrime, o re per una notte. Negli ultimi tempi sempre più la seconda cosa, laddove la notte si presenta prolungata e si fa fatica a vedere il lume del giorno, mentre noi perpetuiamo la disposizione interiore a sentirci re di nulla, in buona misura alieni al mondo che ci sta intorno, concentrati sul nostro stesso ombelico. Un esempio? Si susseguono scoperte scientifiche che mostrano come le nostre superiorità sono in buona misura presunzioni narcisistiche. Ci siamo accorti da poco che i cebi striati usano strumenti di pietra da cento e più generazioni. Un nuovo studio, che combina l’osservazione del comportamento con procedure di scavo, ha stabilito che queste scimmie sudamericane si servono da secoli di utensili per aprire le noci di anacardo. Insieme agli umani, vi sono diversi altri primati che usano strumenti come pietre e bastoncini, specialmente per procacciarsi il cibo. Tra questi, si è stabilito che gli scimpanzé occidentali (Pan troglodytes verus) della Costa d’Avorio fanno impiego di utensili da migliaia di anni e che i macachi cinomolghi (Macaca fascicularis aurea) si servono di pietre per aprire i gusci dei molluschi da cui si nutrono da almeno sessant’anni. Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Current Biology aggiunge ora un altro importante tassello all’archeologia dei primati. È stato osservato che i cebi striati (Sapajus libidinosus) nel Parco Nazionale di Serra de Capivara, in Brasile, usano abitualmente un sistema portatile dove sono state assemblate una pietra con funzione di martello e una con funzione di incudine per rompere i gusci di alcuni semi, ma soprattutto delle noci di anacardo. I cebi tendono ad accumulare questi strumenti in siti specifici, alla base degli alberi di anacardo.

 

Il gruppo di ricerca, guidato dall’esperto di archeologia dei primati Michael Haslam, ha scavato in un’area di 35 metri quadri fino a una profondità massima di circa 70 centimetri nella località di Caju Baixão de Pedra Furada, recuperando una settantina di strumenti. Vicino a quel sito, ad una distanza di 25 metri, si trova l’alveo di un torrente da cui i cebi prelevano le pietre dopo averle selezionate. Le pietre usate dai cebi sono state identificate da residui scuri di anacardo sulla loro superficie (analizzati con tecniche di gascromatografia e spettrometria di massa), dai tipici segni d’uso, dalla densità di altre pietre simili e dalle loro dimensioni, significativamente maggiori rispetto a quelle delle pietre circostanti. Si è scoperto infatti che le pietre usate come martello sono in media quattro volte più pesanti rispetto ai sassi naturali situati nei paraggi, e che le pietre usate come incudine sono a loro volta quattro volte più pesanti di quelle usate come martello. Inoltre, i cebi tendono a selezionare pietre lisce di quarzite per i martelli e rocce di arenaria di forma tabulare per le incudini. La datazione al radiocarbonio, effettuata sul carbone vegetale presente nei vari strati dello scavo, ha permesso di stimare che le pietre rinvenute nello strato più profondo risalgono a circa 600-700 anni fa, corrispondenti a un centinaio di generazioni di cebi. Nel sito non sono state trovate tracce di attività umana, né di altri primati, confermando così che si tratta di utensili usati esclusivamente dai cebi striati. Un risultato interessante è che gli strumenti rinvenuti in ogni strato non differiscono in modo rilevante da quelli usati attualmente, evidenziando un approccio conservativo nella trasmissione delle abilità tecnologiche fra le generazioni di cebi. La trasmissione generazionale delle abilità, che comporta una qualche forma di istruzione e di apprendimento, o se non altro una significativa capacità imitativa, tende a stabilire una linea di continuità, senza negare le differenze, tra noi e gli altri animali, mostrando antecedenti evolutivi anche in ambiti fino a qualche tempo fa insospettabili. Sono proprio quegli ambiti che evidenziano e allo stesso tempo logorano il nostro narcisismo, che sembra decisamente dislocarsi verso altri livelli della nostra esperienza e, in particolare, nel nostro mondo intrapsichico. 

 

Credere troppo in se stessi, (o, come si dice a Napoli di un narcisista: “quello è uno che si crede…..”) – significa, in fondo, smettere di giocare con se stessi. 

Ma allora a che gioco sta giocando il narcisista?

Forse a riempire di sé il vuoto che si ritrova dentro.

Forse a cercare di creare e ricreare se stesso a propria immagine e somiglianza.

Ma creare sempre la stessa cosa, confermare ossessivamente quello che c’è già, operare una sorta di sacralizzazione dell’io, separarsi per esistere, è ancora creare?

Se il gioco scompare, che gioco è?

Nel polisemico significato di gioco, per esempio nel senso meccanico del termine, una delle dimensioni necessarie è il gioco che si può produrre nello spazio marginale in cui si danno condizioni almeno relative di movimento. 

Se quello spazio non è consentito dal bisogno di tutto pieno, quello è ancora un gioco?

E se non lo è, allora si crea ancora qualcosa, o invece è un gioco finto e illusorio per tenersi comunque in piedi?

Giocare solo con se stessi un gioco che deve produrre sempre lo stesso risultato, un gioco dalle possibilità regolate che usa una creatività ad esito predeterminato, una non-creatività, quindi, è un gioco-non-gioco che inchioda sulla propria solitudine facendone motivo di contemplazione. Se “il successo dell’uomo – la sua disgrazia? – consiste forse nell’aver introdotto un po’ di gioco nell’immenso ingranaggio”, come ha scritto Roger Caillois, citato da Stefano Bartezzaghi nel suo libro La ludoteca di Babele, il gioco a cui gioca il narcisista potrebbe essere letto come una neutralizzazione del gioco stesso. 

Il tema della creatività, infatti, sembra convergere con quello del gioco in molti punti, secondo Bartezzaghi. I due termini si affiancano in modo utile e convincente: cercano entrambi di catturare la facoltà umana di percepire il potenziale, e il tentativo di dominarlo. Come la creatività, anche il gioco e le sue permanenti e molteplici aperture appaiono ostacolati con tutta evidenza dalle chiusure su se stessi dovuta al narcisismo. 

 

 

Se si gioca per compiacersi, vale la pena chiedersi che senso ha quel modo di giocare. Certo, giocare significa così tante cose che la varietà e le striature assunte dal gioco nella nostra esperienza sono infinite. Qui interessa comprendere cosa succede quando nel gioco si introduce la disposizione a giocare un gioco illusorio con se stessi e su se stessi. D’altra parte il narcisismo sembra avere a che fare proprio con il gioco dell’individuazione, quel particolare tipo di gioco mediante il quale ognuno cerca di diventare se stesso. Se il valore del gioco di individuazione consiste nel fare, almeno in una certa misura, la differenza, nel riconoscersi ed essere riconosciuti in una qualche forma di distinzione, il paradosso del narcisista pare stare nel fatto che mentre egli gioca quel gioco, mira di fatto all’effetto fotocopia aumentata di se stesso.

Il valore risiede nella differenza, come ha scritto J. A. Miller nel libro, Il nuovo. Questa breve definizione ci può portare lontano perché situa il senso e il valore, il senso che vale e il valore che conta, nello scarto rispetto alla norma, in quella rottura, in quel break-down che apre al possibile rispetto al conforme. 

 

 

 

Quello scarto rispetto alla norma il narcisista non se lo può permettere, perché vive di conferme della propria costruzione identitaria e in quella costruzione si rispecchia curandone l’esatta corrispondenza mediante insistite focalizzazioni. Fino ad annegare, spesso, nella propria immagine. 

«L’individuo che empatizza è come se si muovesse alla cieca verso l’enigma della coscienza altrui. In quanto avventura del toccare, di un toccare impossibile – come lo è in fondo ogni toccare – l’empatia evoca anche l’azione di una mano che cerca, nel riempimento della presa, nella pienezza dell’Erfüllung, la gratificazione di un bottino che rimane differito e promesso all’infinito», scrive Jaques Derrida in Toccare – Jean-Luc Nancy.

 

Muoversi verso la coscienza altrui rispecchiandosi nell’altro e rispecchiandolo, è un rischio che il narcisista non riesce a correre e forse non può correre.

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Ma a che gioco sta giocando il narcisista?

Il Maestro e Margherita

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Abbiamo affidato ai nostri autori la lettura di un classico che non conoscevano, da leggere come se fosse fresco di stampa.

 

Memore della lezione di E.T.A. Hoffmann e del Sogno di August Strindberg, Michail Bulgakov ha prodotto, con Il Maestro e Margherita, un ardito esperimento letterario di realtà aumentata destinato a influenzare in maniera sostanziale l'immaginario fantastico dell'ultimo quarto del novecento (si pensi a Neal Gaiman, tanto per fare un esempio).

Va da sé che per uno scrittore russo che visse e lavorò nel pieno del fiorire del Realismo Socialista, l'adozione di simili numi tutelari significò una condanna all'invisibilità che lo condusse a uno stato di feroce prostrazione e a una fine ingloriosa.

Il fantastico, nelle mani di Bulgakov, era in effetti allegoria nonché unico strumento satirico in grado di stare al passo con i tempi della sua vita sfortunata – e il tempo, come vedremo, è tempo perduto nel merito della censura che affondò il romanzo, tempo ritrovato in quello della sua pubblicazione.

La trama è nota: nella città in cui si sta cercando di forgiare un nuovo modello di umanità si reca in visita Satana in persona, accompagnato da un collerico gatto parlante e da un demonico maestro di cappella col completo a quadri e gli occhiali a molla.

 

Il Maligno giunge animato dall'intenzione di coprire di ridicolo una società che dovrebbe rappresentare l'Utopia scesa in terra ma che, nella brama di vedere esauditi i propri desideri più meschini sulla ribalta di un teatro di varietà, non può che ricordare il farsesco mondo raccontato cento anni prima da Gogol' e dalle sue anime morte. 

Eppure il tempo non scorre soltanto all'indietro, nel teatro di marionette che Bulgakov ha costruito e nel quale ha messo in scena, con leggiadra maestria, la Mosca degli anni '30 del ventesimo secolo.

Nella corsa all'accaparramento di scarpe, vestiti e calze di seta che conclude lo spettacolo dedicato alla "magia nera e al suo smascheramento", non è infatti difficile ravvisare una beffarda anticipazione della fuga oltrecortina che coinvolgerà milioni di uomini e donne sessant'anni più tardi, all'indomani della caduta del Muro di Berlino; allo stesso tempo, qualsiasi velleità di idealismo rivoluzionario viene spazzata via di fronte all'impietosa rappresentazione della quotidiana realtà sovietica, fatta di intrallazzi, sotterfugi e piccoli privilegi, che appare come un sarcastico rovescio della dottrina del Socialismo Reale dietro la quale l'Unione Sovietica di Brežnev sarà solita schermirsi di fronte alle critiche revisioniste.

 

E non è tutto: Satana, col suo operare, sembra mirare a sottrarre consistenza al neonato edificio ideologico sovietico e alla sua pretesa di costruire una realtà dalla quale la fede e la superstizione dovrebbero essere definitivamente bandite – la prima vittima dei suoi tiri mancini, poco prima di finire decapitata sotto a un tram, stava giusto prodigandosi nel negare l'esistenza del Gesù storico sulla panchina di un parco moscovita.

In quest'ottica sembra quasi che Satana e Gesù si ritrovino a giocare su un fronte comune nel contrastare la protervia dell'uomo e il suo dichiararsi indipendente, artefice del proprio destino e dominatore incontrastato della storia.

L'umanità, nei disegni del Maligno, può procedere soltanto nelle spire di un movimento circolare che nega qualsiasi possibilità di progresso e il cui cardine è rappresentato dall'eterna collaborazione tra il Bene e il Male nel mantenere il genere umano in una condizione di minorità.

Supremo paradosso: quegli stessi valori illuministi tanto avversati dalle forze reazionarie quali manifestazioni del volere di Satana sulla terra, si ritrovano a essere sbeffeggiati da Satana in persona nel nome di una riaffermazione della potenza del mito sulla sterile vanità dell'agire umano.

 

 

Spetterà al Maestro e Margherita, veri eroi del romanzo, il compito immane di mettere in crisi questo diabolico piano – e non sarà soltanto per mezzo di una parabola sul buon cuore, sull'innata predisposizione al bene che può spingere una strega novella a richiedere l'alleviamento delle pene dell'inferno per una madre sventurata; sarà piuttosto il misterioso romanzo scritto e dato alle fiamme dal Maestro, a segnare la contromossa con la quale il Bene sarà in grado di ristabilire un'idea peculiare di progresso che vada a discapito tanto della stupidità umana quanto della terribile astuzia del Maligno.

La salvezza postrema riservata dal Maestro a Ponzio Pilato, protagonista del suo scritto sulla Passione di Gesù che non vide mai la luce a causa della censura sovietica, indica infatti la via di una naturale progressione verso il bene che riguarda non soltanto i veri credenti, ma anche coloro che soggiacciono al tormento della colpa: se infatti, come insegna un'antica tradizione sotterranea del Cristianesimo orientale, il libero arbitrio esercitato nel male si riconduce comunque a Dio e persino il Diavolo, alla fine dei tempi, sarà redento, la liberazione di Ponzio Pilato può rappresentare un ideale passo in avanti lungo la strada dell'apocatastasi.

 

Certo, al Maestro non basterà questa brillante suggestione teologico-letteraria per guadagnarsi il diritto alla salvezza: troppo compromesso col Maligno, verrà comunque premiato con l'eterno riposo per lui e per la sua amata Margherita.

Su questo malinconico finale si disputa la partita tra fortuna postuma e avvilimento dell'esistenza nella quale Bulgakov e il suo romanzo si trovarono intrappolati; scrittore invisibile nel territorio del Diavolo della sua epoca, con ogni probabilità egli non si augurava altro che l'eterno riposo per sé stesso e per la sua opera.

Ma la storia gli avrebbe reso giustizia: sin dalla loro prima apparizione pubblica, ventisette anni dopo la morte del loro creatore, il Maestro e la sua fida compagna vennero ricompensati del loro lungo oblio con l'elevazione alla gloria imperitura riservata ai grandi Classici.

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Michail Bulgakov letto solo ora

Rocco Siffredi. Eppur si gode

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Che la pornografia sia non solo un'altra cosa rispetto all'erotismo ma addirittura il suo opposto è opinione ripetuta da vari nomi illustri almeno a partire da Baudrillard, e che gode oggi di discreta fortuna. È come se dopo decenni passati a combattere contro la censura, a rivendicare il diritto alla rappresentazione sempre più esplicita del sesso, si assistesse (soprattutto in Europa, perché la riflessione dei porn-studies nei paesi anglofoni e specie nell'ancora puritana America insiste ancora largamente su questi punti) a una sorta di assuefazione alla pornografia e a un crescente compianto di ciò che con la pornografia sarebbe andato perduto: il mistero dell'eros, il desiderio propedeutico e necessario al godimento. Quella pornografica sarebbe un'industria che offre un prodotto standardizzato mentre il sesso vero avrebbe a che fare con corpi reali, fatti di carne, certo, ma anche e soprattutto di “anime” (un termine antiquato con cui comunque si identifica il nucleo di individualità: ciascun corpo quindi con il suo personale corredo di desiderio, ognuno più o meno pudico, più o meno attivo, più o meno trasgressivo e così via).

 

Queste individualità sarebbero proprio ciò che non è visibile, ciò che manca nella rappresentazione pornografica, e che renderebbe perciò la pornografia non erotica, noiosa, non eccitante. Quello che Rocco Siffredi sembra voler dimostrare nel documentario (Rocco) a lui intitolato dei francesi Thierry Demazière e Alban Teurlai, è che anche le pornostar hanno un'anima. Potrebbe trattarsi di un'astuta mossa di marketing: la pornografia salvata dal cattolicesimo. Se non fosse che non c'è niente da salvare, perché il consumo di pornografia non accenna a diminuire, anzi.

 

 

L'autoritratto che il pornodivo abruzzese offre nel documentario è quello di un uomo tormentato in modo quasi caricaturale dal senso di colpa. Rocco Antonio Tano (così all'anagrafe) nasce in una famiglia povera e conservatrice, da un padre infedele che Rocco biasima e disprezza e una madre forte, premurosa e ingombrante, tanto più perché spinta alla follia dalla morte prematura di uno dei sei figli. Rocco decide di fare della fonte della sua vergogna il mezzo per realizzare la sua ambizione di «diventare famoso». Il riscatto avviene proprio attraverso «il diavolo che ha in mezzo alle gambe», quel membro imponente con cui senza falsi pudori i due registi aprono il film e che però non è il protagonista del documentario: molta più importanza ha la lotta che l'attore ingaggia con questo “lui” che sembra altro da sé, che si oppone alla sua determinazione a non diventare come suo padre, e di cui però è inevitabilmente schiavo. La strategia di sopravvivenza che Rocco decide di adottare è quella di fare della propria pulsione sessuale inesauribile il mezzo per guadagnarsi il pane, riconducendolo così nell'alveo della rispettabilità capitalista. L'autodistruzione che tenta di trasformarsi in redenzione. Strategia che si scontra però nuovamente con la morale conservatrice nel momento in cui decide di crearsi una famiglia sua, e Rocco passa dal sentirsi giudicato dallo sguardo riprovevole e colpevolizzante dei genitori a quello ancora più castrante (perché aggravato dalla categoria della responsabilità) dei figli (maschi) avuti dalla moglie Rosa Caracciolo. Così l'attore giunge alla ferma decisione di smettere di recitare. 

 

Il didascalismo psicanalitico della sua parabola fa quasi sorridere, e denota la consapevolezza lucidissima su cui il performer ha costruito il suo personaggio: i traumi che Rocco racconta nel lungo monologo che intervalla il film sono sempre legati al sesso (la madre che lo sorprende bambino a masturbarsi) o alla morte (del fratello, della madre), spesso a entrambi (il racconto – poco importa se verosimile o no – della fellatio imposta a un'anziana amica della madre venuta a accomiatarsi da quest'ultima). Rocco sa che l'interesse del suo lavoro risiede nella trasgressione: come il più tipico dei nevrotici, riconosce l'esistenza di una legge, la identifica anzi proprio in quella più ovvia nel suo contesto culturale, e emblematica è infatti la scena del brainstorming con il produttore e il cugino-assistente per stabilire setting e trama del suo ultimo, monumentale, film da attore (girato due anni fa da John Stagliano), in cui si parla di croci, suore, processi, angeli e diavoli, si discute su chi sottomette e chi è sottomesso. Siffredi, spesso identificato con una pornografia che addirittura molti uomini trovano “troppo maschilista”, cioè banalmente basata sulla sottomissione delle donne, decide di mettere in scena, facendosi legare a una croce, il suo sentimento di sottomissione nei loro confronti.

 

Non solo del suo pene e della propria insaziabile libido dunque: in tutta la sua carriera e nella sua vita privata Rocco afferma di essersi sentito «the slave of the girls». Un'altra scena dai numerosi making, girati in contesti molto diversi (dagli Stati Uniti a Parigi, a Budapest), è particolarmente riuscita in questo senso: Rocco infila il pugno nella bocca di una giovanissima attrice. Mentre lei inizia a lacrimare e a reprimere i conati di vomito lui sorride. Quando finalmente sfila la mano la situazione si ribalta: la telecamera offre un primo piano di lei, che con il trucco colato e la bocca madida di saliva rivolge uno sguardo conturbante e soddisfatto a Siffredi, in cui sembra attestare la sua superiorità, la sua consapevolezza di possederlo in virtù della resistenza fisica appena dimostrata e soprattutto della sua prova di sottomissione totale. 

 

 

Le donne di cui Rocco è principalmente schiavo sono infatti, come da manuale, la madre e la moglie, delle quali Siffredi continua a ribadire il senso di superiorità garantitogli dalla loro devozione, dall'amore incondizionato per la famiglia, l'indipendenza dall'impulso sessuale, in una parola dalla loro “purezza”. 

Vale la pena però di soffermarsi sulla brevissima intervista alla moglie, per capire quale sarebbe questo contraltare alla nevrosi ossessiva di Siffredi. Interrogata per l'ennesima volta sulla sua opinione in merito alla figura del marito, Rosa risponde che la loro routine sessuale è molto diversa da quello che Rocco fa sul set, che lei era consapevole di non potergli garantire la “varietà” di cui lui dimostrava di aver bisogno e di non averne nemmeno intenzione, e di trovare quindi perfettamente sensato che lui la cercasse altrove. Aggiunge anche, però, che quello che Rocco fa sul set non è altro che “lavoro”, e che il punto chiave nella loro relazione è la “sincerità”: mentre le altre donne vengono tradite alle spalle, lei almeno sa sempre dove il marito si trovi e cosa stia facendo. Le giustificazioni che Rosa trova per l'insolito ménage famigliare che i due hanno costruito sono quindi in fondo le più tradizionali: il loro rapporto si basa su una rigida distinzione tra lavoro e vita privata, e su una forma giusto un poco più aperta della retorica della condivisione totale.

 

“Lavoro” e “controllo” sono quindi i due capisaldi della famiglia nucleare persino nella vita apparentemente trasgressiva della più iconica delle pornostar maschili eterosessuali dei nostri tempi. Questa ideologia “sanitarizzata” della pornografia trova un'eco anche nella dichiarazione spiazzante della pornostar inglese Kelly Stafford, specializzata in hard-core molto estremo e che Rocco sceglie come co-star del suo ultimo film, che mentre si prepara per una scena commenta che una gang-bang con decine di uomini per lei non è altro che «just another day at the office». È questa la filosofia, del resto, anche di un'altra donna dell'entourage di Siffredi, vale a dire la pornostar Valentina Nappi, scoperta da lui e che ormai da qualche anno predica su riviste anche prestigiose come Micromega la necessità di un totale disincantamento del sesso, la liberazione da una morale repressiva e la sessualità come un'arte o uno sport, da affinare attraverso l'esercizio metodico per raggiungere prestazioni sempre migliori. 

 

 

Si tratta di casi che mettono in luce come la riflessione post-femminista sembri aver individuato nel capitalismo un veicolo di emancipazione: se tutto è merce e prestazione in cambio di denaro, allora perché non anche i corpi? Ogni cautela al riguardo viene avvertita come un vincolo incoerente, moralista e anacronistico, che impedisce alle donne di capitalizzare quello che storicamente è stato il loro mezzo di sostentamento più ovvio e di cui erano in fondo custodi incontrastate (il corpo e la sessualità), un modo per tenere le donne fuori da un gioco alle cui regole chiedono di potersi sottomettere non più come vittime ma come manager, autodeterminate, di se stesse. È questo il senso delle rivendicazioni (del resto sacrosante) delle sex workers, oltre che delle performer della pornografia, ma anche dell'autogestione della riproduzione (dall'aborto alla maternità surrogata). 

 

Eppure c'è qualcosa che Siffredi sembra aver capito meglio di loro, e che non troppo paradossalmente lo rende anche un attore porno migliore: per lui il sesso non è solo un lavoro, è una dipendenza, una forza primordiale che crea in lui una frattura, che porta a sovrapporsi ciò che desidera e ciò che lo disgusta, sia moralmente che fisicamente (il suo continuo ripetere che le ricadute nella sua sex-addiction l'hanno portato a «scopare con chiunque: trans, vecchie...» ne è una prova). Rocco Siffredi vive il suo rapporto con il sesso come una lacerazione, un'esperienza di rapporto con un “altro”: questo “lui” di cui è schiavo gli offre la possibilità di perdere il controllo di se stesso. «Io sono sicuro che lei soffre» ripete l'attore parlando della moglie: ancora una volta è il confronto con la donna a farlo sentire in colpa, e la sua insistenza su questo punto fa intuire quanto proprio questo senso di colpa sia necessario a permettergli di godere. Come scrive la lacaniana Joan Copjec: «La nostra sola conoscenza della legge è la nostra consapevolezza della sua trasgressione. Il nostro senso di colpa è tutto ciò che sappiamo della legge». Grazie al suo senso di colpa il nevrotico non solo può godere della sua infedeltà ma nello stesso tempo stabilisce una gerarchia, è in grado di riconoscere uno statuto differente alla moglie nell'oceano delle sue numerosissime amanti. 

 

 

Si tratta di un'esperienza che viene a mancare nei racconti disincantati delle donne che compaiono nel film: l'autodeterminazione sembra una pratica puramente economica di gestione delle proprie risorse, una forma di self-management che ha il rischio di confermare le più viete e scioviniste teorie sull'arrivismo delle donne nella nuova società post-patriarcale – teorie assolutamente non condivise né dal “macho-devoto” Siffredi né dai registi, che hanno scelto come immagine promozionale del film una scena sulla spiaggia di Rocco e del suo contraltare femminile Kelly Stafford, in un ribaltamento ironico della più tradizionale delle immagini romantiche: i due si guardano complici, lei indossa un abito candido, il mare alle loro spalle. Solo che non sono una coppia di innamorati, bensì due colleghi, due attori porno, uniti da una lunga amicizia e da un'alta stima professionale reciproca.

 

La quadratura del cerchio la trova infatti proprio il documentario, specie nella struttura narrativa. I due registi scelgono di chiudere il sipario sulle scene dell'ultimo film: un'orgia attorno a una croce cui partecipano tra gli altri Siffredi, Stafford e James Deen. La musica, da chiesa, è lugubre come del resto tutto il documentario, eppure l'insieme assume un tono solenne e agiografico, i volti contratti e sudati parlano di qualcosa di trascendente e celebrativo. È una scena drammatica ma soprattutto erotica. L'ultimissima inquadratura è sul collo pulsante dell'attore. Dal cazzo dell'inizio, al cuore che palpita nella sua forma visibile. 

 

Siamo condannati quindi a trovarci stretti nella dicotomia tra le due ideologie rappresentate da un lato da Rocco e dall'altro dalle sue donne emancipate? Per forza il rapporto con il sesso è rapporto con il sacro (anche e soprattutto nella forma della profanazione) e se non lo è, non è più possibile il desiderio? Non esiste una terza via tra il senso di colpa (relazionale ma insopportabilmente doloroso) e l'autonomia (solipsista)? Una terza via tra nevrosi e psicosi? Senza Legge Morale ci resta soltanto l'equivalenza della merce del Capitale? L'emancipazione al prezzo della de-erotizzazione? Forse no, sembrano dire i registi: in fondo si può ancora scopare. 

 

Eppur si gode. È questa l'intuizione anti-censoria, non nostalgica né banalizzante del film. Non si tratta di impedire il disvelamento per conservare il mistero, perché la pornografia non “svela” niente. Anzi, al contrario, proprio nel suo “svelare” ci dice che il mistero è una verità che è là fuori, va ricercata nella superficie, perché il mistero del desiderio si rinnova, permane, e si fa addirittura più fitto nel suo continuo re-enactment. Una delle attrici di Rocco, riferendosi alla pratica dello spanking violento, dichiara: «This makes me come». «But why?» domanda lui. La risposta è universale: «I would give a million dollars to know that». Per questo non basta la psicanalisi, né la ricerca eziologica del nostro desiderio a spiegarci come mai desideriamo, e soprattutto, lo dimostra Siffredi, non basta a farci smettere di desiderare ciò che desideriamo: è questa superficialità del mistero a porre un interrogativo insolubile. Il mistero è proprio l'inesauribile attrazione della superficie, il crescente successo della pornografia. L'attore porno fa in fondo quello che fa ogni corpo nudo secondo Giorgio Agamben: esibisce la superficie. È proprio questa esibizione dell'apparenza «il suo tremito speciale – la nudità che, come una voce bianca, non significa nulla e, proprio per questo, ci trafigge». Non nonostante Dio (la Legge, in termini psicanalitici classici, o una morale sessuale comune, nei termini del dibattito pubblico), possiamo godere, ma proprio perché Dio non c'è, l'assenza di senso si risolve nell'immanenza del rapporto tra corpi e anime reali, che sono qui e ora, che sono superficie. E proprio per questo continuano ad attrarci. 

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Thierry Demazière e Alban Teurlai

Remo Ceserani. L'ambizione di cambiare le cose

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Ricordo, di Remo,  la benevolenza, e quella sua capacità di accordarsi, di entrare in sintonia con gli altri. Ricordo tutti gli incontri a tre, con Pino Fasano, per preparare  il Dizionario dei temi letterari, e per discutere delle voci che via via ci arrivavano dai collaboratori. Ne ricordo la forza di carattere  del tutto dissimulata. Ne ricordo l’intelligenza, anche pratica, davvero fuori dal comune. Ne ricordo, con divertimento – la finimmo a ridere – qualche impuntatura, una in particolare, a proposito della natura traduttiva dei Vangeli (ma non ricordo più quale fosse esattamente il punto). Ne ricordo l’amicizia, della quale ancora lo ringrazio.  Ne ricordo il divertito scetticismo con il quale a volte riconsiderava il lavoro fatto, come, per esempio, capitò una volta, in una presentazione a Bologna de La letteratura nell’età globale (2012, scritto da Remo con Giuliana Benvenuti).

 

Remo, dopo aver ricordato Il materiale e l’immaginario (scritto con Lidia De Federicis), e il Dizionario dei temi letterari,  disse, e poi scrisse, che “quei progetti avevano un elemento in comune, l’ambizione, forse ingenua, di cambiare le cose (nella cultura letteraria, nell’insegnamento universitario, nelle scuole superiori), imprese che avevano un aspetto molto ottimistico, quasi utopico” (Riflessioni sulla letteratura nell’Età globale, a cura di Saverio Vita, Bologna, Aspasia, 2012).

 

Remo includeva, in quella serie di imprese nel segno dell’utopia, anche il tentativo di rifondare gli studi di comparatistica in Italia, e farne un campo di studi diverso da quello consegnatoci dalla tradizione italocentrica – come diceva lui – che faceva della comparatistica letteraria una riserva, nel senso di riserva di caccia, ma anche di riserva indiana, dell’italianistica. Remo vedeva però risultati “molto fragili” e “fallimentari”, e “sconfitte” in questa sua impresa. Quando me lo diceva, e capitava spesso, gli rispondevo di non esagerare. Remo ha davvero fondato la comparatistica “for the time being” (“almeno per ora”), come usava dirmi quando voleva attenuare qualche sua affermazione. Aveva tre lingue, Remo, oltre l’italiano: inglese, tedesco e francese, ma sono certo che leggesse anche lo spagnolo. Abilità non del tutto indifferenti in un paese in cui, come a Remo piaceva ricordare, Auerbach, in visita da Benedetto Croce, si trovò a domandarsi chi mai fosse quel “Legel” del quale  il nostro grandphilosophe continuava a parlargli.

 

Remo era convinto che non si potesse capire alcuna situazione culturale se non su di un piano  non nazionale, non europeo, ma almeno occidentale, e, anzi, in proiezione, globale. Tutto questo in un’Italia e un’Europa ‘piccole’, ’circoscritte’, ‘provinciali’, poiché, come ci si diceva spesso, l’italocentrismo, non della cultura, visto che ci stiamo americanizzando, ma degli studi letterari italiani, ha il suo preciso corrispettivo nazionale in Francia, in Spagna, in Germania, in Gran Bretagna, e nelle altre nazioni di una piccola Europa avviata alla frantumazione.

 

Così, io credo, il contributo più importante di Remo, quello più decisivo, e forte, quello che io, come altri, più ammiro, è Raccontare il postmoderno (1997). Remo ha altri libri oltre a quelli citati: Raccontare la letteratura (1990), Il fantastico (1996), Guida allo studio della letteratura (1999), uno stupendo Treni di carta (1993 e 2002), Il testo narrativo (2005), Convergenze (2010), e quel bellissimo libro che è L’occhio della medusa (2011), su fotografia e letteratura (con un appunto autobiografico che deve far capire il valore che aveva quel testo per Remo, e quale ne sia dunque il valore aggiunto per il lettore: il padre  di Remo, Luigi, era fotografo). Tutti libri importanti, ma Raccontare il postmodernoè il libro che più gli ho invidiato, a partire da quell’incipit, che riconosco formidabile, a proposito del 1989 come anno dello ‘swerve’, della svolta, di un mutamento che però Remo vede, e mostra in atto, fin dagli anni Cinquanta: il postmoderno, per l’appunto. Oggi ‘postmoderno’ è caduto in disuso nella rapidità di consumo di parole e concetti che pure era, forse ancora è, insieme a parodie, rifacimenti, adattamenti, gusto rétro, un segno caratteristico della postmodernità. Del resto, a una considerazione più attenta, e a una lettura non distratta del libro di Remo, dobbiamo capire che, in qualsiasi modo noi si chiami il tempo in cui stiamo vivendo, molti dei segni individuati e discussi da Remo sono ancora in atto. Se parte delle scritture di cui Remo si occupa in quel suo libro, soprattutto scritture italiane, ha mostrato la corda, mentre altre scritture sono divenute importanti nell’incedere della massificazione-globalizzazione culturale, rimangono sempre vere e assai concretamente verificabili le categorie che Remo discerne con la chiarezza che gli era solita.

 

Così, silente, Remo continua a porci una questione alla quale non abbiamo risposta: ma dopo il postmodern che c’è? Anzi, è possibile che dopo il postmoderno ci possa essere qualcos’altro?

 

Sono grato a Remo per aver scritto quel libro che andrebbe riletto. Là Remo mostra tutta la stoffa, e tutto l’intuito, di un grande storico della cultura. Ci mancherà. A me, a molti, mancherà soprattutto come amico.

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22 novembre 1933 – 31 ottobre 2016

I fantasmi di Horacio Quiroga

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Se Horacio Quiroga (1878 – 1937) non fosse unanimemente considerato tra i grandi maestri latinoamericani della forma breve, si stenterebbe a dare per certa la sua esistenza fuori dalla carta stampata. Senza le fotografie che lo ritraggono accanto alla seconda moglie, María Elena Bravo, o con l’amico Leopoldo Lugones (una delle figure di spicco della letteratura argentina della prima metà del Novecento) si potrebbe pensare, piuttosto, che le sventure che tempestarono la sua vita siano state frutto dell’immaginazione di qualche sceneggiatore d’oltreoceano fortemente influenzato dall’universo narrativo di Edgar Allan Poe. In effetti, senza badare troppo alle cronologie, anzi, invertendo l’ordine dei fatti e delle influenze letterarie, se lo avesse conosciuto e fossero stati amici, Poe avrebbe potuto attingere a piene mani dalla vita di Quiroga per l’elaborazione delle sue storie, perché lo scrittore rioplatense fu perseguitato della malasorte, bersagliato dalle disgrazie e votato all’autoisolamento.

 

Horacio Quiroga

 

Raffinato cosmopolita, viaggiò a Parigi perché così doveva essere in quegli anni per un giovane frequentatore dei circoli letterari di Buenos Aires. Rimasto senza nemmeno un centesimo, a Parigi dovette vendere persino le valigie, così si racconta, per pagarsi la traversata del ritorno. Condusse una vita segnata dalla presenza costante della morte (il padre e l’amico più caro furono entrambi vittime di un incidente d’arma da fuoco, il patrigno si suicidò, così come la prima moglie...) e del fallimento personale (le attività legate allo sfruttamento agricolo delle terre vergini nelle province del Chaco e di Misiones lo portarono più di una volta alla bancarotta). Si tolse la vita a cinquantanove anni, nel 1937, due mesi prima del bombardamento di Guernica, consacrandosi per sempre, forse intuendolo, allo spirito di un’epoca in cui fervore e illusioni si rovesciarono poi nella tragedia del conflitto mondiale.

 

 

È uscita da poco, nella collana “Gli eccentrici” delle Edizioni Arcoiris, di Salerno, l’ultima raccolta pubblicata da Horacio Quiroga, L’aldilà, nella pregevole traduzione di Francesco Verde. Alcuni dei racconti riuniti in questo libro sono esempi imprescindibili della raffinata abilità compositiva che l’autore uruguayano raggiunse nel campo del racconto, transitando abilmente dal naturalismo ottocentesco alle prime indagini avanguardiste.

 

Se si è letto Nathaniel Hawthorne (1804 – 1864), non si può ignorare Horacio Quiroga, perché, dalle province remote del Massachusetts alle recondite terre selvagge del Nordest argentino, sulle rive del fiume Paraná, lungo tutta la seconda metà dell’Ottocento fino ad arrivare ai primi decenni del Novecento, corrono sulla spina dorsale delle Americhe nuclei tematici, strategie narrative, artifici formali che paiono richiamarsi mutuamente. Queste storie spesso piegano l’ambiente fisico, l’elemento naturale (ciò che mette paura perché selvaggio e inaccessibile) alla loro specifica capacità di “estendere e allargare le aree della «realtà» umana interiore ed esteriore che possono essere rappresentate dal linguaggio e dalla letteratura” (Remo Ceserani). Attraverso i continui transiti dalla dimensione del consueto, del familiare a quella dell’inaudito e dell’inesplicabile (la selva, la malattia mentale, la morte, l’aldilà), una certa tradizione letteraria americana, dagli echi tragici e di stampo modernista (nell’accezione ispanoamericana del termine), ha contraddetto i rapporti che vigevano tra la realtà e le strategie di rappresentazione, aprendo in questo modo la via a ciò che sarebbe arrivato poi: vale a dire, per esempio e per citare i più noti, le coraggiose proposte di autori del calibro di Jorge Luis Borges e di Julio Cortázar. Alcuni racconti presenti in L’aldilà sono senz’altro degni di essere annoverati in questa tradizione, come il mirabile “Le mosche”, in cui l’incoercibilità dell’elemento naturale non è direttamente riconducibile all’assenza di leggi ordinatrici, bensì è metafora dell’ambiguità degli impulsi umani. L’incorporeità del personaggio e l’assenza dell’azione spingono a pensare che sia l’agonia stessa il fuoco della storia, a cui fa da contrappunto la forza ostile dello spazio circostante che, tuttavia, non agisce, perché il conflitto del protagonista, con la spina dorsale rotta a causa di una caduta rovinosa e le allucinazioni, non prevede termini oppositivi esterni, è tutto interiore e non può che portarlo all’annientamento psicofisico, nella morsa della paura.

 

Incorporei sono quasi tutti i personaggi della raccolta, trattandosi nella maggior parte dei casi di fantasmi. Anche tra gli spettri si distinguono gli eroi dagli antieroi ed è bene specificare che le pagine di questo libro sono infestate da presenze che non terrorizzano. Sono fantasmi antieroici nella misura in cui non possono fare male a nessuno, solo a se stessi, tutti avviluppati come sono nelle loro disgrazie, impigliati nelle loro coazioni a ripetere. Vien voglia di accarezzarli, di abbracciarli, se solo si riuscisse a toccare il flusso luminoso di cui sono fatti per lenire le sofferenze che li colpirono da vivi. Hanno tutti un passato inaccessibile, proprio come chi è ancora in vita, perché condannati a una dimensione di eterna attesa. È il caso dei fantasmi che popolano “Il puritano”, tra i racconti più belli della raccolta, un plotone di attori non spirati del tutto perché in costante apprensione per le loro interpretazioni che vedono nei film proiettati a rotazione nella sala degli studi cinematografici dove albergano: “Siamo morti, è vero, ma una seconda vita, spettrale, incorporea, attenua il gelo delle nostre ossa. Vaghiamo nel silenzio della hall, al chiaro di luna, senza più ansie, passioni, ricordi: mossi soltanto da un vago stupore. E se la penombra non desse alla sala un aspetto d’ambiente quasi domestico, dove i fantasmi di ciò che fummo si fingono ancora vivi, potremmo sembrare anche dei sonnambuli. Le star che ci sopravvivono [...] sono, con i film in cui esse ancora si agitano, l’unico argomento delle nostre conversazioni notturne. Il nostro vero passato – di gioie e dolori – ci è precluso” (p. 100).

 

Il male non è ultraterreno, ma tutto qui, su questa Terra. Non ci sono demoni, ma sventurati. Tanto vale, allora, seguire questi revenants, perché, con Horacio Quiroga, vien voglia davvero di vedere cosa ci sia dall’altra parte.

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I racconti del grande maestro sudamericano

Teatro per ragazzi e non solo

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Sottotitolo: 

Segni d'Infanziaè un festival che si svolge da dieci anni a Mantova con la direzione di Cristina Cazzola. Ha una peculiarità: non solo la consistente dimensione internazionale – dimostrata dagli spettacoli ma anche dal fitto calendario d'incontri e discussioni – o la complessa ricchezza del programma (difficile districarsi in un'offerta ampia e varia che copre dalle 10 di mattina a sera inoltrata per una settimana, dal 26 ottobre al 2 novembre); ma il fatto che è un festival interamente dedicato al teatro per ragazzi. Una delle tante “Cenerentole” spesso troppo di frequente dimenticate dal grande teatro (ufficiale o di ricerca che sia), o almeno non sempre al centro dell'attenzione di teatri e critica; ma che anche in Italia dispone di una quantità di strutture, operatori, occasioni di esposizione e confronto di grande diffusione e spesso anche di qualità, che non hanno nulla da invidiare alla scena – diciamo – per i “grandi” (per farsi un'idea della vivacità del settore, si può dare un'occhiata a Eolo, rivista dedicata al teatro ragazzi diretta da Mario Bianchi). 

 

E a Mantova, nei giorni di Segni d'Infanzia – quest'anno dedicato al tema del lupo, disegnato da Dario Fo per il festival –, fra spettacoli, performance, lectures, incontri di ogni tipo, ma anche giochi, percorsi interattivi e speciali visite guidate, si può vedere proprio quanto sia viva e vivace la realtà del teatro per i più piccini (che però, si scopre nei giorni di festival, è ben aperto e anzi intenzionato a non lasciar fuori dal suo lavoro neanche gli adulti, professionisti del settore o meno che siano). 

 

Segni d'infanzia 2016. 

 

Tutti i linguaggi nel teatro 

 

Una caratteristica dell'arte scenica è da sempre senza dubbio quella di aver la capacità di far confluire sul palco, nel linguaggio del teatro, altre lingue, arti e tecniche, che qui trovano spazio, possibilità d'incontro e confronto. Questo è vero in particolare nel teatro per ragazzi, dove per colpire gli spettatori piccoli e grandi – sembrerà tautologico o banale – la magia del teatro, della performance, dell'accadimento scenico sembra rimanere prioritaria, essenziale. E a Segni d'Infanzia si sono visti molti episodi di questo tipo, anzi quasi tutti gli spettacoli nel breve attraversamento del fitto programma che abbiamo potuto fruire si mostravano innanzitutto per l'esplicito e particolare dialogo fra il teatro e le altre arti. 

Una particolare predilezione – va detto subito – si esprime per la dimensione epica, del racconto e della narrazione – tendenza forse spontaneamente connaturata al teatro per ragazzi e di recente tornata in auge anche sulle scene più in generale. Anche a Segni quasi tutti i lavori visti raccontano storie e più nello specifico scelgono la forma della narrazione di viaggio, proponendo percorsi a tappe fatti di oggetti e parole (su tutti, In viaggio con i Cantalamappa racconto scenico performato dai libri di Wu Ming fra storia e leggende d'Islanda, Australia e Isola di Pasqua nel meraviglioso Teatro scientifico del Bibiena). 

È ovviamente il mondo del grande schermo al centro di Cinema Paradiso di La Luna nel Letto, ispirato fin dal titolo – omaggio all'opera di Tornatore – al mondo dei film.

 

Cinema paradiso.

 

La ricerca di un bimbo – Totò, alias il giovane Giuseppe Di Puppo, bravissimo, di dieci anni appena – della sua mamma perduta è ambientata in una sala di proiezione vecchio stile – un velatino a far da grande schermo, una fila di sedie al di qua e al di là – e si svolge tramite l'incontro con diversi personaggi celebri del cinema, dalle sorelline di Shining a Spiderman ai Blues Brothers. Raccontata da Totò da grande e vissuta dal se stesso piccino, è una ricerca a ritroso di sé e del (o nel) grande cinema del secondo novecento. Ma nel lavoro diretto da Michelangelo Campanale – regista che spesso si mette a confronto con cinema e altre arti nei suoi lavori – entra più in generale la dimensione visiva e d'immagine, in particolare con un disegno luci di grande suggestione. 

 

È il teatro di figura invece a far da contraltare e sostenere l'intero progetto di La rana in fondo al pozzo pensa che il cielo è tondo di Vélo Théâtre: ancora la ricerca di un adulto che ricorda se stesso bambino, ma in questo caso della propria casa d'infanzia. Un viaggio che passa per le 400 e oltre abitazioni raccolte dalla Collezione di Monsieur Brin d'Avoine e che si traduce nel tentativo di ricostruire – attraverso la magia del teatro e soprattutto di particolarissimi oggetti di scena – il ricordo di quella prima dimora. Una casa perduta nei fatti ma ben presente nei sogni, racconti e azioni, che gli spettatori infine sono invitati a esplorare in prima persona, entrando in scena accompagnati dagli attori che spiegano il senso e il funzionamento di macchine di luce, ombre e proiezioni create dal “bricoluminologue” Flop che sono al centro della scrittura scenica.

 

Sono l'acrobatica, la clownerie, le arti circensi e di strada a far da fulcro al travolgente Un eroe sul sofà di Madame Rebiné prodotto da Accademia Perduta Romagna Teatri: la storia di Cosimo, anzi super Cosimo, un supereroe in depressione, che si è rinchiuso in casa una volta perduti i superpoteri (ma ci penseranno uno strano amico immaginario e un ancor più strano “cagnolino” da compagnia a fargli cambiare idea). Andrea Brunetto, Max Pederzoli e Alessio Pollutri in scena fanno veramente di tutto: recitano, raccontano, suonano, cantano, ballano, oltre naturalmente a impegnarsi in momenti di giocoleria e acrobatica; fanno ridere e commuovere, spiazzano, in uno spettacolo il cui fondamento in realtà, oltre che l'incontro fra le arti, è la riuscita relazione fra i tre performer e i rispettivi personaggi. 

 

Un eroe sul sofà, ph Gianluca Bonazzi.

 

Un eroe sul sofà, ph Gianluca Bonazzi.

 

E dovrebbe essere ancora il circo, a un primo sguardo, al centro di Petit cirque di Laurent Bigot: fin dal titolo ovviamente, e poi anche per come si presenta – un vero e proprio piccolo circo, con un plateau di non più di un metro di diametro, popolato di oggettini, palchetti, attrezzi in miniatura e attraversato da una gran quantità di fili appena visibili. Ma non è così, o non soltanto. E non è neanche solo il discorso del teatro di figura, comunque al centro di questa breve suggestiva performance. Che in realtà, appunto, è anzitutto un particolarissimo concerto di musica elettronica, campionata, composta e suonata dal vivo davanti al pubblico, proprio grazie all'interazione dei diversi “protagonisti” – omini, animaletti meccanici, trottole – che Bigot, grande burattinaio-compositore dello spettacolo, conduce in scena e utilizza per creare la musica del “petit cirque”. 

 

Petit cirque, ph Danae Panchaud.

 

Petit cirque. 

 

Temi per l'infanzia? Il teatro e il suo “valore d'uso”

 

Infine, fra narrazione e teatro di figura si muoveIl giardino delle magie di Compagnia INTI, scritto da Francesco Niccolini e interpretato da Luigi D'Elia. Ma la storia che racconta non è di fantasia: lo spettacolo prende spunto dalla vicenda di André Gorz e Dorine Kahn, una storia di vita e d'amore legata a doppio filo dalla politica ecologista, nel pensiero e nei fatti. Gorz, uno dei primi pensatori della decrescita negli anni Settanta, narra il tutto al piccolo Nicolas, in un rapporto fra memoria e filosofia, passato e futuro che viene agito – fra disegni, piccole magie, il profumo del pane che va cuocendo in forno e tante, tantissime piante – nel giardino in cui l'anziano si è ritirato con la moglie. La storia si svolge nel racconto e nei fatti anche per un'altra ragione: non solo per le particolari modalità sceniche o i temi proposti con lo spettacolo, ma anche per le scelte produttive fatte dalla compagnia, per cui lo spettacolo dura “non più del tempo della cottura del pane”, il giardino in scena è stato costruito con l'ausilio di ortolani e giardinieri interpellati ad hoc – alcune delle loro suggestioni sono poi confluite nel copione – e niente di ciò che c'è sul palco è stato acquistato, ma è stato prestato o riadattato per la messinscena (in cambio, gli artisti hanno offerto in baratto un pezzo del racconto). D'Elia, l'attore, nell'incontro aperto al pubblico dichiara di lavorare anche come guida naturalistica alla Riserva di Torre Guaceto, in Puglia; e che è giunto al teatro proprio per trovare un canale efficace per trasmettere, diffondere, sensibilizzare e discutere intorno ai temi ambientali. 

 

Il teatro viene – qui e in diversi spettacoli visti a Segni d'Infanzia – a farsi non fine, con lo spettacolo da fruire e basta, ma strumento utilizzabile ad altri scopi; viene concepito e rielaborato – come voleva la grande tradizione del teatro “more than theatre” (Cruciani) degli anni Settanta – non per il suo valore di scambio ma secondo il suo valore d'uso, la sua efficacia virata ad altri fini: dai temi ecologisti per Il giardino delle magie, a questioni come il post-colonialismo, la diversità, l'immigrazione e l'incontro con l'altro nei racconti di Wu Ming. Ma il programma di Segni d'Infanzia è popolato di lavori che si muovono su questi orizzonti, come gli spettacoli – purtroppo non visti da chi scrive, ma di cui s'è sentito parlare molto nei giorni di festival – La grande foresta sempre di INTI su temi naturalistici e d'ecologia, Little Bang di Riserva Canini sulle origini dell'universo, la difficile questione della guerra in Siamo uomini o caporali di Eccentrici Dadarò. 

 

Il giardino delle magie.

 

Un teatro “tout public”

 

Ma parla anche di morte, Il giardino delle magie, di abbandono, di crescita dei rapporti e di relazioni fra le generazioni, con il suo finale aperto che può lasciare spazio all'immaginazione su dove André e Dorine siano andati dopo l'ultima partenza, partiti per un nuovo ultimo viaggio o chissà. Così anche Cinema Paradiso della Luna nel Letto. Natura e cultura, vincitori e vinti, guerra, progresso scientifico, economico, industriale, rapporto con l'altro, immigrazione, abusi, colonie vecchie e nuove, duri passaggi di vita... Sono tutti temi forti, che dividono; su cui è difficile prendere una posizione chiara, valutando tutti i diversi punti di vista, nelle loro contraddizioni, sovrapposizioni e lacune. 

Fra questi e i linguaggi scelti – per definizione affascinanti, cadenzati da ritmi travolgenti, pieni di sorprese – il teatro per ragazzi visto a Segni d'Infanzia si propone dichiaratamente – come si usa dire – come “tout public”, non settoriale, non legato solo ai più piccoli, ma aperto a una fruizione mista, programmabile tanto per le scuole che per le serate di “normale” spettacolo. È una delle tendenze più diffuse nei lavori presentati al festival, che dal teatro ragazzi sembra far da traino a orientamenti più generali nella scena contemporanea, ultimamente sempre più disinvolta nella trasversalità delle proposte di spettacolo, mentre prova a unire versanti un tempo distinti quando non addirittura opposti come teatro ufficiale e ricerca, prosa e danza, spaziando dalle grandi sale degli stabili alle piccole comunali, a festival e rassegne di diverso tipo. 

 

A volte viene da pensare che forse temi come quelli elencati non siano adatti ai più piccoli. Però, il pensiero immediatamente successivo – lo ricordava Francesca D'Ippolito, organizzatrice de La Luna nel Letto, nell'incontro pubblico – va a quello che ogni giorno si vede passare per tv, sui giornali o su internet, fra guerre, stragi, tragedie sempre peggiori, il tutto amplificato dalla cassa di risonanza del voyeurismo giornalistico. E allora viene in mente che forse il teatro, con la sua capacità di raccontare, mediare, complicare punti di vista diversi ma anche di farli incontrare; con la statutaria possibilità di affascinare ed evocare, di accompagnare nell'intrico di questioni contrapposte con la mediazione magica delle azioni e delle immagini, può invece essere di contro un buon mezzo per affrontare dal vivo, tutti insieme e in maniera un po' diversa i punti dolenti e taglienti che affliggono la nostra quotidianità (volenti o nolenti anche quella dei più piccoli). 

 

Per altre visioni su Segni d'Infanzia 2016 si rimanda al blog curato da Stratagemmi: http://www.segnidinfanzia.org/it/blog

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Segni d'Infanzia a Mantova

Donne e uomini della City

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Che tra il mondo della finanza e quello della stregoneria ci fossero molte affinità era un fatto di cui ero abbastanza convinto, ma dopo aver letto il libro di Joris Luyendijk Nuotare con gli squali, le mie convinzioni si sono rafforzate. Usando il metodo antropologico della ricerca sul campo, l’autore compie una approfondita indagine tra gli operatori di borsa che lavorano nella City londinese. “Lavorano” è forse un termine improprio, non a caso nelle maggiori lingue europee si dice “giocare” in borsa, verbo che rende molto di più l’idea di quanto l’azzardo sia centrale in questa attività. Una delle cose che emergono con maggiore forza dai dialoghi che l’antropologo olandese intrattiene con i banker che accettano di essere intervistati, è la totale inconsapevolezza di ciò che può accadere nel futuro più immediato. Si fa spesso riferimento alla crisi del 2008, che ha portato alla chiusura di grandi banche di investimento e ridotto sul lastrico milioni di persone, una crisi che nessuno, o pochissimi, neppure una settimana prima sospettava.

 

La complessità del sistema messo in piedi e il rischio sempre più elevato fanno sì che tutto possa accadere. In confronto il gioco della roulette appare molto più rassicurante: se punto sul rosso o sul nero so di avere il 50% di probabilità e se gioco su un numero so che le mie chances sono una su trentasette. In borsa no, nessun calcolo delle probabilità funziona. 

A partire dagli anni Settanta si è così avviato un processo, sempre più rapido e intenso, di finanziarizzazione del capitalismo mondiale. Il lavoro ha lasciato uno spazio sempre maggiore al capitale e alle transazioni monetarie ed è in seguito a questa trasformazione, che prende via via sopravvento lo spirito dell’incertezza. È importante riprendere la distinzione formulata dall'economista Frank H. Knight, tra incertezza e rischio. Le situazioni di rischio sarebbero quelle in cui gli esiti sono sconosciuti, ma la distribuzione delle probabilità è nota fin dall’inizio. Al contrario, in quelle dell’incertezza, la distribuzione delle probabilità è invece ignota. Il rischio è ormai parte integrale del meccanismo capitalistico contemporaneo e i dispositivi che misurano, modellano e prevedono il rischio, sono centrali nella finanziarizzazione del moderno capitalismo.

 

Ph Bert Hardy.

 

Il mondo che emerge dalle pagine di Luyendijk è fatto di attori che sembrano comprendere poco questo meccanismo, ma che soprattutto non sanno metterlo in relazione con la vita al di fuori dei loro uffici. Si potrebbe quasi parlare di “banalità della finanza”, nel sentire questi operatori dire che non si rendono conto di potere ridurre milioni di persone in miseria con un clic o una telefonata. Attori che vivono alla giornata, in una arena feroce, dove tutti sono contro tutti. Non a caso la maggior parte degli intervistati chiede l’anonimato e sceglie luoghi nascosti per incontrare l’autore. Una banca ti può licenziare in cinque minuti e quindi il tuo orizzonte di interesse è di cinque minuti.

 

Nessuna fedeltà, ognuno per sé.

Già negli anni Settanta un altro antropologo, Abner Cohen, aveva studiato le donne e gli uomini della City, una élite formata da individui che ogni giorno trattano affari per milioni di sterline senza uso di documenti scritti, combinati soprattutto a voce, in conversazioni faccia a faccia o telefoniche. Una comunità che si fonda sull’oralità e pertanto su una forte fiducia reciproca, che può esistere solamente tra persone che si conoscono reciprocamente, condividono gli stessi valori, parlano un linguaggio comune e soprattutto sono legati da una rete di relazioni primarie governate dagli stessi valori e dagli stessi modelli di comportamento. Una comunità apparentemente informale, ma dietro la quale si nasconde una trama fatta di evidenti legami anche di tipo parentale. Il tasso di endogamia tra le persone che lavorano nella City è infatti molto elevato. 

 

Ph Bert Hardy.

 

Anche Luyendijk rivela come tra computer, tablet e telefoni sempre caldi ci siano dei rituali particolari, esclusivi, caratterizzati da un linguaggio infarcito di termini tecnici, volto a distinguere chi è lì da chi è fuori. Tra chi suda per guadagnare un po’ di denaro e chi ne vede scorrere a fiumi e sa, come afferma uno degli intervistati, di lavorare in un mondo che spreca denaro. Denaro altrui.

Linguaggio esoterico, circolazione ristretta di informazioni, endogamia, abbigliamento particolare: tutti elementi che evocano valori e codici arcaici, come afferma ancora Cohen quando sostiene che in fondo la City è una comunità «tenuta insieme da un complesso corpo di usanze che, per chi ne è fuori, sono esoteriche e bizzarre come quelle di una qualsiasi cultura estranea». Una cultura che sembra operare al di fuori degli schemi dominanti, proprio come fanno maghi e stregoni. Costoro tentano di controllare e manipolare la natura servendosi di pratiche e mezzi particolari, esclusivi, di cui solo loro conoscono i poteri.

 

«Se un uomo trova un diamante, ha fortuna, se un uomo trova due diamanti, ha molta fortuna, se un uomo trova tre diamanti: è stregoneria» recita un proverbio africano. La stregoneria e la magia, infatti, spiegano ciò che è evidentemente molto lontano dalla normalità. «L’uomo pretende ragioni e spiegazioni», scriveva il grande antropologo statunitense Clyde Kluckhohn, e religione, stregoneria e magia possono fornire spiegazioni a eventi difficilmente classificabili con le categorie del quotidiano. La finanza non è molto diversa.

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Nuotare con gli squali

Invito

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Pubblichiamo l'ultima delle quattro poesie di Robin Morgan. Qui il saggio introduttivo di Maria Nadotti, qui la prima delle poesie da lei scelte, qui la seconda e qui la terza.

 

Quando è di te che piangi –

non è, vedi, pietà, è lutto –

non per i tempi andati o i treni che hai mancato.

C’è una ragione sola: hai smarrito la quiete

e te ne accorgi. Be’, non mentre dormi, tu sei tranquilla

mentre dormi. Ma appunto, nel sonno, non sei tu

a rispecchiare la pace, immobile di un lago.

Ora, da sveglia, costante le tue superfici increspa il vento.

 

È un poco faticoso, però è meglio

che tu ci faccia l’abitudine:

questi minimi spasmi che ti scuotono

sono soltanto assaggi,

brusio di quanto sta per arrivare.

Non puoi – non lo puoi più –

essere pace fuori come sei pace

adesso, nel profondo. Meglio così

 

che alla rovescia. Guarda, sei in sincronia:

tu, l’universo, e metabolica

la vita intera, moto incessante

onde, semenza, uova che si spaccano

galassie in movimento

in collisione, soli che periscono ardendo,

cellule che si separano, chi mai ha bisogno di quiete?

La quiete è morte.

 

No. Nemmeno la morte può starsene tranquilla. La morte brulica

di attività, batteri vivi, putrefacenti.

Il compost si contorce catabolico, caldo, indaffarato.

Da quando il big bang si destò in un sussulto

al vibrare di ogni corda, la quiete non si trova.

Chi sei allora tu, per piangerti? Whitman osò cantare

il corpo elettrico. Questa è la tua occasione.

Fa’ di meglio, mia cara. Danza.

 

Traduzione dall’inglese di Cristina Alziati e Maria Nadotti.

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Quattro Poesie

"Knight of Cups"

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Sottotitolo: 

22 maggio 2011: nella serata conclusiva del 64° Festival Internazionale del Cinema di Cannes, la giuria del Concorso internazionale lungometraggi, presieduta da Robert De Niro, assegna la Palma d'oro per il miglior film a The Tree of Life, quinto lungometraggio di Terrence Malick in 38 anni di carriera. Quella data e quell'evento rappresentano uno spartiacque nella vita artistica del regista di Ottawa, Illinois. Da un lato, infatti, segnano una nuova fase della sua carriera, caratterizzata da un'inedita iperattività che fa da perfetto contrappunto ai lunghi silenzi creativi del passato: cinque anni tra La rabbia giovane (1973) e I giorni del cielo (1978), venti fra questo e La sottile linea rossa (1998), altri sette prima di arrivare a The New World (2005), sei per il succitato The Tree of Life. Dall'altro, pongono fine a quell'inviolabilità critica che ha da sempre contraddistinto la carriera del cineasta, sin dagli esordi. Da allora, sono fioccate le espressioni contrariate, gli sguardi in tralice, le bonarie paternali, gli inviti a volare basso e a non atteggiarsi a filosofo, e infine le aperte invettive. E se il successivo To the Wonder (2012), giunto a distanza di appena sedici mesi dal giubilo della Palma d'Oro, era riuscito a mantenersi sulla linea di galleggiamento del consenso grazie soprattutto ad alcuni abbacinanti squarci di cinema malickiano d'antan, con l'ultimo Voyage of Time (2016) – complice, forse, l'abbandono dell'antropocentrismo della messa in scena, sul quale torneremo a tempo debito – la percezione del cinema di Malick è scivolata irrimediabilmente verso l'aperto dileggio.

 

Terrence Malick. 

 

In mezzo ai due titoli di cui sopra c'è Knight of Cups, presentato alla Berlinale 2015, forse l'opera del regista che ha maggiormente polarizzato il giudizio critico. Su un fronte, l'esercito degli irredentisti, convinti che Malick continui a fare film che non siano niente di meno del capolavoro, come ebbe a dire il decano dei critici statunitensi Leonard Maltin; tra questi vale la pena citare Richard Brody del New Yorker, che in un lungo ed entusiasta articolo esordisce affermando che "nessun film nella storia del cinema segue i movimenti della memoria così fedelmente, appassionatamente e profondamente come Knight of Cups", per poi chiosare: "[...] la produzione di bellezza in un mondo di sofferenze, e a partire dalle tue stesse sofferenze, è la cosa più vicina a una chiamata divina che un artista possa avere, e la cosa più vicina all'esperienza religiosa che l'arte possa offrire". Sull'altro versante, il non meno nutrito battaglione dei revisionisti, al quale ormai sembrano essere venute a noia anche le proverbiali bizzarrie del regista sul set: nel caso specifico, attori lasciati senza sceneggiatura ed edotti a colpi di "pizzini" consegnati nell'imminenza delle riprese di ciascuna scena, contenenti indicazioni men che generiche sulla stessa; oppure interpreti fatti irrompere nel mezzo di una scena in cui la loro presenza non era prevista, e all'insaputa dei colleghi.

 

Il coro, da questo lato della contesa, è unanime: a Malick viene rimproverato il ripiegamento ombelicale su ossessioni che appartengono solo a lui, con l'aggravante di ammantarle di un ecumenismo perlopiù velleitario, capace di convocare i massimi sistemi al solo fine di strumentalizzarne gli elementi più superficiali con il pretesto di produrre un sedicente "cinema di poesia". Anche in questo caso, avremmo gioco facile nel pescare nell'ampio serbatoio dei detrattori d'oltreoceano, ma proprio al momento di scrivere queste righe ci passa sotto gli occhi il severo pamphlet pubblicato sul Venerdì di Repubblica, a firma di Cristiano Governa. Il quale, oltre a rinfacciare a Malick la laurea in filosofia a Harvard e l'interesse per Heidegger e l'ontologia, sancisce l'ontologica (appunto...) inutilità del confronto tra sostenitori e denigratori, i quali "lo adorano e lo odiano per lo stesso motivo: non capiscono niente di cosa stia dicendo".

 

 

Questo è il terreno, invero assai accidentato, sul quale si gioca la "partita" di una lettura senza pregiudizi di Knight of Cups. Che a onor del vero, non fa nulla per rendere il nostro lavoro più agevole. Tutt'altro; in quest'opera tanto ambiziosa quanto contraddittoria, Malick riversa tutta la radicalità del suo sguardo, ormai completamente svincolato – lo ammette persino l'apologetico Brody, in un altro passaggio del suo encomio solenne – dal bisogno di ancorare l'immagine al sonoro secondo un rapporto di stretta interdipendenza. Neanche Robert Bresson o gli avanguardisti più radicali si erano spinti così oltre: in Knight of Cups, semplicemente, suono e immagine raccontano due storie diverse, seguendo traiettorie del tutto indipendenti l'una dall'altra. Eppure, per paradosso, è solo attraverso la costante tensione dialettica tra questi due circuiti che è possibile distillare un senso autentico dal film. Senso che è grossomodo quello dei film precedenti: cercare di afferrare l'inafferrabile materia prima dell'esistente per mezzo di una sua inesauribile interrogazione. Con piccole varianti rispetto al passato: infatti, se The Tree of Life e To the Wonder (concentriamoci solo su questi due, giacché Knight of Cups appartiene alla medesima famiglia) sembravano, ciascuno a suo modo, vagheggiare un altrove in cui la triviale materialità della vita, il suo peso e la sua limitata finitezza, venissero destituite di ogni centralità, in Knight of Cupsè proprio il triviale, il volgare, persino lo scatologico, a dominare la ricerca del protagonista. Sotto questo aspetto, l'opera numero otto di Terrence Malick è quasi una riscrittura in maschera dell'ormai lontano La sottile linea rossa.

 

Lì la tragica matericità della guerra a fare da sfondo alle riflessioni di un manipolo di personaggi ciascuno alle prese con il suo personale Dasein (eccolo Heidegger...), qui un solo personaggio alle prese con il tentativo di ricomporre il puzzle di un'esistenza destrutturata nel luogo meno materico e al tempo stesso più greve e tronfio della Terra: Hollywood.

Ci sarebbe da aprire una lunga parentesi sulla frequenza sempre più sostenuta con cui cinema e televisione mettono il naso nelle pieghe più oscure della più potente industria dell'entertainment globale, con il solo scopo di tirarne fuori lacerti di umanità dissennata, prigionieri di quell'edonismo apparentemente indispensabile per sopravvivere alle lusinghe di un luogo così traboccante di tentazioni. Autori di intelligenza adamantina come David Lynch (ma Mulholland Drive, ormai, è quasi un progenitore) e David Cronenberg (Map to the Stars), sapidi commedianti come Ben Stiller (Tropic Thunder) e qualche serie televisiva di indubbia arguzia come Entourage o Californication hanno corteggiato a più riprese la parte deteriore della Mecca del Cinema, distillandone materiale narrativo con un manualistico mélange di attrazione e repulsione. D'altronde, non è la stessa operazione messa in atto dai fratelli Coen in Ave, Cesare!, malgrado l'ambientazione negli anni Cinquanta?

 

 

Non sembra pretestuoso né casuale, allora, il fatto che il Rick interpretato da Christian Bale in Knight of Cups somigli a una versione esistenzialista dell'Hank Moody incarnato da David Duchovny proprio in Californication. Entrambi sceneggiatori disillusi, entrambi schifati dalla vita e da loro stessi, entrambi circondati da donne bellissime eppure inquieti ed errabondi. Rick è il cavaliere di coppe del titolo, la sua identità appare incardinata nella carta dei tarocchi che lo rappresenta: e con lui gli uomini e le donne della sua vita, presentati in una successione di capitoli che mutuano il titolo dalle carte loro associate. Poco a poco, veniamo a conoscenza dei traumi del passato di Rick – un fratello morto, un matrimonio fallito – e dei suoi tentativi, perlopiù velleitari, di riscatto personale. I quali passano tutti per delle conoscenze femminili. Muovendosi fra Los Angeles e Las Vegas come una zattera alla deriva, senza sottrarsi mai ai vizi e all'abiezione, solo in occasione dell'ultimo incontro Rick riuscirà a intravedere la luce in fondo al tunnel.

 

Stipato all'inverosimile di immagini di una bellezza tale da lasciare senza fiato –

 la fotografia è del messicano Emmanuel Lubetzki, specialista dell'uso della luce naturale, abituale collaboratore di Alfonso Cuarón e Alejandro González Iñárritu, al fianco di Malick dai tempi di The New World–, cullato da movimenti di macchina (spesso a mano, per quanto possa apparire incredibile) tanto morbidi quanto non incasellabili in un codice preciso, saldato alla curiosità spettatoriale dalla presenza della consueta vendemmia di divi (oltre al già citato Bale, Cate Blanchett, Natalie Portman, Antonio Banderas, Freida Pinto, Wes Bentley, Brian Dennehy, più la voce narrante di Ben Kingsley), Knight of Cupsè un film volutamente enigmatico, che non fa nulla per nascondere la propria afasia, evidente malgrado gli estenuanti monologhi "joyciani" (in molti hanno parlato di stream of consciousness) in voce over che accompagnano l'erranza di Rick. Dice molto, ma non riesce a dire tutto, e per questo, al pari del suo protagonista, si macera nel dubbio e nell'incertezza. La macchina da presa guarda a destra, poi a sinistra, cerca un personaggio, lo trova, poi cambia idea e lo abbandona, rapito da una nuova suggestione, da un pensiero che si sovrappone al precedente e lo soffoca. In questo, Malick è un maestro: riesce a trasformare uno stato d'animo non decodificabile in stile, dotandolo di una cifra, e dunque di una sostanza. Basterebbe questo a fare dei suoi lavori una delle poche esperienze imprescindibili del cinema contemporaneo, senza scomodare paragoni letterari inopportuni. Per chi invece cerca un'esperienza visiva e uditiva più tradizionale, si prega di ripassare.

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Malick e l'inafferrabile leggerezza dell'esistente

Il terremoto, Wikipedia e il tempo

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Domenica 30 ottobre ero inchiodata, come milioni di italiani, di fronte alle immagini del terremoto che ha colpito, di nuovo, il centro Italia. Le immagini erano un po’ sgranate, pixellate, e già questo, in tempi di Full HD e banda larga e fotocamere sensibilissime nei cellulari, dava tangibile evidenza della difficoltà delle comunicazioni. Era un segno evidente dell’inciampo, dell’inadeguatezza della tecnologia, o per meglio dire dei suoi limiti, anche della sua fragilità, che a volte rischiamo di non percepire più.

Sentiti per telefono i miei parenti, saputo che stavano bene fisicamente, benché fossero provatissimi nello spirito, gli occhi tornavano alle immagini televisive. Soprattutto a quella facciata della basilica di San Benedetto, foglio di pietra rimasto miracolosamente in piedi mentre, dietro, mura e tetto sprofondavano, accumulandosi in macerie scomposte. Era come guardare il volto di Medusa, col fascino e l’orrore che si rincorrevano a gara.

 

Guardando quella chiesa bellissima, che colpevolmente non avevo mai visto di persona, pensavo che – come la Siria, ad esempio – esistono luoghi, nel mondo, che sembrano scolpiti nell’eternità: uno pensa “prima o poi devo andarci, devo andare a vedere, posare i piedi lì, girare intorno a quelle chiese, vedere come il sole del mattino batte su quelle pietre”, e pensa di avere tutto il tempo del mondo per farlo: perché la vita è lunga, le pietre eterne. E poi all’improvviso, il tempo finisce: quella possibilità si cancella, un pezzo del mondo scompare, e un pezzo di noi – quello che potevamo essere, essendo lì – scompare con lui.

 

 

Guardando quella facciata senza più niente che la sostenesse, senza pinnacoli, senza croce, ho avuto voglia di vedere com’era prima, ripercorrere le vicende che aveva attraversato riuscendo a rimanere in piedi, nei quasi inevitabili avvicendamenti di costruzione e ricostruzione, di morte e resurrezione, che ogni monumento attraversa: vederla ancora viva, ancora battuta dal sole; con i suoi colori, i colori che aveva fino a ieri, non con quel biancore lattiginoso della polvere sollevata dal terremoto.

Ho fatto ciò che facciamo tutti, tante volte: ho aperto la voce “Basilica di San Benedetto” di Wikipedia. E lì, lo shock. A distanza di non più di tre ore dalla scossa di terremoto delle 7.40, alla voce primaria riassuntiva, quella per intendersi che raccoglie i dati geografici e cronologici e precede l’Indice («La basilica di San Benedetto è un importante luogo di culto cattolico di Norcia, in provincia di Perugia, situato nel centro storico della città; rientra all’interno del territorio della parrocchia di Santa Maria nella Concattedrale [...]. La basilica sorge su quella che secondo la tradizione era la casa natale dei santi Benedetto e Scolastica, nati nel 480 d.C. da una nobile famiglia, come riferisce san Gregorio Magno nei suoi Dialoghi»), era stata aggiunta questa riga e mezza: «La basilica è in gran parte crollata in seguito al violento sisma del 30 ottobre 2016. Soltanto la facciata e parte delle navate sono rimaste in piedi».

L’effetto di terremoto temporale è stato fortissimo.

 

Ciò che stavo e stavamo vedendo come cronaca, come irruzione dell’hic et nunc nei tempi lunghi della vita, si era già trasferito sulla pagina dell’enciclopedia digitale. Evidentemente qualcuno non si era fermato e smarrito, come me e come tanti, davanti a quelle immagini, ma aveva aggiornato la pagina: fissando l’esito ultimo, a oggi, della storia di quella chiesa.

L’effetto, su di me – lettore ideale –, non è tuttavia stato di riconoscenza, ma di dispetto. Aprendo quella pagina, io cercavo di fermare il tempo: cercavo un appiglio allo sgretolarsi delle cose, cercavo di fermare gli occhi su una parola che permanesse, mentre la res si era distrutta poche ore prima. Cercavo una pagina che trattenesse come tesoro prezioso l’immagine e la storia di quella chiesa, prima che la natura rapinosa se ne facesse beffe, e la leopardiana «una ruina» la travolgesse. Cercavo di pensarla com’era, prima di essere costretta dalle cronache a vederla così com’è.

Non è questo che chiediamo ai libri? Una sospensione del tempo, il racconto e l’immaginazione di ciò che era e che potrebbe continuare a essere, se solo gli concediamo lo spazio della nostra memoria. Ma la memoria dell’enciclopedia digitale non è fissata su carta, quella carta lenta che ci consente di trattenere il passato e di dare forma al tempo: vive dei tempi brucianti dell’ora, dell’aggiornamento dello status– che cosa stai facendo in questo momento? dove sei? che cosa stai guardando? che cosa stai fotografando, senza neanche guardarlo?

 

Leggere che la basilica «è in gran parte crollata» in seguito al terremoto che è accaduto oggi, stamattina, a me provoca un grande turbamento. È come se non avessi ancora avuto il tempo di pensare a quel crollo, di metabolizzarlo, di piangerlo, e già mi viene indicato come storia. Un simile shock l’aveva messo in carta forse solo Petrarca, quando all’inizio del sonetto 18 scriveva: «Quand’io son tutto volto in quella parte / ove ’l bel viso di madonna luce, / e m’è rimasa nel pensier la luce / che m’arde e strugge dentro a parte a parte...». Solo Giuseppe Ungaretti aveva avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà temporale, e grammaticale, di quel “m’è rimasa”: un passato che si insinua nel presente più assoluto («Quand’io son tutto volto») e lo travolge, trasformandolo in memoria non dopo che si è compiuto, ma nel momento stesso in cui si compie. Però per Petrarca è un azzardo logico, un enigma, l’ennesimo gesto antidantesco, forse la traduzione di un rapporto temporale agostiniano: una sfida all’intelletto, la vita che si trasforma in memoria e in letteratura senza neanche vivere come vita. Wikipedia ha meriti grandissimi e innegabili, ma quella riga e mezza non è una sfida: semplicemente, liquida la storia ponendola sotto le insegne dell’oggi.

 

Ma il lutto ha i suoi tempi: scrivere che la basilica «è crollata», senza darsi il tempo della percezione, dell’accettazione, dello smarrimento e del lutto, non può, appunto, che liquidare la vicenda, saltando a piè pari il tempo del pianto. Vedere scritto che la basilica «è crollata», mentre quasi la si vede crollare, non dà scampo. La lunga storia della basilica di San Benedetto si chiude qui, senza il conforto di un rifugio possibile: quello che darebbe, ad esempio, un’enciclopedia cartacea che uno potrebbe sfogliare, per sospendere il tempo e continuare a far vivere nella memoria ciò che gli accidenti dell’oggi hanno distrutto.

La lotta della cronaca contro la storia è crudele. Basterebbe, a insegnarla, la struggente ottava finale dell’Innamorato del Boiardo, in cui l’entrata in Asti, nel 1494, delle truppe di Carlo VIII mette fine ai giochi e ai sogni e al tempo lungo del racconto. Boiardo vede dalla finestra «questi Galli», che vengono a conquistare non si sa quale prodigioso e glorioso luogo, li guarda con irrisione, ma è costretto a deporre la penna:

 

Mentre che io canto, o Iddio redentore,

Vedo la Italia tutta a fiama e a foco

Per questi Galli, che con gran valore

Vengon per disertar non so che loco;

Però vi lascio in questo vano amore

De Fiordespina ardente a poco a poco;

Un’altra fiata, se mi fia concesso,

Raccontarovi il tutto per espresso.

 

«Un’altra fiata», l’altra volta del racconto, non gli fu concessa: Boiardo morì tre mesi dopo. Nello scontro tra la storia e la cronaca aveva già vinto la seconda.

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Storia e cronaca

Under a different sun

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Intervista con Jeannette Ehlers

Per Why Africa?EX NUNC presenterà una serie d’interviste con artiste africane e delle Diaspore, partecipanti al progetto curatoriale UNDER A DIFFERENT SUN. Il programma espositivo e performativo, che avrà luogo a Venezia a Dicembre 2016, si concentrerà su storie perdute e memorie negate, riviste attraverso prospettive femminili e diasporiche. UNDER A DIFFERENT SUNè un progetto ideato e curato dalle co-direttrici di EX NUNC, Chiara Cartuccia e Celeste Ricci, nel più ampio contesto della terza edizione di Venice International Performance Art Week | Fragile Body-Material Body, curata da Verena Stenke e Andrea Pagnes.

 

***

 

English Version

 

La seconda intervista della serie vede la partecipazione dell’artista multimediale, danese d’origini caraibiche, Jeannette Ehlers. Ehlers sceglie, quali temi centrali nella sua ricerca, narrative storiche precarie e marginalizzate, moderne e antiche: tratta degli schiavi, nuovi e vecchi colonialismi vengono scandagliati dall’artista attraverso un’acuta pratica performativa.

 

EX NUNC - La tua pratica artistica abbraccia argomenti molto ben definiti, quali la commemorazione, il recupero di narrative storiche dimenticate, e la rimessa in discussioni di problematiche legate a razzismo e colonialismo. Da artista danese, ma di origini afro-caraibiche, qual è il tuo specifico modo d’affrontare questi temi?

 

Jeannette Ehlers - Sono particolarmente interessata a dare la giusta visibilità a questi argomenti, che sono normalmente avvolti dall’ignoranza, dall’incuria e dal silenzio, specialmente nell’ambiente danese. Nel mio lavoro cerco sempre di stimolare domande complesse, in modo creativo e sottile. Il mio approccio è spesso personale ed è importante per me che la mia pratica rifletta questa caratteristica, pur avendo risonanza in un discorso globale.

 

Jeannette Ehlers, Atlantic (Endless Row), 2009.

 

EXN -Parlando di colonialismo, l’ampio coinvolgimento della Danimarca nella tratta atlantica degli schiavi è un fatto quasi sconosciuto, per un pubblico non danese. In quale maniera cerchi di sensibilizzare l’opinione pubblica su questi temi, in Danimarca e all’estero?

 

J.E - Sì, abbiamo a che fare con un’incredibile amnesia coloniale scandinava. È un dato particolarmente significativo, e riflette la mentalità di molti abitanti della regione. Il mio lavoro tratta queste questioni su vari livelli, tanto nei lavori video quanto nelle performance. Sento la necessità di continuare a investigare ostinatamente e cercare di smuovere la coscienza circa l’impatto che le strutture razziste, costituire durante l’era coloniale, hanno sulla società contemporanea. C’è ancora moltissima strada da fare, ciò non di meno ho notato un crescente interesse per l’argomento, nei media e nel pubblico. Un dato questo che trovo sicuramente confortante.

 

Ho una vasta rete internazionale di collaboratori e partner, che sono stati e sono di grande ispirazione per me. Sono stata coinvolta diverse volte nell’organizzazione dell’evento de-coloniale BE.BOP (Black Europe Body Polics), fondato dalla curatrice Alanna Lockward. Questo è solo uno dei molti modi in cui tento di accrescere la consapevolezza sui temi del colonialismo. Mi dedico in modo saltuario anche all’insegnamento, un’attività che trovo molto fruttuosa e appagante. I giovani hanno una mentalità aperta, si dimostrano desiderosi di imparare e di attivare un cambiamento. Sono rassegnata per quel che concerne la mia generazione e le precedenti, ma ho ancora fiducia nelle generazioni più giovani. L’apparato coloniale è “solo” una sovrastruttura, eppure guardate dove ci sta portando. Il mondo sanguina. No, le cose non devono rimanere come sono…

 

EXN -Il video The Invisible Empire vede tuo padre quale narratore di una storia complessa. Il lavoro connette la storia personale della tua famiglia, nel contesto della tratta atlantica degli schiavi, e il traffico di esseri umani che avviene ai giorni nostri. Sembra affrontare la questione dell’oralità, come modo diverso e nuovo di raccontare la Storia e le storie. Puoi dirci qualcosa di più circa questo lavoro?

 

J.E - The Invisible Empire ha come oggetto la moderna schiavitù e penso sia cruciale fare diretto riferimento a questo problema, quando si parla di questioni coloniali. Una linea precisa connette le due questioni. Nel video uso mio padre, diretto discendente di schiavi africani, come protagonista, in modo tale da connettere il personale al globale e legare la schiavitù trans-atlantica al traffico d’uomini di oggi. Entrambe le cose affondano le radici nello stesso sistema, quello capitalista.

 

Jeannette Ehlers, Black Bullets, 2012. 

 

EXN -La serie fotografica Atlantic (Endless Row)è stata ispirata da un viaggio in Ghana. Quest’opera è un esempio pertinente della maniera in cui costruisci i tuoi lavori, attraverso un processo di sottrazione, piuttosto che d’addizione. In Atlantic (Endless Row) crei una potente immagine performativa, includendo solo pochi elementi visuali. Puoi dirci di più a riguardo?

 

J.E - Come già accennato, nel mio lavoro miro a ottenere un’espressione visuale discreta che al tempo stesso implichi una significativa complessità. In Atlantic (Endless Row) l’immagine viene manipolata, così da cancellare alcuni elementi molto importanti. Le foto, scattate su una spiaggia in Ghana, mostrano sulla riva il riflesso di una fila di persone che camminano verso l’acqua. L’unico elemento visibile è il loro riflesso.

 

Cancellando la presenza fisica di queste persone, punto il dito alla storia coloniale danese, che è stata dimenticata e cancellata. Ciò nonostante le strutture coloniali sopravvivono. Hanno funzionato come fondamenta per l’industrializzazione della società moderna. Cancellare i protagonisti della foto significa anche sottolineare la dis-umanizzazione sistematica che la schiavitù implica. Ogni cosa viene portata via: famiglia, identità–tutto! Il trauma collettivo della diaspora africana riveste un grandissimo interesse per me.

 

EXN - Un altro lavoro di grande impatto visivo è il video Black Bullets. In quest’opera l’elemento sonoro gioca un ruolo fondamentale. Cosa comunica il suono in questo pezzo in particolare, e come lo usi nella tua pratica artistica?

 

J.E - In Black Bullets l’elemento sonoro è fondamentale. Una serie di figure nere si muovono in una sequenza ripetitiva, attraversando un orizzonte argentato, al battito di un suono/ronzio pesante e ipnotico. Black Bulletsè un tributo alla rivolta ed è ispirato all’insurrezione di schiavi africani di Santo Domingo, sotto la guida dell’ex schiavo Toussaint L’Ouverture, evento che ha aperto la strada all’instaurazione dello stato indipendente di Haiti nel 1804. La Rivoluzione di Haiti è iniziata come una cerimonia voodoo, a Bois Caiman, Haiti. La colonna sonora di Black Bullets evoca uno stato di trance, che esprime forza e persistenza. Sono una persona attratta dalle sonorità, e uso il suono come uno strumento in grado di creare narrative ed enfatizzare l’immagine.

 

Jeannette Ehlers, The Invisible Empire, 2010.

 

 

EXN -Circa la tua peculiare chiarezza visiva, sembra che tu traduca questa stessa attitudine anche nella tua pratica performativa. Nella performance Whip It Good concentri una complessa storia di schiavitù in un solo, violento gesto che diviene creativo. La performance vede la partecipazione del pubblico, ai cui membri è chiesto di prendere il tuo posto e frustare la superfice bianca. Qual è stata la risposta dei diversi tipi di pubblico che hai incontrato fino ad ora?

 

J.E - Ho principalmente avuto esperienza di persone molto coinvolte emotivamente nel pezzo – anche nel caso scelgano di non intervenire direttamente. Frustare è un’azione molto brutale e il pubblico ha varie motivazioni nel decidere se interagire o non farlo. Sicuramente possono esserci differenti interpretazioni del pezzo e, più importante, percezioni assolutamente contraddittorie, a seconda di chi sia a tenere la frusta. Ho presentato Whip It Good in diverse contesti, e ogni luogo è diverso. Ho notato impressionanti contraddizioni tra l’esperienza di esecuzione di Whip It Good a Copenhagen, davanti a un pubblico composto a larga maggioranza da danesi bianchi, che non si sono tirati indietro nello sferzare la tela, a quella di Città del Capo, con un pubblico misto di bianchi e neri, dove solo le persone nere prendevano in mano la frusta. Questo contrasto mostra la consapevolezza e la connessione con l’eredità coloniale di queste due nazioni. E mette in forte evidenza il totale scollegamento dei danesi al loro passato (e presente) coloniale.

 

EXN -Credi che la pratica del performativo possa stimolare un cambiamento nella comprensione dei passati storici, e nella ridefinizione dei modi della storiografia?

 

J.E - Credo che la pratica della performance possa avere un grandioso impatto sulla comprensione della storiografia e del presente. Un lavoro aggressivo come Whip It Goodè in grado di accrescere la consapevolezza. Le esperienze del pubblico sono molto inquietanti o piuttosto liberatorie. Ancora una volta, dipende da molti fattori: ragioni personali e contesto storico, che è così strettamente legato al pezzo. È, per esempio, un uomo bianco o una donna nera a tenere la frusta? Quanto è consapevole il partecipante? E così via. Ma, dopo tutto, credo che questo confronto possa veramente aprire gli occhi; perché genera nuove riflessioni e inedite consapevolezze sulla colonialità. 

 

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Intervista con Jeannette Ehlers

Under a different sun

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Interview with Jeannette Ehlers

For Why Africa?, the curatorial collective EX NUNC presents a series of interviews with women artists from Africa and Diasporas, participating in the upcoming curatorial project UNDER A DIFFERENT SUN. This exhibition and performance programme, which will take place in Venice in December 2016, will discuss topics of lost histories and negated memories from female, diasporian perspectives. UNDER A DIFFERENT SUN is a project conceived and curated by EX NUNC’s co-directors Chiara Cartuccia and Celeste Ricci, in the framework of the third edition of Venice International Performance Art Week | Fragile Body-Material Body, curated by Verena Stenke and Andrea Pagnes.


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Italian Version

 

This second interview in the series features Danish-Caribbean multimedia artist Jeannette Ehlers. Ehlers’ subjects of research are precarious and neglected historical narratives, modern and ancient slave trades, new and old colonialisms, which she investigates trough her sharp, performative artistic practice.  

 

EX NUNC-Your artistic practice focuses on specific subject matters, such as recollecting memories, recovering lost histories, discussing issues of race and colonialism. As a Danish artist with Afro-Caribbean heritage, how do you approach these themes?

 

Jeannette Ehlers- I’m very keen on bringing these issues forward since they are surrounded by ignorance, neglect and silence, especially in a Danish context. In my work I always try to raise complex questions, in a subtle creative manner. My approach is often personal and it’s very important for me that my work somehow reflects this characteristic, while resonating in a global discourse.

 

Jeannette Ehlers, Atlantic (Endless Row), 2009.

 

EXN- Talking about colonialism, the large involvement of Denmark in the Atlantic slave trade is almost an unknown fact from a foreign perspective. How do you try to raise awareness about these issues, in Denmark and abroad?

 

J.E- Yes, we’re dealing with a huge Scandinavian colonial amnesia. It is quite significant and reflects in the mindsets of many in this region. My work deals with this issue, on several levels both in my video works and in my performances.  I feel a need to persistently investigate and raise awareness about the impact on contemporary society of those racist structures, which were established in the colonial era. There’s still a long way to go, however there has been quite some interest from the media as well as from the audience, which I mostly find uplifting. 

 

I have a great international network of people that is very inspirational. I have been involved in bringing the decolonial event BE.BOP (Black Europe Body Politics), founded by curator Alanna Lockward, to Denmark a few times. This is one of the many ways in which I try to raise awareness. Every now and then I also teach, an activity that I find quite fruitful and giving. Many youngsters are open minded and eager to learn and, hopefully, eager for change. I totally gave up on mine and older generations but, but there is hope in the younger ones. The colonial system is “only” a superstructure and look where it is taking us. The world is bleeding. No it doesn’t have to be this way…

 

EXN- The video The Invisible Empire features your father as the narrator of a difficult story. The work links your own family’s history, within the transatlantic slave trade, to contemporary human trafficking. It seems to deal with orality, as a way to tell histories and stories in a different manner. Can you say more about this work?

 

J.E- The Invisible Empire deals with modern slavery and I felt it was crucial to address this issue when working with colonial matters. There is a straight line from the first to the second. I use my father, descending from enslaved Africans, as the protagonist in the piece, to connect the personal with the global and link the Trans Atlantic enslavement trade with today’s human trafficking. They’re both rooted in the same system – the capitalist system.

 

Jeannette Ehlers, Black Bullets, 2012.

 

EXN- The photographic series, Atlantic (Endless Row), was inspired by your journey to Ghana. This piece is a relevant example of the way you construct your works, going through a process of subtraction, rather than addition. In Atlantic (Endless Row), you created meaningful performative images by only including few visual elements. Can you comment on that?

 

J.E- As already mentioned, I strive for a subtle visual expression that at the same time involves a significant complexity. In Atlantic (Endless Row) I have manipulated the image by erasing some very important elements. The photos, taken on a beach in Ghana, show on the shore a reflection of a line of people walking towards the water. The only visible element of the actual people is their reflection. 

 

By deleting the people I wanted to put into focus the erased history of the Danish colonial era. However, the colonial structures still live on in so many levels; these are the foundation for the industrialization in modern society. Erasing the protagonists of the picture also stresses the dehumanization of the enslaved. Everything is taken away: family, identity – everything! The collective trauma in the African diaspora is of high interest to me.

 

EXN- Another visually striking work is the video, Black Bullets. In this work the sonic element plays a key role. What does the sound communicate in this piece in particular, and how do you use it in your artistic practice?

 

J.E- The sound in Black Bullets is crucial. A series of black figures move in a looping sequence across the silvery sky to the pulse of a heavy, hypnotic drone-like sound. Black Bullets is a tribute to revolt and is inspired by the first and only successful insurrection of enslaved Africans in history, taking place at Saint-Domingue and led by the former enslaved Toussaint L’Ouverture, thus paving the way for the establishing of the new independent state of Haiti in 1804. The Haitian Revolution started as a voodoo ceremony in Bois Caiman in Haiti.  Black Bullets’ soundtrack has a trance-like feeling to it that expresses power and persistence. I’m very much attached to sound and I use it as a tool for creating a narrative or emphasize the image.

 

Jeannette Ehlers, The Invisible Empire, 2010.

  

EXN- Concerning subtraction and visual clarity, you seem to translate the same attitude in your performance practice. In the performance piece, Whip It Good, you concentrate a complex history of slavery into a single violent gesture that becomes creative. The performance sees the participation of the audience, which is asked to take your place and whip the white surface. What was the response of the different audiences you encountered so far?

 

I have mostly experienced people being very emotionally engaged in this piece – even though they choose not to interact directly. Whipping is a very brutal action and the audience have various reasons to interact or not to. There surely are different interpretations of the piece and, most importantly, completely clashing perceptions, depending on who is holding the whip. I have performed Whip It Good in quite a few places now and every place is different. I noticed striking contradictions between my experience of performing Whip It Good in Copenhagen, in front of a predominantly white Danish audience that didn’t hold back from lashing the canvas, to that of performing it to a blend of black and white audience in a Cape Town gallery, where only black people took the whip. This contrast really shows the consciousness and connection to a colonial legacy of the two nations. It truly brought forward the Danes’ disconnection to their colonial past (and present). 

 

EXN-How do you think performance practice can foster a change in the understanding of historical pasts, and eventually in re-thinking historiography as such?

 

J.E- I believe performance practice can have a huge impact on the understanding of historiography and the present. A confrontational performance like Whip It Good is a great way to raise consciousness. Audience’s experiences are either very disturbing or in fact quite relieving. Again, it depends on many things: personal reasons and historical background, which is so tied to this piece. Is it for example a white male or black female who holds the whip? How conscious is the participant? And so on and so forth. But, after all, my experience is that this confrontation can be a huge eye-opener; hence it generates new reflections on and understandings on coloniality.

 

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Interview with Jeannette Ehlers

Il fantasma dell'età riflessiva

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Di acciacchi, ognuno ha i suoi e lo stesso di età. Ognuno ha strettamente la sua, di età. C'è bisogno di dirlo? Sì, è vero. Si può anche avere l'età di un altro. Nel senso ovvio che si può avere un'età pari a quella di un altro. “E tu, di che anno sei?” “Ho più o meno la tua età.” “Se hai la mia età, Lucio Battisti non ti può essere indifferente...”. 

Immagini: 

La paura del bianco: Edmund de Waal

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Si è aperta l'11 ottobre al Kunsthistorisches Museum di Vienna la mostra di Edmund de Waal During the night; l'artista inglese vi espone una raccolta di oggetti provenienti dalle varie collezioni del museo, dai suoi depositi e da altri musei austriaci, secondo il modulo, inaugurato in una mostra del 2012 di Ed Ruscha, The Ancients Stole All Our Great Ideas. Convinto che gli antichi abbiano già detto e fatto tutto, il pittore pop e fotografo statunitense ha inventato un nuovo criterio espositivo: raccoglie opere d'arte, disseminate nella città o nascoste nei sotterranei del museo in cui espone, legandole con un tema, e il modello sembra aver avuto fortuna (si pensi alla mostra che Francesco Vezzoli ha organizzato al Museion di Bolzano).

 

Albrecht Dürer, Traumgesicht (1525). 

 

La scelta di de Waal parte da un acquerello di Albrecht Dürer, che raffigura un sogno, l'incubo dell'ultima notte, un dipinto scovato in un libro della collezione della Kunstkammer del museo viennese, e procede con una serie di opere – quadri e manufatti – secondo il filo conduttore dell'ansia, della paura, dell'angoscia di fronte all'ignoto della notte, del buio, del nero. Nel Ritratto di una dama di Lucas Cranach il giovane (1564) compare un'ombra scura e inquietante dietro la figura femminile, i coralli del Cinquecento si ramificano su fondo nero, un diavolo nero è intrappolato nel vetro, minacciosi dragoni sono dipinti su vasi orientali, strane maschere di ferro ci guardano senza vedere. Sogno, incubo, dissonanza e inquietudine: ma Edmund de Waal non era il ceramista del vasellame bianco o, comunque, il produttore di file e file di vasetti di porcellana tra il grigio e l'acquamarina? L'autore della storia della porcellana bianca e dei netsuke, i piccoli capolavori giapponesi di madreperla, avorio e ambra?

 

Hare with Amber Eyes, netsuke. 

 

La minuscola lepre d'avorio con gli occhi d'ambra c'è, esposta in una teca all'inizio della mostra, e l'autore la considera una sorta di portafortuna, siede là fuori e lo fa sentire sicuro: si tratta di uno dei 264 netsuke protagonisti del libro che lo ha reso famoso, Un'eredità di avorio e ambra, tradotto in italiano da Carlo Prosperi per Bollati Boringhieri nel 2010. È la storia avvincente di una collezione di queste sculture tradizionali giapponesi, in avorio e legno, che rappresentano animali, bambini, uomini o donne, scenette erotiche e che servivano come fermagli per legare alla cintura dei kimono alcuni piccoli contenitori per le medicine, il tabacco o la pipa. La storia della collezione diventa nel libro la storia degli antenati dello scrittore, la storia della famiglia degli Ephrussi, originaria di Odessa e diventata emblema della ricchezza ebraica, ammirata, invidiata e odiata, come nel racconto di Joseph Roth, La tela di ragno, nel quale Efrussi è il cognome della famiglia ebraica amata e detestata, ossessione del protagonista del profetico romanzo.

 

La vicenda – riassunta più volte nelle molte recensioni che la stampa le ha dedicato – inizia a Parigi nel 1871, in rue de Monceau 81: Charles Ephrussi acquista dall'antiquario Sichel la collezione dei netsuke, li sistema in una vetrina dalla quale dialogano con i colori dei quadri di Pizzarro, Sisley, Monet, Morisot e Manet, armonie e dissonanze che coinvolgono una poltrona gialla, molto gialla, come l'autore racconta con simpatia e ammirazione. L'interesse di de Waal è molteplice: Charles – modello del personaggio Swann di Proust – è uno studioso di arte, ha scritto un libro sui disegni di Dürer, condivide con la sua amante Louise l'intuito, l'immediata reazione di fronte all'oggetto artistico – così scrive l'autore –, la capacità di cogliere in questi piccoli oggetti con l'«innocenza sensoriale» del tatto (p. 65) la loro particolarità: l'essere fatti di un materiale durissimo che dà però una sensazione di morbidezza. Non solo: oltre a essere incantevoli e tattili, hanno la caratteristica della leggerezza, «creano occasioni sempre nuove per una risata, perché sono arguti e licenziosi, nascondono una sottile vena comica» (p. 82).

 

De Waal è però attirato anche dalla vetrina, dalla bacheca: lo ripete più volte e ne ha fatto un tema di fondo per il suo lavoro artistico. A un certo punto annota: interessanti non sono le collezioni statiche, come quelle di Cernuschi, l'amico di Charles, che ha esposto la sua preziosa collezione di arte giapponese su uno sfondo di pareti volutamente bianche; la stanza di Charles è invece piena di colori, «è una soglia» (p. 81). Forse qui de Waal sfida se stesso e le sue bacheche monocromatiche, nelle quali impila ciotole di porcellana bianca e dai colori delicati.

 

La storia prosegue con le peregrinazioni dei netsuke che vengono regalati alla coppia Victor Ephrussi ed Emmy, accolti quindi nel lussuoso e quasi regale palazzo all'angolo tra il Ring e la Schottengasse. Nascosti ai nazisti dalla cameriera Anna, ritornano alla famiglia e al Giappone nelle mani di Iggie, il fratello di Elisabeth, nonna del nostro «vasaio», ultimo erede. Una «biografia di cose», dunque, come ha scritto Remo Ceserani nella recensione apparsa su "il manifesto" nel settembre del 2011, cose proprio nel senso di Rilke, destinatario di lettere e poesie che Elisabeth gli manda senza mai incontrare il poeta.

 

Ma la vetrina dei netsuke in casa di Edmund de Waal fa parte anche di un'altra storia: la passione per la vetrina, per la Wunderkammer, è all'origine del nuovo libro, La strada bianca. Storia di una passione, anche questo tradotto da Carlo Prosperi per Bollati Boringheri questo settembre 2016. Di nuovo una storia di cose, di oggetti, e di un colore, il bianco. Le tappe ricostruiscono la storia della porcellana in cinque montagne bianche: Gaoling (collina alta), la montagna cinese da cui proviene il caolino che, mischiato alla pietra del pe-tun-tse e cotto a temperatura altissima nei forni di Jingdezhen, produce la porcellana fin dai tempi antichi; Meissen e la scoperta di Tschirnhaus e Böttger al servizio di Augusto il Forte; Tregonning Hill in Cornovaglia e le ricerche di Cookworthy e Wedgwood, sempre nel Settecento; Ayoree e l'argilla degli indiani sfruttata da Wedgwood e, infine, Allach, la fabbrica di porcellana lavorata dai prigionieri di Dachau e la distruzione di Jingdezhen da parte dei maoisti (cfr. la recensione di Marco Carminati, Strade e storie di porcellana, "Il Sole 24 Ore", domenica 25 settembre 2016). 

 

De Waal cita Marco Polo, la festa bianca del Gran Can, i racconti minuziosi del gesuita François Xavier d'Entrecolles, i testi di Swedenborg tradotti da Cookworthy.  È affascinato, ossessionato dal bianco, dalle sue infinite sfumature: «il bianco – scrive – è anche la mia storia» (p. 20). Il bianco orientale viene descritto – forse troppo sbrigativamente – come il bianco di un cumulo di neve, come il bianco del latte (p. 90). Esso diventa il bianco della meditazione e della trascendenza, è il bianco traslucido della porcellana che lascia passare la luce. È anche però il colore dell'assenza: «in Cina il bianco è il colore del lutto. Vestirsi di bianco comunica la propria perdita agli altri, tiene a distanza il mondo» (p. 94). È il bianco della pagoda bianca, fatta costruire a Nanchino dall'imperatore Youngle nel XIV secolo e distrutta nella rivolta dei Taiping, la più complessa costruzione in porcellana mai edificata, che segna, secondo l'autore, il chiudersi in un lutto senza confini.

 

Sul finire del XVI secolo viene usata la parola timbai, bianco dolce, bianco zucchero. Per le porcellane giapponesi, nelle quali l'argilla è più calda, de Waal preferisce usare l'espressione bianco latte, più che bianco osso, come scrive (p. 163). Per il bianco della roccia di Cornovaglia il bianco deriva dalla pietra saponaria, dalla steatite: bianco lardo, dunque, alla base della ceramica inglese, bianco panna, tendente all'avorio (p. 276). Bianco marmo è invece il bianco del nazismo (p. 364), il bianco della porcellana bianca che la ditta Eschenbach continua a produrre anche dopo la fine della guerra, dal 1947, cancellando le rune delle SS che, a loro volta, avevano sostituito le due spade di Meissen. Ma il bianco – scrive ancora – è anche il colore del fumo, del narciso, della pagina bianca (p. 396). «Come è possibile fare cose bianche?» chiede qualcuno a de Waal in occasione dell'inaugurazione della mostra On White, nella quale il vasaio usa tutte le sfumature del bianco. «Il bianco –

 risponde – è un modo di ricominciare daccapo» (p. 397).

 

La nuova mostra però ritorna al tema della vetrina, della Wunderkammer, del collezionismo, una passione che de Waal non vorrebbe condividere con Utz, il protagonista del racconto di Chatwin, collezionista maniacale di porcellane. Certo la passione per la collezione ricompare sempre di nuovo negli scritti e viene tematizzata nell'opera dell'artista con riferimenti espliciti a Walter Benjamin. Un oggetto, collocato in una collezione – scriveva il filosofo –, ha perso il suo valore funzionale, è entrato in una sfera magica, ma può essere rigenerato, come capita nel collezionare dei bambini. De Waal vorrebbe fare questo, con le sue porcellane scure allineate nella vetrina nera, con gli oggetti del museo ricollocati per richiamare l'ansia e la paura. E la paura non è solo paura della notte e del nero, ma continua a essere anche paura del bianco: il bianco di un teschio avorio, roso da vermi bianchi, di un Memento mori del Seicento, esposto nella mostra viennese. Non c'è poi da stupirsi dell'interesse verso il pittore fiammingo Joachim Patinir: le sue montagne, come nel noto San Girolamo in un paesaggio roccioso (1524), sono appunto montagne bianche, gelide montagne di ghiaccio, una nuova tappa della storia del bianco. 

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Di chi è la colpa?

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Ci risiamo. A quanto pare per alcuni il terremoto sarebbe correlato alla colpa del peccato originale o delle unioni civili, mentre in rete altri (r)umori trash si sono addensati sul “karma” negativo delle città produttrici di salumi o sulla “necessità” di “benedire” la terra.

 

Superfluo dire quanto sia inaccettabile che in mezzo a tanto dolore e a tanti problemi le persone colpite dal sisma debbano anche sopportare che nel discorso pubblico circolino simili dabbenaggini (non trovo parole più adeguate e non mi piace usare quelle offensive); detto questo non ce la caveremo semplicemente additando o irridendo l'irragionevolezza, il fanatismo, la superstizione, la pochezza, la paura e la follia che stanno lì dietro.

 

C'è un tratto di lunghissimo periodo nella storia del pensiero umano, una tesi comune ai pensatori religiosi o metafisici di ogni tempo che suona più o meno così: rifiutare un disegno di senso teleologicamente orientato e garantito dal divino comporta crisi etica e disordine civile e naturale, se non anarchia e violenza. Il che è tanto più falso se si pensa che Democrito e Spinoza, ad esempio, sono stati tra i filosofi più attenti alla dimensione etica e a quella politica nel senso di una democrazia “terrestre” e sensibile alle ragioni dell'intersoggettività.

 

Made of stars.

 

È sempre stata proprio la concezione finalistica invece a veicolare superstizione e pregiudizi, come mostrano i noti dibattiti storici settecenteschi sui passaggi delle comete (Halley nel 1682) e sul terremoto di Lisbona (del 1755): i teologi infatti leggevano i fenomeni naturali come castighi divini, particolarmente rivolti a chi non accettasse le concezioni religiose dominanti. Ancora in questi anni può capitare di sentire l'arcivescovo cattolico di Monrovia (Liberia) dichiarare che il virus Ebola sia «una punizione divina per l'atto di omosessualità»; così come pastori calvinisti vicina alla destra integralista negli Usa hanno giudicato gli attacchi alle Torri gemelle come un castigo divino per i peccati degli americani e rabbini ultraortodossi hanno sostenuto che la Shoah sia stata una punizione per le colpe di Israele.

 

Ricorderete in Italia l'ex vicepresidente del Centro nazionale delle ricerche (CNR): uno storico, cattolico tradizionalista, contrario all'evoluzionismo e fervente sostenitore del creazionismo, schierato su posizioni antimoderne in ogni ambito etico, noto alle cronache per aver spiegato la catastrofe dello tsunami del 2011 come “conseguenza” per il paganesimo diffuso in Giappone («un’esigenza della giustizia di Dio»).

 

Si tratta insomma di un tratto psichico diffuso e tipico di uno stile di pensiero, quasi un genere letterario e una retorica codificata, accomunato dal nesso colpa-punizione che appartiene alla logica dell'intenzione attribuita alla natura come manifestazione di dio.

 

Escludendo i casi estremi dell'irrazionalismo fanatico e della fobia della scienza, è possibile individuare le ragioni per cui l'antropocentrismo e l'idea finalistica sono così radicati nel tempo e l'evoluzionismo, a dispetto delle dimostrazioni ed evidenze scientifiche, solleva così tante resistenze?

 

Recentemente il biologo Richard Dawkins ha commentato il fatto che la teoria darwiniana dell'evoluzione incontri violente opposizioni, pur essendo uno dei maggiori successi scientifici della storia, affermando che la nostra mente sembra «specificatamente progettata per fraintendere il darwinismo»: intendeva dire che «gli esseri umani […] amano spiegazioni basate sull'intenzionalità, su deduzione di progetto e di finalità» in quanto questo «sembra essere una specializzazione adattativa della nostra specie, che ha sviluppato più di ogni altra un sistema di riconoscimento di agenti animati che si muovono nel contesto esterno».

 

In questo senso credere che vi sia «un agente intenzionale, che abbia o meno fattezze umane, nascosto dietro la complessità della realtà» risulta un fatto naturale. È dunque «la nostra lente adattativa di tipo psicologico e sociale» che «ci porta ad associare la complessità a un intento preordinato e la funzionalità di una struttura alla finalità di un costruttore o di un Creatore» (così nel libro di Girotto, Pievani, Vallortigara).

 

Starry night chile. 

 

Lo stesso Darwin era consapevole che le difficoltà di far comprendere le sue scoperte, in contrasto con il senso comune e controintuitive, fossero legate soprattutto al fatto che le teorie creazioniste, così come i miti, sono più semplici, appaganti e in definitiva facili da credere. In questo senso la teoria darwiniana della selezione naturale, compie uno scatto rispetto all'alternativa secca tra il caso e l'intelligenza: con la sua intrinseca legalità, essa rende superflua l'idea di una intelligenza progettuale preposta al perseguimento degli scopi negli organismi. Tale idea non è più necessaria per lo svolgimento di una funzione, che può venire così in modo autonomo e autofondante.

 

Scrive Telmo Pievani: «L'estrema perifericità della condizione umana, sul terzo pianeta di un sistema solare ai margini della galassia come tante, va accolta nella sua tragica bellezza. È un'occasione di emancipazione: dalle ingannevoli consolazioni finalistiche, e soprattutto dagli officianti di tutte le Chiese che pretendono di addomesticare la storia per giustificare il presente [...]. I figli dell'asteroide e della Rift Valley sono restii a convincersi, come invece lo era nel IV o III sec. a. C.  l'ignoto estensore del Qoelet (9, 11), che sotto il sole “il tempo e il caso raggiungono tutti”. 

 

La finitudine radicale e la fragilità estrema del nostro vivere, in nome dell'improbabilità che noi stessi rappresentiamo, caricano l'autoaffermazione e la solidarietà umana di un surplus di dimensione etica proprio perché questa risulta, in ultima analisi, fondata esclusivamente sulla coscienza di esseri biologicamente determinati, costituiti di polvere cosmica e scagliati su una pianeta che orbita in una regione marginale dello spazio.

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