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Il cammino. Un altro tempo

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Continua l’intervento di doppiozero a sostegno del Progetto Jazzi, un programma di valorizzazione e narrazione del patrimonio culturale e ambientale, materiale e immateriale, del Parco Nazionale del Cilento (SA). Il concorso è terminato e 15 sono i progetti finalisti.

 

Quando ci si mette in cammino, scrive Frédéric Gros, fin dal primo passo le notizie perdono rilevanza. Perdono peso i casi di cronaca, precipitano fuori dallo spazio della prima pagina, si oscurano le news h24, non ci facciamo più ammaliare da chi ci chiede con insistenza «la sapete l’ultima?». Ci troviamo, dice, d’innanzi a ciò che «assolutamente dura». Lì, in quel quotidiano, la parola effimera; qui, nel quotidiano del cammino, la montagna che ci porge il silenzio del proprio tempo geologico.

«Quando io cammino, cammina un bisonte» scrive Werner Herzog, «quando mi fermo, si riposa una montagna». Herzog percorre la sua strada di ghiaccio con la fragilità di chi accorre al capezzale di un’amica malata e con la possanza dello sciamano e del combattente, sa che i suoi passi sono progetti scagliati in un tempo vasto, che la sua marcia può traslare i destini, rifare il mondo. Mentre si muove è un grosso animale, la sua mole è imponente, eppure nulla se comparata alla stazza della montagna. Anch’egli si disinteressa degli accadimenti mondani. Più li scansa, più se li lascia alle spalle, più acquisisce tempo, si rinforza, è uno tsunami.

 

Henry David Thoreau ci indica due tempi: quello luminoso del bambino che «ricomincia la storia del mondo» stando all’aria aperta, e quello dell’uomo che, davanti alla sciagura estrema, alla catastrofe, con i nemici alle porte, è pronto ad abbandonare la casa «a mani vuote senz’ansia». Chi sceglie la foresta li ha entrambi dentro di sé: il tempo della creazione e dell’addio. Fare e disfare tutto, rifarsi e ridisfarsi. Ciò è possibile se ha abbandonato il desiderio di comprare e consumare, se riesce a farsi bastare i suoi piedi nudi. Per entrare nel tempo dell’inizio e della fine dobbiamo essere leggeri il più possibile. 

Per essere leggeri non è sufficiente liberarsi delle cose. Ci si deve affrancare dai tempi fibrillanti della quotidianità, quelli dell’ultimo lancio di agenzia, dell’agenda debordante, delle telefonate fatte per occupare le attese alla fermata, delle mail a cui rispondere a mezzanotte. Ci si dovrebbe dirigere verso quello stato di biancore a cui accenna David Le Breton: un’assenza temporanea, un congedo da sé, il “fare il morto”, perdersi in un oblio che sia la risposta alla sensazione di essere saturi. “Fare il morto” mentre attorno a noi tutti si impegnano a “fare i vivi”, l’opposto del dover essere sempre forzatamente presenti a se stessi, in un tempo irreggimentato, militarizzato. Mentre cammino ciò accade naturalmente, senza cercarlo. La mia testa si svuota nella fatica della pendenza e nella apparente monotonia del piano, si avvia senza che io voglia verso uno stato di biancore. Cammino ed è come stare a galla in mare, a qualche decina di metri dalla battigia, non penso, il sole mi inebria, eppure in questo “fare il morto”, in questo “tempo morto” percepisco la potenza dello stare in vita.

 

Il cammino non ha che fare con la lentezza. Il fatto che io mi sposti a 3, 4, o 6 km/h non incide sulla mia esperienza. Sono la mancanza di impeto agonistico, l’assenza di una pianificazione, il disinteresse per le cose futili del quotidiano a situarmi in un altro tempo. Sono lento se mi si compara a un aeroplano, ma sono più rapido di un bradipo o di una lumaca. Cammino in ciò che assolutamente dura, mi nutro di quella durata: entrano in me i milioni di anni della cordigliera che sto attraversando o i secoli della quercia sotto la quale riposo. La fatica mi schianta senza abbattermi, dopo ore di passi ripetuti la mia testa è svuotata, è una cassa di risonanza, ed è in quel momento che un pensiero può nascere e amplificarsi. Posso partorire un pensiero inaudito. Posso farlo pur essendo un morto che cammina, un corpo che galleggia sulla strada.

Quel pensiero ha a che fare con la mia vita ridotta all’osso. Sicuramente non riguarderà il mio conto in banca, perché quello, assieme agli altri filamenti di burocrazia e di incombenze, è rimasto al di là dell’uscio, insieme alla casa che ho abbandonato. Se l’ho lasciata come i pellegrini di un tempo, dopo aver fatto testamento, sono partito da uomo libero. Verso dove? «La meta del viaggio sono gli uomini», scrive giustamente Claudio Magris. Non andiamo in Spagna o in Inghilterra, ma fra gli spagnoli e gli inglesi. Herzog va dall’amica Lotte Eisner. Vado verso gli uomini, e se ci vado a piedi, cioè nel viaggio all’ennesima potenza, vado dentro gli uomini. I nostri discorsi, quando ci incontriamo nei dintorni di una curva, ai margini di una panchina o al libro di vetta di una montagna, sono costituiti da poche parole. Le abbiamo pensate mentre la testa si svuotava. Sono parole toste, il risultato di uno scavo, di un movimento azzardato dall’interno verso l’esterno, sono parole da cui non si fa ritorno. Dolore, gioia, liberazione, cambiamento, svolta. A volte pronunciamo con riservatezza e pudore la parola “rivoluzione”. Per dirla impieghiamo gran parte del tempo che i sassi e gli alberi monumentali ci hanno trasmesso.

 

Accade sempre, ogni volta che faccio lo zaino e parto? No. Camminare di per sé non è che un’attività motoria. Ecco perché chi ha provato a galleggiare nel biancore, sulla strada, in un tempo indefinibile scandito soltanto da respiri e parole centellinate, di fronte ai cartelli che indicano i km o le ore per il rifugio o il monastero o qualsiasi località non può che sorridere. «Quanto manca?» chiedono alcuni compagni di viaggio, «è lontano?», insistono. Lontano da dove? Dove sei diretto, all’ostello? Ma la meta del cammino non è da sempre il cammino stesso? E allora bisognerebbe lasciarli in bianco i cartelli, o farli grandi, enormi, delle lavagne sulle quali ciascun viandante possa scrivere ciò che prova in quel momento: «quanta melanconia ancora?», «quanto futuro c’è in fondo alla valle?», «quante parole mi assilleranno da qua al mare?». 

E poi, chi l’ha detto che si debba avere i piedi e le gambe per essere in cammino? E se sono provvisto di arti, chi ve lo dice che siano scattanti? E se pure li ho tonici, reattivi, chi vi dice che non sia assalito da una tristezza allarmante, che i miei calcagni non si siano d’un tratto incupiti, che abbiano deciso di non toccare più terra? Quante volte abbiamo irriso i tempi di percorrenza dei sentieri? Esagerati in eccesso o difetto, ci hanno fatto sentire degli incapaci o ci hanno gonfiato d’orgoglio. Competizione, ancora una volta, punto e a capo. Mentre io vorrei galleggiare e svuotarmi, non misurare, non misurarmi. Non vorrei affermare di essere lento. Non ho rivendicazioni. Assumere in sé il tempo del fiume, andare verso gli uomini, fare il bianco, pensare qualche parola, farne dono, fare il morto, essere vivi.

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L'apparenza di ciò che non si vede

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“L’apparenza di ciò che non si vede” è il titolo dell’ultimo progetto di Armin Linke (Milano, 1966), in parte presentato nel 2015/2016 allo ZKM di Karlsruhe ed ora in mostra al PAC, in cui scienziati e specialisti di vari ambiti disciplinari* rileggono il suo archivio fotografico. In questo modo si innesca un processo di ricontestualizzazione e di trasformazione delle immagini, che acquistano un nuovo significato. Come afferma Armin Linke: È stato interessante vedere ciò che loro vedono nell’immagine, che spesso è differente dall’idea iniziale per cui io ho realizzato i singoli scatti. Mi interessava questo scarto tra quello che io vedo in un’immagine e quello che vi vedono gli altri. L’idea era di fare una mostra in cui l’immagine fotografica non fosse il punto di arrivo ma il punto di partenza per un dialogo.

 

Moving cloud Aosta Italy 2000.

 

Perché l’archivio, innanzitutto? 

 

Il tema dell’archivio è pericoloso perché va molto di moda nell’ultimo periodo. O meglio, è un tema urgente per la pratica fotografica perché negli ultimi dieci/quindici anni c’è stata la transazione dall’analogico al digitale. La stessa materia dell’informazione è cambiata e gli archivi fotografici si sono semplicemente dissolti, digitalizzati. Il metodo fotografico è sempre lo stesso da Canaletto in poi: quello della camera oscura. All’inizio era il vetro su cui si disegnava, poi un dagherrotipo, poi un altro tipo di emulsione, ora è un chip digitale. Nella fotografia stessa non cambia nulla, a cambiare è invece la velocità di distribuzione che ora è possibile. A me interessava incentrare la mostra non sul tema dell’archivio ma domandarsi come usare l’archivio per attivare dei processi, e non bloccarli.

 

In passato hai già lavorato con l’archivio. Vuoi parlarci di questi progetti e di come questi poi hanno avuto influenzato “L’apparenza di ciò che non si vede”?

 

Un lavoro importante per la genesi del progetto è il sito di Bruno Latour “Modes of Existence" (modesofexistence.org). Per questo suo progetto aveva bisogno di alcune immagini che potessero funzionare come delle note visive, e per questo motivo mi ha coinvolto. Abbiamo fatto una specie di workshop con i suoi studenti ed io ho messo a disposizione il mio archivio. Nel giro di due giorni abbiamo scelto alcune fotografie e le abbiamo ordinate per tema e per concetto. È stato molto interessante vedere come veniva letto tutto l’archivio e non la singola immagine. Così a quel punto è scattata l’idea che ci potesse essere una lettura all’incontrario, che ci potesse essere uno scambio: così come io potevo mettere a disposizione delle fotografie, qualcun altro poteva mettere a disposizione un testo. 

 

Parco degli uccelli di Jurong, Singapore, 1999. 

 

Un altro progetto importante dove ho operato come curatore insieme a Doreen Mende ed Estelle Blaschke è “Double Bound Economies”. Nasce dall’archivio di un fotografo della Germania dell’Est, che ha fotografato soprattutto gli elettrodomestici che venivano prodotti nell’Est ma venduti nell’Ovest per fare valuta. Proprio nella produzione stessa di queste fotografie era contenuta una sorta di schizofrenia: facevano vedere il lavoratore socialista ma anche l’oggetto come feticcio venduto nel mondo capitalista. Abbiamo così messo a disposizione l’archivio a diversi specialisti per vedere quali fotografie sceglievano dall’archivio. E questo stesso meccanismo poi l’ho applicato alle mie stesse fotografie. In un certo senso facevo una specie di passo indietro diventando curatore dell’archivio e non solo autore, allargando il gruppo di lavoro. 

 

Questo gioco con le immagini e con il pubblico è presente anche nel progetto “Phenotypes/ Limited Form” e lì ho collaborato con Peter Hanappe che lavora presso the Sony Computer Science Laboratory Paris. In quel momento ero sempre allo ZKM: insegnavo all’università di design di Karlsuhe (che è dentro lo ZKM) e anche questo progetto è stato fatto con l’aiuto di studenti. Il pubblico aveva a disposizione mille fotografie che poteva disporre lungo la parete e poi riordinare, riformattare. In poche parole diventavi curatore della mostra. Lo spettatore poteva disporre di otto fotografie su un tavolo che, con un sistema RFID, riconosceva le fotografie e permetteva di stamparle in un libro in tempo reale. Il visitatore interagiva così direttamente con le fotografie e con l’archivio. È uno dei primi tentativi per un nuovo modo di relazione con il pubblico che sia ludico, in cui ci sia una specie di scambio, un’attivazione. 

 

Water shop, Nukus (Aral Lake) Uzbekistan 2001. 

 

Come nasce la mostra al PAC?

 

Ho creato una specie di gruppo curatoriale con Linda van Deursen, Jan Kiesswetter, Alina Schmuch, Martha Schwindling. Il periodo di sviluppo della mostra ha preso quasi due anni, ma a vedere la mostra quasi non ce ne si accorge. Si è trovato un modo di esporre le fotografie dove il testo fosse importante quanto le fotografie, e questo si vede forse di più nel libro che accompagnerà la mostra. Questo libro è costruito in ordine alfabetico con ciascun autore e le immagini da lui scelte. E alcuni hanno scelto la stessa fotografia, ma con letture contrastanti. Per cui capita che ci siano delle immagini ripetute, che è una cosa insolita, tanto che il tipografo ci ha subito telefonato segnalandoci l’errore. 

 

Veduta dell’allestimento PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea Milano. 

 

Come è stato gestito il tuo archivio?

 

Le fotografie in mostra al PAC vengono da vent’anni di produzione e facevo una pre-scelta di 500/2000 foto in base alla persona a cui chiedevo di intervenire sull’archivio e ai temi che immaginavo potessero interessare. Dopo di che facevano dei workshop di mezza giornata o una giornata. Stampavo tutte le fotografie in A4 e poi ne discutevamo. Il nostro dialogo veniva registrato, sia in forma audio sia video, ma giusto per capire di che fotografia parlavamo, per poterla rintracciare. E la scelta è stata fatta su fotocopie in A4: quello che mi interessava era il contenuto concettuale delle fotografie e non la parte estetica.

 

C’è qualche libro che consideri importante per il tuo modo di lavorare su testo e immagine?

 

Ci sono due opere molto importanti per la costruzione della mostra. La prima è il libro di Berger Ways of Seeing, un libro che nasce da un’opera in movimento, una serie della BBC. Tra l’altro per me è stato importante per la mostra al PAC avere come traduttrice Maria Nadotti, che ha curato la versione italiana del libro. È quasi un omaggio. Un altro lavoro che è stato interessante e che mi piace molto è il Diario di lavoro di Bertold Brecht, nei quali l’autore durante il suo esilio ad Hollywood ritaglia alcune immagini giornalistiche e non artistiche e scrive delle specie di haiku. Non è quindi tanto un diario quanto un commento, ed è molto interessante nel suo lavoro questa tensione che nasce tra testo ed immagine.

 

United Nations, COP19 Climate Change Conference Warsaw Poland 2013. 

 

ARMIN LINKE. L’apparenza di ciò che non si vede

16 ottobre 2016 — 06 gennaio 2017

PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano

a cura di Ilaria Bonacossa e Philipp Ziegler

 

*Ariella Azoulay, scrittrice, curatrice d’arte, filmmaker, teorica della fotografia e della cultura visiva, docente di Cultura moderna e media presso la Brown University; Bruno Latour, antropologo francese e professore presso l’Institut d’études politiques di Parigi; Peter Weibel, presidente e amministratore delegato dello ZKM e docente di Teoria dei media presso la University of Applied Arts di Vienna; Mark Wigley, teorico neozelandese dell’architettura; Jan Zalasiewicz, geologo britannico e presidente dell’Anthropocene Working Group – , la mostra del PAC aggiunge il testo e la voce di Lorraine Daston, direttrice dell’Istituto Max Planck per la Storia della Scienza (MPIWG) di Berlino; Irene Giardina, fondatrice di un laboratorio dedicato ad applicare metodologie della fisica statistica allo studio teorico e sperimentale di comportamenti collettivi in sistemi biologici e gruppi animali, e professore associato presso il Dipartimento di Fisica, Università di Roma La Sapienza; e Franco Farinelli, direttore del dipartimento di Filosofia e Scienze della comunicazione presso l’Università di Bologna, dove insegna geografia.

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Intervista ad Armin Linke

I gesti della legna sono gesti di esistenza

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Anche se non tagliate la legna, anche se non la accatastate per l’inverno, anche se non avete una stufa e abitate in zone temperate, irradiate dal sole tutto l’anno, questo libro è per voi. S’intitola come un romanzo di Murakami, come una canzone dei Beatles, Norwegian Wood. L’ha scritto un giornalista e narratore norvegese, Lars Mytting; è stato tradotto in dieci paesi. Perché? Perché è un manuale. Acqua. Perché parla di un’antica attività umana? Fuochino. Perché è un antimanuale? Fuochetto. Perché parla di una cosa che vi riguarda in ogni caso, sia che vi apprestiate a farla oppure no? Fuoco! Incendio! Mytting racconta in modo ponderato e insieme ironico, cioè serio. C’è però il sospetto che il successo del libro (trad. di Alessandro Storti, Utet, pp. 246, € 22) l’abbia decretato, oltre all’argomento, il luogo d’origine dell’autore: il Nord Europa. 500.000 copie, forse lassù? Possibile. Ma in un mondo in cui i manuali sono tra le cose più vendute (manuali per fare tutto), Lars Mytting racconta in modo convincente il metodo scandinavo per tagliare, accatastare e scaldarsi con la legna. Ha il grande merito di sviscerare la cosa, facendo intravedere la complicazione del semplice.

 

Non sono così i veri manuali? Mostrare come le cose semplici in realtà sono assai complesse. Andiamo con ordine. La prima cosa che si comprende leggendo il libro è che dietro al metodo scandinavo ci sono degli uomini e delle donne, gente perfettamente normale. Quando si osservano le fotografie di chi ha tagliato e accatastato enormi quantità di legna, si scoprono facce qualunque, da vicini di casa (bei vicini di casa, naturalmente). Sono rilassate e rilassanti. Se ce la fanno loro, si pensa, posso farcela anch’io. A fare cosa? A scegliere l’accetta giusta, la motosega quasi perfetta, a innalzare cataste circolari di legno di faggio, a decidere l’acquisto della stufa a combustione pulita che non inquina. Il motto di Mytting, che è un po’ il cuore del suo scrivere, suona così: “Incidere sulla qualità della giornata, ecco la più sublime delle arti”. Non sulla qualità della vita, che sarebbe troppo anche per un tagliatore di alberi, un accatastatore di tronchi, un segatore di ciocchi. L’autore, per nostra fortuna, non è un ecologista talebano. Nel bene e nel male questo è un libro maschile, anche se, oltre la risolutezza maschile, possiede una delicatezza femminea, quella dell’amante del legno (le divinità del bosco sono quasi tutte femminili, almeno quelle benefiche, e l’albero di genere femminile). Il primo capitolo è dedicato al gelo.

 

Ph Aapo Huhta. 

 

Padre di tutti le donne e gli uomini del Nord, il gelo è un’occasione, non un nemico. La gioia dello spaccalegna apre questa sezione del volume, cui segue il capitolo sulla foresta. Sembra facile abbattere un albero, attività cui i nostri progenitori si dedicavano con immancabile solerzia e metodi sommari. Ma anche ricorrendo a una strumentazione sofisticata, non è così. Bisogna sapere prima di tutto quando farlo. Prima che la linfa cominci a crescere, quando il tasso di umidità dell’albero è basso, quando gli insetti sono ancora in letargo. In Norvegia a Pasqua. Mytting è prodigo di curiosità sugli alberi. In Svezia cresce l’albero più antico del mondo: 9.550 anni; il suo tronco non è così antico. Ha solo 600 anni; è la radice a essere vecchissima. L’autore spiega poi come si fa a coltivare il bosco: nello stesso modo con cui si fa l’orto dalle nostre parti. Bisogna imparare a usarlo, non a distruggerlo. Possibile? Fare legna è sempre abbattere, tagliare. Si può però preservare il bosco, rispettarlo e insieme scaldarsi. Lo strumento principe di tutto è la motosega. Pagine affascinanti, con la storia di questo strumento che ha cambiato il modo con cui si taglia: “Dimmi che motosega hai comprato e ti dirò chi sei”. Da diporto, da lavoro e professionali: queste le tre principali categorie. Belle le pagine sulla nascita della motosega.

 

Ph Aapo Huhta.

 

L’invenzione della JoBu – marca storica ora cessata – è opera di due ex-partigiani antinazisti; uno aveva una segheria, l’altro costruiva fucili. Invenzione geniale. Poi viene il capitolo sul ceppo: “Molte persone vivono i loro momenti di maggior riflessione davanti al ceppo”. Non lasciatevi ingannare, questo non è un manuale New Age. Niente di più lontano da Mytting. Lui è innamorato della legna e dei modi per tagliarla. Abbacinanti le pagine sulla scure. Sembra facile sceglierne una. Non sono tutte uguali. Vi ho scoperto l’esistenza della Vipukieves finnica: l’accetta a leva, adatta ai ciocchi grossi, ricavati dagli alberi a tronco dritto. Da comprare in ogni caso, per la sua forma. A un certo punto l’autore svela il vero segreto del libro: a dedicare la maggior quantità di tempo alla legna sono i maschi con più di sessant’anni; le donne sono solo il 29% (le percentuali sono uno dei sottotesti del volume).

 

Come potrebbe essere altrimenti? Chi ha il tempo per coltivare il bosco, abbattere gli alberi e soprattutto tagliare i tronchi, se non i pensionati. Sono loro le facce nelle foto. Sono loro che pregano sul ceppo a colpi di accetta: “Il ceppo è l’altare dello spaccalegna”. Confesso che la parte più coinvolgente non è però quella del bosco, né quella sugli attrezzi, e neppure quella dedicata alla corretta posizione per lo spacco ad ascia. La parte più seducente è quella dedicata alla legnaia. “La legnaia non ti pianta in asso”, così comincia. Legnaia coperta o scoperta, legno con corteccia all’ingiù o all’insù? Varie scuole di pensiero. L’anziano popolo della legna avanza nel libro di pagina in pagina. Deciso, forte, sereno. Gli ultimi capitoli sono dedicati alla stufa e al fuoco. Lui è il vero signore del legno. Lui, non noi, uomini e donne, giovani e vecchi, boscaioli e cittadini. Tutto brucia e finisce in cenere. Ultimo capitoletto: “L’arte di vuotare la cenere”. C’è da imparare anche qui. Morale: i gesti della legna sono gesti di esistenza. Che li facciate o no, vi riguardano.

 

Il pezzo è apparso su La Repubblica.

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Norwegian Wood

Un liceo torinese tra Settanta e Ottanta

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Sottotitolo: 
Dai confini dell'impero

Recentemente il Liceo Marie Curie di Grugliasco, alle porte di Torino, ha festeggiato i quarant'anni di attività. Quello che segue è la versione ridotta e riadattata del testo di un intervento di un docente e poi preside della scuola, che ha ricostruito i primi anni dell'istituto: uno scorcio di storia e termomentro della trasformazione, in un momento cruciale di passaggio e nel pieno sviluppo della scolarizzazione di massa, vista attraverso gli occhi di una comunità educante.

 

Quella di oggi è un’occasione significativa per ricordare i quarant’anni del Liceo Curie e dare inizio a un nuovo istituto, nato dall’unione del Curie con l’adiacente istituto Vittorini, che già aveva assorbito l’istituto Castellamonte. E ora si può dire che il Curie sia “uno e trino” e che ancora più di ieri il Liceo Curie o Curie-Vittorini sia oggi un istituto d’istruzione secondaria pluriindirizzo, aperto al territorio, con il settore economico, il settore tecnologico, il liceo scientifico, il liceo linguistico, il liceo delle scienze umane, mentre del nucleo originario, il liceo scientifico, resta in vita una parte e con dei corsi incompleti. 

Il Curie fu istituito e vide la luce nel 1976 esclusivamente come liceo scientifico ed era il X liceo scientifico di Torino. L’intitolazione a Marie Curie sarebbe avvenuta l’anno successivo. Era il terzo istituto funzionante nel così detto complesso del Barocchio, su terreni della Provincia di Torino, in quello che doveva diventare, nei progetti, e però non divenne, una sorta di campus dell’istruzione secondaria di secondo grado. 

 

In quegli anni i licei scientifici fiorivano; il Maiorana (VII), il Cattaneo (VIII), il Leonardo da Vinci (IX) erano di non molto anteriori; seguì ancora l’XI, l’attuale Copernico, segno evidente della richiesta dell’utenza in quegli anni e del favore che l’indirizzo incontrava.

Il X liceo scientifico aprì le sue porte e le sue aule il 1° ottobre 1976, venerdì di un bisestile come questo, per avviare l’anno scolastico 1976-77. Per l’ultima volta nella storia della scuola italiana l’anno scolastico iniziava il 1° ottobre; l’anno successivo avrebbe avuto inizio il 20 settembre e poi via via sempre più in anticipo. Sono stato al Curie dal 1976 al 1987 come insegnante di lingua e letteratura inglese e vicepreside e più volte nel Consiglio d’Istituto per la componente docente; l’ho lasciato dopo aver vinto il concorso nazionale a preside e come tale vi sono ritornato nell’anno scolastico 1990-91. Passato nel 1991 ad altra amministrazione, vi sono ritornato nel marzo 2011 fino al 31 ottobre 2011, quando ho terminato la mia attività nella scuola. Alfa ed Omega, in un certo senso, all’insegna del Curie.

La mia esperienza al “Decimo” è stata nei diversi ruoli una continua crescita culturale, una formidabile palestra di formazione professionale, umana e critica, tornata utile in fasi successive della mia professione. 

 

 

Per il 1° ottobre il liceo non era ancora del tutto completato o pronto e per circa due settimane le lezioni si svolsero al pomeriggio al vicino Castellamonte con sette insegnanti. Poi, man mano l’organico si completò, gli operai finirono gli ultimi lavori e la sede al 120 di Coso Allamano divenne totalmente disponibile. Il liceo iniziò con 14 prime, sezioni dalla A alla P, 3 seconde, 3 terze, 1 quarta, per un totale di 21 classi. 

Le palestre sembravano belle e moderne, e ricordo, per inciso storico, che per l’educazione fisica vi erano le squadre maschili e femminili, con i relativi docenti di genere. Nell’anno successivo le sezioni N, O, P, furono destinate all’XI liceo, ma il Decimo crebbe subito.

Il personale ausiliario, tecnico e amministrativo, detto anche non docente (l’unica categoria, si diceva allora, a essere definita per quello che non fa) apparteneva ai ruoli dell’Amministrazione Provinciale, proprietaria dei locali, alla quale spettava anche l’obbligo di fornire i mobili, le attrezzature, i servizi e la manutenzione. 

Gli allievi di quei primi anni provenivano principalmente dai quartieri di Santa Rita, Mirafiori Nord, Mirafiori Sud, altri da Pozzo Strada e San Paolo; non molti da Grugliasco; appartenevano in maggioranza al ceto medio impiegatizio (Fiat, il suo cosiddetto indotto, banche), ma erano anche ben presenti figli di operai nonché di professionisti e di commercianti.

 

Il Decimo non era comodissimo da raggiungere, lontano dal centro di Grugliasco e lontano dagli ultimi palazzi al confine di Torino e c’era ben ragione di definirlo situato in quello che si definisce il Gerbido (terra ventosa e fredda e nebbiosa): tutto quello che si vede di costruito ora, è venuto ben dopo; allora c’era solo la chiesa delle Missionarie della Consolata laggiù e d’inverno, soprattutto di sera, si era nel bel mezzo del nulla, tanto che il preside Bracco una volta avvertì una professoressa che “hic sunt leones”.

I collegamenti erano effettuati con dei bus navetta (molti studenti facevano l’autostop all’angolo tra  Corso Sebastopoli e via Guido Reni), raggiungere la sede era comunque pericoloso; si attraversava il corso con rischio e pericolo; e pericoloso lo sarebbe rimasto a lungo; non c’erano impianti semaforici né la corsia preferenziale; sarebbero venuti in seguito, in seguito a vigorose proteste e al tragico incidente che costò la vita a Katia Lazzarotto, allora in terza liceo, ma si era già nel 1985. C’erano problemi con il riscaldamento e presto sarebbero emersi problemi all’edificio, concluso forse in fretta e in economia. Un lungo filo che attraversa 40 anni.

 

Nei primi 5 anni (1976-81) del Decimo, gli alunni delle classi prime, seconde, terze e della quarta dal primo ottobre 1976 vissero con noi dentro e fuori la scuola tutti i grandi eventi del Paese che, in misura grande o piccola, entrarono comunque nel loro universo adolescenziale. Erano anni intensi e densi di fatti, dove sembrava più prevalere la critica delle armi che le armi della critica e fin dal primo anno di funzionamento, nel 1977, fummo tutti messi a dura prova. Anni non facili, dove terroristi rossi, terroristi neri e mafia fecero scorrere molto sangue. Anni di manifestazioni, di scioperi, di assemblee che toccarono inevitabilmente anche il Decimo, fenomeni caratteristici comuni alla maggior parte delle scuole statali. Anni anche di “cattivi maestri”, cui molti credettero, anni di violenza e di estremismi, anni in cui non bastava essere democratici per non essere colpiti, e il Decimo non ne fu esente, come successe nel 1980 alla preside Simonelli, la cui Golf fu data alle fiamme una sera in cui eravamo in Consiglio d’Istituto. 

Vivemmo il ‘77, il primo anno di funzionamento del Curie, uno dei cosidetti “anni di piombo” (quello della comparsa della compagna P38 e di un lungo elenco di vittime fino a Carlo Casalegno e a Roberto Crescenzio/Angelo Azzurro); vivemmo nel ‘78 il sequestro e la morte di Moro, l’elezione di Pertini, l’avvicendarsi di tre papi. Quando nel 1978 al Curie si diffuse la notizia del rapimento di Moro, un silenzio sbigottito ed irreale calò sulla scuola. Nelle classi raccomandammo calma e di seguire le notizie; con alcuni studenti si andò in piazza del municipio a Grugliasco dove era stato organizzato un presidio. Nel 1979 fummo colpiti in particolare dall’assassinio a Genova del sindacalista Guido Rossa ad opera delle Brigate Rosse e dalla morte a Torino dello studente Emanuele Iurilli nel corso di uno scontro a fuoco tra terroristi di Prima Linea e Polizia. 

 

Torino, ancora industrializzata e con una forte base operaia, era ormai divenuta il campo di battaglia principale della maggior parte delle organizzazioni di lotta armata di estrema sinistra; il susseguirsi di attentati, scontri a fuoco, manifestazioni di protesta diffusa, aveva creato un'atmosfera di forte tensione ed insicurezza nella cittadinanza e grande preoccupazione nelle forze politiche. 

Tra tutte le vicende del 1980, quella che ebbe più impatto a Torino e sicuramente al Curie fu la vertenza dei licenziamenti e della messa in cassa integrazione di oltre 25.000 operai alla Fiat. Come è noto, la controversia si chiuse con la Marcia dei quarantamila, che segnò la cesura verso nuovi processi sociali. 

Ma erano anche anni di ideali fortemente sentiti, di riforme legislative importanti – la leggi Basaglia, la legge sull'interruzione volontaria della gravidanza e i decreti sugli organi collegiali. E poi le radio libere, la televisione (Alto gradimento, Happy days), gli indiani metropolitani, il punk, La febbre del sabato sera, Il cacciatore e Apocalypse now, Spielberg, il walkman; le morti di Elvis Presley e John Lennon, la protesta contro il nucleare e i disastri ambientali. Le stragi e le trame nere. 

 

 

Chi come me ed altri allora si presentava nella veste di docente, aveva sotto gli occhi una scuola refrattaria alle novità, ancorata ai vecchi e stantii programmi ministeriali, non aperta sulla società civile, disponibile a informare piuttosto che a formare i giovani, considerati in molte scuole vasi da riempire, anziché soggetti da cui far emergere il meglio della loro ricchezza culturale e umana (non è questo il vero significato del verbo educare?). Ci si batteva dunque con determinazione non perché cambiasse solo qualcosa per restare tutto come prima, ma per una profonda riforma, per una preparazione didattica degli insegnanti aperta sulla società in evoluzione, per tempi più lunghi di ascolto e di supporto alle famiglie. E soprattutto per un loro coinvolgimento più attivo nel processo scolastico e didattico.

Erano anni in cui la contestazione sembrava mettere in discussione le strutture del funzionamento della scuola che spesso si realizzava nel fenomeno dello sterile assemblearismo, che impegnò tante ore di scuola in incontri poco ordinati, in discussioni non sempre proficue, anche se sinceramente spontanee, ma sostanzialmente poco concludenti. 

 

L’innovazione doveva passare non solo per la fine dei generalizzati rapporti autoritari e burocratici preside-docente, docente-allievo, ma soprattutto per la didattica. Intanto si iniziò con la scelta di libri di testo innovativi che case editrici più illuminate, come Loescher, Nuova Italia, Zanichelli, proponevano per scienze, fisica, lingue straniere (con sempre meno grammatica normativa e più metodo comunicativo), lettere (l’impegnativo Materiale e l’immaginario è del 1978); poi lezioni in compresenza di docenti di materie affini o comuni, poi la didattica di laboratorio, in particolare di Scienze. Una cosa unica del Curie, fu la sperimentazione di nuoto nelle ore di Educazione Fisica, che si protrasse a lungo.

Un’altra problematica che ci impegnò e ci coinvolse fu l’applicazione dei Decreti delegati, riguardante gli organi collegiali, visti come strumento di partecipazione e vita democratica. L’attenzione maggiore si concentrò sugli organi collegiali d’istituto. La rilettura dell’articolo 1 del D.P.R. 416/31.5.1975 fa comprendere lo spirito dell’iniziativa di legge: «Al fine di realizzare […] la partecipazione della gestione della scuola dando ad essa il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica, sono istituiti, a livello di circolo, di istituto, distrettuale, provinciale e nazionale, gli organi collegiali»

 

Quanti, genitori e docenti, idealizzavano una scuola non più chiusa in se stessa, nei suoi programmi, negata alle famiglie e alla società, ma aperta verso i tempi che stavano radicalmente cambiando, ci misero l’anima perché quei decreti non restassero lettera morta. Le famiglie si mobilitarono e si organizzarono in vista delle elezioni secondo gli schemi della politica ed elessero i loro rappresentanti negli organi collegiali. Basti ricordare come segno dell’entusiasmo dei tempi per l’importanza attribuita al fatto che a presiedere il Consiglio di una scuola fosse un genitore e non il preside, l’elezione di Primo Levi come presidente del Consiglio d’istituto del liceo D’Azeglio di Torino.

Tutti gli organi collegiali – centrali, regionali, distrettuali e provinciali, i consigli di classe, di istituto – e quant’altro i Decreti delegati erano riusciti a produrre, sembravano materia difficile da tenere assieme e da far funzionare da parte di genitori e docenti, fino a quel momento non abituati a discutere e a confrontarsi, ad aprirsi alla realtà che stava cambiando. Eppure si videro risultati positivi: le famiglie cessarono dall’avere un ruolo esclusivamente passivo; gli stessi alunni furono coinvolti nei consigli di classe e d’Istituto perché potessero far sentire la loro voce e quella dei loro compagni. La scuola si aprì ad altri soggetti che non fossero solo gli insegnanti. Medici, per esempio, i rappresentanti sindacali o di movimenti che avevano avuto un ruolo importante nella guerra di Liberazione, gli storici, i professionisti. Tra le iniziative al Curie di apertura alle tematiche civili e sociali mi piace ricordare questa, per la sua peculiarità: il prof. Luigi Tavolaccini aveva partecipato alla stesura della legge 180, lavorava presso l’Ospedale psichiatrico di Collegno e aveva aperto la prima comunità terapeutica per pazienti psichiatrici proprio al Barocchio; con lui organizzammo di pomeriggio una serie di incontri in sala conferenze chiamato Breve viaggio nella follia con pazienti psichiatrici e studenti. Fu un'indimenticabile esperienza di interscambio, di grande valore per tutti. “I matti a scuola?”, disse qualcuno. “E perché no”, fu la mia risposta. 

 

 

Una novità importantissima, una vera conquista, fu l’articolo 42 del DPR 416/74, che garantisce per «gli studenti della scuola secondaria superiore ed artistica e i genitori degli alunni delle scuole di ogni ordine e grado la possibilità di riunirsi in assemblea nei locali della scuola». In particolare, «le assemblee studentesche nella scuola secondaria superiore e artistica costituiscono occasione di partecipazione democratica per l’approfondimento dei problemi della scuola e della società in funzione della formazione culturale e civile degli studenti». Sono passati 40 anni e i Decreti delegati sono in vigore tutt’oggi. Nonostante vi siano stati numerosi tentativi di riforma, gli organi collegiali d’istituto sono ancora sostanzialmente gli stessi.

 

Per tutti quegli anni noi siamo stati lì, nell’ultimo edificio del Barocchio, a cercare di dare vita ad una scuola nuova, davvero neonata. Per noi giovani docenti l’impegno si prese subito sul serio; si trattava anche di una sfida personale, culturale, politica. Era difficile farne a meno, anche senza essere militanti, bastava esserne convinti: non importava se cattolici, marxisti, agnostici, iscritti o non iscritti ai sindacati; lo sforzo era lavorare per una scuola diversa, attenta agli studenti, alle istanze sociali, senza far venire meno la serietà degli studi; intendevamo instaurare con gli studenti un rapporto non gerarchico o autoritario, ma collaborativo, anche informale, coglierli come persone e come tali conoscerli, valorizzare quello che c’era di valido in loro e non esaltare gli aspetti negativi; essere efficacemente autorevoli e non scioccamente permissivi o lassisti

 

Certamente non più una “scuola di classe”, che premia coloro che hanno talento ed educazione, mentre si disinteressa o esclude chi con talento da sviluppare non ha capacità acquisite dall’ambiente familiare. 

D’altra parte si cercava solo di mettere in pratica il terzo comma dell’articolo 34 della Costituzione: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»

Nel 1978, durante uno scrutinio difficile e lungo degli esami di riparazione di una seconda (certi consigli di classe e consigli d’istituto potevano terminare a mezzanotte), si riuscì, a maggioranza, a promuovere uno studente che proveniva da un ambiente culturalmente deprivato e le cui prove erano complessivamente proprio al limite della sufficienza, ma che secondo me e altre colleghe, aveva le qualità per passare alla classe successiva. Quando vide il risultato positivo, quello studente mi disse: “Se mi aveste bocciato, io da domani avrei continuato ad andare a mettere piastrelle con mio fratello”. Quello studente è diventato un affermato avvocato. 

Ci aiutava anche allora il fatto che la forbice d’età tra docenti e allievi non fosse molto ampia; tra noi e quelli dei triennio era veramente stretta, quasi da fratelli maggiori… anziani. Così con i colleghi, in un rapporto intenso di frequentazione, di condivisione, di dialogo, rapporto che andava al di là dei ruoli formali. Lo stesso dicasi nei confronti del personale ausiliario, tecnico ed amministrativo. 

 

Certo, erano gli anni fatati di miti cantati e di contestazioni; erano i giorni passati a discutere e a tessere le belle illusioni, come avrebbe poi cantato Guccini; l’impegno che dedicavamo era totale, di questo eravamo certi; incontri, discussioni, strategie, progetti continuavano anche dopo la scuola; ma altrettanto – i tempi lo imponevano – eravamo ben consci (e con noi lo erano gli studenti e le famiglie) di quanto avveniva intorno a noi; non ho dimenticato quanto disse un saggio genitore: che anche a tenere chiuse le finestre della scuola, l’aria di fuori entra lo stesso.

Così, non ci si tirava indietro a discutere con gli studenti, a stare con loro anche al pomeriggio, per permettere che facessero riunioni, non avendo altro luoghi aggregativi; e si stava anche fino a sera sui gradini d’ingresso a conversare. La scuola come luogo d’incontro, anche. Un pomeriggio dei miei primi giorni di servizio il preside mi chiamò a casa, chiedendomi se ero disponibile a tornare a scuola per consentire ad un gruppo di studenti di riunirsi nei locali del liceo alla presenza di un docente (per la sicurezza e non solo).

 

Ovviamente, dissi di sì. Molti degli studenti percepivano e amavano questa vicinanza dei docenti ai loro momenti personali, un fatto nuovo e inedito. Certo non tutte le classi erano uguali né lo erano tutti i docenti, ma dove questi rapporti si instauravano, si creava un clima caldo, di vicinanza, e i ragazzi, intelligenti e sensibili com’erano e come sono, sapevano comunque distinguere i ruoli. Si poteva stare insieme, ci si poteva dare del tu (da me mai sollecitato agli studenti, ma anche mai rifiutato), si poteva andare insieme in birreria o fare delle serate di bagna cauda di gruppo, ma al mattino dopo, se non avevi studiato ed eri interrogato io il “4” te lo mettevo senza la minima esitazione. Uno studente, come dedica nella foto ricordo di quinta, scrisse: Dicono che sia impossibile trovare amici nella generazione precedente. Penso non sia vero.

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Dai confini dell'impero

L’amor che move il sole e l’altre stelle

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Un verso, un solo verso. Ramo di un albero, filo di una tessitura. Oppure, petalo di un fiore, se vogliamo rivolgerci alla classica contiguità della poesia con la rosa. Staccare un verso dal corpo di suoni e di silenzi cui appartiene, dall’onda del ritmo che in ogni parte di quel corpo trascorre, è come prelevare poche note da una composizione musicale. Un’azzardata sottrazione. Un arbitrio. Eppure ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, e anche nella loro traduzione in altre lingue, che sembrano vivere di luce propria.

Immagini: 

Wall paintings, Cancellare tutto

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Bertolo

 

Il tuo articolo su "Artribune" di qualche tempo fa rimane la cosa migliore che ho letto riguardo alla querelle attorno alla mostra sulla Street Art a Bologna. Nel frattempo però c'è stata questa cosa di Blu, il nostro più affermato street artist, che con un blitz ha cancellato tutti i suoi wall paintings bolognesi. E si è sollevato un polverone – come è giusto che sia... Nella valanga di post e interventi pro o contro quel gesto mi pare che l'unica cosa che nessuno mette in discussione sia il significato/movente di quel gesto: la protesta.

 

Favelli

 

Mi piace questa cosa di resettare tutto, di annullare tutto, più che distruggere e cancellare. Avesse dato una mano di nero – lutto censura – invece è grigio come il muro di prima, una specie di fondo. Dopo la nostra telefonata, "Repubblica Bologna" mi ha chiesto un parere su Blu. La cosa che non mi piace degli scritti apparsi su "Artribune" e anche di Michele Serra, è questa specie di legge-tabù per cui l’opera è diventata per statuto pubblica e non si può più toccare. E poi le regole non sono fatte per essere infrante?

Nell’arte c’è anche negatività, contrasto, questioni che dividono, angosce che sono la poetica che pesa come una casa e segna un’intera esistenza e questi vogliono l’opera e basta per la città col cordone rosso davanti…

 

L. Bertolo Quello che non è #1, c-print, 2012.

 

La faccenda è che c’è un problema con la società, con quello che passa il convento e la mia preoccupazione non è quella di andare né nei musei, ma nemmeno di fare felice

la gente… anzi questo è proprio l'ultimo dei problemi, mentre sembra essere il primo per chi s'interessa d'arte. È vero come dici, è una sacrosanta protesta. 

Blu vuole antagonismo con la sua arte perché è antagonista.

Lui si è sentito con le spalle al muro e compie un gesto estremo, ma che non leggono come profondo, come gesto importante, forse perché è proprio Blu che non vuole essere artista e allora si trova in un vicolo cieco. Blu non può fare un gesto d’artista perché non vuole esserlo… 

E poi c’è questa roba della Street Art che non si regge… nel sito della mostra su Bansky & co. c’è scritto:

… perché queste esperienze artistiche – oggi più di ieri – influenzano il mondo della grafica, il gusto delle persone, l’Arte intera di questo secolo. 

Non è vero, casomai il contrario.

 

 

Bertolo

 

Il tuo articolo "Lo strappo del velo"è bello: limpido, inquietante, non consolatorio – roba che in effetti ci azzecca poco con giornali e televisione… Tornando a quello che dicevo prima vorrei aggiungere che se nessuno mette in discussione la dimensione di protesta del gesto autolesionista di Blu, forse è perché quella risulta una categoria fin troppo disponibile in cui incasellarlo. Come artisti, il minimo che si possa fare è uno sforzo d’interpretazione un po’ più creativo. E così a un certo punto mi è venuta in mente la parola POTLATCH. Da wikipedia:

 

L. Bertolo Quello che non è # 2, c-print, 2012.

 

Il potlatch – talora scritto anche "potlach"– è una cerimonia che si svolge tra alcune tribù di Nativi Americani… Il potlatch assume la forma di una cerimonia rituale, che tradizionalmente comprende un banchetto a base di carne di foca o di salmone, in cui vengono ostentate pratiche distruttive di beni considerati "di prestigio".

Durante la cerimonia vengono stipulate o rinforzate le relazioni gerarchiche tra i vari gruppi grazie allo scambio di doni e altri riti. Attraverso il potlatch individui dello stesso status sociale distribuiscono o fanno a gara a distruggere beni considerevoli per affermare pubblicamente il proprio rango. Contrariamente ai sistemi economici mercantilistici, infatti, nel potlatch l'essenziale non è conservare e ammassare beni, bensì dilapidarli. La logica dell'economia di mercato è quindi completamente invertita (la sottolineatura è mia). 

 

Dopo tutto i wall paintings possono essere visti come dei doni, no? Doni eccessivi, certo, come dimostrano il cittadino medio e l'amministratore medio che li considerano un semplice imbrattamento. Belli (come quelli di Blu) o brutti (come la maggior parte) che siano, i wall paintings sono doni per la comunità intera, per il singolo ignoto e ignaro passante… Come nel caso del potlatch, il gesto di Blu risulta incomprensibile perché illogico dal punto di vista della logica capitalista, una logica che pure prevede la distruzione in chiave di maggior profitto, come quando si distruggono migliaia di tonnellate di arance per stabilizzarne il prezzo o si bombarda un paese del terzo mondo per poi mandare le nostre imprese a ricostruirlo. La distruzione di un dono che noi stessi abbiamo fatto esorbita da ogni categoria interpretativa… A me pare che in questa vicenda ci sia una dimensione tragico-epica, una dimensione del tutto assente dalla nostra arte attuale. Anche per questo, forse, ne sono così toccato. 

 

 Favelli

 

Sì, è vero. È tragico, ma questa tragicità non viene percepita, perché non è nemmeno concepita, immaginata: qui si bada al sodo e ci si dimentica di quello che è stata l’arte nel secolo scorso. 

Ribadisco la questione del conflitto fra l’arte e la società; io non faccio arte perché voglio rendere le città più belle… come invece dichiarano alcuni graffitisti. 

Non è che le opere si fanno a tavolino, tutto non è mai così chiaro, così lineare: dono, città, cittadini, pubblico, bello… Ci sono anche zone oscure, ombre, rifiuti, rigetti, non è tutto così scontato. La città e i funzionari pretendono solo. Non so se Blu ne sia consapevole, ma il fatto che è successo è così anti tutto, anti epoca, anti logica. 

Più interessante come gesto d’arte, ma ho l’impressione che loro (Blu e Wu Ming) lo vogliano collocare più come gesto politico.

Io tendo a separare, nel senso che quando penso come artista non penso al bene e al male, non penso come cittadino, né come persona impegnata. Non faccio arte per motivi politici, per me la questione è più personale e credo più seria, più profonda e se vuoi anche più noiosa. 

 

F. Favelli Luigi Marulla 6,5x5 mt. 2015 Viale della Repubblica - Cosenza.

 

Bertolo

 

Sono perfettamente d'accordo, si tratta pur sempre, almeno inizialmente, di una questione privata… Ma rimanendo sul livello politico, è interessante che Potlatch sia stato anche il titolo di un bollettino pubblicato per qualche anno, a partire dal 1954, da un gruppo di giovanotti autonominatosi "Internazionale Lettrista" (tra cui naturalmente figurava il giovane Guy Debord ). Beh, l'azione di Blu mi pare molto in linea con la dimensione provo[catoria]-situazionista... Sia come sia, hai ragione tu a distinguere: la differenza fondamentale tra un writer e un artista non passa dalla tecnica, dal soggetto e nemmeno dal luogo dell'opera. La differenza, quando c'è, sta nell'orizzonte d'attesa. Credo che ogni artista debba prima o poi fare i conti con l'ambiguità essenziale della sua pratica, con la polisemia irriducibile di un'opera d'arte. Per questo, tra l'altro, propaganda e arte vanno poco d'accordo... Con questa “Grande Autocancellazione” Blu si colloca, consapevolmente o meno, in una tradizione concettuale di tutto rispetto nel panorama dell'arte contemporanea. Suppongo che a Blu importi poco o nulla di questa risibile "promozione”, ma a me sì. Nel 1970 John Baldessari bruciò tutti i suoi quadri dipinti dal 1953 al 1966 rendendo pubblico (e con ciò rendendo opera) questo gesto.

 

Lo chiamò "Cremation project". Eppure, per quanto pieno di pathos, il gesto di Baldessari non aveva quella dimensione "epica" che ha il gesto di Blu: una questione privata che diventa pubblica, assumendo così una dimensione anche politica. Inoltre, è anche un gesto che funziona anche se slegato da un tempo e un contesto definiti, che assume dunque una dimensione esemplare... Di sicuro questa vicenda mi ha colpito in un punto debole. Da tanti anni sono affascinato dall’idea (dall’immagine) della cancellazione. Ci scrissi su la mia tesi all’accademia di belle arti, con tanto di lunga intervista a Emilio Isgrò. La mia prima mostra, nel 1997, s’intitolava "Pittura e cancellazioni" (ancora)…

 

Favelli

 

La questione della cancellazione, una cosa che c’era e non c’è più, è un leitmotiv costante. Sottrazione, censura, privazione, oscuramento, copertura, tamponatura, sono cose dure, eppure mi sono care, e comunque in qualche modo fanno rima con conflitto. In un territorio che sembra oggi di esclusiva pertinenza di integralisti islamici, la cancellazione ha per me qualcosa di attraente e una grande piacevolezza estetica. Ma qui si apre un bivio deciso fra chi la percepisce come piacevole, interessante, a volte commovente, e chi no. Qualche volta in Meridione ho incontrato delle stazioni di benzina chiuse, con le insegne oscurate, col nome-logo coperto da una plastica nera. Davanti a questi segni ho sempre avuto un sussulto: riconosco una complessità formale da indagare, ma soprattutto da contemplare, li avvicino alla mia idea di bellezza. Ma che sia solo una questione chimica? Forse solo genetica? Come certi popoli che vedono diverso lo stesso soggetto dagli altri? È come un dialogo fra chi ha la fede e chi no, direi inutile, a maggior ragione oggi. Vedere e percepire qualcosa di complesso e generativo in placche di plastica sovrapposte è forse solo una presunzione, un disturbo psicologico proprio come chi vede la Vergine Maria che piange su un ulivo secolare? Non saprei, ma forse stiamo parlando di sottigliezze.

Dopo la cancellazione la tribù di Blu ha scritto alla base del muro qualche riga, fra queste c’è: peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti. Lo trovo drammatico e vero. 

 

F. Favelli One Pound banconota cercata 2013.

 

Apprezzo questa scritta. Con questo intervento di Blu sono emerse tante immagini che mi hanno colpito e attirato e, anche se diverse, le ho collegate a questa pratica: lievi, nella loro durezza, scalpellature sopra bassorilievi egizi, damnatio memoriae raffinatissime o la copertura-annullamento di Christo del Reichstag del 1995, forse una delle immagini più decise e decisive degli ultimi decenni. Da tempo raccolgo francobolli sovrastampati: i paesi invasori – o quelli invasi che riprendevano il controllo –, usavano i francobolli dei nemici e li vidimavano, ridavano loro corso stampandoci sopra o cancellando parte dell’originale. Una specie di griglia-copertura, ma credo concettualmente simile alla cancellazione. Apporre una correzione più o meno completa, parziale o totale è uno svelamento di un conflitto, di un disaccordo, di una violenza, o come dici tu, di una protesta. 

Ma anche certe tamponature, segni lasciati da ciò che c’era prima (un cartello, un pannello) apparsi senza volontà, ma solo come incuria e dimenticanza, simili alla nuova opera di Blu, sono di una bellezza devastante. Alla stazione Centrale di Milano sul muro sopra la porta principale c’è la traccia di un grande tabellone. 

 

Bertolo

 

Peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti: sì, è roba forte. Cartelli o scritte cancellate (come anche i francobolli di cui parli) sono sempre inquietanti, forse perché, come certi mostri, sembrano contenere in sé una cosa e il suo contrario. Nel 2013 ho fatto una mostra intitolata "Quello che non è", una serie di fotografie che ritraevano muri “cancellati”. Per una curiosa coincidenza, quelle foto furono scattate in buona parte a Bologna. Queste cancellazioni stradali fanno parte del banale paesaggio quotidiano, insieme alle tags, agli stickers e ai cartelloni pubblicitari. Eppure, riviste in quella sequenza di piccole stampe allineate orizzontalmente su un lungo tavolo, quelle cancellazioni creavano un effetto un po’ sconcertante, oltre che assomigliare a un campionario involontario di pittura gestuale… Parli di damnatio memoriae e mi fai tornare in mente un testo di Franco Fortini letto molti anni fa. Fortini racconta di aver potuto confrontare due copie, una integrale e l’altra censurata da Stalin, di una medesima pellicola contenente la documentazione cinematografica di un intervento di Lenin ad un congresso della Terza Internazionale nei primi anni ‘20. Nella copia censurata alcuni volti sono coperti da macchie. Tra i volti scomparsi c’è anche quello di Karl Radek, comunista di sinistra condannato nelle purghe staliniane del 1938.

 

Tempio di Karnak. 

 

Allo zelante cancellatore sono però sfuggite le mani di Radek, che si agitano nel vuoto accanto a quelle di Lenin. A questa immagine Fortini ne accosta subito un’altra, spostandosi da Mosca a Ravenna, per trovare i segni d’una epurazione di quattordici secoli prima. “Teodorico, goto e ariano, aveva ordinata l’esecuzione di mosaici in Sant’Apollinare Nuovo. Una trentina d’anni più tardi Giustiniano cattolico riconsacrava la chiesa a San Martino di Tours, ‘martello degli eretici’, e faceva cancellare le immagini di Teodorico e della sua corte effigiate nell’atto di uscire dal Palatium. Sostituendovi tendaggi ed elementi architettonici, i mosaicisti dell’arcivescovo Agnello dimenticarono alcune tracce delle figure. La ‘condanna della memoria’ ha lasciato contro le colonne qualche mano sospesa a mezz’aria, come quelle che si vedono svolazzare nelle sedute spiritiche”… Chissà. Forse è proprio di ogni immagine e non solo delle cancellazioni il fatto di nascondere evocando.

 

Favelli

 

Chiudi con 'evocare' che è un bellissimo termine perché parla soprattutto a chi è in ascolto. A pensarci bene sto passando quasi tutta la mia esistenza a cercare – e trovare - cose capaci di evocare. Una delle poche incisioni che ho fatto è l’immagine di una sterlina, One Pound, che riprende quella originale di una banconota con errore. Proprio sul viso della Regina, probabilmente nella stampa c’è stata una strana piegatura e l’inchiostro non ha colorato parte della faccia. Proprio un’effigie censurata casualmente, come se un velo senza colore, dello stesso tono della carta avorio, coprisse Elisabetta II. È così folle che sembra un artefatto; prima del mio acquisto era un semplice errore-varietà in ambito numismatico. Questa immagine conduce inevitabilmente alla copertina del disco "God Save the Queen" dei Sex Pistols, forse una delle più forti in assoluto, con gli occhi e la bocca della Regina censurati, quasi un negativo di certi costumi della donna nell’Islam. Quando ho fatto il murale a Cosenza sul calciatore è successo forse la cosa opposta dell’operazione di Blu: ho proposto un’immagine cancellata – una figurina senza calciatore – e i tifosi la volevano riempire. Blu ha cancellato per protesta: forse noi stiamo cercando di dire che la cancellazione rimane sospesa attorno a qualcosa che in qualche modo ha a che fare col piacere.

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L’Islam illustrato da Escher

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Nella decorazione dell’architettura islamica le forme si alternano tra loro con effetti di ambiguità percettiva: ne riconosciamo una e poi alternativamente un’altra. Questo fenomeno, definito dalla psicologia della percezione visiva con il termine “multistabilità percettiva”, ha luogo anche quando osserviamo con stupore le opere grafiche dell’incisore olandese Maurits Cornelis Escher, in mostra a Milano (Palazzo Reale) fino al 22 gennaio 2017.  

 

Decorazione musiva, Alhambra, Granada.

 

 

Oltre agli studi dello psicologo danese Edgar Rubin sul rapporto tra figura e sfondo, furono anche i motivi grafici ricorsivi che decorano gli interni del complesso residenziale dell'Alhambra a influenzare Escher. Il suo sistema di lavoro consiste infatti in una suddivisione geometrica della superfici già in uso nella decorazione musiva dell’architettura antica. 

 

M.C. Escher, Uccello/Pesce, 1938. Disegno e acquerello.

  

Questi motivi grafici trionfano soprattutto nella decorazione dell’architettura islamica, nella quale s’inserisce anche la scrittura che diventa parte integrante della decorazione stessa. La geometria dell’impianto decorativo segue i volumi architettonici con passaggi dalla linea alla superficie e dalla superficie al volume, evidenti soprattutto nel raccordo  fra il piano d’appoggio circolare della cupola e il quadrato o il poligono di base della struttura che la sostiene. La scrittura segue la geometria facendo tutt’uno con la decorazione e l’architettura, che diventa così un libro tridimensionale illustrato con molti motivi grafici ricorsivi, ma senza immagini figurative.

 

Schemi decorativi parietali, Alhambra, Granada.

 

La cultura islamica vieta la produzione grafica, pittorica e plastica dell’immagine figurativa, ma non quella suggerita dalla parola inserita nella decorazione attraverso le iscrizioni. Le immagini sono autorizzate a manifestarsi solo attraverso la parola, quando in questa fioriscono similitudini e metafore che fanno apparire il discorso.

Come dimostrano gli studi di Gülru Necipoğlu Kafadar, dell’università di Harvard, nella decorazione dell’architettura religiosa islamica sono inseriti versetti coranici, aneddoti sulla vita del profeta (ʾaḥādīth), invocazioni religiose e versi di poesia persiana. Negli edifici progettati tra il 1539 e il 1588 dal famoso architetto di corte Sinan la scrittura si riduce invece prevalentemente a citazioni di versetti coranici.

 

Interno della moschea dello sceicco Lotfollah, Esfahan.

 

L’architetto esalta la parola coranica in ottemperanza a una politica di stato che ha lo scopo di affermare il sultanato, legandolo a una ortodossia sunnita forzata che si cristallizza con il regno di Süleyman, in opposizione e conflitto con gli Sciiti safavidi (troviamo qui uno degli aspetti che ancora oggi caratterizzano l’idea politico-religiosa di sultanato sunnita a cui, secondo alcuni politologi, ambisce Erdogan). A questo riguardo sono significative le iscrizioni di fondazione della moschea Süleyman a Costantinopoli composte dal giurista Ebussuud utilizzando frammenti di versetti coranici. Una di queste definisce il sultano: “l’ombra di Dio su tutti i popoli”. Attraverso una metafora al giurista sfugge inavvertitamente un’immagine potente e terribile.

 

Scuola di Tiziano, ritratto del sovrano Francesco I e del sultano Süleyman, 1530.

 

Le immagini suscitate dai testi poetici, rimossi dall’ortodossia sunnita dell’impero ottomano nel corso del regno di Süleyman, continuano a fiorire prima, durante  e dopo nell’architettura safavide sciita. Le iscrizioni nelle due moschee complementari costruite a Esfahan, Shaykh Loṭfollāh (1603-19) e Shāh (1611-38), combinano infatti testi storici,  versi coranici, ʾaḥādīth, invocazioni ai “dodici infallibili” e poesia. 

La caratteristica dei testi poetici è la mobilità semantica generata dall’uso di metafore e similitudini, presenti peraltro anche in alcune citazioni coraniche. Nella decorazione della moschea Shaykh Loṭfollāh, per esempio, troviamo la seguente citazione della sura LXII, Al-Jumu'a: “مَثَلُ الَّذِينَ حُمِّلُوا التَّوْرَاةَ ثُمَّ لَمْ يَحْمِلُوهَا كَمَثَلِ الْحِمَارِ يَحْمِلُ أَسْفَارًا بِئْسَ مَثَلُ الْقَوْمِ الَّذِينَ كَذَّبُوا بِآيَاتِ اللَّهِ وَاللَّهُ لَا يَهْدِي الْقَوْمَ الظَّالِمِ– Coloro cui fu affidata la Torâh e che non la osservarono, assomigliano all'asino che porta i libri […]”. Tuttavia è soprattutto nei versi di poesia persiana inseriti nella decorazione che questa mobilità si manifesta attraverso varie figure retoriche. Nel mihrab della moschea dello sceicco Loṭfollāh troviamo due versi di una poesia in lingua Farsi:

 

Cupola della moschea dello sceicco Lotfollah, Esfahan.

 

A unique dome has Sheikh Lotfollah Mosque, 

It seems like a second sun during the dusk,  

Firmness it gives to land in any case,  

Where sun of the east shelters behind its face.

 

(Nella traduzione in lingua inglese fornita da Ahmad Aghdaei). 

 

La similitudine tra la cupola e il sole al crepuscolo, così come quella tra gli Ebrei e l’asino, accosta due idee di cose che normalmente non sono in relazione tra loro, costringendo la mente ad esaminare il rapporto tra le due, con un transito alternato e continuo dall’una all’altra. Nel caso della metafora che fa del sultano “l’ombra di Dio su tutti i popoli”, il passaggio suscita maggior sorpresa e stupore perché è più rapido, quasi istantaneo. Le due idee vengono prese in considerazione alternativamente non simultaneamente, perciò la mente oscilla tra le due, come nel caso delle figure a multistabilità percettiva. 

Nella decorazione dell’architettura islamica la sorpresa suscitata dalle immagini che sorgono dalle parole si raddoppia con la sorpresa suscitata dalle immagini nelle quali le parole stesse sono inserite. L’ambiguità percettiva che caratterizza l’impianto decorativo si associa così a quella semantica delle immagini scaturite dalle metafore e dalle similitudini presenti in alcune iscrizioni, perfettamente inserite nella decorazione stessa. Come nella decorazione troviamo forme diverse adiacenti e reversibili rispetto alla linea che hanno in comune,  nelle iscrizioni poetiche e in prosa inserite nella decorazione, troviamo significati diversi adiacenti e reversibili rispetto all’immagine generata dal testo.

 

Particolare della decorazione interna del mausoleo di Bibi Khanym, Samarcanda.

 

Le immagini suscitate dalle parole sono complementari alle immagini nelle quali le parole stesse sono inserite.

Se le figure ambigue di Escher esposte a Palazzo Reale nascono dal suo interesse per la decorazione dell’architettura islamica, il nostro interesse per le opere di Escher potrebbe far nascere il desiderio di visitare l’architettura islamica per scoprire che l’Islam ha nel suo cuore un’ambiguità, che le pretese dell’ortodossia sunnita forzata tenta di negare, salvo poi inciamparvi maldestramente, come è capitato al giurista Ebussuud. 

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Preferisco la bionda sullo schermo, risposi

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Miss 161, la donna che al telefono dava l’ora esatta quando ero bambino… il mio primo amore non corrisposto. “Sono le ore 12 e 15 e 23 secondi.” “Ti amo.” Potevo ascoltarla quando volevo, bastava far girare tre volte la rotella del telefono al modico prezzo di uno scatto. “Sono le ore 12 e 15 e 28 secondi.” “Ti amo da morire.” Martino Bux sbarcato a Roma per frequentare l’università come molti suoi compaesani e coetanei, si ritrova, come molti compaesani e coetanei, con poca voglia di studiare e in bilico tra lavori precari, camere ammobiliate sempre più squallide, ragazze che, personaggi minori di Lanterne Rosse di Zang Yimou, si iscrivono all’università quasi solo per trovare marito. Martino comincia subito a mentire sugli esami perché invece di studiare, guarda. Guarda le ragazze. Non solo le colleghe. Le guarda tutte. Quelle che preferisce hanno la bidimensionalità immota di un giornaletto porno, o il bagliore bidimensionale dello schermo. Martino Bux nelle sue peregrinazioni tra giardinetti, locali e aule universitarie cerca una donna con la quale condividere la visione di un film porno in un cinema porno.

 

Vorrebbe solo questo, e niente altro. Tuttavia, poiché la vita è uguale per tutti, anche per chi si porta dietro una tara (Miss 161), conosce una donna e ci va a vivere insieme. La donna, Fabiana, studia medicina e viene dalla Sicilia. Quando l’estate scendono al sud, Martino aiuta i genitori di lei nella gestione del mandorleto. È vestito da bracciante. Fabiana lo guarda quasi grata, quasi soddisfatta, quasi felice e Martino si vede da fuori quasi soddisfatto, quasi felice, quasi pago di essere abbigliato come la comparsa di un film porno. Martino Bux è l’esegeta della produzione porno mondiale, ne è il filologo. Conosce nomi, peculiarità, sa fare distinguo e tirare analogie, ne ha memoria e immaginazione. Il porno per Martino Bux è l’iperuranio che racchiude tutte le forme, gli oggetti, le attitudini e le figure del mondo terreno e terrestre. La tassonomia era rigorosa, i pornografi divennero per incanto accurati come i botanici del medioevo, catalogatori e didascalici, perché cercavano di dare a ogni perversione un nome, a ogni ossessione una categoria, e a ognuna di esse un dominio internet. Fabiana non accompagna Martino nel cinema porno e Martino riprende le peregrinazioni. Come un santo, sempre più scalzo.

 

Ph Yung Cheng Lin.

 

Incontra Luisa Montieri che gli ricorda un’attrice porno, come pure Fabiana prima di lei – come tutti – e poi Cinzia Conti, che attrice porno lo è stata davvero e adesso è la tenutaria discreta ma non sobria di un country-club-ville e giardini-domus-abitare in piena Roma. Anche i ricchi scopano, ma non soprattutto. Tutti scopano con tutto, questo è negli occhi di Martino Bux, più che nei suoi gesti. Un popolo di maschi in accappatoio e ciabatte vagava da un erebo all’altro, tra signorine pseudo specializzate che completavano i loro servizi con il cosiddetto “happy end”. Appartamenti, ville, strade consolari, una città clandestina attraversata da erotomani che prendevano il Viagra per andare con una prostituta, sempre con il cinquantino in mano e la dritta giusta. “C’è una zingara che assomiglia alla Canalis alla stazione di Ipogeo degli Ottavi, per cinque euro fa tutto, cinque euro non è più prostituzione, è amore.” 

L’amore. Come i veri sentimentali, Martino Bux è sterile (non pensa al futuro), è frigido (non allunga le mani per toccare e afferrare ciò che ama, lo dichiara), e i suoi unici sensi sono in fondo la vista e l’olfatto, il tatto è troppo reciproco, il gusto imporrebbe una vita sociale, l’udito è compromesso dagli ansimi delle pellicole che poco a poco hanno perso il dialogo per lasciare spazio a una meccanica del sesso che non ha più rumore ma solo forme, come il karate. Presi atto che il porno che piaceva a me era sempre più raro, i pompini si erano praticamente estinti

 

Cosa fare e come quando i pompini, come i panda, sono quasi tutti estinti? Forse crescere, sedersi su un trono e attendere che, dal vivo, qualcuno s’inginocchi, come accade in certe periferie di erba bruciata e grezzi di cemento armato, col rischio che qualcun altro, mentre stai con gli occhi al cielo, ti svuoti le tasche dei pantaloni alle caviglie. “Non sei peggio di tanti altri, potevi avere un posto fisso. Potevi essere un uomo.” “Forse non è la mia ambizione.” Ma crescere non si può, crescere sarebbe un tradimento a quell’unico desiderio e a quell’unica ossessione. Al cinema porno con una donna, una donna che amo. “Perché mi spii? Perché mi segui?” “Perché lavoro qua.” Le avrei risposto tronfio e allegro, anche se avrei voluto risponderle: “Perché ho imparato a dire ti amo alla persona che amo, e ho scoperto che sei tu. Mi segui all’altare?”.

 

Candore non è un romanzo sul porno, il porno è la grammatica che Desiati sceglie per raccontare come, in un mondo dove tutto si consuma, il sesso – gli organi sessuali – appaia l’unica cosa incorruttibile e imperitura che resiste (Il porno ha un vantaggio, l’immagine. Ti illude che il sesso non sia mai fallace e deperibile, come l’immagine dei suoi protagonisti) e l’unico vero atto di rivolta, andare dritti verso quello che si vuole senza pensare alle conseguenze, alle responsabilità, al ludibrio pubblico e privato, alla certezza che tutte le vite degli altri sono migliori della tua. Andare avanti, e basta. Lo sguardo di Martino Bux – e forse, dunque, del suo autore – è incantato, fisso, romantico (gli occhi degli innamorati sono come gli occhi delle rane, ha scritto Francoise Asso, credo in Par dessus le toit) e capace, più di ogni altro, di tenerezza, perché buffo, perché goffo, perché manchevole. Perché chi ha cancellato il passato, dismettendo qualsiasi contatto con la sua terra, i suoi genitori, la sua mitologia mezza albanese, non può (non posso significa non voglio, ha scritto Cvetaeva) accedere al futuro. Non ne ha diritto. “Martino, tu sai qualcosa sul perché da alcuni giorni c’è un tipo che chiama, geme e poi chiude?” “Denuncialo.” “Pensavo fossi tu.”

Nei sogni di Martino Bux – nel buio in cui si trova a un certo punto, con gli occhi chiusi, con un vero accenno a Federigo Tozzi, a l’impotenza psicologica di amare, ma qui per eccesso d’amore – ci sono un corsetto, un reggicalze e un alano che è, come nei sogni, anche un asino e anche un amante e, sempre, una compagnia. E ci sono le tre Parche della sua vita. C’è Cloto, Fabiana che fila, c’è Lachesi, Cinzia Conti che misura il destino di Martino Bux, e c’è Luisa Montieri, Atropo, che taglia, in qualche modo ma in ogni caso non definitivo perché, essendo la vita di Martino Bux legata a un unico desiderio e a una sola ossessione, Atropo non ha niente da tagliare. Si possono interrompere solo le vite che si sono compiute o fallite, quelle in cui tutto resta in potenza (e forse impotenza per quanto riguarda Martino Bux) nessuno, nemmeno le Parche, può fare nulla. Volevo perseverare sull’orlo di quella casa tutta la vita, finché non mi avesse accompagnato in un rettangolo di terra e seppellito sotto un mare di magnolie.

 

 

Ph Yung Cheng Lin.

 

extra

Gennaio 2007. La mia prima volta con Martino Bux 

Vita Precaria e amore eterno, Mondadori (2006)

 

Per quell’attimo infinito mi sentii mancare, capii che Toni era la mia unica unità di misura umana, l’unica relazione con cui valutavo la mia percezione dell’umanità. Quando sarò, o se io fossi, Martino Bux mi farò marchiare io pure a fuoco, sul braccio, come un vitello da latte, il simbolo o il nome della mia appartenenza. Della mia percezione dell’umanità. Tutti dovremmo. Perché desideriamo cose molto comuni. Di essere circondati, di segnare i confini ed essere stretti in un cesto umido di braccia e umori. O di essere amati, semplicemente. Perché ci raccontiamo storie inversomili, perché siamo sordi e romantici e testardi e vendicativi e fasci talvolta. Perché anche i fasci immaginano e stordiscono di intenti inevasi. Tutti desideriamo corresponsioni. Affettive economiche sessuali intellettuali. Martino Bux blatera come se passasse la vita a camminare, come se piovesse, coi pugni in tasca, quasi un brontolio, e invece sta fermo, alla guazza. Un uomo imperniato. In un call center, nella propria stanza da letto, in un autobus che squarcia San Lorenzo o in un treno di protesta che non parte perché piove. In un tradimento biondo che non vuole e che non riesce nemmeno a nominare. Nelle invidie da tabaccheria per quelli che guadagnano più della soglia di galleggiamento, nella soglia di galleggiamento. Nell’impotenza di spedire lettere a destinatari troppo noti e di non spedirle a Toni.

 

È Il discorde concerto dei morti che trasforma, in Vita precaria e amore eterno, il brontolio insopportabile e misericordioso di Martino Bux in preghiera laica e addirittura evocazione. I morti ti chiedono conto di tutto. (…) delle tue rivendicazioni sociali, sindacali, parentali, sanitarie e di tutto quello che non hai il coraggio di chiedere. Ma solo di desiderare. Guarda e parla e tutto gli passa intorno e attraverso, Martino è presto un fantasma perduto dietro a visioni sessuali di madri ben tenute e figlie lolite colte e altruiste. Lolite partite per il continente nero e in attesa di tornare. Lolite in attesa di purificazione dalla borghesia occidentale e dalla periferia dell’impero. Lolite il cui culo è un sacrario. Toni è lolita il giorno di carnevale. Non spedire lettere a Toni, aspetta. Il perno è l’attesa, l’unica cosa che si può scegliere. Attendere o non attendere questo è il problema e se sia più nobile. Se sia più nobile chi? Bux junior non ha niente di aristocratico nel linguaggio e nei pensieri e nelle azioni e nell’odio di classe e dietro all’elegia di Perla Mazza e al polveroso savoir-faire di Andrea Sperelli, intorno a una teogonia inversa e sozza di parassiti e sfortunati e inebetiti di immigrati di grassi di brutti e di tutti. Martino Bux è junior perché c’è una famiglia Bux, tutta intera, venuta via dalla Sicilia infame e cartone di scritte di mafia e guerra fredda e soprusi e strade larghe e senza ombra, dove nessuno aveva il coraggio di camminare per non provare una frustrante forma di smarrimento.

 

Martino Bux ha un padre ed è sua madre, niente di più, niente di meno. Niente di più bello in questo romanzo che le tre brevi storie della famiglia Bux. Vita precaria e amore eternoè un libro zeppo di fatti e considerazioni (troppo pieno?) con al centro una storia d’amore struggente e malinconica. Come tutte le storie a distanza. Come tutte le distanze che sembrano incolmabili e se non lo sono lo diventano. Perché c’è il tempo e i fatti e l’incapacità e il gesto ritratto e il caso e Mario Desiati che è uno scrittore di ambientazioni e di sfondi e che in mezzo a invettive ha boccioli di prosa. Baci che danno sonno, il titolo stesso, le perle di acqua salata schiacciate tra il pollice e l’indice, drugstore perpetui, altro. Scrive del tono epico della piccineria quotidiana, del malumore generazionale, della classe e della trasformazione del tuo amato e odiato paese in un grande cinema tridimensionale, della protesta, costruisce un personaggio irritante, pusillanime e senza assoluzione. Vita precaria e amore eternoè un romanzo senza clemenza, come il mondo che descrive, dove i visionari perdono se non la vita almeno una casa. Tutto è insondabile, ma per un solo attimo, un attimo immenso riesci a vedere tutto quello che le loro menti proiettano. In questo stesso attimo che non finisce mai un forte bagliore ti toglie la vista. Le sfere affettive, le bugie, le paure, le bollette da pagare restano in sospeso. (gennaio 2007)

 

Una nota bio-bibliografica

 

Ho sempre letto Mario Desiati, Mario Desiati mi ha sempre letto. Mentre i nostri libri venivano pubblicati, e talvolta, prima che lo fossero. Tentare di mantenere una distanza critica tra quello che abbiamo letto in generale e letto, in particolare, l’uno dell’altra e i Negroni bevuti insieme e i passi in giro per Roma è stato, e continuerà a essere, un avvincente esercizio di equilibrio e un esercizio e basta. Avrei potuto chiamarlo e dirgli solo Sì, è questo che volevo leggere, nemmeno la morte ferma l’ossessione, questo volevo leggere. Lo avrei detto un po’ in dialetto, nel mio.. Tuttavia, penso mi sia concesso dire che in ogni generazioni – se le generazioni esistono, cosa della quale non sono convinta, o per quanto esistono, o se la generazione possa intendersi meramente come “i contemporanei” – qualcuno debba incaricarsi di rispondere, per iscritto, come in tribunale o come, con meno vanagloria, alle giustificazioni a scuola per non aver fatto i compiti, alla domanda Ma immaginandole non si rovinano forse le cose? Ecco, Mario Desiati, ha risposto. Con forza e innocenza ha risposto No, no, no, immaginandole, le cose non si rovinano affatto, con la “r” blesa, arrotata, che gratta, e la sua inflessione. E io, dunque, sono esentata dal rispondere. No, no, no, immaginandole, le cose non si rovinano affatto, e nemmeno si perdono.

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Candore. Andare avanti e basta

La pensione di Ruth

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Voglio bene a mio genero. È un valente professore di letteratura inglese e un gran montanaro. Però dopo più di un mese a casa sua e di mia figlia, il sospetto che la presenza del suocero non sia l’ingrediente ideale per la felicità di un giovane matrimonio mi decide a cercarmi un’altra sistemazione. Dopo tutto sarà solo per una decina di giorni e poi potrò trasferirmi nel bilocale a Sunnyside, nel Queens, per il quale sono in parola con la proprietaria. Avrei dovuto entrarci già da una settimana, ma la sciagurata si è imbarcata in lavori di ristrutturazione che hanno ritardato la consegna delle chiavi e prolungato la mia condizione di ospite.

Presa la decisione eseguo la solita ricerca su Airbnb. Scelgo una camera a Flushing, quartiere sulla punta orientale della municipalità di New York. In fotografia il posto sembra decente, ha ventisette valutazioni di ospiti tutte cinque stelle, non è caro e mi permette anche di accorciare i trasferimenti con l’università. Dovrò condividere il bagno con i padroni di casa, Ruth e figlio, ma la colazione è compresa nel servizio. C’è anche un impianto di Karaoke di cui mi è garantito il pieno utilizzo. 

 

Arrivo e mi cadono le braccia. La camera sarà tre per tre, quattro a essere generosi. Ci stanno dentro il letto appoggiato alla finestra, un mobiletto a due cassetti e basta. Mancano l’armadio, sostituito da alcuni attaccapanni appesi alla porta, e soprattutto un tavolo per lavorare. Non c’è nemmeno una sedia. Mi rendo conto che la foto della camera pubblicata su Internet era presa dall’interno verso l’esterno. Si vedevano solo il letto e la strada al di là della finestra, ma niente della stanza vera e propria. Solo un deficiente non se ne sarebbe accorto, ma ormai è troppo tardi. Il pagamento con la carta di credito è già scattato e poi dove vado? Arrangio le mie cose meglio che posso, poi faccio un giro fuori. La visita alla biblioteca di Flushing mi rincuora. È aperta tutta la settimana con orari davvero comodi: nove del mattino-nove di sera da lunedì al venerdì, dalle dieci alle cinque il sabato e solo pomeriggio la domenica. Rincuorato me ne torno da Ruth. In salotto c’è Ramón, il figlio tredicenne ipnotizzato dai cartoni animati che lampeggiano sul maxischermo televisivo. Non gli vedrò fare altro per nove giorni. Mi siedo al grande tavolo della sala da pranzo e scopro di aver diritto agli altri pasti, oltre che alla colazione. Ruth e un’altra signora più giovane, che mi sembrerebbe la domestica, si alternano ai fornelli e mi invitano a servirmi quando è pronto. È una frittura micidiale di pesci, cipolle e verdure.

 

Mi ricorda le lezioni di teoria per l’esame della patente, quando ci spiegavano che nel motore a scoppio la frizione funziona a bagno d’olio. 

Non c’è un pasto comune, ma un servizio mensa continuato. Uno arriva, si serve e si siede a tavola. Quando ha finito posa le stoviglie nel lavandino e se ne va. Io resto perché non ho un altro posto dove stare e anche per esplorare il territorio. Pian piano mi rendo conto di non essere l’unico ospite di Ruth, come avevo invece immaginato in base all’annuncio su Airbnb. Con me sta mangiando una ragazza scorbutica, anglo, occupata a prender appunti su un quaderno fra un boccone e l’altro. Ma fino a qualche minuto fa c’era anche un giovane, arabo direi, in procinto di partire per Chicago il giorno dopo. Quindi saremmo già in tre. Quando sto per andarmene a letto arriva una signora sulla trentina, dal sorriso aperto. Chiacchiera volentieri. È una diplomatica di Est Timor, a New York per l’annuale assemblea delle Nazioni Unite, sezione diritti umani. Non devono passarsela bene nel suo paese, penso, se mandano i loro diplomatici su Airbnb. O forse hanno un senso formidabile dell’etica pubblica. In ogni caso con lei siamo già in quattro. Dove la mette Ruth tutta questa gente? Io sto al piano terra. La mia camera è stata infatti ricavata murando l’ingresso, il che mi concede il privilegio di un’entrata privata. Mata, la diplomatica di Timor, dorme al primo piano, dove ci sono altre due camere, quelle della padrona e del figlio. E gli altri? Nel basement, cantina o seminterrato in italiano, anche se la traduzione non rende perfettamente l’idea.

 

Ce l’hanno tutte le case indipendenti e nel Midwest serve da rifugio durante i tornado. Viene quasi sempre attrezzato con i servizi e a volte anche la cucina per allargare la capacità ricettiva della casa. Ma in una città affamata di alloggi come New York, tanti padroni di casa hanno ricavato dal seminterrato appartamenti da affittare. Questo avviene spesso in regime di illegalità, perché il comune permette la locazione dei seminterrati solo a patto di rispettare precise regole di abitabilità – una certa altezza dei locali, presenza di finestre con un minimo di luce, assenza di altri pensionanti nella casa – che sono in genere ignorate dai proprietari.

Da una seconda conversazione con la ragazza scorbutica viene fuori che nel basement di Ruth ci vivono in tre. Dovremmo quindi essere in cinque ospiti, disposti così: la timorese al piano alto, io in mezzo, la scorbutica e altri due nel seminterrato. Però c’è anche la presunta domestica, che potrebbe essere una pensionante anche lei, con la differenza di pagare la retta, tutta o in parte, coi servizi resi in casa. Dove dorma, non mi è, e non lo sarà fino alla fine, dato saperlo. Nel resto del mio soggiorno le cose si complicheranno. Arriverà un altro diplomatico di Timor Est e nel basement risulterà vivere in pianta stabile un ragazzo indiano gentilissimo, ma escluso (non riuscirò a scoprirne il motivo) dalla tavola comune. A lui si aggiungerà alla fine un distinto gentiluomo del Kerala in visita al figlio. Quest’ultimo deve essere un mostro di ingratitudine per mandare il padre venuto da lontano a dormire sottoterra. O forse abiterà anche lui in una casa strapiena di gente. 

 

 

Durante i nove giorni che ho passato da Ruth, credo che in casa ci siano sempre state fra le sei e le otto persone. L’elasticità la dà proprio il seminterrato. Lo esploro la prima sera quando vado in bagno (non godo del privilegio dei servizi al piano di sopra, dove stanno ospiti che sembrano leggermente più importanti di me). È un locale basso e privo di luce solare. Non ci sono camere, ma solo dei tramezzi di plastica fra un letto e l’altro. Qualche comodino, due scarpiere strapiene e i soliti attaccapanni completano l’arredamento. C’è anche un divano per le conversazioni fra chi non riesce a prender sonno. 

Sono lì da una settimana quando una sera si presentano quattro coreani, ospiti di Ruth per come lei li tratta, che disdegnano la cucina della padrona di casa e si preparano la cena per conto proprio. Da dove saltano fuori? Non dal basement, in quel momento al tutto esaurito. Il mistero si chiarisce la mattina dopo quando, dalla mia finestra, li vedo arrivare per colazione. Hanno una camera da qualche parte nel vicinato, chiaramente priva di cucina. Ruth deve far parte di una rete di quartiere che smista le persone in cerca di alloggio.

 

Questo ad integrazione sotterranea di Airbnb, a questo punto la faccia pubblica di un’organizzazione informale, basata sul passaparola, dell’offerta di posti letto a buon mercato. E a pensarci bene lo stesso deve avvenire sul lato della domanda. Gli ospiti di Ruth, che è originaria delle Filippine e ha ancora dei famigliari là, arrivano in prevalenza dall’Asia meridionale: India, Indonesia, Malesia, Sri Lanka, Timor. Il passaparola deve funzionare anche là e sicuramente riuscirà a trovare una sistemazione, già prima di partire, alle persone dirette non solo a New York, ma a tutti i capolinea delle rotte dell’emigrazione.

 

Nei miei nove giorni da Ruth imparo diverse cose. Già vivere a Flushing ti spiazza. Esci dalla metro e ti sembra di essere a Hong Kong: negozi, banche, supermercati, giornali, pescivendoli, chiese e sinagoghe, tutto è cinese. Gli ultimi quarant’anni hanno completamente cambiato la faccia del quartiere. Un tempo a maggioranza anglo, Flushing è oggi uno di quei territori sospesi fra due continenti, come Little Italy cent’anni fa, che si creano quando l’emigrazione è omogenea, concentrata in poco tempo e indirizzata verso un’area limitata di una città.

Poi capisco, ma per davvero, come possano esistere punti di vista opposti, e ugualmente legittimi sullo stesso evento. Per esempio i viaggi di Giovanni Paolo II. Io Woityla l’ho sempre patito. Penso che abbia canonizzato un po’ troppi franchisti e che non gli dispiacessero i dittatori sudamericani. Ma la diplomatica timorese mi racconta di quando il Papa al suo arrivo a Timor Est si inginocchiò a baciare la terra. Il paese era allora occupato dall’Indonesia, che dopo l’intervento militare del 1975 se l’era anzi annesso e lo considerava una sua provincia. Ma dato che Giovanni Paolo II arrivava appunto dall’Indonesia e che baciava la terra solo quando atterrava in una nuova nazione, il suo gesto voleva dire riconoscere Timor Est come un paese sovrano. Ci diede speranza mi racconta Mata, che allora andava al liceo e faceva parte del coro che accolse il Papa all’aeroporto.

 

 

Il signore arrivato dal Kerala non deve passarsela male. Ha viaggiato in Europa per turismo e conosce abbastanza bene l’Italia. Ha fatto i soliti giri: Roma, Firenze e Venezia. Mi dice che gli siamo simpatici e che da noi si è sentito a casa. Perché quando prendiamo il caffè in un bar ci fermiamo a fare quattro chiacchiere. Non ce ne andiamo via di corsa come i tedeschi. Cinquant’anni di storia in comune dalla CEE all’Unione Europea, il mercato unico, il Parlamento Europeo, il Manifesto di Ventotene, quella litania lì di cui ci riempiamo la bocca ogni volta che salta fuori un problema un po’ serio, bisogna-che-intervenga-l’Europa, non contano niente agli occhi di un osservatore attento. La linea della conversazione (per Sciascia sarebbe quella della palma) è più forte dell’euro, ci separa dalla Germania e ci unisce all’India e al sud del mondo.

 

Non me n’ero mai reso conto, ma esiste anche la globalizzazione dei poveri. È leggibile, come accade a quella dei ricchi, con la metafora della rete. A patto però che i nodi di questa uno non se li immagini tutti uguali ma distinti per grandezza e importanza: contano quelli da dove si possono intercettare i flussi di informazione. Vitale è conoscere ed essere conosciuti. Ruth è di casa nell’Asia sud-orientale, regione in cui la sua pensione è evidentemente rinomata come un possibile punto di riferimento a New York. E lo stesso rapporto funziona a Flushing, dove lei è figura nota e di cui lei padroneggia, in tutta evidenza, la mappa dell’offerta e della domanda abitativa sul breve periodo. Nel gran mare della globalizzazione il nodo sui cui è posizionata Ruth è modesto, questo è ovvio. Tuttavia è attraversato da flussi informativi importanti quanto basta a garantire un discreto profitto a chi li controlla. Fin qui nulla di nuovo. L’emigrazione funziona da sempre grazie a reti di sopravvivenza e sfruttamento stese sia sulle aree di partenza sia su quelle di arrivo: la mafia italo-americana è stata, nella sua criminalità, una versione particolarmente efficiente di questo fenomeno. 

 

 

Nell’età del software, qui sta la novità, le reti dei poveri rappresentano le fondamenta di un sistema di comunicazione al cui vertice si collocano le compagnie della sharing economy, sul tipo di Airbnb o Uber. In queste, più ancora che nei colossi alla Google o Amazon, si incarna l’idea chiave del nostro tempo: il software come strumento che consente di estrarre capitale da tutto quanto esiste. La gente si è sempre arrangiata, ma oggi è possibile coordinare l’affaticarsi di miliardi di formiche operose e far sì che i loro guadagni, miserabili se presi uno ad uno, non si disperdano in tanti rivoli improduttivi, ma fin da subito si ammassino a formare capitale. Il guadagno dell’affittacamere di un tempo, che prima di entrare nel circuito della finanza doveva percorrere il periglioso cammino del risparmio personale fino all’investimento in buoni del tesoro, oggi è sin dalla nascita inserito in una struttura che lo mette immediatamente in circolazione trasformandolo in parcella dei flussi finanziari mondiali. 

Tutto ciò avviene in un regime di doppiezza, quella stessa che Marx scopre nella merce, entità che sotto il velo del rapporto fra le cose nasconde la realtà delle relazioni fra le persone. Estrarre capitale dovunque non vuol dire altro che trasformare tutto in merce, la cui doppia natura travasa così nel mondo. Allora Airbnb non è una compagnia d’affari, il cui scopo è il profitto, ma una comunità di ospitanti e di ospiti. E una come Ruth, cos’è? una piccolissima imprenditrice o una dipendente di Airbnb? Lei di sicuro si vede nella prima posizione e ci tiene ad apparire così. Ma se si pensa alla direzione del flusso delle conoscenze, a dov’è che si raccolgono le informazioni, al luogo, cioè, in cui è sistemato il potere, allora Ruth lavora per Airbnb ventiquattr’ore su ventiquattro. E soprattutto lei è Airbnb: la sua pensione è un ghetto infame, ma lei lo gestisce come una comunità dove si mangia allo stesso tavolo e si conversa amabilmente sui casi del mondo.

 

 

Negli anni sessanta gli operaisti di Quaderni Rossi si lanciarono anima e corpo nell’inchiesta sulla Fiat: capire cosa succedeva nei reparti di Mirafiori era il passo indispensabile per poter anche solo immaginare un’alternativa al capitale fordista. Oggi bisognerebbe ripetere la stessa operazione, dal basso e con l’identica passione, per le compagnie dove si organizza il capitale dell’età del software. Ma ci troviamo in una situazione incredibilmente più sfavorevole che cinquant’anni fa. La ragion d’essere di quelle compagnie è la raccolta di informazioni. Per l’appunto è dall’informazione che traggono profitto. Tuttavia, dato che il flusso delle conoscenze risale inesorabile dalla base al vertice, le compagnie del software sanno ogni cosa dei propri utenti, cioè tutti noi, mentre questi non sanno niente di loro. Se ricercatori armati di carta e penna riuscirono cinquant’anni fa a smontare cognitivamente la catena di montaggio, gli strumenti per decrittare le aziende/comunità del nostro tempo, Google, Airbnb, Amazon, Uber e simili, mi pare siano invece ancora da inventare. Dico così perché sono nato e cresciuto nell’età della carta e sono conscio della mia ignoranza se chiamato a esprimermi su fenomeni propri dell’era digitale. Gli unici che forse possiedono gli attrezzi adatti alla bisogna sembrano essere gli hackers, a patto che ricalibrino i loro obiettivi. Non è di altri scandali politici e/o finanziari che abbiamo bisogno, ma di ricostruire la filiera che trasforma i dati estratti dalle nostre vite in capitale.

 

Alla fine dei nove giorni di Flushing entro nell’appartamento che ho affittato a Sunnyside. Gioia della solitudine. Giro per il bagno, la cucina, la camera e il salotto. Ed è lì che scopro come il divano sia apribile e si possa trasformare in un letto a due piazze. In un angolo c’è anche un tramezzo di vimini, persino elegante. Potrei usarlo per separare questo vano dal resto della casa e affittarlo ad almeno mille dollari al mese, penso per un attimo.

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Affittacamere: imprenditori o dipendenti Airbnb?

Cosa è la poesia

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Quando si passa tanta parte della vita a leggere versi, dattiloscritti, libri di poesia, movimenti letterari che si rinviano l'un l'altro in un moto perpetuo, quando si incontrano ogni giorno nuovi poeti e si trascorrono i pomeriggi a discutere su un’immagine o su un aggettivo (e tutto questo per anni e decenni) allora forse è legittimo chiedersi cos’è la poesia. Non una poesia, ma la poesia. Con una poesia è facile. Se leggo L’infinito di Leopardi, posso parlare per un’ora della siepe o del vento, posso giurare che questa è poesia. Ma non è la poesia. Manca un articolo. Come faccio a connettere quella singola poesia alla Poesia? Qual è l’essenza di questa creatura misteriosa che da millenni continua a parlare agli uomini e ad affascinarli? “Cos’è la poesia” è una domanda che, ogni volta, mi mette con le spalle al muro. Mi atterrisce e mi atterra.  Forse la poesia gioca a nascondino, genera i suoi figli, i suoi versi e poi se la dà a gambe, non vuole essere vista o nominata. Deve essere una creatura selvatica e imprendibile o forse una creatura che colpisce da lontano con il suo arco sacro. Rimane la freccia che vibra nel tronco, ma non si sa chi è l’arciere. Cosa è la poesia? Cosa sono queste righe che si interrompono e lasciano uno strano spazio bianco sulla pagina, cosa sono queste parole scritte su un foglio, queste parole scritte a matita, come diceva un poeta crepuscolare, poesie scritte col lapis…

 

Forse nella punta di una matita, nella punta aguzza e fragile di una matita c’è il destino della poesia. A questo foglio – la cosa più vulnerabile del mondo – noi affidiamo la nostra verità, la nostra ombra, il nostro segreto, la zona nascosta e ardente della nostra voce, la parte più essenziale della nostra vita. Dentro questo alfabeto, che tra qualche secolo forse non esisterà più, noi custodiamo ciò che di più caro e insostituibile ci è stato dato. Strano paradosso della poesia: puntare alla permanenza e farlo con i mezzi più poveri e antichi e indifesi: fuori dall’attualità, fuori dal commercio, fuori dall’economia, fuori da tutto, a volte anche fuori da se stessi, se noi scriviamo con una parte di noi che non conosciamo interamente, che è nostra e non è nostra, che scaturisce da una zona oscura e segreta anche per noi. Segreta e a volte sconvolgente. Ma così deve essere in poesia: per cambiare la vita di chi lo legge, un libro deve sconvolgere quella di chi l’ha scritto.

 

Non si scrive ciò che sai ma cominci a saperlo scrivendo. Non si scrive ciò che si ricorda ma si comincia a camminare nella memoria attraverso i sentieri della parola, che ci conducono in luoghi inattesi e insperati.  La poesia è una forma di conoscenza legata allo svelamento. Non alla fondazione di un linguaggio, ma allo svelamento di un mondo precedente. La poesia rivela qualcosa che già c’era prima di noi. Per questo la poesia è tanto legata al ritorno, come ci insegnano Leopardi e Pavese. I luoghi che abbiamo amato ci parlano, si rivolgono a noi, proprio a noi, solo a noi, fanno cenni, sorridono come delle donne, sono donne. I luoghi sono vivi, sono creature, hanno una voce. E ci chiamano, ci chiamano a sé, ci chiamano a giudizio: e noi, là, dove ci viene indicato, andiamo.

 

 

Seguiamo una traccia, uno slargo, una vetrina, il muro identico di un palazzo, un citofono, il rumore di un camion: tutto, nella commozione assoluta del ritorno, si deposita in noi, attende di essere nominato. I luoghi che abbiamo amato sono lì, di fronte a noi. Ma più noi li guardiamo da vicino e più loro ci guardano da lontano. Non è facile rappresentarli. All’inizio sentiamo un tensione accesa e brancolante, che cerca ancora la sua precisione, una messa a fuoco dello sguardo, un avvicinamento più nitido del luogo al suo aggettivo. Ed eccolo allora che noi, dopo essere stati chiamati, dobbiamo nominarli, questi luoghi, chiamarli con il loro nome. Perché di questo si tratta in poesia. Non tanto esprimere qualcosa ma chiamarla con il suo nome, con il suo vero nome, quello che giace là in fondo, sepolto sotto uno strato di nomi convenzionali o di maniera e che ora dobbiamo disseppellire, portare alla luce, imprimerlo nella verità di una pagina, nella sua permanenza. 

 

Solo nel ritorno si attua la nostra attesa più urgente: sapere cosa ci è veramente accaduto, cosa avveniva dietro le quinte di ciò che abbiamo visto, nel fondo assoluto che sostiene la nostra esperienza. Ascoltare questa rivelazione diventa il compito e, nello stesso tempo, il fondamento della parola poetica. Di quali luoghi possiamo parlare se non di quelli che abbiamo conosciuto e che ci hanno conosciuto? Tutto il resto è turismo, new age, esperimento. Perché lo sperimentalismo ci appare così fatuo? Perché è legato alla curiosità e all’ingordigia. È legato a uno sguardo che non è riconoscente per quanto ha avuto: sguardo libertino, nel senso della vita estetica di Kierkegaard. Per noi che non ci stanchiamo mai di interrogarci, è improsciugabile l’acqua di ieri, per noi che conosciamo l’avventura della permanenza.

 

C’è un porto sepolto, diceva Ungaretti,  in fondo al nostro essere e noi, scendendo a picco, liberandoci dai passatempi della vita quotidiana, concentrandoci interamente sull’essenziale, possiamo indirizzare il cammino verso questo porto, che è la meta ultima della nostra vita. Ma perché ciò avvenga, dobbiamo capire chi siamo. E per capirlo dobbiamo ritornare, dobbiamo scoprire cosa ha spinto anticamente i nostri passi fino al punto in cui adesso ci troviamo. Per questo il viaggio in avanti verso il nostro porto è nel medesimo tempo un viaggio all’indietro verso ciò che siamo stati e che ora possiamo riconoscere.

 

 

Quarant’anni di Somiglianze
Casa della Poesia di Milano

via Formentini 10

Giovedì 10 novembre 2016, ore 20

 

Questa è la prima parte di uno scritto più lungo, che farà da introduzione al volume Tutte le poesie di Milo De Angelis, che uscià per Mondadori nell’aprile 2017. 

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L'avventura della permanenza

Fiele elettorale

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Ci sono poi state tante altre occasioni, non le ricordo neppure tutte. In una delle ultime, ho lasciato il divano da cui seguivo la diretta elettorale per scendere dal tabaccaio ad acquistare il primo pacchetto di sigarette, dopo tre anni e mezzo di astinenza. In Italia il pattern è sempre quello: sondaggi favorevoli, exit poll incoraggianti, prime proiezioni senza problemi e poi qualche dato non in linea, correzioni degli statistici, sorrisi beffardi degli avversari, sino al bicchiere di fiele dei risultati definitivi. La volta delle sigarette ho anche pensato che avrei dovuto cambiare qualcosa nella mia vita e la prima idea che concepii fu quella di prendermi un cane. Non so perché ma forse immaginavo una sorta di pet therapy. La routine del guinzaglio, dei giri al parco, dei sacchetti per le deiezioni mi avrebbe costretto a convincermi dell’evidenza: la politica non fa per me neppure da elettore informato ma passivo. Non me ne verrà mai nulla di buono, perché le mie convinzioni più profonde non hanno una base razionale bensì emotiva e quarant’anni di lettura accanita di quotidiani, di aggiornamento continuo nelle forme e sedi più qualificate, di discussioni con gli interlocutori più variegati, non sono bastati ad allontanarmi a sufficienza dagli empiti più idealistici della mia seriosa adolescenza.

 

Il cane poi non l’ho preso, e la vita è proseguita più o meno nei modi di sempre. Con qualche callo e qualche indifferenza in più, certo, a mano a mano che si accumulavano le esperienze. La mia città ha eletto sindaci come Mario Formentini (e non fu neppure malaccio), Gabriele Albertini (che oggi appoggia, e fruttuosamente, il governo per cui mi dicono che avrei votato io), Letizia Moratti. La mia regione, non parliamone neppure. Lo stato centrale, lo sappiamo – ma lì l’ignominia vera, ancor più che nelle elezioni andate male, fu nell’esito finale di quelle andate bene. Poi ci sono stati i Bush, Chirac, Sarkozy, la Brexit... Il fiele ha continuato a non piacermi, ma l’urto del suo sapore ripugnante è giunto ogni volta meno forte.

 

 Ogni volta sono tornato con la memoria al trauma originale, la scena primaria della mia disillusione politica. Era l’autunno del 1980 e, dopo un tentativo fallito quattro anni prima, Ronald Reagan aveva vinto le elezioni presidenziali statunitensi. L’immagine che me ne era arrivata era quella di una sorta di pazzo guerrafondaio, alternata a quella di un’idiota e buffone manovrato da oscurissime forze del tutto contrarie a tutto ciò che io potessi sperare per il mondo. Nella cornice, i toni cupi della Guerra Fredda, la valigetta dei codici nucleari, gli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran. Avevo già visto Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick (avevo addirittura anche letto il libro) e adesso fra quel film e Tutti gli uomini del Presidente quello fantascientifico mi pareva il secondo.

 

Il mio ricordo è vago ma si situa con certezza sul filobus che la mattina mi portava al liceo. Ci avevo incontrato una compagna delle medie, che era affranta e terrorizzata dalla notizia, non per sé ma per il mondo. A me, in quel momento, parve che esagerasse: non perché non ritenessi gravissima la circostanza, ma perché la razione di fiele che avevo assunto alla notizia «Reagan presidente» mi portava a pensare che il vero danno, il potenziale pernicioso e tossico, non stava in come sarebbe cambiato il mondo ma in come sarei cambiato io, come saremmo cambiati noi, di fronte all’increscioso e all’incredibile.

 

Oggi, 9 novembre 2016, ho assunto un’altra razione di fiele. Mi ero coricato presto, senza neppure accendere la televisione. In un fugace risveglio ho letto qualche notizia un po’ meno ottimistica su Hillary Clinton di quanto avrei voluto, ma ho ripreso sonno senza esitazioni. Quando mi sono svegliato definitivamente ho letto il post di una cara amica che più o meno diceva: «Non capisco chi ha potuto dormire senza seguire le dirette elettorali». Io non ho fatto alcuno sforzo, invece, per evitarmi le tiritere delle opinioni precoci, il tifo insensato dei commentatori italiani, i sorrisi trionfali di chi l’aveva sempre saputo che finiva così. Dopo una notte di riposo, il fiele è meno amaro di quello che si assume senza aver dormito.

 

Oggi penso che più di me avesse avuto ragione la mia remota amica del filobus: la preoccupazione per il mondo doveva essere prevalente, visto che per noi stessi qualcosa avremmo sempre potuto fare. Per esempio, prendere un cane. Invece il mondo ha logiche rispetto alle quali ogni nostra pulsione di attivismo, partecipazione, passione vera e propria non pare avere alcuna reale incidenza. Sul nostro trepidare per i sorrisi di Barack Obama cadono i pietroni dell’Ohio; residue speranze sul Michigan e chissà poi la Pennsylvania...

 

Eppure, e sempre sperando di non sentire passare i caccia sulla mia testa, non riesco a essere davvero preoccupato di nulla quanto dell’effetto che subisco personalmente. Ma davvero spero ancora di vivere una qualche forma di armonia fra me e il mondo? Mi aspetto ancora qualcosa dall’uno e dall’altro? Sono ancora a quel punto?

 

Lo sforzo che avevo fatto, ancora prima di prendere quel filobus nel 1980, perché la mia giovinezza fosse pensierosa fu infinitamente minore di quello che faccio ora, per procurarmi un’anzianità spensierata. Sarebbe stato saggio fare in modo che quella prima disillusione fosse definitiva, una botta e via, per sempre. Mi è riuscito per altri traumi, da cui ho elaborato vittoriosamente il mio «Mai più! Nevermore! ¡Nunca más!». In questo caso ho invece indugiato e l’evento della disillusione è diventato un processo interminabile, con poche interruzioni (e, quelle sì, solo momentanee). In tutto questo tempo non ho saputo fare altro che attenuare l’offesa ripugnante del fiele. Non saprei neppure dire se sono io che riesco a diluirlo prima di assumerlo o se è il mio organismo che fa caso sempre meno ai caratteri sensibili della sua tossicità.

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Ragazzi di vita in scena

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Il primo a prendere la parola è il narratore. Le parole sono quelle di Pasolini, ma suonano con l’epica sfasata di un western meridiano: faceva un cardo… un sole sfacciato… metteva a foco tutto... Sull’altro lato della scena si apre il set del bagno dar Ciriola. Ed è subito mutande e corpi giovani che schizzano nell’acqua. 

Ma non sono passati cinque minuti dall’inizio dello spettacolo che er Riccetto, personaggio feticcio di Ragazzi di vita, intenzionato a tuffarsi nel Tevere per salvare una rondine che vi sta miseramente affogando, salta letteralmente in collo all’attore incaricato della narrazione e gli resta in braccio, piantando così nel corso del fiume e nella scrittura il perno drammaturgico dello spettacolo. Una soluzione semplice, di buona resa plastica, capace di strappare la risata al pubblico, ma anche di precisa, diremmo quasi umile efficacia. La stessa che mi è sembrata caratterizzare la trasposizione teatrale del romanzo di Pasolini sul palcoscenico del teatro Argentina di Roma a opera di Massimo Popolizio e Emanuele Trevi, entrambi al servizio di un autore che, ognuno a modo suo, conosce bene, al punto di sapere dove mettere le mani senza affondare nella schiuma dei giorni, diretti alla sorgente del problema.

 

Ph Achille Le Pera.

 

E quello che assillava Pasolini in quei primi anni Cinquanta è innanzitutto un problema espressivo. 

I poemetti che comporranno Le ceneri di Gramsci e i quadri di questo suo primo romanzo appartengono a un periodo in cui la fiducia nella letteratura è ancora intatta, vanno di pari passo per le strade di una città che ha urgenza di venire abbracciata in un affresco; non è l’unico in quel giro di anni, se pensiamo ai Racconti romani di Moravia e al Pasticciaccio di Gadda. Ma il guizzante, indolente e tangibile fantasma della plebe romana non si lascia prendere tanto facilmente. Ne sapeva qualcosa Belli, a cui Pasolini si rivolge con studi appassionati (come del resto Moravia). Ed è puntuale la traccia con la quale troviamo inserito un suo sonetto in quella che è forse tra le più riuscite delle scene dello spettacolo, la zuffa tra i cani parlanti come in un tragicomico Richiamo della foresta (mentre Pasolini aveva usato un altro sonetto di Belli nel romanzo per chiosare il carattere del “froscio”). È attraverso Belli che probabilmente Pasolini intuisce una risposta per lui praticabile al rebus della lingua (come sostiene Emanuele Trevi nella utilissima intervista realizzata a lui e Popolizio da Attilio Scarpellini per il programma di sala). Nessuna imitazione, solo una partitura di suoni e di segni, una cadenza spuria, insieme esotica (dove per esempio “mecca” significava ragazza!) e primaria, che prende forma sovrapponendo il proprio orecchio, da fresco inurbato, alle inflessioni di altrettanti burini e ciociari, esattamente aggiungerei come la cultura figurativa e umanistica di Pasolini si sovrappone alla descrizione nel ritratto dei personaggi e nella visione del paesaggio. 

 

E infatti alla sapienza espressiva di Pasolini, Popolizio e Trevi trovano modo di rendere omaggio, prima con la scelta di mettere in scena il narratore alter ego di Pasolini (interpretato da Lino Guanciale, a sua volta verrebbe da dire alter ego di Popolizio per come ha saputo assorbirne alcune movenze e la cadenza mai scontata), ma soprattutto poi alternando la terza persona al dialogo diretto, affidando ai personaggi il loro stesso autoritratto, l’enunciazione dei gesti mentre li compiono – rivolti a noi che già lo vediamo come sono e quello che fanno – quasi che la letteratura sia una maschera da indossare o un mantello magico di cui bardarsi anche per correre la più banale delle avventure, tipo andare a fare un bagno a Ostia. 

 

Ph Achille Le Pera.

 

Perché noi lo vediamo bene che il costume di Nadia (Roberta Crivelli) è nero e sentiamo dal tono di voce che è incazzata, ma altro è sentire lei stessa dichiarare che “c’aveva le madonne” e che “stava distesa lì in mezzo con un costume nero, e con tanti peli, neri come quelli del diavolo, che gli si intorcinavano sudati sotto le ascelle, e neri, di carbone, aveva pure i capelli e quegli occhi che ardevano inveleniti”. Ne scaturisce un effetto di realtà aumentata e fresca, che fa brillare il lato giocoso del rapporto di Pasolini con la sua squadra di ragazzi più di quanto non lasci affiorare la miseria e la ferocia individuale, esalta l’aria da avanspettacolo più dei tragici destini. E questo sorprende, forse persino a qualcuno spiace, quando invece è anche la possibilità più fedele di assistere a quel determinato testo di Pasolini nel suo spirito che precede il genocidio, quando il carattere dei suoi personaggi era ancora, anche anagraficamente, meno adulto di quello di Una vita violenta e Accattone.

 

Qui il lavoro fatto da Popolizio sulla compagine di giovani attori, tra cui spicca Josafat Vagni, ha raggiunto un ritmo e un affiatamento adeguati spesso a sfuggire al bozzetto. Se inizialmente possiamo rabbrividire nei mutandoni pasoliniani, quasi che nell’acqua su quell’enorme desolato palcoscenico con le sue strutture di pilastri in cemento armato a vista dovessimo finirci noi stessi, e quindi avvertiamo ancora qualcosa di inerte in quei giovanissimi corpi spogliati sulla scena, una distanza troppo ravvicinata per tutta la vita che nel frattempo è trascorsa sotto i ponti Garibaldi, Sisto, Mammolo… ecco che lo spettacolo sembra prendere quota subito dopo con la felice apertura di un primo cerchio lirico, quando la rondinella salvata dalle acque del Tevere, e asciugata al sole implacabile di Roma, viene restituita al cielo dal Riccetto che le canta una canzone di Claudio Villa: “quante rondini son tornate a primavera, quanti palpiti e cinguettii nel sol” (Malinconia di rondine). 

 

Ph Achille Le Pera.

 

Cantano molto i personaggi sulla scena di Popolizio, come nel libro di Pasolini, cantano nella loro solitudine impunita, nel sogno eterno di farla franca, e la colonna sonora sostanzialmente spensierata e coerente ai tempi, diventa l’aria delle strade di Roma, che sentiamo nominare ai personaggi svolta dopo svolta nei loro interminabili tragitti, come portassero in scena uno stradario abitato. Modalità non meno irreale in definitiva di quella adottata per il quadro dove anche “il glossario” che sta in fondo al libro viene interpretato da due addette alle pulizie, con quella più romana che ripassa i termini insegnati alla collega di origine slava: eccitato/arrazzato, commuoversi/me prenne il mammatrone, prete/bacarozzo…

Non so se questo sia neorealismo, così come non so quanto senso abbia continuare accidiosamente ad annotare che i giovani romani assiepati nei palchetti dell’Argentina (ho assistito a una replica tardopomeridiana affollata di coppie di liceali e universitari) sarebbero gli stessi verso cui Pasolini aveva emesso la sua condanna nei Giovani infelici, o meglio ormai i loro figli.

 

Ph Achille Le Pera.

 

Non è forse questo il giusto destino cui va incontro chi per mestiere ha scelto di frequentare lo scandalo del contraddirsi? Nel trascorrere delle generazioni, proprio la reazione partecipe a questa messa in scena, ci dice che la spinta espressiva di questi Ragazzi di vita meriterà sempre un posto centrale, anche e perché no come un’iscrizione paleolitica di quel tremendismo mai tramontato e in cui adoriamo specchiare le italiche virtù dall’insuperabile stile criminale (partenopeo siculo calabrese o capitolino non importa), invidiato ci piace credere come ogni nostro stile dal mondo intero.

 

Ancora meno mi sembra valga la pena – con tutti i problemi che ci sono – star qui a denunciare abusi, inflazioni, saturazione, mitizzazione o dissacrazione dell’opera di Pasolini in generale, in questi come nei precedenti anni della nostra storia culturale. Se qualcuno prova fastidio e noia è un problema credo suo e non dell’oggetto che provoca il suo capriccio. Abbiamo assistito a spettacoli riusciti e altri molto meno, sia che portassero in scena il teatro di Pasolini (penso ad esempio nello scorso anno delle celebrazioni al progetto di Archivio Zeta intorno a Pilade, o al bellissimo Calderòn di Tiezzi) sia invece gli articoli di giornale come è riuscito a fare Fabrizio Gifuni. Di certo Popolizio e Trevi – per i loro lavori precedenti sui testi di Pasolini, letti alla radio dal primo e materia di autofinzione per il secondo; e che romanzo di epocale disincanto è Qualcosa di scritto! – erano e restano nella posizione ottimale di non volere esprimersi attraverso le parole dell’autore che stanno adattando, ma bensì risolvere via via sul campo dello spazio scenico una scrittura che appare sorella alla pittura, alla poesia e alla sceneggiatura più che al teatro. 

 

Ph Achille Le Pera.

 

Così lo spettacolo, anche a rischio di didascalia, chiude con il narratore che, rimasto un po’ a guardare i suoi ragazzi come dopo una gettata di dadi, torna a prenderne le redini leggendo, dapprima su dei fogli dattiloscritti la fine del povero Genesio, la rondine che non si salva dalle acque, e poi direttamente le ultime frasi del romanzo da una copia dell’edizione originale, con quella straordinaria copertina dove i ragazzi di vita hanno le facce rosse gialle e blu. Un altro segno apprezzabile di mancata forzatura. Come Moravia aveva adottato il puzzle dei racconti brevi, e Gadda aveva fuso tutto nell’infallibile meccanismo dell’inchiesta, a Pasolini è congeniale la struttura narrativa picaresca, composta di episodi corali che somigliano a continue iniziazioni. 

 

Era il 2003 quando Walter Siti terminava il suo lavoro monumentale di curatela dell’opera omnia definendone con esattezza i confini. Sta tutto scritto lì dentro. Nello stesso anno Mario Martone apriva il cantiere del Progetto Petrolio cui hanno partecipato un’infinità di teatranti sotto le cure proprio di Emanuele Trevi, Massimo Fusillo e Carla Benedetti (e c’erano per dirne alcuni Fabrizio Gifuni e Giuseppe Bertolucci con la loro specie di cadavere lunghissimo, c’erano i Motus con il cane senza padrone, c’era Eleonora Danco con Ero purissima, c’era Pippo Delbono, Alfonso Santagata, Daria Deflorian, Antonio Latella, Francesco Piccolo…). Mi piace pensare che in fondo quel laboratorio non si sia ancora chiuso.

 

Ph Achille Le Pera.

 

Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, drammaturgia Emanuele Trevi, regia Massimo Popolizio. Con Lino Guanciale e Sonia Barbadoro, Giampiero Cicciò, Roberta Crivelli, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Lorenzo Grilli, Michele Lisi Pietro Masotti, Paolo Minnielli, Alberto Onofrietti, Lorenzo Parrotto, Cristina Pelliccia, Silvia Pernarella, Elena Polic Greco, Francesco Santagada, Stefano Scialanga, Josafat Vagni, Andrea Volpetti. Scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca, luci Luigi Biondi, canto Francesca Della Monica, video Luca Brinchi e Daniele Spanò, assistente alla regia Giacomo Bisordi.

 

In scena al teatro Argentina di Roma fino al 20 novembre.

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Pasolini secondo Trevi e Popolizio

Non un pranzo di gala

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Difficile capire come ci fossimo spinti fino a quel punto, come avessimo creato, dal niente, un mondo tanto utopico. [Li Kunwu, P. Ôtié, Una vita cinese. Il tempo del padre, 2016]

 

Era scritto sui libretti rossi che venivano agitati nelle piazze di mezzo mondo, ancora oggi rimbalza un po' dappertutto, in rete, ed è impresso a caratteri cubitali nell'incipit di un film indimenticabile di Sergio Leone, Giù la testa: «La rivoluzione non è un pranzo di gala». 

Ogni opera è figlia dell'epoca in cui è stata pensata e scritta. E questa, innanzitutto, ci racconta. Il western di Leone, film cult degli anni Settanta, attraverso la storia della rivoluzione messicana seppe mettere in scena anche il decennio che si stava infiammando, e un linguaggio – quello del cinema – capace di condizionare quel futuro prossimo. Come la realtà nella quale era immerso, come l’immaginario di migliaia di giovani che sognavano una rivoluzione che sapesse mettere in discussione anche sé stessa, il western di Leone cercava ispirazione anche nell’oriente estremo, nelle parole di un mitico, quanto lontanissimo e sbiadito, Mao Tse-Tung – oggi Mao Zedong. 

 

Per Li Kunwu, artista cinese nato nello Yunnan nel 1955, il Grande Timoniere è stato invece qualcosa di reale, di tangibile. E nel primo volume del suo affresco autobiografico (Una vita cinese) parte da lontano, da un padre che nella rivoluzione ci crede davvero, radicato nella strategia maoista che vedeva nel mondo contadino e nel suo potenziale di lotta e di riforme l’arma vincente. E parte dallo sguardo di se stesso bambino, ragazzino, adulto i cui ricordi vanno a scavare anche nelle contraddizioni del passato della sua Cina rurale (e nel doloroso prezzo della modernizzazione), senza per questo osannarlo o condannarlo con nettezza. Basti pensare alle parole – e alle immagini – con cui racconta la seconda metà degli anni Sessanta, la Rivoluzione culturale: «Così come non si può smettere di voler bene ai propri genitori, quali che siano i loro sbagli, noi non riuscivamo a contenere il nostro amore per il presidente Mao. Nonostante le delusioni, i disastri e i morti, la venerazione che nutrivamo per lui raggiunse il massimo proprio allora. Le sue citazioni apparivano ovunque, così come le sue poesie e le sue opere di calligrafia… I libretti rossi si contavano a centinaia di milioni, spille e medaglioni a migliaia di tonnellate. Manifesti, dipinti, affreschi e ritratti erano come un oceano rosso».

 

L’autore non chiude gli occhi di fronte alla catastrofe del “Grande Balzo in avanti”, che si stima abbia provocato, per denutrizione e malattie, oltre 40 milioni di morti. Ma, lontano da una rappresentazione asfissiante che vede nel potere del Partito comunista cinese solo forza oppressiva, Kunwu – anche grazie allo sguardo del coautore Ôtié, consigliere commerciale dell’ambasciata francese nello Yunnan – oscilla tra la profondità riflessiva dell'adulto e il racconto “ad alzo zero”, la prospettiva del bambino che di tanto in tanto emerge, come se non volesse andare via, che ci mostra come si costruisce un consenso diffuso, apparentemente inscalfibile. E che sa anche scherzaci su, o per lo meno ci prova:

 

Questo primo volume, come dichiara il sottotitolo (Il tempo del padre, che sarà seguito da Il tempo del Partito e da Il tempo del denaro) è di fatto la storia di un rapporto con due padri: il padre biologico di Kunwu e la rivoluzione, incarnata nella sua guida e icona: Mao. È una storia commovente per la capacità che ha di portarci all’interno di una storia privata del Novecento e delle sue contraddizioni – si ha un po’ la sensazione di avere un raro privilegio, a sentirsela raccontare anche nelle sue sfaccettature più intime. Come nelle tavole forse più belle del racconto: Kunwu, ragazzino, ha iniziato da un paio di anni un diario, dove nel 1970 ha annotato la sua grande preoccupazione per la salute di uno dei padri, visto al cinema («5 ottobre 1970 [...] il nostro grande timoniere sembrava esausto. Faceva fatica ad aprire gli occhi! Sono veramente molto in pensiero per lui») e dove, alla data del 23 giugno 1971, ci racconta di avere avuto il permesso di andare a trovare suo padre in un centro di rieducazione del regime. L’autore è «impaziente», è «spaventato»: non lo vede da 4 anni. Il lettore si aspetterebbe un qualche segno di rivolta, se non altro sussurri di dissenso, ma invece i due padri coesistono nel cuore di Kunwu, coesistono e basta. Dopo due giorni passati insieme, la visita finisce così. 

 

«La Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di violenza» – quattro mesi dopo la visita di Kunwu al padre, in Italia esce al cinema Giù la testa. E poi, via via, in decine di altri paesi, alimentando il mito terzomondista: Once Upon a Time… the Revolution, il titolo in inglese. 

Da questa parte del pianeta, in cui i libretti rossi giacciono oramai ingialliti sugli scaffali di enti culturali in crisi o nelle case della generazione dei nostri padri, in cui l’immaginario di quella generazione è slittato spesso verso la contraddizione di se stesso, si ha la sensazione che un mondo sia svanito, che si sia compiuta la definitiva biforcazione tra l’esaltazione giovanile e la condanna senza appello di quel mondo “altro”, del Novecento geograficamente lontano e di quello più vicino, e che si stiano cercando nuove parole e nuove forme per raccontarlo. 

 

Non si può certo riassumere questa svolta – graduale e allo stesso tempo improvvisa – in un passaggio di consegne generazionale, ma stiamo assistendo, credo, a un cambio di paradigma, se non altro nel nostro pensare per immagini («Il mondo, e noi stessi», come scrive Paolo Di Paolo in Tempo senza scelte). Le ideologie novecentesche, che nell'ultimo quarto di secolo hanno spesso sonnecchiato, riemergono così sotto forma di racconto – anche qua, da “noi”, e penso al commovente sguardo sulla Guerra Fredda di Toni Bruno, nel suo Da quassù la terra è bellissima

E Una vita cinese, quest'opera che viene da molto lontano, getta una luce meravigliosamente autentica su un mondo che forse crediamo di conoscere, sulle pieghe di quelle ideologie, sull’eterno dilemma del consenso che aleggia sui leader carismatici e li protegge, sul secolo scorso e sui suoi risvolti su cui non smetteremo mai di interrogarci. Ancora di più oggi, dopo il terremoto della lunga notte americana, in questo presente in cui sentiamo molte rime provenire da quel passato che credevamo almeno in parte sepolto, in cui il mondo si rivela – di nuovo – un posto peggiore in cui stare.

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Una vita cinese

Empatia

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Quello che più di tutto risulta difficile da accettare delle posizioni di Giacomo Rizzolatti contenute nel libro-intervista con Antonio Gnoli, appena pubblicato da Rizzoli, è l’accreditamento dell’empatia come fenomeno positivo. 

Se “c’è un meccanismo biologico” – i neuroni specchio – “che ci rende sociali, che ci porta a considerare l’altro come noi stessi”; se “c’è una conoscenza empatica degli altri”, è almeno improprio tendere a mostrare l’empatia come una pratica solidale e positiva.

 

Chi ha seguito con attenzione le scoperte del gruppo di neuroscienziati dell’Università di Parma negli ultimi venti anni ha elementi per sorprendersi e porsi domande impegnative. Una questione preliminare e dirimente è: ma specchiarsi nell’altro vuol dire comprenderlo in parte e sapere quello che fa e come si sente, o diventare solidale, disponibile e buono con lui? Sentire quello che l’altro sente e sapere quello che fa grazie alla cognizione incarnata (embodied cognition) appartiene a un campo diverso dal mettersi nei suoi panni, dall’assecondare l’altro, dall’essere d’accordo o solidale con l’altro. 

 

Allora che cos’è una scienza dell’empatia? Quando si sostiene che c’è un meccanismo biologico che ci rende sociali è necessario considerare le molteplici manifestazioni della socialità umana. Di esse, una parte sembra riconducibile, a seconda delle diverse culture e in base alla evoluzione dei tempi storici, a manifestazioni che, almeno in una certa misura, favoriscono l’emancipazione, il bene individuale e sociale, la libertà e il riconoscimento reciproco. Altre manifestazioni sociali però mostrano di negare la libertà, di essere problematiche per lo sviluppo individuale e sociale, di essere violente e spesso distruttive, pur essendo basate sull’empatia, e cioè sulla risonanza incarnata con gli altri (embodied simulation), che in quei casi è finalizzata a sentire l’altro per comprendere come escluderlo, come negarlo, come infliggergli sofferenza, come torturarlo, come eliminarlo. In tutti questi casi l’efficacia dell’empatia risulta direttamente proporzionale al suo uso antagonistico e non certo solidaristico. 

 

In te mi specchio. 

 

C’è piuttosto da dire che la questione da comprendere e cercare di spiegare, ora che sappiamo di essere una specie naturalmente empatica, è come mai sia possibile per noi negare e distruggere gli altri, dal momento che sentiamo quello che sentono e sappiamo quello che fanno. Caratterizzati da risonanza incarnata, prima ancora di volerlo e di deciderlo, noi viviamo, di fatto, quello che gli altri vivono. Lo stesso costrutto di empatia cambia decisamente di fondamento, di senso e significato, nel mentre si ridefinisce che cosa significa essere umani. Da una prospettiva dualistica e normativa, dove la separazione mente-corpo e uomo-natura era ed è la base della considerazione di noi stessi, stiamo riconoscendo di essere menti incarnate, situate ed estese nei contesti, e parte del tutto. La relazione con gli altri e il mondo, allora, non è un accessorio o qualcosa di attivabile o disattivabile mediante una disposizione a “mettersi nei panni dell’altro”, a immedesimarsi nei suoi vissuti emozionali e nei suoi sentimenti. Seguendo il percorso di ricerca di Luigi Pagliarani, alla luce dei recenti avanzamenti delle neuroscienze cognitive e della psicoanalisi, i processi empatici e exopatici, la risonanza e la distanza, possono essere considerati come parte della relazione fondante noi stessi, “luogo” di tutti i problemi e di tutte le possibilità. La domanda principale da affrontare riguarda, quindi, i vincoli dell’approssimazione e, più in particolare, come mai sono possibili la distanza, l’indifferenza, la negazione e la distruttività, essendo noi naturalmente empatici. 

 

L’indifferenza è, probabilmente, una delle più evidenti violazioni dell’empatia. Se l’indifferenza è possibile, vuol dire che noi possiamo sospendere l’empatia, almeno parzialmente o provvisoriamente. Il problema della presenza è co-fondare un fine con l’altro, perseguire il telos almeno in parte comune nella contingenza relazionale, come condizione del riconoscimento. Non si dà la possibilità di essere o senza un telos, a cui tendiamo naturalmente (chè un telos, un telos magari non riconosciuto si istituirebbe comunque), o con un telos del tutto già dato e non fondato nella reciprocità. La relazione appare fatta di coinvolgimento e distanza; di empatia e exopatia, di accoglienza e violazione. Certo, non è difficile accorgersi come la distanza, l’exopatia, la violazione, assumano immediatamente una connotazione morale che non solo si propone come di ordine negativo, ma si frappone come ostacolo a un’analisi della complessità delle relazioni tra esseri umani. Ciò vale ancora di più a proposito di fenomeni come la negazione, la distruttività e la banalità del male, basati spesso su processi di de-umanizzazione delle vittime. Anche l’analisi di questi ultimi fenomeni è spesso condotta come se essi fossero il contrario dell’empatia. Gli studi più approfonditi mostrano, invece, essere in atto in quei casi una particolare funzione dell’empatia, tra intensa via per sentire quello che sente l’altro e sua violazione, sospensione o amplificazione perversa dei suoi effetti. La rimozione del dolore studiata da Stanley Cohen costituisce un importante approfondimento degli “stati di negazione” (Cohen, 2001).

 

Stati di negazione. 

 

Unitamente a una recente analisi dei processi che portano dall’empatia al diniego, questi studi evidenziano la complessità delle funzioni dell’empatia. Basandosi su anni di ricerche condotte per lo più sulle fonti arabe, Meir Litvak e Ester Webman hanno inteso monitorare l'evoluzione della percezione dell'Olocausto e la loro comparsa in parallelo al conflitto arabo-israeliano del 1948. In seguito alla creazione dello Stato di Israele, gli atteggiamenti arabi verso l'Olocausto divennero tutt'uno con un ampio atteggiamento anti-sionista e con sentimenti anti-semiti. La loro è la prima indagine completa sulla negazione dell'Olocausto nel mondo arabo, e si basa su anni di minuziosa ricerca storica delle fonti per lo più di lingua araba. La banalizzazione della sofferenza altrui evidenziata da Hanna Arendt; l’obbedienza nelle pratiche di offesa che infliggono dolore in base agli studi di Stanley Milgram; o la cattiveria gratuita verso l’altro e il piacere di fare del male come ha mostrato Philip Zimbardo, e come è accaduto ad esempio ad Abu Ghraib dall’aprile 2004, con le torture e gli abusi ai danni di soldati iracheni detenuti, denotano con ancora maggiore evidenza la complessità dei processi empatici, della loro possibile provvisoria sospensione e della loro eccitazione per la propria soddisfazione, trattando con indifferenza l’altro. 

 

L’aspetto trascurato da una visione positiva dell’empatia riguarda la rilevanza e la funzione che essa svolge nelle relazioni di negazione o aggressive con intenti ed esiti distruttivi come, ad esempio, la tortura o le azioni di emarginazione, esclusione e offesa. Tanto più si è in grado di esprimere efficacemente quei comportamenti, quanto più si sente quello che sente l’altro. Il secondo aspetto poco considerato attiene all’importanza della sospensione, almeno provvisoria e relativa del legame empatico, essendo la distanza una condizione essenziale per la conoscenza, per la creatività e per l’innovazione. Rilevante è chiedersi come sia possibile quella sospensione, per quanto provvisoria, e quali siano le condizioni della sua manifestazione. Da quelle condizioni dipendono molte cose, che vanno dalla possibilità di creare l’inedito sospendendo almeno in parte il consueto, fino all’utilizzo controfattuale e antagonistico dell’empatia. Ogni relazione contiene, con molte probabilità, molteplici registri e tonalità. L’approssimazione ne è una caratteristica costitutiva. Per incontrarsi e, almeno in una certa misura riconoscersi, è necessario approssimarsi. È parola degna di molta attenzione la parola “approssimarsi”. Significa allo stesso tempo “avvicinarsi”, ma anche semplificare selezionando gli estremi, avvicinare le differenze, avvicinamento a un dato che non è possibile determinare con esattezza. Approssimazione è, quindi, anche mancanza di esattezza, difficoltà a far coincidere esattamente le cose. Ogni incontro è, allo stesso tempo, anche violazione dell’autonomia, da un equilibrio e un ordine che ognuno ha prima, a quello che accade nell’emergenza imprevedibile della relazione. In questo senso non è possibile trascurare le affinità tra violazione e violenza, ma soprattutto l’ambiguità profonda che accomuna e distingue ogni approssimazione, la connessa violazione implicita e gli esiti che possono essere, a seconda delle modalità di elaborazione, distruttivi, ma anche di cooperazione e di fusione, come accade nell’accoppiamento amoroso. In ogni caso la risonanza incarnata, la naturale disposizione di noi animali umani e di molti altri animali con un grosso cervello caratterizzati da embodied simulation, come ha dimostrato Vittorio Gallese (Embodied simulation: From neurons to phenomenal experience, Phenomenology and the Cognitive Sciences (2005) 4: 23–48), sostiene le manifestazioni esperienziali e fenomenologiche delle relazioni, di cui l’empatia è un aspetto costitutivo.

 

Le stesse strutture neurali coinvolte nella modellazione inconscia dell’azione del nostro corpo nello spazio, contribuiscono anche alla nostra consapevolezza del corpo vissuto e degli oggetti del mondo. La ricerca neuroscientifica mostra anche che ci sono dei meccanismi neurali che mediano tra l'esperienza personale multi-livello con cui noi costruiamo il nostro corpo vissuto, e le implicite certezze con cui simultaneamente comprendiamo gli altri. Tale conoscenza incarnata e personale ci permette di capire le azioni eseguite da altri, e di decodificare direttamente le emozioni e le sensazioni che sperimentano, attraverso la sintonizzazione intenzionale, evidenziata ancora da Vittorio Gallese. Un meccanismo funzionale comune è alla base sia della consapevolezza del corpo che della comprensione sociale: la simulazione incarnata e il sistema multiplo di condivisione. Tali risultati sono, peraltro, coerenti con alcune delle prospettive offerte dalla fenomenologia. L’empatia, come costrutto e manifestazione esperienziale può emergere da questi fondamenti che ne sono condizione necessaria, seppur non sufficiente, dipendendo, come dipende, per i suoi effetti, dall’incertezza e imprevedibilità delle relazioni nei contesti della vita.

 

Cosa si prova ad essere un altro?

 

Il costrutto di empatia ha sperimentato un processo di exopatia. Ai cultori della sua accezione romantica, che sono molti, rischia perfino di divenire antipatico, nella sua attuale versione. Del resto aveva raggiunto un livello di abuso che rischiava di suscitare apatia. L’exopatia, o presa di distanza, è condizione necessaria per ogni forma di conoscenza. Noi non sapremo mai cosa si prova ad essere un altro, nel senso di essere lui o lei: possiamo approssimarci, e quell’approssimazione contiene, allo stesso tempo, condivisione e negazione, attrazione e paura. L’incontro con l’altro, così come quello con il reale, è sempre in parte traumatico, soprattutto perché propone qualcosa di diverso dalla ripetizione dello “Stesso”, come ha sostenuto Jaques Lacan. La natura dell’incontro, probabilmente non è distinta dalla ricerca, ma dal trovare; o ancora più probabilmente dall’essere trovati. Il punto soggettivo in cui si è giunti con la propria formazione, la propria capacità di individuarsi e fare un lavoro sufficientemente buono con se stessi, il tyche lacaniano, entra in contatto con l’altro e prova, almeno in parte, a essere l’altro. Si trova trovando l’altro, ma in quanto è coinvolto e distaccato allo stesso tempo. Non siamo mai svincolati da noi stessi e l’empatia non risolve l’ambiguità costitutiva della relazione con l’altro; ne rappresenta una possibilità. Quando giunge a livelli di agglutinamento e glaciazione delle unicità soggettive genera implosioni e regressioni patologiche sul piano individuale e sociale, e tendenzialmente totalitarie sul piano politico e nell’espressione e nella pratica della libertà.   

Persone di culture diverse hanno diversi costrutti di sé, degli altri e dell’interdipendenza interpersonale. Questi costrutti possono influenzare, e in molti casi determinare, la natura dell'esperienza individuale, compresa la cognizione, le emozioni e la motivazione. Molte culture asiatiche hanno concezioni diverse di individualità che insistono sulla relazionalità fondamentale degli individui gli uni con gli altri. L'enfasi è sulla partecipazione al sentire degli altri, in raccordo e armoniosa interdipendenza con loro. La cultura occidentale non dà la stessa importanza, né valorizza tale connessione implicita e palese tra gli individui. Al contrario, gli individui cercano di mantenere la loro indipendenza dagli altri per esprimere se stessi scoprendo e manifestando i loro caratteri interni ritenuti unici.

 

Le condizioni contestuali e culturali paiono essere ancora più potenti di quanto si potesse immaginare. Sia le teorie psicologiche riguardanti la propriocezione, sia gli esiti degli studi di antropologia sembrano consonanti nel definire nel dettaglio la differenza tra un orientamento che sostiene la costruzione di sé come indipendente e un orientamento che presta maggiore attenzione agli aspetti interdipendenti. Ciascuno di questi costrutti divergenti dovrebbe avere una serie di conseguenze specifiche per la cognizione, le emozioni e la motivazione; con esiti particolarmente rilevanti sui modi di sperimentare e vivere la risonanza e l’empatia. Degno di nota è ripensare all’importante influenza degli aspetti culturali, rispetto a una concezione che riteneva cultural-free la cognizione, le emozioni e la motivazione. Del resto, come ci hanno mostrato George Devereux e l’etnopsichiatria, il suo allievo Tobie Nathan e l’etnopsicoanalisi, l’espressione dei processi empatici varia al variare delle culture.

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Come è possibile l'indifferenza?

“Lo and Behold” Werner Herzog

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Lo and Behold è un documentario di Werner Herzog sull’impatto di Internet, della robotica e dell’Intelligenza Artificiale sul futuro delle società post-industriali di oggi. Herzog spazia dalla nascita di Internet alla società del data mining (l’estrazione di dati, ma anche abitudini di consumo e stile di vita dall’informazione prodotta dagli utenti delle tecnologie digitali); dall’Internet delle cose (che promette di rendere smart e connessi gli oggetti che usiamo) alla ricerca scientifica condotta in cooperazione tra scienziati e cittadini; dal rapporto tra hacking, potere e sorveglianza (si vedano le rivelazioni di Edward Snowden) agli scenari presenti e futuri di privacy panic e guerra di intelligence ; dalla vita su Marte delle multinazionali che si sostituiscono alle nazioni nella corsa allo spazio, alle macchine autoguidate e agli androidi che si sostituiranno all’umanità nel lavoro (e che cercheranno persino di giocare a calcio).

Il focus di Lo and Beholdè sulle trasformazioni sociali, etiche, filosofiche che investiranno il concetto stesso di umanità in un orizzonte prossimo a venire. Il film esplora le tecnologie digitali, l’avvento di sistemi cibernetici e l'integrazione tra macchine e corpi – il cui apice sarà probabilmente il riconoscimento di forme avanzate di intelligenza artificiale – e il modo in cui probabilmente ridefiniranno il mondo che abbiamo conosciuto fino al giorno d’oggi. Herzog insegue questa matassa biotecnologica perdendosi in un glorioso zibaldone sulle parafilie e fobie tecnologiche del nostro presente, difficile da contenere dallo stesso regista. 

 

Herzog si affida a interviste con figure chiave e guru come Bob Khan (co-ideatore dei protocolli TCP e IP), Elon Musk (fondatore di PayPal, Tesla Motors e dell’agenzia spaziale Space X) e Ted Nelson (teorico dell’intertesto). La passione di Herzog per l’oscuro e per l’ambiguo si riflette però parallelamente sulla scelta di mostrare soggetti marginalizzati o eccentrici, rimossi dal proscenio dei dibattiti futurologici più ottimistici. Si va dunque dagli Internet addict finiti in centri di recupero ai gamer costretti a indossare pannolini per non lasciare le postazioni di gioco (o deceduti in seguito a sedute troppo estenuanti); dalle vittime del trolling e del voyeurismo della morte che reputano Internet il nuovo anticristo ai sedicenti intolleranti alle radiazioni dei trasmettitori, isolatisi in comunità schermate dall’impatto dei ripetitori. 

Lo and Behold si avvita intorno a queste contraddizioni finendo – a dispetto degli usuali capitoli in cui è suddiviso – con l’essere altamente asistematico. In un certo senso questo aiuta Herzog a dare un’idea della irrisolta e caotica proliferazione delle prospettive di questo periodo storico e delle trasformazioni che sta incubando. Fino alla domanda finale: “Internet sogna se stessa?”. Il risultato, probabilmente, non è tra i film più memorabili o in grado di lasciare il segno di Herzog, ma è interessante soprattutto per i discorsi e gli eventi che lo hanno circondato, e per come questi aspetti ci parlano soprattutto del suo regista.

 

Lo and Behold è un film di Werner Herzog e per questo, inevitabilmente, è anche un film su Werner Herzog. In questo caso l’ombra dell’autore si manifesta, prima ancora che attraverso la regia, la scrittura o la voce narrante, attraverso lo stesso evento mediatico che lo circonda. Lo and Behold ha debuttato (se fa eccezione la premiere del Sundance Festival) in streaming, tanto sui dispositivi degli spettatori che in una serie di cinema selezionati, sintonizzati su un unico live event. È una modalità di presentazione che combina il tema del film con la tecnologia che discute, ma è anche un' inevitabile passerella celebrativa. Herzog è un regista la cui consacrazione sta transitando da un ambito “cinefilo” a quello di un pubblico più ampio e variegato: in un certo senso, per sua stessa ammissione, la tecnologia è un mezzo attraverso cui ripensare la propria visibilità. 

 

Lo and Behold nasce da una costola di From One Second to the Next (2013), un precedente lavoro di Herzog sui rischi e i sottovalutati costi sociali del texting and driving – la perniciosa abitudine di molti di utilizzare gli smartphone per scrivere mentre si è al volante, che miete decine di vittime al giorno. Lo and Behold deve la sua esistenza al successo del film precedente, pensato per essere visto su YouTube, ed è finanziato da una compagnia di cyber security, Net Scout. Entrambi i progetti devono temi e natura stessa del proprio formato e consumo alle tecnologie digitali: Herzog stesso, nelle battute iniziali del dibattito seguito alla première, discute Lo and Behold come un film trasmesso in 179 nazioni e su molteplici piattaforme di streaming e che quindi fa parte di un modo di concepire il cinema che ridefinisce e abbatte la nozione tradizionale dello spettacolo di sala.

 

L’evento mediatico di Lo and Behold rappresenta forse un punto di snodo importante per Herzog e per il modo in cui il proprio modello di autorialità viene trasposto nei modelli di consumo del post-cinema. Anche Into the Inferno, l’ancora più recente (e forse più herzoghianamente messianico) documentario di Herzog di questo anno su vulcani e disastri naturali, rientra in questa logica, trasmesso com’è in esclusiva su Netflix (se si esclude la première al Telluride). Attraverso questi film Herzog è divenuto sia autore che brand, tanto evento di post-gala quanto contenuto on demand, tanto happening sincrono quanto prodotto da consumare asincronicamente. È tra l’altro curioso che, nonostante le premesse, l’esperienza del film sia iniziata per molti sotto il peggiore degli auspici: un servizio di streaming che non funzionava. 

Ironicamente, uno stuolo di spettatori paganti si sono trovati a lamentare trasmissione precaria, problemi di login, audio assente e problemi di sincronizzazione culminati nei commenti taggati #FAIL. Ma si tratta in fondo di una degna introduzione alla croce e alla delizia del documentario: il rapporto a doppio filo tra le potenzialità emancipatrici e rivoluzionarie delle nuove tecnologie e il loro esito in ultima analisi imprevedibile, incontrollabile, banalmente disfunzionale, prima ancora che potenzialmente distopico.

 

#FAIL.

 

Il rollercoaster selvaggio di Herzog abbraccia una quantità disorientante di materiale, iniziando con una sbornia quasi euforica sulle origini, gli ordini di grandezza e le “magnifiche sorti e progressive” delle nuove tecnologie. Si parte dalla constatazione che se i dati che produciamo fossero masterizzati su CD-ROM, la pila arriverebbe fino a Marte e poi da Marte alla Terra. O con la nascita di Internet a Stanford, nella stanza 3420, quando la trasmissione riesce a comunicare solo le lettere L e O di Log prima di inchiodarsi (ispirando in parte il titolo del documentario: ‘guardate e ammirate’, ma anche ‘connettetevi e meravigliatevi’). 

 

Big Data.

 

Il pallino iniziale di Herzog sembra essere quello delle meraviglie della società delle reti e dei grandi numeri: ci sono storie come quelle di Adrian Treuille e del gioco Eterna, una delle “glorie della Rete”, un videogioco concepito come un immenso modello di analisi molecolare per la ricerca sulle catene di RNA. Questo game with a purpose, sviluppato dalla Carnegie Mellon University e da Stanford, e sponsorizzato dalla National Science Foundation statunitense, dimostra come i legami chimici dell’RNA, sebbene composti dalla natura, siano stati “messi in gioco”, interpretati dall’uomo per potere essere sintetizzati in laboratorio. 

Herzog è anche affascinato dalle macchine autoguidate, che funzioneranno grazie a un’integrazione tra reti, satelliti e dispositivi di monitoraggio laser, e vedrebbero dunque “un mondo virtuale”, cercando di minimizzare gli incidenti e di andare a sbattere “su qualcosa e non su qualcuno”. Herzog insiste sull’intelligenza artificiale, che promette di svilupparsi a ritmi che non potremo neppure comprendere, ma anche sui corpi di robot e androidi che, secondo il roboticist Joydeep Biswas, sconfiggeranno un giorno “i campioni della FIFA”. Herzog domanda civettuolo: “do you love these machines?”, ma l’incursione negli scenari cyber-erotici che ci si aspetterebbe a seguire si spegne insieme a qualche considerazione su Tinder e su come promuova la fornication

Prevedibilmente, però, il quadro euforico finora concepito si incupisce presto. L’attenzione si sposta sugli aspetti più oscuri della rete, sul macabro e sul grottesco. Herzog intervista la famiglia di una vittima di un incidente che finisce decapitata, e le cui foto diventano virali: derisi dai troll online, i famigliari vedranno in Internet una manifestazione dell’Anticristo. Herzog cerca anche paralleli e contraddittori paradossali. Da un lato troviamo i programmi di ricerca di vita extraterrestre tramite l’analisi di segnali radio, condotti in zone schermate dall’inquinamento da frequenze. Dall’altro ci sono i “nuovi eremiti”, auto dichiaratisi sofferenti da radiation sickness e isolati nel raggio radiation-free di quelle stazioni di ricerca (si veda una scena memorabile di Better Call Saul). 

 

Trolling e Anticristo.

 

 

Testimonianze bizzarre o fuori dall’ordinario completano lo spettro delle umane emozioni. Un contraltare inquietante alle sorti positive dei videogiochi quello dei genitori che lasciarono morire la propria figlia per curare un figlio virtuale in un videogioco, ma non mancano all’appello le morti per estenuazione dei professional gamer coreani, o il fatto che arrivino a indossare dei pannolini per non abbandonare le partite in corso. 

Herzog si sposta infine su aspetti ancora più imponderabili, potenzialmente catastrofici, e fatalisticamente sottratti al controllo dell’uomo. Ad esempio, sui solar flare, le cicliche radiazioni solari in grado di interferire con le trasmissioni di dati, che replicheranno prima o poi black-out come quelli del Carrington Event del 1859, ma con effetti più devastanti e perdite umane immani, tale è ormai la nostra dipendenza dalle Reti. Intervistando Jonathan Zittrain, professore di Internet Law a Harvard, Herzog discute il collasso delle civiltà: il mondo che diventerebbe istantaneamente “unimaginably ugly and difficult”. 

 

Herzog è, ovviamente, anche interessato agli scenari apocalittici potenzialmente guidati dalla mano umana. Guerre di intelligence, potenziali apocalissi nucleari dovute a hacker e terroristi. Se non è l’uomo ad autodistruggersi, potrebbero pensarci anche le intelligenze artificiali. Se la Rete iniziasse a pensare a se stessa in seguito all’avvento della singularity, e se gli inspiegabili flash crashfinanziari sono le prime scintille di algoritmi un giorno autocoscienti, l’intelligenza umana non diventerebbe che un lascito arcaico, da spazzare via (senza il ricorso a guerre in stile Terminator, ma manipolandoci in maniera più sottile)? 

 

Cyborg.

 

Non vi è però apocalisse senza possibile redenzione: se la cosiddetta Internet of me, l’integrazione quotidiana uomo-macchina, diventasse sempre più pervasiva, diventando fondamentalmente invisibile ai nostri occhi, non ci penseremo più in termini dialettici: saremo i robot. La telepatia potrebbe diventare una realtà, grazie a connessioni neurali con chip e reti di dati: “You will be tweeting thoughts”. In questo futuro, fondamentalmente ingovernabile e impossibile da controllare, nessuno saprà distinguere uomini e macchine. Forse l’umanità sarà già interplanetaria e i pianeti proprietà privata, grazie alla competizione tra NASA e progetti come Space X di Elon Musk. 

Lo and Behold cattura varie dimensioni di una serie di dibattiti e temi importanti, lasciando in fondo meno spazio esplicitamente assegnato alla speculazione filosofica e alla voce personale di Herzog, che parla molto poco, e filtra soprattutto attraverso la parabola dei vari casi. L’aspetto più interessante della première non è, paradossalmente, il film in sé, ma il modo in cui Herzog lo confeziona come una rassegna sullo stato delle cose tecnologiche a venire, contraddistinta dagli ormai classici marchi di fabbrica dell’autore. I temi futurologici hanno fatto un grande ritorno in questi anni, tra serie come Real Humans o Mr Robot, film come Her e Ex Machina, notizie quotidiane sullo stato dell’arte di cyber crime, leak governativi, cospirazioni, droni e androidi. Sorprende che Herzog non si soffermi su aspetti legati al sesso e alla pornografia, ma il resto dello scibile è coperto, inclusi i videogiochi, la next big thing scoperta dagli accademici dopo soli quarant'anni. 

 

Di Herzog manca una posizione univoca, una presa di posizione. Restano lo stile aforistico, gli interrogativi vaticinanti, l’inclinazione generale a un indifferentismo di fondo nel considerare i fatti umani rispetto alla natura, la scelta degli aneddoti e dei camei: dai monaci tibetani che smettono di meditare per twittare fino al Wikipedia Emergency Project, progettato per preservare l' enciclopedia in formato di stampa nel caso di un black out perenne. La ricerca dell’inusitato, del meraviglioso e di ciò che trascende le categorie di analisi umana porta Herzog a non intraprendere alcuna critica politica e radicale allo stato attuale dei rapporti tra potere, informazione e diseguaglianza. È un punto che sarebbe interessante affrontare alla luce di un documentario molto diverso, come Hypernormalization di Adam Curtis, in cui la tecnologica è affrontata soprattutto da una prospettiva di critica alle nuove sinergie tra governance, interessi del capitale finanziario, civiltà del consumismo e nuove forme di classismo, xenofobia e colonialismo economico. 

 

Mentre Curtis invita lo spettatore a scollegarsi dal panopticon pervasivo e ipnotizzante della società del consumismo data-driven e da un mondo dominato da compressioni tra capitale culturale, economico e accesso a informazioni, Herzog osserva l’umanità in Lo and Behold come un entomologo. Se quello di Curtis è un saggio visuale di studi critici sui media, la cultura di massa e relative distopie in corso e in divenire, Herzog resta un osservatore dei paradossi e dei confini stessi della coscienza, nell’impatto con una natura fondamentalmente imponderabile. Anche se è pronto a calarsi nella prospettiva delle api nell’alveare, Herzog resta inevitabilmente affascinato dall’idea di infine librarsi ancora più in alto e osservarne i percorsi e il punto di non ritorno, piuttosto che scostarsi per indicarne la struttura sociale. 

La prèmiere in streaming.

 

Infine, Herzog è soprattutto interessato a Herzog. L’evento in streaming serve a cementare la sua identità di pensatore e visionario. Herzog ci riferisce di non sognare, a differenza forse della Rete. Dice di continuare a non amare le scuole di cinema, nonostante una sua recente Master Class sia stata pubblicizzata su Facebook. Ci ricorda che anche se delle primordiali intelligenze logaritmiche hanno già scritto degli script o girato dei film, perlopiù si tratta di opere “poco interessanti, confuse e stupide”. Ma se anche i robot imparassero a migliorare, o persino, più improbabilmente, ad amare – riferisce Herzog – non farebbero mai film “del calibro dei miei”. Forse per Herzog questa sfida va letta come quella tra il computer Deep Blue e il campione di scacchi Garry Kasparov, e i robot continueranno ad avere un senso inadatto alle emozioni. D’altro canto, Herzog continua a consigliare al pubblico di rifarsi ai grandi maestri, a artisti in grado di elevarsi in visioni che resistono il tempo – artisti come Herzog stesso. Eppure, la sua stessa poetica, all’insegna di un distacco dalle umane passioni, nella ricerca di una “verità estatica”, non è forse compatibile il modo in cui un’intelligenza sintetica guarderebbe l’umanità? O è forse più corretto dire che Herzog è un romantico e che, nelle sue parole, smetterà di fare film “quando mi porteranno via in una camicia di forza”?

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La Rete sogna?

Putin e la grande parata a Mosca

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Prendiamo le mosse da alcune settimane fa, precisamente dal 14 ottobre quando nella città di Orël è stato inaugurato il primo monumento mai innalzato in Russia (e forse nel mondo) allo zar Ivan IV, il Terribile. La popolazione della cittadina si era schierata quasi all’unanimità contro questa decisione. Una prima inaugurazione, pensata per il 4 agosto (450° anniversario della fondazione della città), era slittata a causa delle resistenze pubbliche ma il volere delle autorità locali ha portato comunque all’erezione della statua il mese scorso in occasione della festa ortodossa dell’Intercessione della Madre di Dio. La motivazione ufficiale sta nella leggenda che vuole Orël fondata proprio da Ivan, quella meno esplicita rientra invece in una serie di riabilitazioni di personaggi storici discutibili, la cui grandezza starebbe nell’aver fatto grande e nell’aver tenuto unita la Russia, prescindendo dalle modalità applicate nella gestione del potere. Reazioni e proteste si sono susseguite, e sono ancora in atto, mentre lo stesso ministro della cultura, Vladimir Medinskij (la cui tesi di dottorato era stata dedicata proprio alla ricostruzione di fatti storici “mistificati”), è intervenuto per difendere la scelta e sostenere che la fama sanguinaria dello zar in questione è dovuta alle calunnie dei viaggiatori stranieri dell’epoca.

 

Monumento a Ivan il Terribile, Orël. 

 

Il principe moscovita Ivan IV si era autoproclamato zar di tutta la Russia, unificando sotto la propria egida i vari principati e contrastando il potere feudale dei boiari, venendo riconosciuto nel 1561 dal patriarca di Costantinopoli e facendo nascere il mito di Mosca terza Roma. Per sostenere le riforme e contrastare gli oppositori aveva costituito una guardia speciale, crudele e violenta, gli opričniki. Il film di Sergej Ejzenštejn Ivan il terribile (parte I e II) costituisce un’interessante lettura di questa storia, realizzata negli anni della Seconda Guerra Mondiale “per Stalin” che amava identificarsi con il suo illustre predecessore, e che mette in scena aspetti diversi del carattere del sovrano. Dalla volontà di unificare il Paese e gestirlo con mano forte e severa (dettagli che avrebbero fatto meritare al regista il premio Stalin per la prima puntata del film), ai dubbi sempre crescenti e alla solitudine quasi disperata che lo opprimeva e deprimeva nella seconda parte (che avrebbe, per queste ragioni, visto la luce soltanto nel 1958, molti anni dopo la morte del regista).

 

Una visione analitica dei due film che prendesse in considerazione la possibilità di applicarli alla situazione storico-politico contemporanea, e non soltanto a quella staliniana com’è stato più volte fatto, potrebbe aiutare la comprensione di quanto sta succedendo nel Paese oltre che di ciò di cui si tratta in queste pagine.

Il 4 novembre scorso, giornata dell’unità nazionale, un altro monumento ha fatto parlare di sé, questa volta a Mosca. Inaugurato alle soglie del Cremlino alla presenza del Presidente Putin, del premier Medvedev, del ministro Medinskij e del sindaco di Mosca Sobjanin, è stato dedicato al principe Vladimir, detto “Il bel sole”, colui che nel lontano 988 aveva “cristianizzato” la Russia imponendo al proprio popolo la conversione da religioni pagane per poter convolare a nozze con una principessa cristiana e ampliare e stabilizzare la propria sfera di potere. Anche in questo caso non sono mancate le opposizioni che hanno ricordato la crudeltà di questo regnante, per altro già canonizzato dalla chiesa ortodossa e dunque santo a tutti gli effetti, e la sua condotta non particolarmente in sintonia con i principi del cristianesimo. Altro punto di dissidio sta nel fatto che Vladimir avesse regnato ai tempi dell’antica Rus’ di Kiev e che l’appropriazione da parte di Mosca di una figura legata alla storia ucraina e rivendicata a gran voce dalle autorità kieviane, non facesse che acuire i già pesanti contrasti tra i due Paesi.

 

Per evitare un’aperta rissa era anche stato deciso di ridurre l’altezza del monumento perché non risultasse più alto di quello che già si erge a Kiev, oltre che per aggirare il veto dell’Unesco che aveva minacciato di ritirare il patrocinio sul Cremlino di Mosca se la statua avesse mancato di rispetto ai requisiti esposti nella convenzione sulla protezione del suo patrimonio. E la questione è ancora aperta. Tra i promotori dell’iniziativa per la costruzione della statua rientra anche un personaggio inquietante, Aleksandr Zaldostanov, noto nei giri dei biker come il Chirurgo, capo del gruppo di motociclisti “Lupi della notte”, ultra nazionalisti (anzi, come preferiscono dire i russi, ultra patriottici), di cui Vladimir Putin è membro onorario. Questo ha portato i dissidenti a pensare che l’omonimia dei due capi possa nascondere una recondita volontà di innalzare un monumento al Vladimir contemporaneo sotto le mentite spoglie dell’antico principe. A benedire la cerimonia e l’opera scultorea, il patriarca ortodosso Kirill, nel cui saluto inaugurale sono risuonati accenti quali: “Se Vladimir avesse ragionato allo stesso modo di alcuni dei nostri contemporanei, non avrebbe mai compiuto la sua scelta. Sarebbe rimasto un pagano o un cristiano a livello personale, ma non avrebbe battezzato la santa Rus’. Di conseguenza non sarebbero esistite né l’antica Rus’, né la potenza ortodossa russa, né il grande impero russo, e neppure la Russia moderna”. 

 

Monumento a san Vladimir, Mosca. 

 

Veniamo ora alla manifestazione che si è tenuta sulla piazza Rossa il 7 novembre scorso, 99° anniversario della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre, per chiamarla con il nome che le è stato proprio nei settant’anni di esperimento sovietico. Ricorrenza delicata e foriera di possibile imbarazzo per l’autorità istituzionale. Come ignorare una data che ha influenzato le sorti del mondo? D’altro canto, come celebrare un evento responsabile di vessazioni e tormenti, da molti disconosciuto, da altri, però, nostalgicamente vagheggiato? Ricorrendo a un escamotage strategicamente geniale che si ripete già da 14 anni. Si è commemorato, con una “marcia solenne” (toržestvennyj marš), non una tradizionale parata militare, non già il 7 novembre 1917 ma lo stesso giorno del 1941, quando in una Mosca pressata dall’avanzata nazista la piazza Rossa si era colmata di 28.000 soldati, cavalli e mezzi corazzati per dare all’intero Paese il segnale che la capitale non si arrendeva. Le truppe marciarono dalla piazza Rossa direttamente verso il fronte difensivo che tratteneva a stento l’avanzata tedesca. Evento di altissima portata simbolica che avrebbe fornito energie e sostegno ai combattenti e al popolo delle retrovie.

 

 https://www.youtube.com/watch?v=zOiAabwrTDI

 

La commemorazione dei giorni scorsi, 75° anniversario del 1941, ha fatto ancora una volta leva su questi sentimenti, ha schierato i 55 veterani rimasti in vita a Mosca e messo in scena uno spettacolo, difficile definirlo altrimenti, che del primigenio pathos nulla ha conservato se non le abbondanti e strategiche citazioni. In assoluta sintonia con lo spirito che ha voluto l’erezione dei monumenti di cui si parlava all’inizio, promuovendo la potenza del Paese, la sua unità indissolubile, la coesione del popolo russo basate sul grande sacrificio della guerra.

 

https://www.youtube.com/watch?v=n5mOd-QnsE4

 

La festa della Vittoria, dai sovietici anni Sessanta in poi, era stata pensata come omaggio a chi aveva combattuto, era morto, ma soprattutto a chi era sopravvissuto e, con la sua presenza, poteva testimoniare dell’eroica grandezza passata. Oggi i veterani superstiti sono diventati non già spettatori d’onore ma protagonisti. I frequenti primi piani della ripresa televisiva rimandano i loro volti attoniti e, forse, spaesati.

 

Veterano. 

 

Tutto ha avuto inizio alle fatidiche ore 10.00 battute dall’orologio del Cremlino mentre la banda militare intonava le solenni battute di Svjaščennaja Vojna (La sacra guerra), canzone simbolo della venerabilità di un conflitto che, non a caso, in Russia è sempre stato definito come Guerra Patriottica, e non Seconda Guerra Mondiale, a segnalare la portata non aggressiva della scesa in campo sovietica, motivata dalla fedifraga invasione nazista. Le bandiere della Federazione russa e il vessillo della Vittoria sono state solennemente portate in trionfo attraverso la piazza da un drappello di soldati.

 

Bandiera russa e vessillo della vittoria.

 

 

L’accento della manifestazione si focalizza subito, grazie ai commenti dei due speaker, sul concetto chiave: “l’intero paese guarda a Mosca e difende Mosca. I veterani, che avevano preso parte alla “leggendaria parata del 1941”, devono sapere che il Paese non dimentica il loro eroismo e continua ad andarne fiero.

A fare gli onori di casa non il Presidente Putin ma il Sindaco moscovita, Sergej Sobjanin, come a sottolineare il fatto che è Mosca ad aver voluto questa manifestazione e che la capitale continua, o riprende dopo un periodo di transizione, a essere portavoce e simbolo dell’intera nazione.

 

Il sindaco di Mosca tra i veterani.

 

La piazza Rossa, assecondando un cliché sovietico, viene citata nel suo breve saluto come “la piazza principale di tutto il Paese”. Le note dell’inno nazionale, nella versione solo strumentale, passibile quindi di essere collegato sia al testo sovietico che a quello successivo al crollo dell’URSS, visto che la musica è rimasta la stessa e soltanto le parole sono state sostituite, fanno da colonna sonora all’arrivo di una serie di figuranti che mettono in scena i momenti chiave della difesa di Mosca. 

La scenografia si sviluppa nel centro dell’immensa piazza in faccia a un grande palcoscenico costruito di fronte al mausoleo di Lenin, questa volta non mimetizzato da strutture intese a nasconderlo alla vista come era accaduto in parate degli anni passati, ma disinvoltamente ignorato e affiancato da tribune che ospitano spettatori. Il grande palco oggi protagonista è costituito da una scalinata centrale coronata da grandi schermi su cui scorrono immagini e filmati d’epoca. Il tutto sovrastato da un lunghissimo nastro di san Giorgio nero e arancione, decorazione militare della Russia zarista, recuperata nel 1992 e, dal 2005 diventato simbolo ufficiale della vittoria sui nazisti. Negli ultimi anni il suo significato è passato a indicare il nazionalismo russo e l’appartenenza alla corrente filo russa in Ucraina.

 

Scenografia della manifestazione.

 

 

L’intervento militare simulato evoca la difesa di Mosca e si sviluppa con roboante retorica e non senza un’ingenuità che non può non ricordare certo cinema real-socialista. 

 

Figuranti all’opera.

 

 

Sul più bello dell’azione da una camionetta scende un gruppo di fisarmonicisti. I loro cappottoni militari e la canzone che intonano, la Marcia dei carristi sovietici, sono le prime di una serie di citazioni che rimandano a topoi caratteristici dell’identità nazionale russo-sovietica, al limite dello stereotipo, ma proprio per questo immediatamente riconoscibili e condivisibili da tutti. 

 

I fisarmonicisti.

 

 

Nel frattempo i figuranti mettono in scena l’arrivo delle lettere da casa e altri toccanti momenti di vita al fronte. Il tutto sempre sull’onda del più conclamato kitsch. 

 

Figuranti che leggono lettere al fronte. 

 

Ai suonatori si aggiunge una prima bionda fanciulla, autentica russkaja krasavitsa (bellezza russa), drappeggiata in un grande scialle a fiori, altro tocco di stile nazionale, che, sullo sfondo delle immagini di Lidija Ruslanova, grande interprete di canti popolari interpretati anche al fronte per i soldati, ora proiettate sul grande schermo, canta la canzone popolare russa che aveva commosso le trincee e fatto sognare i combattenti: Valenki (stivali di feltro), ennesimo rimando a una ben precisa identità nazionale. 

 

Cantante in scialle russo. 

 

Mentre il crepitio delle armi e lo scoppio delle bombe scatena l’azione militare sopraggiunge un’altra fanciulla, questa volta lo scialle responsabile della citazione è il più sobrio orenburgskij platok, intessuto a mano con lana tanto impalpabile da poter passare, secondo la tradizione, attraverso un anello nuziale, che recita con enfasi estrema una delle poesie più famose dell’epopea bellica: Aspettami, e io tornerò di Konstantin Simonov. 

 

Attrice che legge una poesia.

 

 

I finti soldati, che trasportano in tutta la sua estensione orizzontale, una leggendaria bandiera rossa, si lanciano su per la scalinata tra nuvole di fumo e rombo di mitraglie. Chi vuole può leggerci di tutto, dalla presa del palazzo d’inverno a quella del Reichstag berlinese. 

 

Azione scenica.

 

La canzone questa volta è degli anni Ottanta, La vittoria resta giovane, e ribadisce che “da un estremo all’altro tutto il paese difende Mosca”.

Ancora risuonano frasi e slogan in sintonia con l’evento e si evidenziano parole chiave fondamentali: “gloria e forza”, “legame tra le generazioni”, “moscoviti pronti alla battaglia, allora come adesso”. L’ancora stentorea voce di un veterano dà il via alla vera a e propria marcia solenne che vede per una ventina di minuti drappelli di soldati delle più diverse armi, in divise storiche e che assomiglia sempre più a una delle tante sfilate rievocative di storia passata.

 

 

Corteo storico.

 

Tocco finale è l’arrivo di un cantante, attorniato da bambine e bambini, che intona il cosiddetto Inno di Mosca, una canzone dal titolo Mosca mia risalente proprio agli anni della guerra che si conclude con i versi: “amata mia capitale, dorata Mosca mia”.  

 

Canzone finale.

 

Le ultime scene hanno visto la corsa di giovani in divisa per distribuire garofani rossi, ultima citazione storico-mitologica, al pubblico che lasciava le postazioni.

Il commento del Sindaco è stato: “la marcia è durata poco più di un’ora, ma per la potenza del suo impatto sugli spiriti morali del nostro popolo non ha conosciuto precedenti. Si è trattato di una vittoria senza un solo sparo. Per il significato che ha avuto la parata è stata pari a operazioni militari di primaria portata”. 

Indiscutibile, come sempre da tempi remoti, l’impeccabilità sia dell’organizzazione che degli effetti speciali. Il livello estetico, a mio parere, ha concesso troppo spazio al kitsch, alle seconde lacrime di cui scrive Milan Kundera, motivate non da una sincera commozione ma dal compiacimento causato dalla commozione stessa e dalla sua (troppo) facile condivisione. Resta attualissimo il discorso sulle rappresentazioni della storia passata e delle operazioni relative alla memoria collettiva, in Russia come altrove. Più che mai si assiste a quanto una scuola di studiosi ha definito e affronta come “history with the pain removed”. Creazione di una mitologia più che analisi criticamente compiuta di storia. Il nome di Stalin non è ovviamente comparso.

 

Anche lo slogan gridato dai figuranti, “Per la Patria, per Mosca!”, è stato privato della sua terza fondamentale componente d’epoca, “per Stalin!”. I problemi vengono aggirati, i traumi smussati, le difficoltà cancellate. Evento, questo moscovita, più vicino alla sfilata inaugurale di una sagra paesana che a una consapevole commemorazione storica. Ma questo richiedono i tempi: rimandi a momenti indiscriminati di grandezza esemplare, di gestioni solide e ruvide (per non dire efferate) del potere, a figure che rappresentino tali realtà e che, chissà, preparino la strada al nuovo “unto del Signore”. Si fa un gran parlare di “fruizione di pancia” in questo giorni, anche in seguito ai risultati elettorali americani. Di una preoccupante vicinanza a stilemi staliniani di “pancia” parlerei anche in questa circostanza, sempre più prepotentemente aggressiva e vincente rispetto alla più impegnativa e scomoda “testa”.

 

Le immagini della marcia sono tratte da questo video:

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Cosa succede in Russia?

Cohen. Un'enorme compassione

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Un giorno, durante una intervista rilasciata a una radio norvegese, Marianne Ihlen raccontò il suo incontro con Leonard Cohen sull’isola greca di Hydra, dove il cantautore canadese si era fermato nei primi anni Sessanta a vivere in una casetta per 14 dollari al mese; niente auto, solo muli, retsina, pesce alla griglia, poesie e un romanzo scritti su una Lettera 22 Olivetti, e amori intensi nella notte: un giorno di primavera lei era con il suo bebè in un negozietto di alimentari con servizio bar; «Ero in piedi nel negozio con il mio cesto della spesa, in attesa che mi servissero una bottiglia d’acqua e del latte; lui era sulla porta, in piedi, con il sole che lo inondava; mi invitò fuori nel suo gruppo di amici. Aveva pantaloncini kaki, scarpe da ginnastica, una t-shirt, un cappellino. Mi sentii irradiata da una enorme compassione per me, e per mio figlio. Fui completamente presa da lui. Lo sentii attraverso il mio corpo. Una luminosità si era posata sopra di me».

 

Marianne è stata una delle donne più amate da Cohen. Una delle poche tra le tante donne da lui amate che siano rimaste per sempre una sua musa. Nel luglio scorso Cohen aveva ricevuto una e-mail da un caro amico di Marianne, che lo informava che Marianne stava morendo di cancro. Cohen scrisse subito una lettera meravigliosa, che nei suoi ultimi mesi di vita permise fosse pubblicata, perché «non c’era nulla da nascondere»: «Beh, Marianne, è venuto il tempo in cui siamo veramente vecchi, e i nostri corpi ci abbandonano. Credo che io ti seguirò molto presto. Sappi che ti sono vicino, così vicino che se stringessi la tua mano potrei crederla mia. Tu sai che ti ho sempre amato per la tua bellezza e per la tua saggezza, ma non ho bisogno di dire altro perché tu sai tutto. Ma adesso voglio solo augurarti un bellissimo viaggio. Addio vecchia amica. Amore senza fine, ci vediamo giù in strada». Due giorni dopo Marianne era morta. E l’amico norvegese scrisse a Cohen: «Marianne ha potuto ascoltare ancora lucida, sorridendo, la tua lettera, e ne ha ricevuta immensa pace, e gratitudine per l’augurio di bel viaggio. Mentre si spegneva le abbiamo intonato delicatamente Bird on the Wire».

 

 

 

 

Il 10 novembre 2016 un post sulla sua pagina Facebook ha annunciato che Leonard Cohen era morto, all’età di 82 anni: «Con infinita tristezza annunciamo che il leggendario poeta, cantautore e artista Leonard Cohen se ne è andato. Abbiamo perso uno dei più rispettati e prolifici visionari della musica». Cohen deve essere morto lo scorso 7 novembre, sepolto nella sua Montreal con un rito funebre strettamente privato.

A Montreal era nato, e cresciuto in una dignitosa, colta, stimata famiglia ebraica di origini lituane. E quando si trasferì a New York, negli anni Sessanta, diventò compagno di strada di Bob Dylan e Joni Mitchell. Non avrebbe potuto ricevere anche lui, Leonard Cohen, un Premio Nobel per la Letteratura come Bob Dylan? Poeta per musica come gli antichi lirici greci, oltre ad avere scritto meravigliose parole cantate, Cohen ha scritto molte poesie da leggere, e narrativa. Profondamente gentile, con un eloquio colto e amabile, con una voce profonda come quella di Tom Waits ma per niente disperata e barbona, aveva studiato anche l’ipnosi: tutte queste doti lo hanno reso irresistibile per tante donne bellissime e specialissime. Marianne, Suzanne, tante sono rimaste nelle sue canzoni, divenendo per noi le donne che stiamo amando.

 

 

Leonard Cohen ha patito una lunga malattia; il suo corpo è lentamente, dolorosamente franato sul suo scheletro malato, e il dolore che provava non gli ha mai impedito di essere spiritoso, autoironico, e sereno. Nelle ultime sue interviste ha parlato di come gli si stava facendo incontro la morte: «Il più grande cambiamento è quando la morte si fa proprio vicina. Io sono un ragazzo molto ordinato, mi piace tirare per bene le corde finché posso. Se ci riesco, bene. Devo assolutamente finire ciò che ho cominciato. Sono pronto a morire. Spero non sia troppo sgradevole. Mi preoccupo solo di questo».

 

Nel 2013 ero seduto in un cinema, per vedere Miss Violence, del regista greco Alexandros Avranas: un lentissimo movimento verticale della camera, molto originale, a poco a poco inquadrava un decoroso condominio piccoloborghese e poi scendeva giù, giù, fino a che sul selciato inquadrava il corpo senza vita di una bambina vestita per la festa, in una pozza di sangue. Improvvisamente partiva Dance me to the end of love, di Leonard Cohen, la ballata ninna-nanna con cui l’ebreo Cohen raccontava dopo tanto tempo il suo sentire la shoah. Quel film terribile, dove un padre laido e perbene si accoppia incestuoso con le sue bambine per poi offrile prostitute ai suoi amici, con una madre muta e vile, quello svuotarsi totale della dignità di un greco nello sprofondo della miserabile crisi economica e quindi morale di un popolo, erano perfettamente struggenti con il commento poetico di Cohen su un altro olocausto dell’umanità.

 

 

 

L’enorme compassione di Leonard Cohen, la sua capacità di parlare se necessario nel silenzio…

Se a Hydra, l’isoletta di tutt’altra Grecia di molti decenni fa, Cohen aveva vissuto come un monaco scrittore, al lume di lampade a olio, come monaco ordinato nella tradizione buddhista Zen Rinzai visse cinque anni in un monastero dal 1996, a Mount Baldy, vicino a Los Angeles. Dopo quarant’anni di amicizia con Kyozan Joshu Sasaki Roshi, nel pieno di una nuova pesantissima crisi depressiva, decise che doveva ritrovare il modo di sorridere; quel monastero è anche un centro di riabilitazione, e Cohen ha passato buona parte del suo tempo aiutando persone a tornare a camminare, a parlare.

 

 

 

Un giorno, infine, disse al suo maestro che sarebbe sceso dalla montagna, come scrisse nel suo libro di poesie Book of Longing:

 

ho lasciato la mia veste appesa
nella vecchia capanna
dove sono stato seduto a meditare così a lungo

dove ho dormito così poco.

Infine ho capito

che non sono per niente portato

per le Questioni Spirituali

 

Negli ultimi suoi dieci anni Leonard Cohen ha ricominciato a scrivere canzoni, e poco tempo fa ha pubblicato il suo quattordicesimo album. Ha riportato nel mondo la compassione, che gli era innata, e con un sorriso, appoggiato sul bastone degli ultimi tempi, ci ha detto addio con la sua elegante, seducente, tristissima voce.

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So Long, Leonard

Sulla Transiberiana

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«Non cercavamo l'avventura, ma soltanto un attimo di respiro, in paesi nei quali le leggi della nostra civiltà non valevano ancora».

Tra 1939 e il 1940 due donne di trentuno e trentasei anni partono dalla Svizzera con una Ford. Si lasciano alle spalle un'Europa che sta implodendo e guidano, guidano verso Est, attraversando l'Anatolia, l'Iran, l'Afghanistan fino all'Hindu Kush, a un passo dalla Cina. Una delle due, Ella Maillart, proseguirà fino in India. L'altra, Annemarie Schwarzenbach, si sentirà in dovere di tornare indietro, di raggiungere i fratelli Mann e affrontare di petto la Storia. 

Annemarie ed Ella son fatte di sostanze diverse e son spinte al viaggio da opposte urgenze. La prima, come la definì Thomas Mann, era un angelo inconsolabile, devastato, viva e leggera come l'aria e insieme imprigionata in un denso abisso interiore fatto di crisi di panico e morfina; la seconda era una donna libera, sana. Entrambe scrivevano: Ella «scriveva per viaggiare» – Annemarie «viaggiava per scrivere». 

Leggendo Tutte le strade sono aperte, diario di viaggio della Schwarzenbach riedito dal Saggiatore nel 2015, l'impressione di quest'instancabile perdersi a levante si fa strada fino a trasformarsi in necessità immanente.

 

 

È così che settantasette anni dopo il loro viaggio ho deciso d'incamminarmi verso Oriente. Non solo per motivi politici ho scelto però di fare tutt'altra strada. Il deserto dei Gobi mi sembrava il posto più lontano, evocativo e inimmaginato cui potessi aspirare.

Siamo partite, io e la mia rodata compagna di viaggio, con un passaggio in macchina che, in una notte di luglio, ci avrebbe lasciate ad Arad, con una percussionista rumena alla guida e un trafficante di vino, rumeno pure lui, che irradiava maschilismo d'altri tempi, con battute e commenti troppo diretti per riuscire offensivi. 

Abbiamo attraversato tutta la Romania in 18 ore, con un treno di 4 vagoni, attraverso pianure verdissime, in mezzo a contadini  dalle unghie piene di terra e la sigaretta in bocca, sporti dalla porta semiaperta del treno in corsa. In Moldavia, terra di nessuno, squallida, inconsapevole e kitsch, abbiamo incontrato un'umanità incredibilmente ospitale, ansiosa di portarci a visitare le proprie case con le tendine lilla, di mostrarci i saloni vuoti dei ristoranti dove di solito si organizzano i matrimoni e persino di far aprire un castello medioevale in giornata di chiusura per mostrare con orgoglio che anche lì è passata la Storia. 

La Russia, passata la magia di San Pietroburgo, è il regno dell'incomunicabilità. A Mosca, dopo un paio di giorni, avevo imparato a leggere il cirillico: non c'era scelta; sempre a Mosca ho passato un'ora nella macchina della polizia per aver fumato una sigaretta in un parco, insieme a un russo ventenne che, temendo di essere picchiato in quanto omosessuale, si era finto italiano e non spiccicava parola (e i poliziotti non parlavano chiaramente altra lingua che il russo) – il tutto perché qualche insonne ancora impregnato di Kgb ci aveva visti fumare e aveva chiamato per denunciare.

 

Sulla transiberiana abbiamo incontrato solo due gruppi di turisti in 5 giorni lunghissimi di viaggio, le signore che gestivano il bar ci mandavano via mezz'ora prima della chiusura urlandoci contro in russo e non ammettendo che qualcuno potesse non capire la loro lingua. Si aveva la perenne sensazione di far qualcosa di sbagliato senza mai avere idea di cosa  (il sospetto, a volte, era che il problema fosse essere due donne sole e pure occidentali). Intanto i telefoni spesso non prendevano, cambiavano i fusi orari e scoprire che ora fosse o dove ci trovassimo risultava complicatissimo. Però addormentarsi sulla cuccetta leggendo Dostoevskij o Ouspenskij, con il cadenzato, pacificante scivolare del treno sulle rotaie, inesorabilmente diretto verso Est, perennemente intento a inseguire l'alba e ad allontanarsi, sempre allontanarsi – voleva dire addormentarsi sorridendo.

 

 

Gli unici italiani che abbiamo incontrato viaggiavano organizzati e incasellati da Avventure nel mondo. Quando uno di loro, in una shisheria di Olkhon – l'isoletta quasi disabitata del lago Baikal – si lamenta di come «questi» siano totalmente estranei al concetto di business, mi torna in mente per la prima volta la frase della Schwarzenbach ...paesi nei quali le leggi della nostra civiltà non valevano ancora...

Nulla in confronto a quello che avrei vissuto in Mongolia. La capitale è una città asiatica come l'avrei immaginata in un libro di Marguerite Duras, caotica ma non esageratamente affollata, piena di sabbia, asfalto, grattacieli, catapecchie di legno e yurte, gente che vende ogni cosa, teatri che danno spettacoli di contorsioniste, templi buddhisti e mense speciali per i monaci vegani – e ospita quasi la metà degli abitanti del paese (che sono in tutto 3 milioni, due volte Milano). Per muoversi in città si fa l'autostop, per comprare qualsiasi cosa si contratta con calcolatrice, gesti e all'occorrenza google translate (qui l'«incomunicabilità» trovata in Russia era solo un ricordo, probabilmente perché l'incomunicabilità è una scelta che dipende sia dal soggetto che dall'interlocutore) all'immenso mercato nero e come una città europea della rivoluzione industriale è inquinata per la combustione del carbone e le stufe a legna. Impossibile non provare simpatia per un luogo del genere. 

 

Nei dieci giorni successivi all'arrivo a Ulan Bator, abbiamo attraversato i Gobi prima verso Sud poi verso Ovest su un van russo di qualche decennio fa, insieme a due israeliani appena usciti dal servizio militare – ancora traumatizzati ma, proprio grazie a quell'esperienza, capaci di una solidarietà reciproca viscerale, qualcosa che non avevo mai visto prima –, un mongolo venticinquenne che s'improvvisava guida per imparare meglio l'inglese e un autista ciccione quasi muto ma perennemente sorridente, che ascoltava solo Enrique Iglesias e si muoveva con una sicurezza encomiabile in luoghi di estremo nulla – senza una strada, in cui se non c'erano montagne si vedeva l'orizzonte a trecentosessanta gradi e solo noi – e che accelerava suonando all'impazzata ogni volta che davanti alla sua traiettoria si presentava una mandria di yak o di cammelli o un gregge di pecore.

 

 

Abbiamo attraversato steppe, cavalcato per giornate intere in praterie infinite, mangiato in mezzo al nulla con cinque falchi che volavano sopra le nostre teste e scendevano in picchiata a rubare minuscoli pezzetti di carne che cadevano a terra; abbiamo scalato dune di sabbia – scoprendo che non c'è nulla di più faticoso al mondo – e corso giù – scoprendo che non c'è parcogiochi migliore che il deserto; accanto alla sabbia c'era il prato verde e una fonte sacra che, se fischi o canti, risponde gorgogliando e «sputando» l'acqua. Per dieci giorni non abbiamo visto una città, i cellulari non prendevano, i bagni erano buche nel terreno profonde 3 o 4 metri protette su tre lati da muretti di legno o di latta; ci ospitavano i nomadi, che davvero si spostano quattro volte l'anno, a seconda della stagione, e vivono di bestiame e arrotondano con l'affitto di una o due ger ai turisti: la lana e il cachemire li vendono, a pochissimo, a Ulan Bator che a sua volta lo vende grezzo – quasi tutto e sempre a pochissimo – alla Cina anziché lavorarlo e guadagnarci davvero.

 

...un attimo di respiro, in paesi nei quali le leggi della nostra civiltà non valevano ancora...

A. è un ragazzo di ventidue anni. È nato nel Nord della Mongolia, da una famiglia nomade di religione sciamanica. Verso i quattordici anni si è trasferito con i suoi a Clermont-Ferrand, poi alle soglie di Parigi. Ha viaggiato negli Stati Uniti e in Germania e da poco è tornato a casa. Ci incanta con giochi di carte da illusionista, concilia il senso dell'umorismo mongolo con quello europeo, traducendo in francese le battute del «padrone di casa» ottantenne che si è seduto a bere vodka con noi sotto una nitidissima via lattea e prende in giro degli svizzeri di settant'anni che stanno attraversando i Gobi a piedi e che osano sentirsi anziani. Quando tutti sono ormai andati a dormire, A. viene a trovarci nella ger, apre senza troppi complimenti la nostra bottiglia di vodka, chiacchieriamo.

 

 

Ci racconta la sua storia e quando gli chiediamo se non vorrebbe tornare in Europa sorride: «Fossi matto». Forse, per un anno, a fare qualche master, magari in turismo. Non di più. Non vedete come si vive qui? Se tornerete, magari l'anno prossimo, vi porto nel Nord! Da Ulan Bator si viaggia per un paio di giorni, poi si lascia la macchina e si prosegue a cavallo – in macchina è impossibile! - poi si arriva in un villaggio di sciamani, a volte sono un po' burberi e sospettosi con gli stranieri, ma se ci sono io non c'è pericolo.

Lui se ne va. La porta si riapre, entra la nostra guida, un po' offesa perché esclusa dalla conversazione in francese da tutta la sera. «Ne avete già visti di fantasmi?» chiede. «Di fantasmi?». «Sì, quando ci si allontana un po' dalle ger, la notte, può capitare».

...un attimo di respiro, in paesi nei quali le leggi della nostra civiltà non valevano ancora...

 

In quel 1939 Annemarie e Ella attraversarono mondi – non solo culturalmente – distantissimi dal loro, eppure due donne sole negli anni '30 in Afghanistan non ce le saremmo immaginate. Nel 2016 noi quel viaggio non lo potremmo fare. Nonostante il mondo del web appaia – quasi – senza confini (arrivate a Pechino ci accorgiamo che davvero Google, Youtube e Facebook non funzionano), alcuni confini sono più invalicabili di settantasette anni fa. Altri, come allora, richiedono il visto e una burocrazia complicatissima (per arrivare in Cina senza biglietto aereo bisogna pagare un'agenzia di viaggi perché ne falsifichi uno). Oggi, ancora, il viaggio verso Est è un viaggio verso l'altrove, l'altro da sé. Le «leggi della nostra civiltà» si fanno periferiche e ripensando all'italiano in viaggio col gruppo organizzato, lo immagino come un viaggiatore in cerca di conferme che la Schwarzenbach non avrebbe fatto salire sulla sua Ford.  

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Sven Augustijnen, Le Réduit

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Dirigendoci oggi verso la base militare di Kamina attraverso la strada che conduce verso il quartiere generale, vediamo sul lato sinistro un insieme di nove case circondate da filo spinato. Accanto alla bandiera della Repubblica Democratica del Congo sventola quella della Repubblica Popolare Cinese. L’insieme di queste nove case contrasta con quello sul lato destro della strada – erede del colonialismo belga - che porta le tracce di più di mezzo secolo di storia.

Sven Augustijen, Bruxelles, 15 luglio 2016

 

Le Réduit, un progetto di Sven Augustijnen, vista della mostra, La Loge, 2016 - Copyright & Courtesy dell’artista e La Loge. 

 

A Bruxelles in un modo o nell’altro si parla sempre dell’Africa. Una mostra, un documentario, una conferenza o un semplice “appel à projet” affrontano sempre temi e problemi legati al continente africano. “Politically correct”, particolarmente sensibile agli “studi di genere” e all’arte engagé, il Belgio ritorna costantemente sul proprio passato coloniale, facendo i conti con un’eredità cruenta e indubbiamente controversa.

A gettare però nuova luce sulla tormentata storia coloniale e politica del Belgio è la mostra Le Réduit realizzata da Sven Augustijnen (Malines, 1970) presso “La Loge” di Bruxelles, un elegante “Tempio massonico” in stile modernista costruito alla metà degli anni ‘30 nel cuore della città. Scevra da ogni retorica e iconografia postcoloniale, l’esposizione infatti mette a fuoco uno degli ultimi lasciti del colonialismo belga in Congo in modo secco, sobrio e sincero.

 

Siamo alla fine degli anni ‘40 e in un clima paranoide e di paura dettato dall’inizio della Guerra fredda, il Belgio decide di costruire un vero e proprio “réduit nazional” nel Sud-est del Congo per ospitare il capo di Stato, i suoi ministri e le loro rispettive famiglie in caso d’invasione sovietica. 

Immune da tutti gli stereotipi e paternalismi che continuano ad affollarsi intorno a questo immenso ed estremo continente, Le Réduit ripercorre analiticamente la costruzione della base militare di Kamina, una piccola città ricca di giacimenti minerari situata a nord della provincia del Katanga. Come in Spectres (2011), il lungometraggio che ricostruisce il delicato processo di decolonizzazione del Congo attraverso l’assassinio del Primo Ministro Patrice Lumumba (17 gennaio 1961), anche in quest’occasione l’artista arriva subito dritto al punto, non ci gira attorno e lo fa presentandoci una serie di documenti d’archivio del “Centre de Documentation historique des Forces armées” che documentano la progressiva edificazione della città congolese ribattezzata “Cité de la Peur” o ancora “Couillonville” dalla popolazione locale. 

 

Le Réduit, un progetto di Sven Augustijnen – La Loge, 2016 – fotografo anonimo – Courtesy dell’artista, La Loge & Centre de Documentation historique des Forces armées. 

 

Le Réduit, un progetto di Sven Augustijnen, vista della mostra, La Loge, 2016 – Copyright & Courtesy dell’artista e La Loge. 

 

Una successione di vedute aeree scattate da un fotografo anonimo nel 1953 mostrano la planimetria della città dotata d’infrastrutture civili e militari che si estendeva su una superficie di centinaia di kilometri, mentre un insieme di fotografie in bianco e nero montate su passe-partout ritraggono delle famiglie africane vestite con “gli abiti del potere occidentale”, delle abitazioni con i tipici frontoni triangolari in stile fiammingo e una serie di “cerimonie di Stato”, simbolo della “dignità imperiale” come “la posa della prima pietra” in terra straniera da parte di un generale. Queste immagini, “la cui evidenza brucia”, sono chiaramente molto lontane dagli “esotismi” del XVIII secolo e dai pensieri ibridanti e tipicamente postmoderni degli anni ‘80, ma anche da quella particolare imagerie postcoloniale che ha caratterizzato gli anni ‘90 e che ancora oggi influenza la poetica e il linguaggio di molti artisti. 

 

Cosa siagita allora in queste “memorie”, nel loro tempo storico e simbolico, di così profondamente diverso dalle silhouettes di Kara Walker, dai personaggi “di spalle” di John Akomfrah e dalle danses macabres di William Kentridge? Oltre al fatto che l’artista non è di origine africana e che il suo intervento si limita volutamente alla raccolta, alla scelta e all’esposizione di materiali d’archivio, cosa ci trasmette questo corpus d’immagini e documenti di così differente dalle narrazioni e dalle rappresentazioni di questi grandi “interpreti” del continente africano? La differenza sta nel fatto che le fotografie selezionate ed esposte da Augustijnen invitano a una radicale e immediata presa di coscienza della loro esistenza, coincidono e sono pari ai fatti del mondo che raccontano, non oltrealtrove

Nel Réduit, semplicemente, non c’è niente di bello, di epico e di poetico, nulla che possa emozionare o stimolare l’immaginazione verso un paese lontano e ancora parzialmente sconosciuto, seppur in modo intelligente e profondamente critico. In poche parole: dai materiali d’archivio ordinati in teche e vetrine dall’artista non risuona alcun “Triumphs and Laments”. Nell’asetticità degli album fotografici di militari e comandanti dell’esercito e nelle anonime mappe della città dove sono indicati ristoranti, prigioni e punti di ritrovo non trovano più spazio “I Maghi della Terra” di Jean-Hubert Martin (Centre Pompidou/Grand Halle de la Villette, Parigi 1989) né le riflessioni transdisciplinari e psicanalitiche di Bhabha, Spivak e Said. 

 

Animato “dall’impazienza assoluta di un desiderio di memoria”, come scriveva Derrida nel suo Mal d’Archive,une impression freudienne (Édition Galilée, Paris 1995) in riferimento al concetto psicanalitico di archivio in Freud, Augustijen si documenta, studia, riunisce scupolosamente informazioni e testimonianze e ce le mostra così come sono, nude e crude come la brutalità e la franchezza della realtà che vi è dentro. Augustijnen non intellettualizza l’Africa, la sua storia e la sua gente, non la rielabora artisticamente attraverso affascinanti e conturbanti rappresentazioni, ma ce la fa vedere attraverso la logica e il rigore di un archivista alle prese con un insieme sterminato di documenti. 

Interprete sintomatico di una generazione di artisti, da Gerhard Richter a Renée Green, da Sam Durant a Thomas Hirschhorn, da Tacita Dean a Hans-Peter Feldmann, che nonostante le singole e profonde differenze hanno collezionato, conservato e archiviato in modo compulsivo oggetti, memorie e feticci personali, Augustijnen sceglie l’archivio come modello formale ed espressivo attraverso cui riflettere su un determinato momento storico del proprio paese in rapporto all’Africa. Pur non essendo il prodotto di fantasie e ossessioni personali, “l’archivio” che ci presenta Augustijnen, infatti, condivide con questi altri lo stesso ancestrale sentimento di paura: il rischio di una perdita di memoria, volontaria o involontaria che sia. 

 

A questo punto viene da chiedersi se non è proprio nella sincerità di questo “sentimento d’angoscia” e nella forza icastica dei documenti “presi in prestito” dall’artista che il Congo recupera in modo effettivo il diritto di raccontare il suo traumatico passato, non più dal punto di vista europeo o artistico ma dal suo proprio. 

Ancora una volta è questo genere di interrogativi che l’arte solleva, fornendo gli strumenti con cui pungolare e interrogare la storia di ieri e di oggi, i suoi paradossi e continui rivolgimenti. Del resto, come suggeriva puntualmente Hal Foster in An Archival Impulse (MIT Press, Cambridge 2004), la sua inconscia e inguaribile “febbre d’archivio” è sempre esistita.

 

La mostra:

Sven Augustijnen | Le Réduit

8 settembre – 19 novembre 2016

La Loge | Rue de l’Ermitage n. 86 – 1050, Bruxelles

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Febbre d'archivio

Cohen. Dalla fine della vecchiaia

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Una volta i devoti di Cohen erano una società segreta. Oggi la società ha rotto i sigilli ed è uscita allo scoperto. Non va confusa con i cosiddetti Eletti Cohen dell’Universo, che sono un banale ordine massonico. È la ben più potente Cabala della Depressione Cosmica, la cui dottrina insegna che quando hai toccato il fondo puoi solo dire va bene così, dopotutto è qui che volevo arrivare, sia lodato chiunque debba essere lodato, tiriamo un bel respiro, meditiamo un po’ e andiamo avanti.

Ho letto tutti i libri su Leonard Cohen, almeno quelli in lingua inglese, e nessuno mi ha toccato come il profilo pubblicato da David Remnick sul “New Yorker” del 17 ottobre 2016. Nulla, nell’articolo, accenna a una sua malattia, o alla possibilità di una morte improvvisa. Può essere stata delicatezza, o forse davvero non si poteva prevedere. Ma Cohen soffriva di forti dolori alla schiena dovuti a fratture per compressione, lavorava su una sedia a rotelle, ed è da quella sedia, con l’aiuto del figlio Adam come produttore, che ha cantato i versi delle canzoni di You Want It Darker, il suo ultimo disco appena uscito. Non userei la parola testamento. Cohen aveva ancora molte poesie e canzoni inedite in serbo, finite o abbozzate. Prima o poi vedranno la luce. 

 

David Reminick descrive lo studio di Leonard Cohen, al secondo piano di una casa relativamente modesta di Mid-Wilshire, un quartiere di Los Angeles dalla forte diversità etnica e non tra quelli più alla moda: un paio di chitarre acustiche, una tastiera di sintetizzatore, due computer e un microfono per la voce. Gran parte della preparazione di You Want It Darkerè stata condotta in quella stanza. Poi è intervenuto Patrick Leonard, arrangiatore e co-autore delle musiche, finché anche Leonard ha avuto problemi di salute e il disco è stato terminato grazie al coordinamento di Adam Cohen. È a questo punto della descrizione che David Remnick, guardando Leonard Cohen al lavoro, fa cadere questo appunto: “La vecchiaia e la fine della vecchiaia soccorrono con un’aria di quiete; utile, anche se non interamente desiderata”.

 

Crediamo di sapere cos’è la vecchiaia, ma che cosa mai può essere la fine della vecchiaia? Come si vive nella fine della vecchiaia, se non è solo l’intervallo che separa dalla morte? Forse c’è un momento, che può essere breve o durare anni, passato il quale non si è più vecchi e nemmeno immortali, soltanto eterni. Non si è più parte della vita, ma la morte non ha ancora trovato il coraggio di guardarci in faccia. Con You Want It Darker, Leonard Cohen ha raggiunto quell’altezza, al di sopra delle nebbie, dalla quale si vede tutto molto chiaro. Soprattutto, si distinguono i contorni di ciò che non è chiaro per niente, di quel Dio che è anche ombra a se stesso e che risplende solo dal cuore di un’impenetrabile oscurità. Un dio geloso, incostante, molto umano. Un dio depresso, che Leonard Cohen ha adorato per tutta la vita con una devozione inflessibile, sapendo che tale Dio, per esistere, non ha nemmeno bisogno di essere. Remnick cita una poesia che Cohen gli dice a memoria: “Ascolta il colibrì, le cui ali non puoi vedere. Ascolta il colibrì, non ascoltare me. Ascolta la farfalla, i cui giorni ammontano a tre. Ascolta la farfalla, non ascoltare me. Ascolta la mente di Dio, che non ha bisogno di essere. Ascolta la mente di Dio, non ascoltare me”.

 

 

Ma è difficile non ascoltarlo. Non ascoltare un timbro che quando canta “Leaving the Table” o “Steer Your Way”, dall’ultimo disco, è una voce dopo la fine della voce, un fiume inabissato che ci chiama a seguirlo nelle caverne della gola, una sorta di rombo di tuono trattenuto.

Molti sanno che Cohen, senza mai abbandonare la sua educazione ebraica, nel 1996 si è fatto monaco zen e che negli dal 1993 al 1998 anni ha vissuto saltuariamente nel monastero buddista di Mount Baldy, in California. Nemmeno lo zen, però, era riuscito a guarirlo dalla depressione. Remnick rivela che dopo aver lasciato il monastero, avendo capito di non avere dopotutto la vocazione per una vita esclusivamente spirituale, Cohen si era trasferito a Mumbai per assistere alle sedute di Ramesh S. Balsekar, già presidente della Bank of India e successivamente maestro dell’Advaita Vedanta, la scuola hindu il cui insegnamento principale è che non esistono né “tu” né “io” bensì solo la coscienza universale. Un salto non indifferente per chi, dal punto di vista dell’io, ha dialogato per tutta la vita con un “tu” che era, come insegna la tradizione erotico-mistica, ebraica e non, tanto la donna quanto Dio.

 

Ho sottomano una raccolta di pensieri di Ramesh Balsekar. Si chiama A Net of Jewels: Daily Meditations for Seekers of Truth (Advaita Press, 1996), e l’apro a caso: “Capire è tutto”, dice, “e ogni sforzo di capire è un impedimento al capire stesso. Si annichilisce l’ego esponendolo a quell’illusione che l’ego stesso è, ed è questo il capire”. Pare impossibile, per chi è programmato dall’ego occidentale e ne soffre la ricorrenti “inflazioni” (come le chiama la dottrina junghiana), che queste prescrizioni così facili da banalizzare possano davvero funzionare come terapia. Eppure Cohen emerge da un anno di colloqui con Balsekar, per la prima volta in vita sua, libero dalla depressione. E non molto tempo dopo inizia la sua rinascita agli occhi del pubblico mondiale, guidata dalle centinaia di cover di “Hallelujah”, una canzone che al suo apparire su Various Positions nel 1984 era passata inosservata (il disco non era nemmeno entrato in distribuzione negli Stati Uniti, bisognava ordinarlo dal Canada).

 

Se uno guarda alla produzione di Cohen posteriore al 1998 (Ten New Songs, Dear Heather, Old Ideas, Popular Problems, You Want It Darker), trova pochi accenni a questo cambiamento interiore. Per due ragioni: la prima è che le rivoluzioni dell’anima non hanno una gran voglia di andare in parata; la seconda è che buddismo zen e induismo advaita non hanno affatto cancellato, nella poesia, nelle melodie e nella voce di Cohen, il bisogno dell’io di confrontarsi con il tu. L’hanno soltanto affinato, rendendo lo sguardo più preciso. Perché la “lotta con l’angelo” che Cohen, come Giacobbe, ha sempre combattuto, al di là delle pur colossali schermaglie con la Dea del Desiderio, riguarda in fondo l’educazione di un ragazzo ebreo in una città cattolico-ebrea come Montréal. La prima raccolta poetica di Cohen, uscita nel 1956, si chiamava Let Us Compare Myhtologies (Confrontiamo allora i nostri miti, trad. di Giancarlo De Cataldo e Damiano Abeni, Minimum fax, 2009), e già poneva la sfida tra vecchio e nuovo testamento, tra il roveto ardente e l’uomo sulla croce. Perché sono diversi? Perché non sono uno? Perché sono così spesso ostili l’uno all’altro? Nell’ultimo disco, Cohen è tornato a confessare l’impossibilità di una soluzione definitiva.

 

La riunificazione non ci sarà. Ma si potrebbe almeno stipulare un trattato: “Ti ho visto cambiar l’acqua in vino, e poi il vino in acqua nuovamente. Mi siedo alla tua tavola ogni sera, mi sforzo ma con te non mi diverto. Non c’è una pace che si può firmare? E quella maledetta collina, che importa chi la va a conquistare? Stanco e arrabbiato, ecco come sono io. Perché non c’è una pace, perché non c’è una pace da firmare, tra il tuo amore e il mio?”

 

Non ho parlato della musica. Che è non è affatto minima come sembra. Lo sa Bob Dylan, che nell’articolo citato condivide con Remnick la sua ammirazione per Cohen e la sua conoscenza perfino analitica, accordo per accordo, modulazione per modulazione, anche di canzoni poco note: “Quando parlano di Leonard si dimenticano sempre di menzionare le sue melodie,” dice Dylan, “che per me, insieme ai suoi versi, sono la prova più grande del suo genio. Anche i versi di risposta [counterpoint lines] danno un tono celestiale e uno slancio melodico a ciascuna delle sue canzoni… Il suo dono, o genio, sta nella sua connessione con la musica delle sfere”.

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