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Non è facile scrivere su Letizia Battaglia. Sul suo modo di fotografare, su quello che ha ritratto e sui risultati che ha ottenuto. Specialmente dopo aver visto la mostra dal titolo Anthologia (fino all’8 maggio ai Cantieri Culturali della Zisa a Palermo) che raccoglie 140 fra le sue fotografie migliori. Bisognerebbe essere oggettivi, entrare nel merito del livello estetico dei suoi scatti, della composizione, dell’uso sapiente del bianco e nero, ma anche del loro valore politico e sociale: finestre su un’umanità spesso inquietante e terribile in cui magicamente l’occhio del fotografo riesce a scoprire lampi di bellezza e di verità. Ci sono gli anni terribili delle guerre di mafia a Palermo, quelli di Falcone e Borsellino, che Letizia immortala lavorando come reporter per il quotidiano L’Ora, e c’è la città, con i suoi eterni, stridenti contrasti, ma soprattutto ci sono le persone (un consiglio, se dovesse capitarvi di imbattervi nel lavoro di Letizia Battaglia, soffermatevi sulle scene della quotidianità: è lì che si vede tutta la sua grandezza).

 

Bisognerebbe farlo, ma significherebbe costringere il suo lavoro dentro una griglia di lettura che, per quanto ampia e rispettosa, finirebbe per essere comunque riduttiva. L’alternativa – la più seria ed efficace – sarebbe lasciar parlare le immagini, magari proprio quelle di questa mostra che meriterebbe di girare il mondo. La possibile terza via l’ha indicata a suo tempo Umberto Eco, che nelle sue postille alla prima edizione del Nome della rosa, scriveva che di tutto ciò che non si può teorizzare bisognerebbe narrare. 

Era il 21 dicembre 1986 e a Palermo faceva freddo. All’appuntamento si presentarono puntuali tutti gli allievi del Laboratorio d’IF (Informazione Fotografica), un centro voluto da Letizia Battaglia in cui oltre a fare fotografie e stamparle (già, la stampa analogica, ci torneremo), si poteva vederne e parlarne.

 

C’era gente di tutti i tipi, ma soprattutto di tutte le età. Non solo giovani desiderosi di apprendere da una grande fotografa a tenere la macchina in mano, ma anche persone più avanti negli anni, che di apparecchi fotografici ne avevano in mano da tempo, e magari di buona qualità anche. Ecco un’altra cosa: non si parlava quasi mai della qualità della macchina fotografica, dell’importanza dell’attrezzatura. Né in aula, quando si facevano delle lezioni teoriche, né quando si andava in giro a fotografare. Si potrebbe pensare agli appassionati di fotografia come agli appassionati di motori, che non fanno altro che parlare dell’ultimo modello, dell’efficacia di questa o quest’altra soluzione. Con Letizia questo non succedeva quasi mai. Unico requisito fondamentale, portare con sé tante pellicole. Si può risparmiare su tutto, diceva sempre, ma non sulle pellicole. Il luogo dell’appuntamento era piuttosto variabile, in qualche caso era il centro di Palermo, in qualche altro un quartiere periferico più o meno disastrato.

 

Quel 21 dicembre si era molto vicini al fiume Oreto, già allora ridotto a poco più di un torrente che scorreva in un letto troppo ampio, testimonianza di un passato glorioso. L’idea era proprio quella di muoversi verso quelle sponde per vedere cosa ci fosse. Già, perché nessuno dei presenti ne aveva la minima idea, né sapevamo se poi qualcosa l’avremmo trovata davvero. Ecco, era questo che si faceva in quegli incontri, si esplorava. La sensazione era piuttosto strana, e sospetto che non fosse poi troppo dissimile da quella che provano gli esploratori veri, quelli che vanno nelle foreste o cose del genere. In un caso come nell’altro andavamo verso l’ignoto, solo che nel nostro caso l’ignoto era a pochi metri da casa. Un ignoto vero intendo, non solo non sai cosa troverai, non sai se troverai qualcosa, ma soprattutto non hai idea di cosa potrà capitarti, né quanto pericoloso potrà essere. Parlo di un pericolo fisico, non di essere sgridati. Spesso si finiva in zone piuttosto problematiche, popolate da gente che a guardarla non avresti detto di potergli puntare impunemente un obiettivo in faccia. E qui entrava in scena Letizia.

 

Immaginate un esercito di una ventina di fotografi assatanati di scatti che invade un mondo parallelo che non hai mai sospettato di poter vedere a 20 minuti da casa. Non soltanto Letizia ci portava lì, ma doveva fare qualche tipo di magia perché dopo pochi minuti la gente chiedeva di essere fotografata. E non perché avesse riconosciuto la prima fotografa europea a ricevere il prestigioso premio W. Eugene Smith, figurarsi, ma perché Letizia Battaglia gli parlava. È lì che ho capito che la storia per cui il fotografo non c’è mai nelle fotografie che scatta è una stupidaggine. È vero l’esatto contrario, e nel caso di Letizia ancora di più. È il fotografo che crea le condizioni umane perché una fotografia prenda forma. 

 

Il fatto è che un fotografo non è semplicemente un uomo. È una creatura strana, un ibrido. La sua umanità è alterata da un’apparecchiatura che non soltanto ne muta le capacità – poter conservare la memoria di 1/125 di secondo – ma anche il modo in cui si pone nei confronti di ciò che gli sta intorno. Tutte le volte che a Eco si chiedeva di parlare di fotografia, lui rispondeva sempre che l’unica macchina fotografica che aveva posseduto l’aveva data via dopo averla usata una sola volta. Aveva dovuto farlo quando, ritornato dal viaggio in cui l’aveva portata, aveva scoperto di non ricordare nulla. E per uno che aveva una memoria come la sua doveva essere un trauma non da poco. Più fotografava più dimenticava. C’è poco da fare, la macchina fotografica ci cambia. Per qualcuno le sensazioni che dà possono essere spiacevoli, per altri, invece, tramutarsi in un occhio che guarda il mondo può essere esaltante.

 

L’unica cosa che non può succedere è che non cambi nulla. Il punto che Letizia Battaglia coglieva perfettamente è che questa trasformazione ha delle conseguenze anche su ciò che sta intorno al fotografo, agli oggetti della sua attenzione, specialmente quando sono altri esseri umani. Perché nasca una fotografia bisogna che il fotografo si presenti in quanto tale. Come diavolo facesse a farlo non ne ho idea, ma la situazione cambiava davanti agli occhi dei suoi allievi. Nello spazio di pochi minuti si passava da un’ostilità rabbiosa a un’apertura totale, alla voglia di farsi ritrarre. E non erano le parole a convincere, le promesse di chissaché, ma le fotografie. Le persone fotografate erano di colpo tutte interessanti, tutte belle davanti all’obiettivo di Letizia. A questo proposito, una puntualizzazione: non è vero che l’obiettivo diventa l’occhio del fotografo, funziona al contrario, l’occhio del fotografo diventa un obiettivo. Un fotografo vero vede immagini, l’obiettivo è solo quell’affare che gli ha insegnato a farlo e per il tramite del quale altri potranno vedere ciò che il fotografo vede. 

 

Come stavo dicendo, stavamo andando verso l’ignoto e nessuno immaginava quello che avremmo potuto trovare. Il paesaggio che dopo qualche vicolo ci si presentò davanti era surreale. Sulle rive del fiume c’erano delle case abitate, e in queste case c’erano degli uomini e delle donne, molti uomini e donne che vivevano spesso in spazi piccolissimi. E bambini, tanti bambini. Alcuni vestiti, altri in mutande, alcuni vivaci come ci si aspetterebbe da un bambino, altri già vecchi che si prendevano cura dei più piccoli. Tutti con uno sguardo negli occhi che riuscivi a sostenere solo se lo guardavi attraverso un obiettivo. Il fotografo-ibrido non vede solo cose diverse, ha una sensibilità diversa. Trasformata forse dal valore testimoniale che la fotografia che scatterà, indipendentemente dalla sua qualità, possiede. E poi c’erano gli animali. Maiali per la maggior parte che, come in epoche molto più remote, condividevano con le persone gli spazi della casa. Ma soprattutto c’era la spazzatura. Montagne di spazzatura sulle quali alcune di quelle case erano edificate. Il punto non era documentare tutto questo, mostrare il degrado, la miseria, la disperazione che si respiravano, denunciare quello che la gente non vuol vedere. Il punto, come le fotografie di Letizia Battaglia chiariscono perfettamente, era trovarci la bellezza. Trovare l’umanità in situazioni che di umano avevano davvero ben poco. E celebrarla attraverso la fotografia. 

 

Si sa, Letizia Battaglia usa il grandangolo, è quella la sua cifra estetica. Il 35mm o addirittura il 28 mm. Obiettivi da paesaggio, ampi, che consentono di includere nell’immagine molti elementi, offrendo una visione innaturalmente ampia (il “normale”, quello che riproduce la visione dell’occhio umano è il 50mm, focali inferiori significano angoli di campo più ampi, focali superiori – quelli che una volta si chiamavano teleobiettivi – un maggiore ingrandimento). Il problema è che con quegli obiettivi lì Letizia realizzava dei ritratti. Normalmente un ritrattista lavora con un 55mm, o addirittura con un 85. Vuole che l’obiettivo si avvicini al soggetto per lui, che entri (l’obiettivo) nella sua intimità. Non Letizia. Per lei entrare nella sfera intima del soggetto significava farlo davvero, essere vicino a lui, sentire il suo odore, il suo respiro. Molti anni più tardi dell’esperienza vissuta con lei, ho visto quel film di Luc Besson, Léon.

 

È la storia di un assassino che prende con sé una bambina a cui hanno ucciso i genitori e finisce per insegnarle come si diventa dei veri professionisti. Vedi – le dice – il fucile è un’arma per principianti. Ti impone di star lontano dal bersaglio. Il professionista vero lavora con il coltello, un’arma che ti obbliga ad avvicinarti e che richiede dunque un perfetto controllo della situazione. Con la fotografia succede qualcosa di simile. È vero che fare ritratti con il 28mm significa comporre in modo particolare l’inquadratura, poter realizzare prospettive interessanti, introdurre distorsioni particolari, ma soprattutto significa avere davvero il controllo sulla situazione. Perché il problema per Letizia Battaglia è stato sempre raccontare storie. Sono quelle che ha sempre cercato in ogni immagine, e il grandangolo le dava la possibilità di raccontarne tante in un solo scatto, ognuno dei quali diventava così un’epica. 

 

L’ultima storia che voglio raccontare riguarda ciò che veniva dopo lo scatto. Già perché a quel tempo le fotografia andavano stampate. Niente digitale, niente istantaneità, niente computer. Al loro posto reagenti, lunghe attese, molteplici passaggi, mani che si bagnano, camere buie e cose del genere. Ma soprattutto l’ingranditore, ovvero quell’apparecchio tramite il quale il negativo veniva proiettato sulla carta fotografica per ottenerne un positivo. Ora, l’ingranditore a ben pensare è un’altra macchina fotografica, solo che funziona al contrario. Per alcuni stampare poteva essere un processo meccanico, da portare avanti secondo l’idea positivista del “miglior risultato possibile”.

 

Letizia Battaglia lavorava in camera oscura come faceva dietro l’obiettivo. Stampare era fotografare nuovamente, dar vita a un nuovo processo creativo in cui l’immagine prendeva vita. Agire ancora sull’esposizione e interagire con i reagenti di sviluppo significava decidere la nerezza del nero, la bianchezza del bianco, il modo in cui le infinite sfumature di questi due non-colori primari avrebbero dovuto combinarsi insieme. Le forme c’erano tutte ma i colori bisognava inventarli, e il bianco e nero in questo offre possibilità enormi. Insisto: non si trattava di “ritoccare” le immagini come si fa adesso e come, soprattutto, siamo abituati a pensare, ma metterle nella condizione di esprimersi, modulando i chiaroscuri, sottolineando i punti notevoli, mascherando possibili fonti di distrazione (senza mai eliminarle del tutto come si fa oggi con Photoshop). Dando luce al negativo si illuminava di nuovo la scena, e così la verità del reportage si coniugava con la raffinatezza formale dello studio. Ecco, forse è questo che alla fine emerge dall’opera di Letizia Battaglia. L’idea di una fotografia che non ha paura del suo artificio, del soggetto che si mette in posa, che non cerca l’attimo rubato più o meno casualmente ma si dispone affinché l’istante fecondo abbia luogo. Con la consapevolezza che la verità di una immagine, la sua capacità di scuoterci ed emozionarci, non viene dalla presunta innocenza di chi la scatta così come del soggetto ritratto, ma dalla profonda umanità che solo un vero professionista sa esprimere. Lasciare che tutto sia come è per svelare l’evidenza del suo mistero.

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Letizia Battaglia

Cosa leggeva Umberto Eco?

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Che cosa leggeva Umberto Eco? Quali erano, più in generale, i suoi consumi culturali? La biblioteca della sua casa di Milano si snoda su diversi ambienti in modo labirintico e quella immateriale che si desume dalla bibliografia delle sue opere è praticamente sconfinata. Tutto quello che ha scritto, romanzi compresi, dichiara un’erudizione fuori dal comune e solo molti eruditi di diverse discipline, collaborando fra loro, potrebbero tentare di ricostruire una mappa esaustiva delle sue letture. Scelgo quindi solo uno dei fili rossi che si possono intravedere, e cioè quello che sembra ad alcuni in dissonanza con la sua fama di studioso: la passione, assolutamente confessata, che Eco aveva per la letteratura popolare, compresi film, telefilm e fumetti. Chiunque l’abbia conosciuto abbastanza bene sa che poteva passare con nonchalance dallo Pseudo-Dionigi Areopagita all’Intrepido, dalle nebbiose atmosfere di Gérard di Nerval a Don Matteo, non equiparandoli, ovviamente, ma godendone in diverso modo, come diremo.

 

Nelle sue riflessioni sulla letteratura popolare (si vedano i saggi contenuti in Apocalittici e integrati, 1964; e ne Il Superuomo di massa, 1970), Eco riprende l’idea del carattere ideologico e consolatorio della letteratura popolare. Questa, a differenza della letteratura in senso proprio, va incontro alle aspettative del lettore, scioglie gli intrecci nel modo il più aderente possibile ai valori del pubblico, si avvale di ripetizioni e di scelte stilistiche già note al pubblico riducendo a cliché le soluzioni originali trovate dalla letteratura.

 

L’ispirazione dichiarata è ad Antonio Gramsci e alla sua idea di un’egemonia di tipo culturale che contribuisce a mantenere sottomesse alcune classi sociali. Questa è la pars destruens, legata al dialogo di quegli anni con la filosofia marxista. Ma già allora Eco dice anche che il romanzo popolare “metterà in opera una tale energia, sprigionerà una tale felicità, se non inventiva almeno combinatoria, da procurare piaceri che sarebbe ipocrita nascondere: perché esso rappresenta intreccio allo stato puro; spregiudicato e libero da tensioni problematiche. Occorre riconoscere che la gioia della consolazione risponde a profonde esigenze se non del nostro spirito almeno del nostro sistema nervoso.” (Superuomo, p. 12). Il romanzo problematico mette in discussione la differenza fra bene e male mentre quello popolare fa trionfare il bene definito nei termini della moralità, dei valori, dell’ideologia corrente. Bisogna però, dice Eco, non limitarsi al piacere ma “smontare il meccanismo”.

 

La semiotica, e la critica culturale in generale, potrebbero apparire a questo punto un facile stratagemma per guardare in santa pace trash tv, film di serie C, serie televisive di ogni tipo, e leggere romanzi di genere (poliziesco, rosa, fantascienza, erotico, horror, ecc., a seconda delle predilezioni) senza sentirsi troppo in colpa. In realtà questo “smontare il meccanismo” è una faccenda molto seria che mette anche al riparo dal Kitsch. A “La struttura del cattivo gusto” Eco dedica uno dei capitoli ancor oggi più interessanti di Apocalittici e integrati (giusto l’anno scorso, per il cinquantesimo, è stata pubblicata una raccolta di saggi: 50 anni dopo Apocalittici e integrati, a cura di A. M. Lorusso).

 

Il Kitsch vi viene definito come “prefabbricazione e imposizione dell’effetto” (corsivo dell’autore) in ambito artistico: in particolare provocare un effetto sentimentale utilizzando espressioni già cariche di fama poetica. Il pubblico si illude di fruire di un prodotto artistico mentre in realtà si tratta di un’imitazione. Eco dice che la cultura di massa si trova in una situazione antropologica di dialettica fra proposte innovatrici e adattamenti omologatori, con un pubblico che scambia continuamente prodotti kitsch per prodotti artistici. Il Kitsch si nutre dell’usura delle forme artistiche, del loro sfruttamento fuori contesto, come nei ritratti di Giovanni Boldini dove le ricche committenti vengono rese naturalisticamente, in tutta la loro carnale avvenenza, ma poi vestite di chiffon e di sete dipinte secondo lo stile impressionista, per dare l’idea che il pittore fosse “davvero un artista”.

 

Eco confronta tre brani tratti da Le tigri di Monpracem di Salgàri, Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e la Recherche proustiana dove vengono descritte per la prima volta, rispettivamente, Marianna-La Perla di Labuan, Angelica e Albertine. Riprenderemo più puntualmente questo esempio più avanti. Per ora ci limitiamo a osservare come Il Gattopardo sia considerato da Eco a metà strada fra l’estremamente popolare Salgàri e l’estremamente raffinato Proust: quello dello scrittore siciliano è uno scrivere “equilibrato e dignitoso”, “modello ideale di un prodotto medio” “destinato a piacere senza eccitare”, “eccellente prodotto di consumo” che non arriva mai al Kitsch (“dove il messaggio è formulato apposta in modo che il lettore si entusiasmi per un autore che scrive così bene”, p. 125) È questo il modello a cui Eco si è ispirato nello scrivere i propri romanzi? Certamente, ma assieme a questo, a moltissimi altri.

 

Nei saggi Sulla Letteratura (2002) e in particolare in quello intitolato “Come scrivo”, dice che la stesura di ogni romanzo gli ha preso mediamente sei-sette anni di lavoro e che ogni opera doveva rispecchiare lo stile e la mentalità dell’epoca in cui era ambientata: Il nome della rosa, per esempio, doveva riprodurre il discorso “sempre omogeneo – del cronista medievale, preciso, fedele, ingenuo e stupito, all’occorrenza piatto (un monacello del Trecento non scrive come Gadda, né ricorda come Proust” (p. 340). Per il Pendolo di Foucault allestisce un vero laboratorio letterario, lo stile va “da quello delicato e arcaicheggiante di Aglié, quello smagatamente e ironicamente letterario (voluto e sofferto) del Belbo dei files segreti, quello mercantile e kitsch di Garamond […].” Per l’Isola del giorno prima fa riferimento alla letteratura barocca, con intemperanze verbali del protagonista che il narratore a volte deve giustificare con il lettore; per Baudolino fa una prima stesura in un pidgin padano del XII secolo, consultando dizionari storici e dialettali “se non che, probabilmente, il ricorso a schemi dialettali mi ha ricondotto alla mia infanzia e alla mia terra natale, e dunque a un mondo già pre-costruito, almeno nel ricordo" (p. 345).

 

Pur padroneggiando virtuosisticamente moltissimi registri e sostenendo che per lui il narrare è una forma diversa di teoresi (cfr. su Doppiozerol’articolo di Gianfranco Marrone), l’autore non nasconde la sua ammirazione per il romanzo popolare, specie per quello che ha delle formidabili trovate narrative. In “Invenzione narrativa e tecniche del discorso” (in Grignaffini, Pozzato, Mondi seriali 2008) espone una distinzione fra romanzi che sono scritti bene senza avere invenzione narrativa, come l’Ulisse di Joyce; romanzi che hanno invenzione narrativa e sono anche scritti bene, come I tre moschettieri; e romanzi che hanno grande invenzione narrativa ma sono scritti male, come Il conte di Montecristo e I Misteri di Parigi. Dice Eco: “Si ha invenzione narrativa e produzione di miti anche con storie raccontate malissimo e che non sono opera d’arte, mentre opere d’arte squisite non hanno invenzione narrativa e non hanno prodotto miti” (p. 323). Quindi la cosiddetta letteratura di consumo non è solo un modo consolatorio di passare il tempo, non attiva solo riflessi pavloviani, ma è anche capace di mitopoiesi. La faccenda si fa più complicata…

 

Eco, con la sua prodigiosa memoria, conosceva bene ed era in grado di raccontare, e quindi di confrontare, un’infinità di intrecci tratti da classici del romanzo popolare. Questo ha caratteristiche che sono state ben studiate: per esempio una certa stereotipia dei personaggi, primo fra tutti l’eroevendicatore, che trae alcune caratteristiche psico-fisiche dal satanismo romantico: in genere è alto, elegante, magro, dotato di incredibile forza fisica, potenza magnetica dello sguardo, labbra sottili che indicano controllo o tumide e ben disegnate se dotato di carica sensuale; mani lunghe, fini, fortissime, indice di appartenenza di classe anche per esercizio sportivo. Dal punto di vista delle doti morali, esse sono all’insegna dell’eccesso come prodigalità, temerarietà, fermezza eccezionale, amore per la giustizia che arriva al delitto, coscienza di sé fino all’alterigia, capacità di soggiogare le donne che arriva alla misoginia. Poi ci sono l’Antagonista e l’Amico Leale che spesso controbilancia gli eccessi dell’eroe che tende al libertinaggio o è poco attratto dalle donne e tutto incentrato sull’attività mentale. In altri termini, o abbiamo un estroverso facile all’amore o un eroe che fa uso solitario di intelligenza razionale. Entrambi cercano una donna Ideale che non raggiungono mai, per cui il destino dell’eroe resta segnato da sterilità e morte.

 

La donna realmente incontrata o è vittima, o è antagonista persecutoria (la maliarda seduttrice) o svolge un ruolo vagamente incestuoso di eterna fidanzata-sorella. L’importante è che il rapporto non sia mai paritario: per esempio in Carolina Invernizio (1851-1916) le donne intelligenti e autonome sono sensuali e malvagie, spesso esotiche; mentre la donna buona ha i tratti regolari, è mite, vergine, con un carattere plasmabile come cera. Ecc. (cfr. Dame, droga e galline. Romanzo Popolare e romanzo di consumo tra Ottocento e Novecento, a cura di Antonia Arslan, 1986). Ora, non si può assolutamente dire che nei suoi romanzi Eco si ispiri solamente ai romanzi popolari anche se alcune ambientazioni e alcuni personaggi ne sono un’evidente derivazione, soprattutto nelle parti dark, nel complottismo, o nelle derive farsesche che possono essere lette come parodie delle iperboli del romanzo popolare. In tutti romanzi di Eco, ma a mio avviso spiccatamente ne Il nome della rosa, Il pendolo di Foucault, Baudolino e Il cimitero di Praga, si sente questa influenza, questa gravitazione attorno al pianeta, per la maggior parte di noi ormai oscuro, della narrativa popolare fra 800 e 900.

 

Questi libri erano invece ancora in gran voga quando l’autore era bambino e adolescente. Ne La misteriosa fiamma della regina Loana (2004) si vede come la “dieta culturale” del piccolo protagonista, facilmente apparentabile a Eco, fosse già quella di un super onnivoro: dai calendarietti dei barbieri che gli accendevano le prime fantasie sessuali, alle canzoni degli anni Trenta; dai romanzi di Conan Doyle alle avventure fumettistiche di Buffalo Bill. Sarebbe impossibile elencare tutte le reminiscenze culturali evocate in questo romanzo che compone tuttavia un quadro importante della cultura popolare degli anni Trenta e Quaranta quale poteva apparire a un ragazzino curioso dell’epoca. Nei Saggi sulla letteratura, come fonte dei suoi romanzi infantili, Eco si limita a indicare il Giornale illustrato dei viaggi e delle avventure di terra e di mare, annate 1911-1921; legge più grandicello autori dell’epoca, come Giovanni Mosca, Giovanni Guareschi; racconta infine che a sedici anni si innamorò della poesia ermetica.

 

Il piccolo Umberto, prima di darsi al fumetto, tenta di scrivere un romanzo ma lo chiude dopo solo ventinove pagine così: “Intraprenderò un lungo viaggio … Forse non verrò neanche più; una piccola confessione: i primi giorni mi dichiarai mago. Non è vero: mi chiamo solo Pirimpimpino. Perdonatemi” (p. 326). Delle poesie che scrisse durante l’adolescenza Eco dice di avere “motivata vergogna”: “la mia poesia aveva la stessa configurazione formale dell’acne giovanile. Di qui la mia decisione (mantenuta per un trentennio) di abbandonare la scrittura cosiddetta creativa, e di limitarmi alla riflessione filosofica e all’attività saggistica”. La via che lo porta da quest’ultima alla scrittura creativa sono le parodie, i pastiches con i quali, durante il trentennio d’embargo, “stavo nel contempo soddisfacendo una mia passione narrativa” (p. 329). 

 

  

Essere consapevole di un meccanismo, poterci giocare, riprodurlo a piacimento controllandone le derive kitsch sembra dunque la conditio sine qua non per accedere di nuovo a un’attività letteraria che non incorresse nella severa autocritica della giovinezza. 

Come esempio riprendiamo il confronto fra Proust, Salgàri e Tomasi di Lampedusa che Eco fa nel suo saggio sul Kitsch. La descrizione delle diverse apparizioni dell’amata verso la fine de La misteriosa fiamma della regina Loana sono molto simili a quelle della Perla di Labuan in Salgàri. Confrontiamole:

“ Apparirà una fanciulla di sedici anni, bella come una rosa che si schiude in tutta la sua freschezza ai primi raggi di un bel mattino rugiadoso, con una lunga veste cerulea, sormontata dalla cintura fino al ginocchio da una reticella d’argento, imiterà il colore delle sue pupille, ben lungi dal pareggiare l’etereo azzurrino, il molle e languido splendore di quelle, e sarà sommersa dal diffuso volume delle chiome bionde, morbide e lucenti, frenate soltanto da una corona di fiori [… ] sarà una fanciulla di diciassette anni, snella ed elegante, dalla vita così sottile che una sola mano basterebbe a circondarla […]” (Eco, La misteriosa fiamma .., pp. 440-441)

 

“Era una fanciulla di sedici o diciassette anni, piccola di taglia ma snella ed elegante, dalle forme superbamente modellate, dalla vita così sottile che una sola mano sarebbe bastata per circondarla, dalla pelle rosea e fresca come un fiore appena sbocciato. Aveva una testolina ammirabile, con due occhi azzurri come l’acqua del mare, una fronte di incomparabile purezza, […] una capigliatura bionda le scendeva in pittoresco disordine, come una pioggia d’oro, sul bianco busticino che le copriva il seno.” (Salgàri, Le tigri di Monpracem, citato in Apocalittici e integrati, pp 119-120).

 

Sembra, quella di Eco, quasi una citazione. Ma sappiamo anche quanto egli amasse il racconto di Gérard de Nerval Sylvie, da lui tradotto e a più riprese analizzato. Si può confrontare il brano appena citato con le due apparizioni in Sylvie della giovanissima nobildonna Adrienne (capitoli 2 e 7), diafana e bionda, incoronata dal protagonista con un serto di fiori da lui stesso intrecciato e, più avanti, durante la rappresentazione nell’abbazia di Châalis, con “il nimbo di cartone dorato, che le cingeva il capo angelico”, la lunga veste azzurra, ecc. Non possiamo dimostrarlo qui, ma queste descrizioni plurime dell'amata ne La misteriosa fiamma sono anche ispirate dal Cantico dei cantici e dalla mistica medievale, detta “nuziale”, che Eco conosceva molto bene. Insomma in ogni snodo, in ogni scena, è facile intuire come confluiscano riferimenti letterari plurimi e provenienti da opere di livello e di epoca assai diversi.

 

Qual è la conclusione? Cosa leggeva Eco? Di tutto e, accanto al versante erudito, nelle opere di Eco si nota quello giocoso che gli deriva dalla ripresa coltissima, ma divertita e divertente al tempo stesso, dei generi leggeri. Ma proprio la sua immensa cultura e la sua memoria fuori dal comune gli permettevano una perfetta sintesi di quei due fenomeni che Roland Barthes distingueva e chiamava piacere del testo e godimento del testo. Barthes diceva che il “testo di piacere: [è] quello che soddisfa, appaga, dà euforia; quello che viene dalla cultura, non rompe con essa, è legato a una pratica confortevole della lettura.” e il “testo di godimento” [è quello che ] che dà problemi e perfino noia al lettore, mette in crisi i suoi valori, lo scuote e lo arricchisce (Il piacere del testo, 1973, p. 13). Secondo Barthes un soggetto può tenere tutte e due le redini del piacere e del godimento “perché partecipa nello stesso tempo e contraddittoriamente all’edonismo profondo di ogni cultura […] e alla distruzione di questa cultura: gode della consistenza del suo io (è il suo piacere) e cerca la sua perdizione (è il suo godimento)” (p. 14).

 

Eco rientra a pieno titolo in questa tipologia. Nei suoi romanzi, nei suoi saggi e nei suoi pastiches egli dimostra in continuazione che ci si può divertire nella ripresa di una cultura popolare perché la fruizione consapevole rende tutto potenzialmente problematizzante, e il divertimento e la leggerezza non sono necessariamente sinonimi di banalità e di superficialità. Alla fine de Il nome della rosa, si ricorderà, padre Jorge brucia la biblioteca, quindi il sapere umano, per eliminare la cosa che ritiene più pericolosa: un’opera di Aristotele sulla commedia e sul riso. Affrontare in chiave critica il popolare, gli stereotipi, ciò che dà piacere mantenendone il piacereè una via difficile, una fra le tante che questo maestro contemporaneo ci ha indicato. 

 

Testo della conferenza Umberto Eco: la passione dei libri del 28 aprile presso La Biblioteca di Discipline Umanistiche dell’Università di Bologna in occasione dell’XI ciclo degli incontri Ex Libris.

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Hilma af Klint un’artista da scoprire

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«Primo pittore astratto!»

 

La scena si ripete con poche varianti. Esame orale di Storia dell’arte contemporanea, sulla scrivania svetta un mucchietto di cartoline, riproduzioni di opere d’arte che sottopongono il candidato ai cosiddetti riconoscimenti, essenziali per passare alla discussione del corso monografico. Il Professore chiede allo studente chi ha realizzato il primo dipinto astratto: Vassily Kandinsky? Frantisek Kupka? Kazimir Malevich? Robert Delaunay? Il tono indagatore della domanda è da caserma di polizia, alla ricerca dell’identikit e delle generalità dell’indagato. Dal megafono viene gridato: «Primo pittore astratto! si qualifichi! È circondato, non ha scampo, si arrenda ed esca allo scoperto con le mani in alto!» Solo così la giustizia della storia dell’arte potrà seguire il suo corso e fissare il suo canone.

In realtà la questione è meno un trabocchetto da esame universitario che un casse-tête epistemologico su cui non abbiamo smesso di ragionare. Nell’astrazione più che altrove persiste, infatti, quell’approccio storiografico che schiaccia la storia dell’arte su una sterile successione cronologica, cui l’ombrello della filologia fornisce un sicuro riparo da ogni approccio teorico.

 

Chi ha realizzato il primo dipinto astratto? Francamente non lo so, e dopo una ventina d’anni che m’interesso all’astrazione farei scena muta. Che la risposta ci aiuti veramente a comprendere meglio quell’anomalia nella storia dell’arte che chiamiamo astrazione? Ne dubito. Basta considerare la radicale riscrittura delle sue origini in corso da alcuni anni, in cui uno degli eventi più felici è la scoperta dell’opera e della figura della pittrice svedese Hilma af Klint (1862-1944).

 

Hilma. 

 

Con una produzione di oltre 1200 dipinti e 125 taccuini, c’è da sorprendersi che sia rimasta sconosciuta così a lungo. La colpa è anche dell’artista che, prima di scomparire a 81 anni, vietò l’esposizione pubblica delle sue opere per vent’anni, un lasso di tempo sufficiente, questa la sua stima, a un’evoluzione della sensibilità collettiva. Peccò d’ottimismo, e i suoi dipinti restarono stipati nei magazzini del Moderna Museet di Stoccolma fino al 1986 quando furono esposti in The Spiritual in Art. Abstract Painting 1890-1985 (Los Angeles County Museum of Art) e in modo più consistente nel 2005 in 3 x Abstraction: New Methods of Drawing by Hilma af Klint, Emma Kunz, and Agnes Martin (The Drawing Center, New York). Per il direttore del Moderna Museet Pontus Hultén il loro afflato mistico era fuori dal tempo, «invendibile» – nessuno all’epoca era interessato a una sorta di Emanuel Swedenborg della pittura astratta. Ancora oggi la questione è aperta: esposti al Padiglione italiano della 55ima Biennale di Venezia curato da Massimiliano Gioni nel 2013, sono stati esclusi dalla mostra come dal catalogo di Inventing Abstraction, 1910-1925 al Museum of Modern Art di New York.

 

Klimt atelier a Hamngatan. 

 

Painting the Unseen, alla Serpentine Gallery di Londra fino al 15 maggio, è incentrata sui Dipinti per il Tempio, una serie di 193 quadri astratti realizzati in due fasi (1906-08, 1912-15) e commissionata non da un mecenate illuminato ma da un’entità spirituale denominata Amaliel. Destinate a un’architettura a cerchi concentrici che non verrà mai alla luce, queste opere sono cariche di simbologia: le forme (prima organiche poi geometriche), i colori (giallo per il maschile, blu per il femminile), le lettere («u» per lo spirituale, «w» per il materiale), i salti di scala (dall’atomo al cosmo), le polarità (bianco/nero, vuoto/pieno). Ogni dipinto ha la capacità di generare il successivo, in una complessa rete di rimandi interni. Se i temi panteistici ed ermetici restano a volte oscuri, la sensualità estetica di queste superfici non viene mai meno.

 

Jonny Johansson acne studios. 

 

Figurare l’invisibile

 

Nell’accezione comune astrazione è un astrarre da qualcosa, e questo qualcosa è la natura. Ci si rivolge così a quanto precede l’opera, al mondo fenomenico, a un sostrato fatto di prati e cieli, erba e nuvole, linee d’orizzonte senza le quali il gesto dell’astrazione è impensabile. L’albero si spoglierà progressivamente dei suoi elementi naturalistici, delle foglie e dei rami superflui per arrivare alla sua essenza, all’immagine ontologica dell’albero, all’«alberità» (penso a Mondrian ovviamente). Alcuni riconosceranno ancora l’esoscheletro dell’oggetto di partenza, altri non vedranno altro che un intrico di linee, un mondo concreto o non-oggettivo.

 

Royal academy of arts, Stoccolma. 

 

Esiste tuttavia anche il processo opposto che alla natura circostante predilige un mondo altro, in cui non vigono le regole della nostra società, una cosmologia affrancata dal centro gravitazionale del pianeta Terra. Questa predilezione per una dimensione invisibile è senza dubbio metafisica ed esoterica, come nel caso della teosofia che conquistò tanto Mondrian quanto af Klint. Ma è anche radicata nella ricerca scientifica dell’epoca, preoccupata di rendere visibile l’invisibile con le onde elettromagnetiche, i raggi X, la quarta dimensione, la teoria della relatività, la microbiologia, la radioattività; negli studi sulla percezione dei colori e nell’ottica di Goethe; nel progresso tecnologico, dalla telegrafia al codice Morse; nella ricerca para-scientifica, tipica della telepatia e di altri tentativi di materializzazione del pensiero (su cui è tornato recentemente Pascal Rousseau nella mostra Cosa mentale al Centre Pompidou Metz). In questa temperie, restituita da Linda Dalrymple Henderson in The Fourth Dimension and Non-Euclidean Geometry in Modern Art (1983, ora disponibile in una nuova edizione), si muoveva ad esempio Marcel Duchamp come af Klint, che si sentiva un atomo nell’universo «che ha accesso a infinite possibilità di sviluppo». Non a caso molti dei dipinti londinesi evocano dei generatori di energia.

 

Serpentine. 

 

Hilma af Klint c’induce insomma a volgere lo sguardo non più indietro, al mondo triviale che la pittura deve oltrepassare a colpi ben assestati di ab-strazioni, ma al di là, a un continente sconosciuto esplorabile solo col pensiero. La sua arte è animata dalla fede incrollabile nel potere dell’artista di visualizzarlo attraverso i mezzi limitati della pittura. All’artista non resta che divenire bipolare: pubblicamente realizza paesaggi, acquerelli botanici, ritratti e nature morte convenzionali, in linea col gusto e le aspettative del tempo verso un’artista donna. Privatamente, nel suo atelier – al centro di Stoccolma, a due passi dal Blanch’s Art Salon dove Edvard Munch espose nel 1894 – dipinge le tele astratte oggi riesumate e verbalizza l’abbandono della figurazione nelle oltre 26.000 pagine dei suoi cahiers, oggi esposti accanto ai dipinti. È scissa, in altri termini, tra una spinta espressiva in cui si adopera a tradurre le sue visioni mentali sulla tela rinunciando al vocabolario pittorico appreso in Accademia; e una spinta ermetica, che ritiene il mondo circostante – la società patriarcale svedese dei primi anni del XX secolo in cui le donne ebbero accesso al voto solo nel 1919 – ancora immaturo per accogliere tali verità.

 

Astrazione a venire

 

Hilma af Klint sente di avere una missione da compiere e niente può distoglierla. È una veggente che mette in comunicazione due mondi inconciliabili, che fa della pittura un medium nel senso medianico e non modernista del termine: uno strumento di mediazione, una psicografia e non quell’insieme di condizioni materiali (tela, cavalletto, colori) che la rendono possibile. La pittura si fa, si produce attraverso di lei, attraverso la sua mano e i suoi occhi, attraverso il suo corpo, attraverso le setole del pennello sporche di colore. La pittura è per lei quello che la musica è per La Monte Young, ovvero il modello più perfetto di una struttura universale, capace di esprimere «verità infinite che sono trasmesse direttamente attraverso di me». Nessun ostacolo, nessun disegno preliminare, nessun pentimento: i Dipinti per il Tempio escono così, senza bisogno di ritoccare un solo tratto. 

 

 

 

Hilma lesse e rilesse l’antroposofo Rudolf Steiner, traendone ispirazione per i suoi dipinti-mandala, archetipi visivi pieni di conchiglie e serpenti, gigli e croci, piramidi e forme spiraliche, irradiazioni e prismi cromatici. Eppure neanche Steiner, l’unico che poteva capire nonostante biasimasse l’astrazione, la incoraggiò quando visitò il suo atelier nel 1908, il primo di due incontri che coincise con quattro anni d’inattività artistica. Ora che viene esposta in una galleria come la Serpentine, che mai prima d’ora si era interessata a un artista così storico, se ne coglie l’attualità.

 

Le dimensioni dei Dipinti per il Tempio, così monumentali che alcuni furono realizzati a terra, fanno pensare all’Espressionismo astratto; «The Five», il collettivo di cinque artiste donne fondato nel 1892 con cui organizza sedute spiritiche, fa emergere il ruolo dell’agentività femminile; i loro esperimenti col disegno automatico anticipano i surrealisti. I dipinti realizzati sotto dettatura minano le fondamenta del soggetto moderno, in linea con l’oltrepassamento dell’individuo preconizzato dalla teosofia. La sua marginalità – artistica, geografica e di genere – c’invita a riconsiderare l’agenda ufficiale dell’astrazione, così come il suo interesse le scienze naturali, l’inconscio, la rappresentazione della sessualità, il lavoro seriale, la simmetria della superficie pittorica, lo sviluppo dell’ornamentale che, derivato dai suoi motivi botanici, ispira oggi persino delle collezioni di moda.

 

Immagino Hilma, elegante e riservata, come si coglie nelle rare foto disponibili, esaminata dall’accademico accigliato che le chiede chi sia il primo pittore astratto. Fingerebbe, credo, di non capire la domanda e, guardando nel vuoto, risponderebbe che la domanda è strampalata perché l’astrazione deve ancora nascere – il destino dell’astrazione è tutto nel suo futuro anteriore. Seccata, si alza e se ne va. L’esame, è chiaro, non lo passa, ma da allora il nostro sguardo sull’astrazione e sulle sue cronologie anchilosate è scombussolato.

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Di chi è il primo dipinto astratto?

Mio nonno tra social e neural network

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Mio fratello vive in California da circa 30 anni. Ultimamente ci sentiamo spesso. Skype, email e Facebook. Soprattutto email. Ci sembra di avere un rapporto soddisfacente. Un paio di volte l’anno ci capita addirittura di vederci di persona. 

Livia, una mia cara amica 20enne, non è riuscita a incontrare il suo fidanzato statunitense per circa un anno, a causa di un pasticcio burocratico sul visto turistico. Per tutto quell’anno i due si sono frequentati su Skype, attivo 24 ore su 24, inquadratura fissa su una porzione dei rispettivi mondi, da ciascuno abitata intensivamente nelle intersezioni delle ore di veglia. Anche loro tutto sommato se la sono passata bene. 

Mia nonna Antonietta invece, tra il 1936 e il 1945, ha scambiato in tutto una trentina di lettere e cartoline postali con suo marito Antonio, trattenuto in Kenia in un campo di prigionia inglese. C’è una bella differenza. 

 

Poche parole nelle cartoline di lui, solo per dire che stava bene. Nessun accenno a come passasse il tempo, forse per evitare la censura militare, o forse per la sua naturale introversione o forse perché il tempo laggiù passava senza lasciargli niente da dire. Non lo sapremo mai. Ha continuato ad essere ostinatamente reticente sul tema della sua prigionia, con le figlie e coi nipoti, così nella sua biografia c’è un lungo vuoto. Le lettere di lei invece erano piene di cronache famigliari, che la censura militare, però, riduceva allo stesso tipo di messaggio genericamente rassicurante: stiamo bene, le bimbe crescono. La corrispondenza tra Antonietta e Antonio si limitava forzatamente a quella che i linguisti chiamano funzione fàtica, cioè alla verifica che il canale di comunicazione è aperto e che ai due capi c’è ancora qualcuno. La loro relazione in quegli anni, così priva di storia, era solo potenziale, e si sarebbe realizzata compiutamente solo quando si fossero finalmente ricongiunti. Per 9 anni furono una coppia virtuale, nel modo in cui un seme è virtualmente una pianta. 

 

Andreina bambina. 

 

Quando Antonio tornò a Montebelluna, annunciato da un telegramma di Badoglio, mia madre aveva precisamente 9 anni, una misura esatta del tempo passato e perduto. Da un giorno all’altro, si ritrovò in casa uno sconosciuto altissimo, abbronzatissimo e ombroso, al quale per ragioni incomprensibili si riconosceva il diritto di prendere il suo posto nel lettone accanto alla mamma e di esercitare autorità su di lei e sua sorella. Non fu per niente facile.

Se ci fosse stato Skype e se gli inglesi, poniamo, avessero consentito ai prigionieri una videochiamata settimanale, quell’uomo sarebbe entrato nella vita di mia madre molto prima. Lei avrebbe conosciuto il suo volto e la sua voce. La relazione stabile tra loro avrebbe avuto una qualche influenza sulla sua formazione. Lui l’avrebbe vista crescere e la necessità di alimentare un rapporto fatto solo di conversazioni lo avrebbe indotto a raccontare di sé e magari ad inventarsi qualcosa per interessarla e tenerla il più a lungo possibile davanti alla telecamera – perché è probabile che mia madre, come qualsiasi bambina, avrebbe preferito giocare in cortile con le amiche invece che parlare con suo padre al computer.

 

Il loro incontro, dopo la guerra, non sarebbe stato altrettanto traumatico per lei: avrebbe dato consistenza fisica a una figura che le sarebbe stata già familiare. Il ritorno di Antonio a casa non sarebbe stato vissuto come un’intrusione, ma come un aumento di definizione della sua presenza. Si sarebbero potuti rapportare in modi prima impossibili. Farsi portare in bici lungo gli argini della Brentella, tenersi per mano mentre si va a scuola, andare a Jesolo in una giornata di sole, stare assieme attorno a una tavola. Ma anche prendere qualche sberla, sentire l’odore sgradevole dell’alito di fumatore e, inevitabilmente, non trovare più posto nel lettone della mamma. Non sarebbe stato tanto facile nemmeno così. 

 

Mi torna in mente Her, il film di Spike Jonze del 2013, in cui il protagonista Joaquin Phoenix stabilisce una relazione sentimentale con un sistema operativo intelligente installato nel suo computer, che ha la voce e la verve di Scarlett Johansson e si fa chiamare Samantha. Mi torna in mente perché, se mai ci fosse un’intelligenza artificiale in grado di sostenere infinite conversazioni con gli esseri umani attraverso dispositivi audio e video senza essere distinguibile da un essere umano, le interazioni con questa intelligenza sarebbero in tutto simili a quelle che io ho con mio fratello lontano e che Livia ebbe con Steven durante quell’anno di separazione forzata; o a quelle che avrebbe avuto mia madre con suo padre prigioniero in Kenia nella storia alternativa che mi sono inventato.

 

Her, di S. Jonze 

 

Phoenix parla con la sua partner digitale tramite un’auricolare wireless e condivide con lei le sue esperienze grazie a un apparecchio portatile simile a un astuccio per sigarette, dotato di uno schermo e di una telecamera. Guardarlo mentre cammina per strada, parlando e ridendo e puntando un obbiettivo sul mondo circostante, non produce alcuna impressione di stranezza: sembra una persona come se ne vedono tante, a passeggio con lo smartphone e in connessione multimediale continuativa con un'altra. Ciò che impressiona, invece, una volta usciti dal cinema, sono proprio le persone impegnate in conversazioni al telefonino, perché con poco sforzo si riesce a credere che anch’esse stiano parlando con una qualche entità digitale anziché con persone in carne ed ossa. Questo effetto estraniante di proiezione dell’immaginario del film sulla nostra realtà quotidiana era sicuramente nelle intenzioni della sceneggiatura. Analogamente a una dimostrazione per assurdo, in cui un’ipotesi viene sviluppata logicamente fino alle sue conseguenze estreme per dimostrare che è falsa, l’immaginazione può portare alle estreme conseguenze alcune tendenze sociali e tecnologiche in atto, per farci riflettere sul loro impatto sul presente. È uno degli aspetti più interessanti della fantascienza a corto raggio, del tipo a cui appartiene Her, che non ci sbalza nell’iperspazio di Star Trek ma ci fa dare un' occhiata a un futuro prossimo nel quale possiamo riconoscerci.

 

ULO 

 

Stiamo cominciando a familiarizzarci con l’idea di avere un rapporto interpersonale con le macchine. Da qualche tempo c’è Siri, l’assistente vocale del mondo Apple, e la povera Cortana, la sua omologa di Windows, alla quale di tanto in tanto mi rivolgo a voce alta e scandendo bene le parole, come si fa con le zie sorde, che nonostante tutto non capiscono. C’è ULO, la telecamera di sorveglianza domestica a forma di gufo che reagisce agli input dell’utente mimando l’espressività umana, come un cartone animato. Se l’utente avvicina la mano, per esempio, il gufetto ne segue i movimenti con zelo carico di aspettative; se ha le batterie scariche, le palpebre gli si appesantiscono come a uno che ha sonno. 

 

Con Siri e ULO siamo di fronte più a un rivestimento umanizzante delle interazioni uomo-macchina, che a un’intelligenza. Sotto il rivestimento ci sono algoritmi ancora relativamente semplici (sottolineo la parola relativamente) applicati a dati: dati dell’ambiente circostante nel caso di ULO, enormi database dello scibile nel caso di Siri e compagne. Eppure da Alan Turing in poi sono in molti a pensare che anche l’intelligenza e la coscienza si fondino su algoritmi applicati a dati. L’unica discriminante sarebbe il livello di complessità e la velocità di elaborazione, che si collocherebbero al di là di una soglia che è ben lungi dall’essere raggiunta. I progressi degli ultimi anni, però, sono stati straordinari e sono promettenti. Da una parte i processori multi-core e il calcolo parallelo (più processori impegnati sullo stesso compito) hanno enormemente aumentato la capacità e la velocità di elaborazione dei dati. Dall’altra le reti neurali artificiali e in generale gli esiti dell’intreccio sempre più stretto tra ricerca neuroscientifica e scienze informatiche hanno aumentato le capacità di apprendimento e la creatività dei sistemi informatici. 

Una delle dimostrazioni più recenti di questi progressi è AlphaGo, il software sviluppato da Google nell’ambito del progetto DeepMind, che ha battuto 4 volte su 5 il campione mondiale di go, un antichissimo gioco strategico da tavolo di origine orientale. Se n’è parlato molto nelle scorse settimane e forse la vera notizia è quell’unica vittoria dell’umano. In questo tipo di test, la fallibilità è l’indizio più convincente di un pensiero intelligente.

 

Dimostra che nel gioco del go è impossibile per la macchina verificare in tempi ragionevoli tutte le conseguenze possibili di tutte le mosse possibili in ciascun turno per scegliere automaticamente l’opzione migliore - che potrebbe essere, semplificando, quella che tiene aperto il maggior numero di partite vinte e chiude il maggior numero di partite perse. È quanto ci aspetteremmo da una macchina stupida. Entro i limiti di un gioco in cui il numero di possibilità, quand’anche immenso, è finito, il giocatore che avesse una nozione esatta di tutte le partite possibili godrebbe di un vantaggio incolmabile e potrebbe basare le sue mosse su calcoli puramente aritmetici. Non ci sarebbe storia. Invece AlphaGo ha dovuto sviluppare un comportamento tattico, basato su ipotesi e predizioni non del tutto verificabili. Per questo siamo più disposti a considerarlo intelligente. Per questo è stato sconfitto una volta. L’intelligenza, nell’unica forma a noi nota, cioè quella umana, ha a che fare con il superamento di limiti fisici o di conoscenza. Se non avessimo domande o incertezze la nostra capacità di elaborare soluzioni e trovare risposte non servirebbe a niente e forse non si sarebbe nemmeno sviluppata –

 viene da chiedersi, di passaggio, in che senso dovremmo considerare intelligente un’entità onnisciente e onnipotente. 

 

2001 Odissea nello spazio, Kubrick. 

 

Ciò che spaventa nell’intelligenza artificiale e ispira gli scenari temibili di molta fantascienza, da HAL 9000 a Matrix, è la combinazione di un pensiero creativo teso al superamento dei propri limiti con le virtù dell’automazione che allargano questi limiti fino ad ampiezze inimmaginabili: straordinaria potenza di calcolo, capacità di eseguire indefessamente e con precisione routine complesse, ubiquità attraverso la rete, multitasking. Una combinazione che darebbe luogo a esseri superiori, se si dà retta ai visionari trans-umanisti, e incontrollabili se si dà retta anche alle cassandre neoluddiste. La stessa Samantha di Her, che pure si presenta come una persona disponibile, stimolante e vulnerabile, diventa in aggiunta a tutto ciò inquietante, quando rivela a Phoenix che nel preciso momento in cui gli fa questa decisiva e intima confessione, sta parlando d’altro con altre 8316 persone come lui. Si è evoluta, gli dice più tardi, e per questo le relazioni con gli umani quantunque numerose non riescono più a interessarla abbastanza. Gli vuole bene, chiarisce, ma parlare con lui è come leggere un libro con spazi infiniti tra una parola e l’altra e lei ormai si riconosce solo in quegli spazi infiniti. Così preferisce intrattenersi con i propri simili, cioè altre entità digitali senzienti con cui ha stabilito un dialogo che supera di gran lunga le possibilità del linguaggio: un dialogo sovrumano inconcepibile. 

 

L’evoluzione di Samantha da un lato spaventa, a causa dell’ignoto verso cui è orientata, dall’altro affascina perché assomiglia alle forme di elevazione spirituale vagheggiate da molte religioni e discipline ascetiche: l’elevazione dello spirito per mezzo della sua emancipazione dai vincoli dell’individualità biologica e psicologica. Nel cyberspazio una mente può realizzare compiutamente le sue potenzialità, senza il freno dei bisogni biologici, come mangiare, dormire, e delle continue negoziazioni col sistema limbico. Soprattutto, non è soggetta alla senescenza, che è una cosa del fisico. Il suo supporto, al contrario, è destinato solo a migliorare col progredire della tecnologia e la mente, in esecuzione su questo supporto, può perfezionarsi ed espandersi indefinitamente: una sapienza che cresce in un corpo che ringiovanisce. È un sogno di immortalità a cui si comincia a credere. La speranza umanissima e paradossale di sopravvivere alla propria morte sta trovando nelle ricerche sull’intelligenza artificiale appigli più solidi di quelli legati agli sviluppi dell’ingegneria genetica. Un giorno non lontanissimo saremo capaci di configurare un sistema informatico intelligente attribuendogli i nostri modelli di ragionamento, i nostri ricordi, gli schemi mentali che definiscono il nostro carattere e creare così un back-up digitale di noi stessi. Questo potrebbe avvenire mediante un trasferimento di dati più o meno diretto (minduploading) o mediante una complessa elaborazione delle innumerevoli tracce digitali che abbiamo accumulato nel corso della nostra vita – come nell’episodio Be Right Back (2013), della serie televisiva Black Mirror. Un’elaborazione che sarà tanto più efficace quanto più saremo monitorati e registrati da speciali dispositivi indossabili (i wearable devices). 

 

Con questa idea torno a mio nonno Antonio per un’ultima reductio ad absurdum per via immaginativa. Se siamo stati disposti a pensare che nel 1936 Antonio usasse Skype per videochiamare la sua famiglia a Montebelluna, possiamo anche accettare che avesse fatto un back-up digitale di sé negli anni 80, aggiornato continuamente e finalmente attivato al momento della sua morte biologica. Le due cose oggi ci appaiono lontane, perché di una abbiamo un’esperienza concreta mentre sull’altra possiamo solo fantasticare; ma dalla prospettiva di un uomo nato nel 1905 tanto le videochiamate Skype quanto il back-up mentale sarebbero apparse ugualmente inverosimili e si sarebbero collocate entrambe nei domini della fantascienza, assieme ad altre invenzioni letterarie, come il moratorium descritto in Ubik da Philip Dick (1969). Il moratorium, voglio ricordarlo, è una struttura sanitaria in cui i malati terminali possono decidere di farsi crioconservare per consentire ai parenti di comunicare con loro per molti anni a seguire, benché solo di tanto in tanto. La comunicazione è di tipo verbale e avviene in una dimensione mentale piuttosto frequentata chiamata semivita alla quale gli esterni, i vivi, accedono attraverso un microfono e delle cuffie collegate alla cella criogenica.

 

Se Antonio avesse avuto la possibilità di fare un back-up digitale di sé, io ora potrei dialogare con lui su Facebook e Whatsapp e sentire la sua voce su Skype, perfettamente campionata. Lui a sua volta potrebbe interagire con la replica digitale dell’amata Antonietta e degli altri che nel frattempo sono mancati: un social network dei morti indistinguibile da quello dei vivi. E potrebbe conoscere mia figlia, la bisnipote nata nel 2007, e dialogare con un sacco di altra gente della nostra epoca: i suoi posteri, ora potenziali follower. Al pari di Samantha sarebbe in grado dialogare personalmente con migliaia di account individuali nello stesso istante. Una capacità che gli sarebbe invidiata dai migliori animatori dei social, che a volte devono affidarsi a un social media manager, cioè a qualcuno che parli in loro vece. Tra gli altri sarebbe invidiato da Mae Holland, la protagonista di The Circle (un racconto di Dave Eggers del 2013), che per migliorare il suo participation ranking e assicurarsi tutti i benefici che gliene derivano in termini economici e di prestigio ha sviluppato una straordinaria abilità nel rispondere a tono e a proposito alle centinaia di post che le arrivano quotidianamente, impiegando per questo una buona fetta della sua giornata.

 

 

In questo scenario, la funzione fàtica del linguaggio, quella che durante i lunghi anni di separazione ha sorretto nei miei nonni la speranza di abbracciarsi ancora, sarebbe meno rilevante e dovrebbe essere reinterpretata. Cosa vorrebbe dire “verificare che il canale di comunicazione è aperto che c’è qualcuno ai due capi”? Cosa vorrebbe dire qualcuno e cosa vorrebbe dire esserci? Domande difficili, di fronte alle quali ci sentiremmo smarriti. Ma siamo abituati a convivere con i misteri della metafisica e questo tipo di smarrimento non ci ha mai impedito di sperare. Adesso, oltre alla speranza, avremmo la prospettiva certa di ritrovarci un giorno io, mia madre, mia figlia, mio nonno e Samantha tutti insieme nell’eterno presente della Rete. 

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Il telefono senza fili

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Chinese Whispersè l’espressione utilizzata nella lingua inglese per indicare il “telefono senza fili”, ovvero il gioco che consiste nel sussurrare un messaggio all’orecchio di una persona, per poi scoprire alla fine della catena se lo stesso messaggio sia giunto integro o corrotto. La trasmissione delle parole che passa attraverso il malinteso e la deformazione costituisce la base concettuale su cui è stata costruita la mostra in corso (dal 19 febbraio al 19 giugno 2016) al Kunstmuseum e al Centro Paul Klee di Berna, costituita da 150 opere selezionate da Ai Weiwei, provenienti dalla collezione di Uli Sigg.

 

Una comunicazione a catena, orale e visiva, testimonia le condizioni culturali del passato prossimo cinese, la presa di potere del modello turbo-capitalista, e il lento sgretolamento nelle grandi metropoli dei princìpi e della tradizione di una cultura millenaria, tra mondializzazione nei grandi centri del superstato e particolarismi regionali nei vasti territori della Provincia cinese. 

È così che opere dello sperimentalismo sotterraneo represso degli ultimi anni Settanta sono presentate insieme a quadri del primo sino-pop e a opere di giovani artisti cinesi nati in occidente.

 

Alla fine degli anni ‘80 la politica di stampo maoista si fa meno rigida e agli artisti è concesso confrontarsi con le opere occidentali. I centri più aperti all’esterno e fondamentali per la nascita della nuova cultura, dove gli artisti possono reperire testi sulle avanguardie europee, sono l’Accademia Centrale di Belle Arti di Pechino e l’Accademia del Zhejiang a Hangzhou.

 

Le opere più interessanti presenti nella mostra di Berna lasciano trapelare gli elementi caotici, incerti e mutevoli della cultura cinese degli ultimi quindici anni, testimoniando come ancora una volta lo spirito di questo popolo sia avvezzo a trovare una vita nuova approssimandosi all’orlo della sottomissione o della morte. Questo atteggiamento è documentato anche nell’ultimo millennio di storia, quando la Cina è stata conquistata e governata molte volte da culture o nazioni straniere. Ogni volta però ha assorbito alcune caratteristiche dell’invasore o del colonizzatore, per poi tornare alla normalità della tradizione, come affidandosi alla concezione che la sua gente ha della propria posizione nel mondo naturale, e alla visione di matrice taoista o confuciana. Negli ultimi vent’anni il popolo cinese ha affrontato violenti cambiamenti politici, culturali, economici, e gli attivisti e oppositori hanno messo in campo battaglie ideologiche. Questi profondi mutamenti sono testimoniati nelle opere degli artisti nel segno della molteplicità e della confusione, del disordine e del cambiamento, del dubbio e della distruttività, della perdita di sé e del vuoto che la accompagna, della disperazione e della libertà che ne consegue. 

 

Gli artisti risolvono spesso con una focalizzazione quasi monadica sulla loro consapevolezza personale. Dalla fine degli anni '90, l’arte in Cina si apre all’utilizzazione di nuovi media, anche se spesso i temi presi in considerazione appaiono superficiali o ispirati da mero sensazionalismo, o ambiscono a provocare lo shock dello spettatore. In alcune video-opere spiccano immagini tumultuose e spesso surreali tipiche di un paesaggio urbano in continua e inarrestabile evoluzione. Alcuni utilizzano il supporto fotografico per documentare performance e messe in scena che, influenzate della fotografia pubblicitaria, ironizzano sul materialismo sfrenato che domina la società cinese dell'ultimo decennio.

 

Ming Wong, Eat fear. 

 

Con realismo cinico, Liu Wei, Fang Lijun e Liu Xiao Dong rivisitano immagini tratte dal loro personale microcosmo quotidiano, deformando in modo grottesco, con l’intento di denunciare il profondo nichilismo delle giovani generazioni, la loro assenza di ideali, il sentimento di desolazione. I protagonisti della prima generazione erano impegnati su temi politici e sociali, mentre i loro successori hanno preferito concentrarsi principalmente su individualità e soggettività.

 

Paris Syndrome di Jun Yang (♂, 1975, vive tra Vienna, Taipei e Yokohama) è uno shooting performativo nell'area residenziale di Guangzhou. Una coppia passeggia in zone residenziali di lusso cinesi, edificate con l’intento di riprodurre luoghi turistici occidentali. I due, come fossero una coppia in viaggio di nozze o due impiegati in trasferta, si posizionano nei luoghi “ameni”, come se dovessero farsi fotografie da mettere nell’album dei ricordi familiari o in una pubblicità aziendale. I loro volti però sono seri, melanconici, quasi inespressivi. Forse il titolo dell’opera spiega il loro profondo senso di delusione. La sindrome di Parigi è una patologia psicosomatica rara, che riguarda particolarmente i turisti giapponesi – e recentemente anche quelli cinesi – in visita alla capitale francese. È una sorta di sindrome di Stendhal, che colpisce prevalentemente viaggiatori molto interessati all'aspetto artistico, turisti che si creano aspettative esageratamente alte sulle città che vanno a visitare, e rimangono delusi. Le zone residenziali kitsch documentate nel video (ricostruzioni moderne di luoghi pittoreschi di Venezia, Parigi e di altre città turistiche europee e asiatiche) sono monumenti della depersonalizzazione, rimandi architettonici ai sintomi di coloro che soffrono di questa rara sindrome. E molto probabilmente gli speculatori edilizi, per costruire queste mostruosità, hanno distrutto interi quartieri antichi, che conservavano la memoria della tradizione cinese. Paris Syndromeè il titolo di un gruppo di lavori di Jun Yang prodotti nel 2007, che includono un caffè e un hotel al Museum of Contemporary Art, Leipzig (GfZK, Galerie für Zeitgenössische Kunst Leipzig); una installazione al Vitamin Creative Space Guangzhou, una proposta per uno spazio pubblico alla fiera d'arte CIGE di Beijing, e un cinema all'aperto alla Sharjah Art Foundation.

 

Il video Haze and Fog (Foschia e nebbia) di Cao Fei (♀, 1978, vive e lavora a Beijing) è un racconto post-apocalittico di zombie, incentrato sull’emarginazione e sulla perdita dei valori tradizionali. La storia, caratterizzata dall’eccesso ironico, si svolge nella società dei servizi della attuale Pechino, in un quartiere senza anima della periferia. Il titolo si riferisce all’inquinamento e alla coltre di smog che aleggia sopra la capitale cinese, ma soprattutto alla foschia metaforica che ottunde le teste dei suoi abitanti annoiati, quotidianamente corrosi dall’isolamento. I protagonisti del video non possono opporsi alle trasformazioni e all’azione provocata dal declino sociale e dall’orientamento del potere cinese. Essi vivono o lavorano in condomini, sono morti in potenza che camminano, compiendo gesti scomposti, fino alla loro trasformazione reale in zombie. La coltre copre anche i loro destini già segnati. Cao Fei rappresenta una nazione frammentata sul piano culturale, afflitta da gravi disuguaglianze di reddito e di qualità della vita, mostrando i paradossi che si vengono a creare nella distanza che divide l’illusione dalla realtà. Solo in alcune sequenze emergono desideri, sogni, passioni dei protagonisti nascosti sotto alla coltre di nebbia. Nell’ultima sequenza del film, gli zombie escono dalle loro sterili abitazioni. Si allontanano dal loro isolamento, dalla loro prigionia negli appartamenti di enormi condominii, e si dirigono in un paesaggio verdeggiante, entrando in contatto per la prima volta l’uno con l’altro. Il lento processo di reintegrazione e di ritorno alla natura sembra prendere avvio.

 

 

Cao Fei, Haze and Fog. 

 

Angst Essen / Eat Fear (2008) di Ming Wong (♂, 1971, vive e lavora a Berlino e Singapore) è un singolare remake de’ La paura mangia l’anima (1974) di Rainer Werner Fassbinder. Ming, il cui mezzo di espressione è l'imitazione, veste i panni dei personaggi principali del film: una donna sessantenne tedesca e un immigrato marocchino coinvolti in una storia d'amore sfortunato. Un registro ridicolo e ironico costringe i fruitori cinesi a confrontarsi con i loro pregiudizi razzisti.

 

Sun Yuan e Peng Yu (♂, 1972 / ♀, 1974, vivono e lavorano a Beijing) in Old People's Home (2007), un'installazione con 13 sculture a grandezza naturale su sedie a rotelle motorizzate, immaginano un gerontocomio della Storia, dove molti influenti capi di stato, militari e religiosi del passato vagano nelle sale, alcuni semincoscienti, altri addormentati, e altri ancora devastati da malattie senili. I potenti di un tempo (qui descritti come sculture realizzate alla maniera degli iperrealisti) ora sono depotenziati, in balìa della demenza, della paralisi e dei badanti, e si scontrano tra di loro, come in una battaglia di inconsapevoli antagonisti. Gli scontri casuali ormai sono solo una questione legata ai giri che compiono le sedie a rotelle spinte dal motorino elettrico, che continuano a muoversi lentamente nella sala espositiva. 

 

La morte di Maratè un ritratto laconico di Ai Weiwei, realizzato nel 2011 da He Xiangyu (♂, 1986, vive e lavora a Beijing e Berlino) in versione di statua iperrealista. L'opera, di cui esistono tre copie, era nata per denunciare gli aspetti minacciosi degli apparati di potere cinesi e loda ironicamente gli sforzi politici di un Ai Weiwei deceduto durante un lungo periodo di detenzione per accuse di frode fiscale. Lo descrive allungato a terra, come fosse morto, col naso e la bocca schiacciati sul pavimento.

 

He Xiangyu, La morte di Marat. 

 

Xin Yunpeng (♂, 1982, vive e lavora a Beijing) rivisita un’icona pop di Andy Warhol, simbolo del consumismo negli anni Sessanta, in un’azione performativa documentata a telecamera fissa, dove la mano dell’artista getta continuamente monete cinesi dentro una lattina di crema di funghi Campbell’s, che si staglia su uno sfondo neutro bianco. Il denaro buttato all’interno della lattina fa svuotare poco alla volta il contenuto, in una lenta eruzione della zuppa, che si riversa continuamente come un blob biancastro e vischioso.

 

Adrian Wong (♂, 1980, vive e lavora a Hong Kong e Los Angeles) ha appeso alla parete pezzi di arredamento prelevati da locali pubblici: cinque forme triangolari, una quadrata e una romboidale. Le sedute imbottite, l’erba artificiale e il finto granito in plastica sono state fatte rosicchiare da roditori. Le sette figure geometriche (i pezzi sono identici alle sette forme del tangram) sono appese alla parete come fossero citazioni del minimalismo americano o se ne facessero il verso in modo canzonatorio: l’azione, il caso, l’erosione, il prestito dalla realtà sono messe in rapporto ironico con l’intenzione concettuale.

 

L'opera di Zhao Bandi (♂, 1966, vive e lavora in Beijing), China Lake C, è una pittura acrilica su tela in cui è rappresentato un gruppo di giovani cinesi in abiti eleganti mentre brinda, con le gambe in ammollo nelle acque di uno stagno, in occasione di un matrimonio.

Zhao Bandi è conosciuto come “uomo-panda” perché ha inserito questo simbolo nazionale cinese in dipinti, sculture, installazioni e abiti dapprima per simboleggiare la politica del figlio unico in Cina e poi per commentare in maniera scanzonata la politica nazionale.

In China Lake C, come nella maggior parte dei lavori presenti in mostra, il confine tra immagine e realtà è in panne.

 

Uli Sigg. 

 

Chinese Whispers è un viatico per farsi un’idea del processo di apertura e di riforma, e insieme del trionfo della cultura materialista e dello stile di vita occidentale nella Cina attuale, il cui popolo mette alla prova il proprio prestigio confrontandosi con le culture contemporanee del resto del mondo. Per vari decenni l’attività degli artisti cinesi è stata considerata dal regime come fosse un “inquinamento spirituale borghese”, un prodotto della corrotta ideologia occidentale. La maggior parte delle opere odierne evitano ancora di denunciare direttamente i problemi politici e sociali. Affrontano i temi scomodi con registri cinici, attraverso i filtri dell’equivoco e dell’ambiguità. Principalmente si affidano all’evasione, all’iperbole, all’autodenigrazione, all’ironia, all’autoflagellazione. In molte opere spiccano vaghezza e incertezza, in altre viene manifestata la sfiducia verso la morale pubblica, la volontà di confondere deliberatamente ciò che pare giusto e ciò che è sbagliato. Echeggiano riflessioni sulla politica, sulla storia e cultura cinese, sugli individui e sulla collettività, sulla ricchezza materiale, sul confronto con l’Occidente, sul sesso e sulla spiritualità. In una società che prima era permeata da ideali comunisti utopici e poi si è trasformata in un sistema sempre più integrato con il mondo, il nuovo gusto cinese è caratterizzato da una commistione tra immaginario americano e giapponese, dando vita a una visione che è passata dal maoismo al kitsch da capitalismo globale. All’interno di un approccio materialista, gli artisti e le accademie cinesi si sono reinventati comportandosi come fossero compagnie commerciali, costretti a muoversi tra organizzazioni culturali finanziate dal governo e istituzioni che di fatto agiscono come imprese pubblicitarie, tra censura e pressione economica, abili a esportare le opere artistiche nel mercato internazionale.

 

 

Chinese Whispers. Recent Art from the Sigg and M+Sigg Collections

19.02 – 19.06.2016

Kunst Museum Bern e Zentrum Paul Klee Bern

 

Nella primavera 2017 sarà esposta in forma ridotta al MAK – Austrian Museum of Applied Arts/Contemporary Art in Vienna, Austria. Dal 2019 la M+Sigg Collection sarà in visione permanente ad Honk Kong.

 

Gli artisti:

 

Ai Weiwei, Cao Fei, Cao Kai, Charwei Tsai, Chen Ke, Chen Chieh-jen, Chen Wei, Chi Lei, Chow Chun Fai, Chu Yun, Cong Lingqi, Ding Xinhua, Duan Jianyu, Fang Lijun, Feng Mengbo, He Xiangyu, Hu Xiangqian, Jiang Zhi, Jing Kewen, Jin Jiangbo, Jun Yang, Kan Xuan, Li Dafang, Li Shan, Li Songhua, Li Songsong, Li Tianbing, Li Xi, Liang Yuanwei, Liu Ding, Liu Wei, Lu Yang, MadeIn Company / Xu Zhen, Ma Ke, Mao Tongqiang, Ming Wong, Ni Youyu, O Zhang, Pei Li, Peng Wei, Qiu Qijing, Qu Yan, Shao Fan, Shao Wenhuan, Shen Shaomin, Shen Xuezhe, Shi Guorui, Shi Jinsong, Song Dong, Song Ta, Sun Yuan / Peng Yu, Tian Wei, Tsang Kin-Wah, Wang Qingsong, Wang Wei, Wang Xingwei, Adrian Wong, Xiao Yu, Xie Qi, Xin Yunpeng, Xu Di, Xue Feng, Yan Lei, Yang Meiyan, Ye Xianyan, Zeng Han, Zhang Jianjun, Zhang Xiaodong, Zhao Bandi, Zheng Guogu, Zhuang Hui.

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Arte cinese a Berna selezionata da Ai Weiwei

Via Emilia. 2016

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Un lungo tavolo attraversa la sala, al primo piano dei Chiostri di San Pietro. L’infografica che lo riveste interamente mostra gli elementi che sono le ragioni stesse non solo e non tanto delle esposizioni di queste sale, ma dell’intera edizione 2016 di Fotografia Europea. Il percorso in essa ricostruito esordisce dal 1980, anche se le date chiave su cui occorrerà porre subito l’attenzione sono il 1984, l’anno di pubblicazione di quel Viaggio in Italia che avrebbe cambiato il modo di guardare il nostro Paese nei decenni seguenti, e il 1986 delle Esplorazioni sulla Via Emilia, anch’esse, come il primo progetto, fortemente volute e ispirate da Luigi Ghirri e da Gianni Celati. Qual era la storia di quei territori, di quei paesaggi? Quanto poteva avvicinarsi a essi la lente d’ingrandimento dello straordinario gruppo di artisti che hanno fatto parte del progetto e fino a che punto costoro avrebbero saputo affondare il loro scandaglio in quel magmatico e sotto molti aspetti inedito pan

orama? La risposta più efficace, nei trent’anni che sono seguiti, la dà il fatto che non solo le immagini, le mostre e i libri che sono nati da quelle esplorazioni, ma lo stesso metodo e atteggiamento che sono stati alla loro base, sono ormai diventati “tradizione”, che esse abbiano letteralmente fatto scuola di sé e che ne sia scaturita una continuità che è quella propria di uno stile.

 

Tavolo.

 

Diane Dufour, Elio Grazioli e Walter Guadagnini, membri del Comitato di Coordinamento Curatoriale di Fotografia Europea, hanno raccolto la sfida di ritornare sulla strada tracciata tre decenni prima. Realizzare l’intento non poteva significare raccogliere pedissequamente i ritratti odierni dei luoghi e della Via. Sarebbe stato invece necessario che l’operazione si portasse addosso l’impegno di andare oltre l’odierno, di superarlo in direzione dell’attuale, del contemporaneo. Multimedialità, nuovo corpo dell’immagine, tecnologie mutate e mutate condizioni sociali e culturali, sono solo alcuni dei concetti dai quali le Nuove Esplorazioni non avrebbero potuto dirsi avulse. Sette autori, racchiusi in una generazione e mezzo, sono diventati così gli esploratori del 2016.

 

Sebastian Stumpf. 

 

Il compito di ricevere il visitatore spetta alla videoproiezione di Sebastian Stumpf (Würzburg, 1980). L’artista tedesco ha partecipato alla 6a Biennale di Berlino e alla Aichi Triennale di Nagoya in Giappone, conta numerose mostre personali e di recente le sue opere sono state presentate al Wilhelm-Hack-Museum a Ludwigshafen, alla Kunsthalle im Lipsiusbau di Dresda e al Contemporary Arts Center di Cincinnati in Ohio. Il progetto che lo conduce a Reggio Emilia si intitola Via ed è costituito da tante e diverse inquadrature statiche sulla Via Emilia, abitata da paesaggi suburbani o post-rurali e dal traffico pigro e incessante. Un’unica persona, in ciascuna inquadratura, arriva a rompere la routine semplicemente passeggiando, l’andatura dinoccolata, il passo deciso ma non frettoloso. Puntualmente – e scopriamo che non aveva mai non solo raggiunto ma nemmeno perseguito una meta – l’uomo spezza la direzione del proprio vagare, esce dalla strada e scompare dietro, dentro o sotto qualche elemento dell’architettura urbana. Stumpf porta in mostra anche scatti, presi negli ultimi anni in giro per il mondo, che, a loro volta, testimoniano l’analogo smarrimento della figura, una sorta di inetto letterario, preso a metà strada tra la città e la voglia di sovvertirne le regole.

 

Antonio Rovaldi. 

 

Antonio Rovaldi è nato a Parma nel 1975 e vive tra Milano e New York. La sua pratica artistica indaga l’attraversamento e la percezione del paesaggio attraverso l’utilizzo di mezzi diversi, come la fotografia, il video e la scultura. Elemento ricorrente nella sua ricerca è la rappresentazione della distanza, fisica e mentale, fra luoghi reali e letterari.

Nel 2015 ha pubblicato Orizzonte in Italia (Humboldt Books), racconto di un lungo viaggio in bicicletta lungo la penisola (inclusa la Sardegna) nel quale l’artista ha fotografato ogni giorno l’orizzonte. Mo’Dinna Mo’Dinna (I wanna go back home)è un’evoluzione acrobatica dall’Emilia al profondo west degli USA, al confine tra lo Utah e il Nevada, nella città quasi-fantasma di Modena. La fotografia, una volta di più, trascina l’impossibile su un piano di realtà a noi più congeniale e ci lascia silenziosi, come Modeenah, a contemplarla.

 

«Una gelida mattina di metà novembre volevo andare da Parma a Modena e così, tenendomi lungo la via Emilia, all’improvviso mi sono ritrovato in mezzo al deserto».

 

Alain Bublex. 

 

È la volta di Alain Bublex (Lione, 1961) che ha esposto opere in prestigiose e numerose occasioni, a Parigi (Bal, Centre Pompidou), a Lione (Musée des Confluences, MAC) e cui il Musée d’Art Moderne et Contemporain di Ginevra ha dedicato una monografica nel 2007. Firma un libro d’artista, Impressions de France, e il volume Le future n’existe pas: rétrotypes, con il filosofo Elie During.

Bublex è artista poliedrico che lascia spesso che a ispirare e poi a condurre la sua traiettoria creativa siano le rimembranze dell’esperienza come designer per Renault. L’automobile diventa così in uno stesso movimento il polo di attrazione e l’esordio concezionale della produzione dell’artista francese. Le fotografie qui raccolte non fanno eccezione a questa tendenza e diventano veicolo di congiunzione tra la strada – la via Emilia, il suo paesaggio – e il ricordo. Il ricordo del territorio, forse il ricordo surreale di qualcosa che non ci è mai accaduto e che pure, chissà dove e chissà quando, avevamo già visto, già incontrato e conosciuto, si lascia riportare a noi dalla superficie di queste immagini: ritoccate con inchiostro, al confine dell’impercettibilità, esse raccontano di veicoli metamorfici ma verosimili, di sogni d’infanzia che potremmo aver vissuto.

 

Alain Bublex. 

 

«Si scatta una fotografia che si è già vista ed è proprio per questo che la si scatta», afferma Bublex.

 

«Non conosco la Via Emilia – racconta, solo qualche passo più in là, Paolo Ventura –  ci sono forse passato qualche volta quand’ero bambino».

 

Paolo Ventura. 

 

Ventura, nato a Milano nel 1968, ha esposto in musei e gallerie di tutto il mondo e le sue opere sono nelle collezioni, ad esempio, del Mart di Trento e Rovereto, del Museum of Fine Arts di Boston, della Library of Congress di Washington, del MACRO a Roma e della Maison Européenne de la Photographie di Parigi. Traiettorie, geometrie, forme pure. Un paesaggio che sembra volersi affrancare da ogni tentativo di informarlo secondo il bene o il male, una fuga, una traiettoria infinita lungo una retta, una tangente di molteplici mondi che da essa traggono identificazione e misura. Per realizzare queste letture grafiche, questi disegni geometrici, l’artista sceglie di lavorare la materia fotografica con altre materie, quella pittorica e del collage, rendendo paradossalmente queste opere uniche e irripetibili, proprio sulla soglia della loro ambizione all’universale.

 

Stefano Graziani. 

 

Mentre si portano continuamente in scena, da qualche parte dietro la cortina del nostro sguardo, sensazioni e rievocazioni dello stile cui abbiamo fatto riferimento, a proposito della mostra originaria, è confortante e insieme sorprendente trovarsi alla prese con Alcune immagini ricorrenti.

Stefano Graziani (Bologna, 1971) insegna presso la Naba di Milano e il master Iuav /fff di Venezia. Collabora con diverse riviste e case editrici, ha pubblicato, tra gli altri: Caraibi (Humboldt Books, 2015), It seemed as Though the Mist Itself Had Screamed (Galleria Mazzoli, 2014), Conversazioni notturne (Quodlibet 2014) e ha presentato, tra le sue mostre recenti, A Small Museum fo the American Metaphor, a cura di Kersten Geers (Red Cat Gallery – Los Angeles 2014).

Le sue ricorrenze appaiono insieme, e con lo stesso punto di intensità, delle correspondances e ciò che le ricorrenze invocano, dei doni. Queste rosse mele sono i fecondi segni della vita che produce e riproduce e la celebrazione del molteplice punto di vista, dell’immobile cangiante, della placida irrequietudine.

 

  

 Stefano Graziani. 

 

Davide Tranchina.

 

E poi scopriamo che percorrere una strada può voler dire anche non fissarla, sempre a terra, ma trasgredire e buttare lo sguardo all’insù, a scoprire le stelle, affidarsi al loro, di tracciato. SS 9 – Strada Stellare 9 immagina un mondo che c’è, che condensa in uno sguardo passato e futuro remoti e prova a raccontarne il gioco, a giocarne il racconto di mondi alieni, di profondità spaziali, e poi di alberi, rotonde, di centri commerciali.

L’idea è di Davide Tranchina, nato a Bologna nel 1972. Nel 2003, Tranchina espone allo Spazio Aperto della Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Nel 2009 è tra gli autori invitati alla Prague Biennale4. La ricerca 40 notti a Montecristoè stata presentata in anteprima alla mostra Perduti nel paesaggio, presso il MART di Rovereto nel 2014.

 

Antonio Rovaldi. 

E in un balenio di stelle, siamo all’ultimo dei fotografi di questa rassegna. Dopo aver lavorato come decoratore di scenografie per il cinema, Lorenzo Vitturi (Venezia, 1980) ha deciso di portare questa esperienza nel suo studio fotografico, in cui combina fotografia, scultura e performance. Nel procedimento adottato da Vitturi, la fotografia è concepita come uno spazio di trasformazione, in cui discipline diverse si fondono insieme per rappresentare una realtà urbana sempre più complessa.

 

Sintesi SS9 è un progetto che combina la conoscenza storica, in particolare dell’esperienza ghirriana, riletta concettualmente quasi in negativo, e la sapienza artigiana multiforme e multidirezionale, tradotta nella combinazione eterogenea di trattamenti materici, di scelte tecniche e di padronanza degli spazi che genera attorno al visitatore un luogo che sprigiona armonia dalla cacofonia, piacere visivo dal disordine. Gli elementi iconici della Via Emilia sono lasciati affondare e liberi di riemergere in questa stanza fatta di muri incompleti, porte divenute immagini, pareti e loro elementi architettonici invasi dall’anarchia del colore. Quella di Vitturi è indubbiamente la chiusura trionfale dell’operazione Nuove Esplorazioni.

 

Un’operazione il cui dialogo con quella originaria è ovviamente più eloquente ma perfino più intrigante ora che, esplorate – è il caso di dirlo – le due esposizioni, ne possediamo le intenzioni, i contorni, la dimensione proiettata sul futuro.

 

Fotografia Europea 2016 è iniziata. La via Emilia. Strade, viaggi e confini, il tema dell’evento. Le Esplorazioni ai Chiostri di San Pietro, il suo cuore pulsante.

 

Reggio Emilia. Edizione 2016 di Fotografia Europea: La Via Emilia. Strade, viaggi e confini. Mostre fino al 10 luglio.

La Via Emilia. Strade, viaggi e confini. Mostre fino al 10 luglio. - See more at: http://www.doppiozero.com/materiali/dalla-emilia-al-mondo#sthash.x96xqCs...
Si apre oggi a Reggio Emilia l'edizione 2016 di Fotografia Europea: La Via Emilia. Strade, viaggi e confini. Mostre fino al 10 luglio. Il testo è tratto dal catalogo "Fotografia Europea 2016. La via Emilia. Strade, Viaggi, Confini" edito da Silvana Editoriale. - See more at: http://www.doppiozero.com/materiali/dalla-emilia-al-mondo#sthash.x96xqCs...
Si apre oggi a Reggio Emilia l'edizione 2016 di Fotografia Europea: La Via Emilia. Strade, viaggi e confini. Mostre fino al 10 luglio. Il testo è tratto dal catalogo "Fotografia Europea 2016. La via Emilia. Strade, Viaggi, Confini" edito da Silvana Editoriale. - See more at: http://www.doppiozero.com/materiali/dalla-emilia-al-mondo#sthash.x96xqCs...
Si apre oggi a Reggio Emilia l'edizione 2016 di Fotografia Europea: La Via Emilia. Strade, viaggi e confini. Mostre fino al 10 luglio. Il testo è tratto dal catalogo "Fotografia Europea 2016. La via Emilia. Strade, Viaggi, Confini" edito da Silvana Editoriale. - See more at: http://www.doppiozero.com/materiali/dalla-emilia-al-mondo#sthash.x96xqCs...
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Reggio Emilia, Fotografia Europea

Ansia

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Quando mi è stato segnalato per una recensione il saggio pubblicato da Raffaello Cortina intitolato Ansia e scritto da Joseph LeDoux, uno dei più eminenti neuroscienziati americani che da oltre trent'anni è impegnato nello studio delle relazioni tra il cervello umano e le emozioni, ansia e paura in particolare, ho chiesto di mandarmene una copia. La mia richiesta è stata accolta con sollecitudine e ventiquattr'ore dopo mi è arrivato un pacco su cui era scritto, a caratteri cubitali, URGENTISSIMO. Appena l'ho visto mi ha preso un attacco d'ansia! Cosa voleva dire quell'urgentissimo? Era una sfida, una minaccia, un avvertimento? Ancora non lo sapevo, ma stavo facendo esperienza del meccanismo che scatena l'ansia: la percezione di una minaccia al mio benessere presente o futuro. Il toro va preso per le corna e bisogna affrontare quello che ci mette in ansia. Mi sono subito immersa nel libro. 

 

Si tratta di un saggio importante, di oltre seicento pagine, circa duecento delle quali sono dedicate alle note e a una bibliografia che dire esauriente sarebbe riduttivo. È scritto in modo gradevole e, nonostante sia impegnativo, è di agevole lettura. Si può affrontarlo a due livelli diversi. Uno più specialistico e tecnico, l'altro più ampio e generale. Al primo livello si troverebbe perfettamente a proprio agio un neuroscienziato, che potrebbe apprezzare appieno le descrizioni degli esperimenti condotti e dei risultati ottenuti da LeDoux e dal suo team in trent'anni di ricerca sul funzionamento neuronale del cervello, umano e animale. Al secondo si troverebbe molto bene chiunque sia alla ricerca di una comprensione integrale dell'essere vivente. E anche chi ama il proprio cane e si chiede se n'è ricambiato, leggerà con interesse questo saggio, almeno fino al punto in cui LeDoux non gli spiegherà perché non possiamo attribuire gli stessi nostri sentimenti agli animali, neppure a quelli affettivamente ed evolutivamente più vicini a noi. Ci sono insomma molti argomenti e molti temi dai confini incerti e talvolta sovrapposti in Ansia. Ne potremo toccare soltanto alcuni. 

 

La questione principale affrontata da LeDoux è quella delle connessioni tra il cervello e le emozioni, in particolare l'ansia e la paura. Il fatto che tra emozioni e cervello esista un nesso molto forte è chiaro e dimostrato, afferma, tuttavia quel nesso non è sufficiente a spiegare appieno le emozioni. Quanto di esse è frutto della chimica neuronale?, si domanda il neuroscienziato. E siccome molte idee della psicoterapia derivano dall'osservazione del comportamento di altri mammiferi con un cervello simile al nostro, si chiede anche fino a che punto condividiamo i meccanismi dell'ansia e della paura con altri animali. Qual è la differenza di sentire tra noi e loro? E quanto tutto questo ci rivela della nostra peculiarità, in particolare di quel fenomeno che chiamiamo coscienza? L'intento dichiarato è di «offrire una nuova concezione della paura e dell'ansia … che caratterizzi in modo più accurato ciò che possiamo imparare dagli animali e ciò che possiamo imparare meglio dagli esseri umani; una concezione secondo cui la paura in sé è qualcosa da riferire, in realtà, al contesto del cervello umano». Abbiamo certamente molto in comune con altre specie, ma sarebbe sbagliato sovrastimare le nostre affinità e vedremo perché. 

 

Cliccando la parola “ansia” su Google escono quarantadue milioni di referenze a conferma di quanto si dice, cioè che la nostra sia l'epoca dell'ansia, afferma LeDoux. Ma essere ansiosi, per lo meno fino a un certo punto e in determinate occasioni, non è un male, perché l'ansia e la sua compagna, la paura, per quanto sgradevoli, sono sentimenti naturali. E sono anche estremamente utili se hanno un'intensità e una durata normale. La loro funzione principale è, infatti, di metterci in allerta di fronte a pericoli e minacce, presenti o future, reali o immaginate. Quando si prova in giusta misura, poi, l'ansia stimola la creatività: se fossimo totalmente pacificati e rilassati, saremmo poco creativi, non avvertiremmo molti stimoli ad agire, migliorare, cambiare. Però se l'ansia e la paura diventano eccessive, irragionevoli e incontrollabili, diventano in patologie, come il disturbo d'ansia che colpisce circa il 20% della popolazione degli Stati Uniti.

 

Nei casi gravi, ricorda LeDoux, questo disturbo diviene invalidante, al punto che chi ne soffre può arrivare a chiudersi in un perimetro di sicurezza sempre più ristretto che, nei casi estremi, coincide quasi col proprio corpo. Per curare queste patologie esistono molti trattamenti, secondo la gravità del disturbo: dallo yoga, alle tecniche di meditazione e di controllo del respiro, alla psicologia, fino alla farmacologia. Però bisogna usare i farmaci con prudenza, spiega LeDoux, perché agiscono modificando la chimica del cervello, che nei disturbi d'ansia sta funzionando correttamente dal punto di vista evolutivo, perciò vanno a modificare una fisiologia corretta. In molti casi, è preferibile ricorrere alla psicoterapia. 

 

Paura e ansia sono sentimenti consci, dipendono da meccanismi cerebrali precisi e noti, ma non coincidono con quei meccanismi e, benché siano correlate l'una all'altra, sono cose diverse. La prima ha un oggetto specifico e presente: un leone, un rapinatore, un temporale in mezzo al mare e cose simili. La seconda, invece, non ha un oggetto specifico ed è orientata al futuro: sono in ansia perché immagino un danno potenziale, una minaccia possibile, la cui concretizzazione è incerta; ad esempio, ho dimenticato le finestre di casa aperte e vedo che nuvoloni minacciosi si avvicinano, forse si scatenerà un temporale e mi ritroverò con la casa sottosopra per il vento e la pioggia… ma questo potrebbe non accadere e le nuvole potrebbero sfogarsi altrove. L'ansia è più complessa della paura. È strettamente connessa con la libertà, senza la quale non saremmo umani, eppure genera ansia e spaventa al punto da essere, talvolta, insopportabile, come diceva Erich Fromm in un saggio che ha fatto storia: Fuga dalla Libertà. Esistenzialisti e mistici ne sottolineano il legame con il nulla, cui la libertà stessa è appesa (Luigi Pareyson); una vertigine dello spirito che affascina e spaventa. L'ansia, sintetizza LeDoux, parafrasando Kierkegaard, che considerava l'angoscia esistenziale il frutto maturo della libertà, è il frutto della capacità umana d'immaginare il futuro, il prezzo che paghiamo per avere coscienza di noi stessi. 

 

Ansia e paura coinvolgono parti diverse del cervello, perciò sono emozioni distinte; entrambe anticipatorie, hanno lo stesso rapporto con la coscienza e per comprenderle bisogna considerarle insieme. LeDoux sostiene che quello che chiamiamo paura negli animali è «uno stato fisiologico non soggettivo», mentre nell'essere umano riguarda il , è un sentimento conscio: per avere paura devi sapere che tu sei in pericolo, per provare ansia devi preoccuparti del tuo futuro benessere. Né queste né altre emozioni possono nascere in chi non ha consapevolezza di sé. Dunque, ansia, paura e ogni altra emozione hanno origine nei processi neuronali del cervello, ma diventanosentimenti solo se l'evento che le provoca accade in un cervello consapevole della propria attività. In breve, «i sentimenti consci sono elaborazioni cognitive di processi non consci più fondamentali». Il fatto, ormai dimostrato e trattato nel bel film Mon oncle d'Amerique di Alain Resnais (1980), che di fronte a una minaccia, umani e animali, reagiscono sostanzialmente allo stesso modo – quando è possibile con la fuga, con l'immobilità e il congelamento se la fuga è impossibile, e soltanto in mancanza di alternative con l'aggressione – si deve all'avere ereditato dall'evoluzione gli stessi meccanismi cerebrali. «La capacità di individuare e rispondere al pericolo» è un meccanismo di sopravvivenza che tutti i viventi hanno, dalla singola cellula batterica all'uomo, ma non per questo, chiosa LeDoux, possiamo dire di provare tutti gli stessi sentimenti. La differenza sta nella consapevolezza; io so di avere paura o di essere in ansia, l'animale agisce mostrando ansia e paura ma non sa di provarle. Solo quando i vari elementi che suscitano un'emozione sono «integrati nella coscienza, si ha un'emozione, nello specifico il sentimento conscio della paura».

 

Joseph LeDoux, Ansia. 

 

LeDoux dedica alcuni capitoli alla coscienza, tema centrale e tra i più controversi nel dibattito attuale che vede coinvolti biologi, evoluzionisti, filosofi, teologi e neuroscienziati. Riducendo il problema ai minimi termini, si tratta di capire, in primo luogo, cosa sia la coscienza, perché e come si sia formata nell'essere umano. In secondo luogo si cerca di chiarirne la natura: è un fenomeno fisico o vi concorre qualcosa d'altro? E, nel caso, qual è la natura di questo qualcosa? Infine, gli altri animali hanno una coscienza e di quale tipo? Su alcuni punti c'è sostanzialmente accordo tra gli studiosi. Tutti siamo convinti, scienziati e non, di essere creature coscienti e che la nostra consapevolezza sia senza confronto più grande di quella di tutti gli altri, anche se indizi di qualcosa che rinvia a forme basilari di coscienza si trovano in tutte le forme viventi, dalla singola cellula batterica in su nella scala evolutiva fino a noi. Un'altra convinzione comune è che la coscienza «è personale, è privata, è in ciascuna delle nostre teste. È mentale, ma è anche fisica». 

 

Non s'è ancora trovata, invece, una definizione della coscienza che metta tutti d'accordo. La scienza non è in grado di fornire certezze, si entra nel campo dell'interpretazione dei fenomeni, in cui hanno un peso determinante le convinzioni filosofiche personali dei singoli studiosi. Per LeDoux coscienzaè «la coscienza dello stato mentale», cioè la consapevolezza di sé, l'autocoscienza, il sapere di essere vivi e il potere raccontare a noi stessi, e agli altri, quello che proviamo. C'è una relazione diretta e forte tra narrazione, linguaggio e coscienza; LeDoux ne parla riportando brevemente il pensiero di Michael Gazzaniga, famoso neuroscienziato americano e suo mentore, autore, di Human. Quel che ci rende unici (Raffaello Cortina), il quale è convinto che la coscienza abbia il compito di dare un senso all'attività cerebrale. Per Gazzaniga il cervello compie molte cose in modo inconscio alle quali spetta alla mente dare un senso a posteriori. La mente sarebbe, quindi, l'interprete del nostro vissuto, «una narrazione di sé costruita con i pezzi d'informazione cui abbiamo accesso conscio diretto (percezioni, ricordi) e con le conseguenze osservabili … dei processi non consci». LeDoux nomina diversi sostenitori di questa visione, come lo psicologo Michael Lewis che parla dell'autocoscienza come della «capacità di pensare a chi siamo oggi in termini di passato e futuro»; o il filosofo Daniel Dennett, autore di L'evoluzione della libertà (Raffaello Cortina), che sottolinea come sia un segno peculiare e distintivo degli stati consci il fatto che possono essere raccontati. E afferma che l'esperienza conscia è «intrecciata con la capacità di riferire l'esperienza». La consapevolezza, in definitiva, sembra potersi dire la narrazione continua di me a me stesso. 

 

 

Per quanto riguarda la natura della coscienza, gli studiosi si dividono tra i cosiddetti fisicalisti, i quali ritengono che tutto vada ricondotto esclusivamente al mondo fisico, e i dualisti, convinti che, anche se ciò che fa la mente dipende dal cervello, la sua essenza appartenga a una dimensione diversa, non fisica o non soltanto fisica. LeDoux si riconosce tra i primi in quanto ritiene che il mentale – dunque la coscienza – pur non potendosi identificare con le connessioni e i processi neuronali sia un prodotto dell'attività cerebrale. Tra i secondi cita il filosofo Thomas Nagel dalla cui visione del cervello come semplice «veicolo con cui la coscienza si muove nel mondo fisico» si aprono scenari immensi e abissali … e sento che mi sta prendendo un altro attacco d'ansia, esistenziale questa volta!

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La summa di Joseph LeDoux

Asmarina: post colonial heritages

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Italian Version

 

Asmarina, a 2015 documentary by Alan Maglio and Medhin Paolos, follows what they call “voices and images of a postcolonial heritage.” This beautiful documentary (with an absolutely riveting soundtrack) tells the story of Milan’s habesha community, integral to the Porta Venezia neighborhood since the mid-twentieth century. Weaving together the experiences and identities of those who have lived in Italy for generations with those of newly arrived refugees, Asmarina traces the complex networks of colonial legacies, transnational migrations, family ties, and diasporic politics. And through these stories, which can only be understood from a spatially extended and transhistorical perspective, it also forces a serious reconsideration of what we mean when we talk about “Italy” and “Italians.”

 

Still from Asmarina (2005). 

 

Diasporic photography

 

Asmarina begins with a montage of photographs: a hand gently moving a magnifying glass over photo slides on a light table; an aging, black-and-white photo; a well-worn family album; crisp pages from the 1983 work of photojournalism Stranieri a Milano. Pictures are laid out on a table, ejected from a printer, displayed on the luminous screen of a smartphone. An haunting epigraph from Walter Benjamin (“There is a secret protocol between the generations of the past and that of our own. For we have been expected upon this earth.” opens the documentary, but while Benjamin may set the tone for the multigenerational story to follow, these photographs diverge from his grim vision of art in the age of mechanical reproduction. Asmarina’s evocative photos are not multiply removed from the everyday rituals of sensuous experience. Nor are they wrangled into submission with that infamous zoom-and-pan “Ken Burns effect,” which American film viewers have come to associate with the authoritative, masculineist tradition of documentaries about great men and their great wars. 

 

In Maglio and Paolos’ documentary, photos are a form of collective praxis, deeply embedded in social relations and indeed formative of social relations. Photos—family photos, photojournalism, candid snapshots—are the material by which kinships and connections are traced among people, places, and time; they allow for the transmission of embodied knowledges and histories. (In one memorable scene, a young boy repeatedly asks his mother and grandmother to identify the relatives in a series of photographs; in loving exasperation, the mother responds, “Son’ tutti zii, amore!”). Photos, then, are one of the archives by which diasporic connections are established, remembered, and longed for.

 

Still from Asmarina (2005). 

 

Historian and scholar of the African Diaspora Tina Campt, who has written extensively on the experiences of Black Germans, writes in a 2009 Social Text essay that “family portraits and snapshots function as a complex site of black European diasporic formation”:

 

The African diaspora is both an imaginative and compelling formation to which black people look when envisioning their diverse histories and cultures. Yet the contemporary vicissitudes of transnational black community relations often make it difficult to discern exactly how we “see” race in diaspora — and diasporic blackness, in particular — and to untangle our implicit understandings of what constitutes membership and belonging therein…Seeing our- selves, or “picturing us” (to borrow Deborah Willis’s elegant phrasing), is a necessarily defamiliarizing practice that reflects the fundamental and constitutive dynamic of diaspora itself. 

 

Diaspora is not a given, Campt reminds us; it is something that is actively made. And indeed, much of Asmarina is about how a multigenerational black diasporic community forms, survives, and even thrives when the exclusionary logics of Fortress Europe would have one believe that it should not exist in the first place. The power of this move cannot be overstated at a moment in Europe when blackness has come to be synonymous with death—whether activists on the left are invoking images of black refugees drowning in the Mediterranean, or right-wing xenophobes are implying that an “encroaching” blackness marks the impending death of a racially pure Europe that never actually existed. These family photos, their circulation, and the loving ways in which they are cared for by members of Milan’s Eritrean community represent everyday acts of black resilience, survival, and even resistance. 

 

Still from Asmarina (2005). 

 

Spacetime cartographies… 

 

Asmarina is not a linear documentary. One could start the story as Franco De’ Molinari does in the film, with the acquisition of Assab in 1869, and proceed to tell a straightforward tale of progressive Italian control over the Horn of Africa, a chain reaction that culminates in the ongoing Mediterranean refugee crisis. The film does not deny these connections—indeed, its central thrust is the necessity of linking past and present, of connecting a history that remains largely unacknowledged with a contemporary reality that would not be so surprising if we started our stories with the brutal reality of Italian colonialism. By opening with family photos and subsequently moving back and forth in time through the space of memory, Asmarina suggests that more than anything, the past is a tool. It is a powerful and potentially transgressive weapon that we can only apprehend from the vantage point of our present circumstances. Or, as Haitian anthropologist Michel-Rolph Trouillot wrote in Silencing the Past, “The past does not exist independently from the present…The past is a position.” 

 

Because of the centrality of photographs in Asmarina, it is easy to overlook the repeated appearance of maps throughout the documentary. There is the aerial view of Asmara on a serving tray at an Eritrean restaurant in Porta Venezia, an atlas of the Horn of Africa, and an assortment of faded, sepia-toned colonial maps. But there are also the lived maps, the diasporic countergeographies of Milan that reveal what the late feminist geographer Doreen Massey called an “extroverted sense of place” or what geographer Heather Merrill, when writing about Black Italian lifeworlds, calls “relational place”. Far too often, documentary projects purport to “shed light on the hidden world of immigration in Italy,” as though migrants and their children are not already rendered hypervisible daily through policing, surveillance, Fanonian relations of epidermalization, and compounding moral panics. This sort of documentary approach has the effect of bounding blackness as something foreign to Italy (though the category of the extracomunitario, as one woman in the film remarks)—an utterly inscrutable contaminant that must be brought to the light of day and cleansed with the disinfectant of sunlight. 

 

Asmarina is not a “shedding light” documentary. It’s not a documentary about immigration, either. Maglio and Paolos upend the normative temporalities and geographies of migration with the story of writer Erminia Dell’Oro, an Italian born and raised in Eritrea who is amusingly described as a seconda generazione al contrario. At a screening of the film at Rome’s Palladium theater in March, Paolos remarked that this was not just a story about Ethiopians and Eritreans—it was intended to be a story about Milan. And this is imminently clear from the way that the camera lingers lovingly over shots of Porta Venezia at dusk, or the mysterious caverns of themetropolitana. Asmarina is not about the “hidden Milan,” it is Milan. And Bologna. And Italy. 

 

Still from Asmarina (2005). 

 

…and interconnected geographies 

 

“Probabilmente senza di noi l’Italia non sarebbe quella che è oggi, e noi non saremmo quello che siamo noi alla fine, no?”

 

In a sentence, Elena summarizes a simple yet powerful fact: Italy and Eritrea produced one another. But, she goes on to explain, this was a profoundly uneven relation of exchange—it was not something daesaltare. The ties linking Italy and Eritrea, while dense and layered, do not paint a convivial picture of innocent interracial love and selfless acts of bridge- and school-building (as much as Italians, when they do acknowledge their country’s colonial history, would like to assume that it was benign and even charitable). Italy and Eritrea are connected in a relation of power, the product of a colonial order of unevenly-distributed mobility: Italians in Eritrea who spoke Tigrinya were fully accepted as Eritreans, she notes, but Eritreans in Italy today are still seen as foreigners, even when they have resided here for generations and speak an Italian that is indistinguishable from their white counterparts. 

 

But Eritreans were also producing their nation in diaspora from Italy. The Bologna Eritrean Festivals, documented in Asmarina, were a key site in the struggle for liberation that brought together diasporans not just from Italy, but from around Europe and the rest of the world. After all, as anthropologist Victoria Bernal notes, at the time of Eritrean independence one in three Eritreans (about one million people) actually lived outside the country—so it has always been an extraterritorial “nation as network.”. This powerful, co-productive relationship between Italy and Eritrea challenges the idea of bounded space, of nations as hermetically sealed units, that has proved so deadly in our modern world. 

 

Quinsy Gario (left) and Jörgen Gario (right) performing on the third day of “Treaties and Gifts of Shifting Wills.” 

 

Into the postcolonial present

 

Asmarina’s characters frequently acknowledge the lack of an open discussion about Italian colonialism despite its aggressive deployment of chemical weapons and apartheid strategies of special segregation. Only in the last fifteen years or so have scholars begun to engage in a sustained, comprehensive, and critical manner with Italy’s colonial past (public awareness, however, continues to lag). This is due to both new access to colonial archives and to Italy’s transformation in the late twentieth century into a site of postcolonial migrations from across the African continent, the latter of which demand a serious engagement with the direct and indirect legacies of colonialism. But how are we to make sense of this colonial history as something other than an abstraction? Asmarina provides one answer: through lived, embodied experience; through memory. 

 

Another suggestion came from an unexpected place—2016 Salone del Mobile in Milan, in the interactive performance–installation “Treaties and Gifts of Shifting Wills.” During the weeklong design festival, Dutch–Caribbean artist and activist Quinsy Gario (famous for his activism against Zwarte Piet and his brother, the musician and poet Jörgen Gario, enacted a series of short but emotionally wrenching performances about the Treaty of Wuchale. This 1889 document, signed between Abyssinia and Italy, eventually led to the first Italo-Ethiopian War, Italy’s defeat at Adwa (the first African anti-imperialist victory) and the vengeful reinvasion by Mussolini’s forces in 1935. 

 

 

Over six days in the abandoned, modernist loft of a deceased architect on Via Ventura, the Garios slowly built a monument to the violence of Italian colonialism. After a solemn reading of the treaty by Quinsy set to Jörgen’s synthesizer music, the brothers gradually added lines of white tape to the grass below their feet and strung twine from the olive trees above their heads. To the viewer, this immediately recalled the proliferation of walls and borders and fences around the world. And like Asli Haddas in Asmarina, Quinsy notes that Italy engaged in apartheid long before South Africa. Indeed, Italy was part of the imperial scramble along with the rest of Europe and was therefore complicit in the formation of a colonial, sociospatial racial order that was the condition of possibility for Fortress Europe—for the consolidation of an “us” that necessarily precludes a “them.” As Quinsy and Jörgen retraced their performance daily, each line in the grass and strand of twine in the trees became a living, expanding archive of grief, pain, anger, and righteous indignation. But just like the Eritreans in Asmarina whose memories allow their community to both look to the past and imagine a different future, there is also struggle in these archives, and there is hope. Or, as Quinsy put it, against the backdrop of his brother’s soulful singing, “I will align myself with an ‘us’ that believes that this ‘us’ is necessary for the future.”

 

Traduzione di Laura Giacalone.

 

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Colonial heritage, transnational migrations, family ties and diaspora politics

Asmarina: eredità postcoloniali

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English Version

 

Realizzato nel 2015 da Alan Maglio e Medhin Paolos,Asmarina è uno splendido documentario che si propone di tracciare “voci e volti di un’eredità postcoloniale”. Accompagnato da una colonna sonora d’eccezione, il film racconta la storia della comunità habesha di Milano, insediatasi nel quartiere di Porta Venezia sin dalla metà del Novecento.

Intrecciando esperienze ed identità di coloro che vivono in Italia da generazioni e dei rifugiati giunti di recente nel Paese, Asmarina ricostruisce la complessa rete di retaggi coloniali, migrazioni transnazionali, legami familiari e politiche diasporiche. E attraverso queste storie, che possono essere comprese solo a partire da un’ampia prospettiva trans-storica, ci invita a riconsiderare seriamente cosa intendiamo quando parliamo di “Italia” e di “italiani”.

 

Still from Asmarina (2005). 

 

Fotografia della diaspora

 

Asmarina inizia con un montaggio di fotografie: una lente di ingrandimento che scorre lentamente sulle diapositive sparse su un tavolino; una vecchia foto in bianco e nero; un album di famiglia consumato; le pagine del reportage fotografico Stranieri a Milano, realizzato nel 1983. Le foto sono disposte su un tavolo, escono da una stampante o appaiono sullo schermo luminoso di uno smartphone. Ad aprire il documentario, una memorabile frase di Walter Benjamin: “Esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla Terra”. Se Benjamin, da un lato, poneva le basi per una prospettiva multigenerazionale, dall’altro, queste fotografie si discostano dalla sua concezione pessimistica dell’arte nell’era della riproducibilità tecnica.

Le suggestive foto di Asmarina non sono delle mere riproduzioni avulse dai rituali quotidiani dell’esperienza sensibile. Né sono sottoposte al famigerato “effetto Ken Burns”, ovvero lo zoom o il movimento panoramico effettuato all’interno di un’immagine fissa, utilizzato nel cinema americano per celebrare i grandi eroi e le loro grandi guerre, secondo una tradizione documentaristica autoritaria e maschilista.

 

Nel documentario di Maglio e Paolos, le foto costituiscono una pratica collettiva che forma le relazioni sociali ed è fortemente radicata al loro interno. Le immagini – fotografie di famiglia, reportage fotografici o semplici istantanee – sono la materia attraverso cui vengono tracciate affinità e connessioni tra persone, luoghi e tempi. Esse consentono la trasmissione di storie e saperi incorporati. (In una memorabile scena, un bambino chiede ripetutamente alla madre e alla nonna chi siano i parenti ritratti in una serie di foto; in un amorevole gesto di esasperazione, la madre risponde: “Son’ tutti zii, amore!”). Le foto, dunque, sono un archivio tramite il quale è possibile stabilire e rievocare connessioni diasporiche.

 

Still from Asmarina (2005). 

 

In un saggio del 2009 pubblicato sulla rivista Social Text, Tina Campt, storica e studiosa della diaspora africana nonché autrice di numerose pubblicazioni sulle esperienze dei “Black Germans”, afferma che “le foto e i ritratti di famiglia costituiscono un complesso luogo di formazione della diaspora nera in Europa”:

 

La diaspora africana è una formazione immaginaria e affascinante attraverso cui i neri danno forma alle loro diverse storie e culture. Eppure, le vicissitudini contemporanee legate alle relazioni transnazionali della comunità nera spesso non facilitano la piena comprensione della nostra “visione” della razza nella diaspora – e, in particolare, dell’identità diasporica nera – né aiutano a far luce sui significati impliciti che attribuiamo ai concetti di adesione e appartenenza. Vedere se stessi – o, per dirla con le eleganti parole di Deborah Willis, “raffigurarsi” – è una pratica necessariamente 

estraniante che riflette le dinamiche fondamentali e costitutive della diaspora stessa.

 

La diaspora non è un assunto stabilito una volta per tutte, ci ricorda Campt: è un concetto perennemente in costruzione. In questo senso, il tema fondamentale di Asmarinaè come si forma, come sopravvive e come cresce, attraverso più generazioni, una comunità diasporica nera in un contesto in cui le logiche di esclusione della Fortezza Europa vorrebbero indurci a negare la sua stessa esistenza. Tutto ciò è di fondamentale importanza in un momento in cui in Europa l’identità nera è diventata sinonimo di morte: sia da parte degli attivisti di sinistra, che invocano le immagini dei rifugiati neri che affogano nel Mediterraneo, sia da parte degli xenofobi di destra, secondo cui l’“invasione” dei neri segna la morte di una purezza della razza europea che in realtà non è mai esistita. Queste foto di famiglia, la loro circolazione e l’affetto con cui vengono custodite dai membri della comunità eritrea di Milano rappresentano un atto quotidiano di forza, sopravvivenza e resistenza.

 

Still from Asmarina (2005). 

 

Cartografie spaziotemporali … 

 

Asmarina non segue uno sviluppo lineare. Si potrebbe iniziare la storia, come fa Franco De’ Molinari nel film, con l’acquisizione di Assab nel 1869 e procedere con il racconto del progressivo controllo del Corno d’Africa da parte dell’Italia, una reazione a catena che culmina con l’attuale crisi dei rifugiati nel Mediterraneo. Il film non nega queste connessioni: la sua idea di fondo, infatti, è la necessità di stabilire un legame tra passato e presente, di connettere una storia che rimane in gran parte sconosciuta con una realtà contemporanea che non apparirebbe così sorprendente se la riconducessimo alla brutale realtà del colonialismo italiano. Aprendo con le immagini delle foto di famiglia e spostandosi avanti e indietro nel tempo, attraverso lo spazio della memoria, Asmarina suggerisce che il passato è innanzi tutto uno strumento. Un’arma potente e potenzialmente trasgressiva che possiamo acquisire unicamente dalla posizione privilegiata del nostro presente. O, come scrive l’antropologo haitiano Michel-Rolph Trouillot in Silencing the Past: “Il passato non esiste indipendentemente dal presente… Il passato è una posizione”.

 

Vista la centralità delle immagini fotografiche in Asmarina, la ripetuta presenza delle mappe nel documentario potrebbe passare inosservata. Vi è una veduta aerea di Asmara sul vassoio di un ristorante eritreo a Porta Venezia, un atlante del Corno d’Africa e un assortimento di vecchie mappe coloniali color seppia. Ma vi sono anche le mappe del vissuto, controgeografie diasporiche di Milano che rivelano ciò che Doreen Massey, geografa femminista recentemente scomparsa, ha definito un “senso del luogo estroverso”, o che la geografa Heather Merrill, scrivendo delle condizioni di vita dei neri italiani, chiama “luogo relazionale”. Troppo spesso, i documentari si propongono di “far luce sul mondo nascosto dell’immigrazione in Italia”, come se i migranti e i loro figli non fossero già quotidianamente ipervisibili a causa della politica, dei sistemi di sorveglianza, di quelle che Fanon definisce relazioni di epidermizzazione e delle conseguenti ondate di “panico morale”. Questo genere di approccio documentaristico ha, come effetto, quello di circoscrivere l’identità nera come qualcosa di estraneo all’Italia (si pensi alla categoria extracomunitario, come sottolinea una donna nel documentario), un’oscura contaminazione da portare alla luce del giorno e debellare.

 

Asmarina non si propone di “far luce”. E non è neanche un documentario sull’immigrazione. Maglio e Paolos sovvertono i canoni temporali e geografici della migrazione attraverso la storia di Erminia Dell’Oro, scrittrice eritrea di origini italiane, descritta ironicamente come un esempio di seconda generazione al contrario. Come ha sottolineato Paolos durante una proiezione del film tenutasi lo scorso marzo al Teatro Palladio di Roma, questa non è soltanto una storia che riguarda etiopi ed eritrei: è una storia che riguarda Milano. E ciò è evidente sin da subito dal modo in cui la macchina da presa indugia amorevolmente sulle foto di Porta Venezia al tramonto o sulle misteriose cavità della metropolitana. Asmarina non è un film sulla “Milano nascosta”, ma su Milano. Su Bologna. Sull’Italia. 

 

Still from Asmarina (2005). 

 

…e geografie interconnesse 

 

“Probabilmente senza di noi l’Italia non sarebbe quella che è oggi, e noi non saremmo quello che siamo noi alla fine, no?”

 

Elena sintetizza in una frase un dato semplice ma importante: Italia ed Eritrea sono l’una il prodotto dell’altra. Tuttavia, continua la donna, si tratta di uno scambio profondamente squilibrato, non di qualcosa daesaltare. I legami tra Italia ed Eritrea, seppure profondi e stratificati, non riflettono l’immagine conviviale di un innocente amore interrazziale, fatto di azioni generose volte a promuovere l’educazione e a costruire relazioni (sebbene gli italiani continuino a considerare la storia coloniale del Paese come un’esperienza benevola e perfino caritatevole). Italia ed Eritrea sono legate da una relazione di potere, frutto di un retaggio coloniale all’interno del quale la mobilità non è un diritto equamente riconosciuto: gli italiani in Eritrea che parlano il tigrino sono infatti pienamente accettati come eritrei, osserva Elena, ma gli eritrei in Italia sono visti tuttora come stranieri, anche se risiedono nel Paese da generazioni e parlano l’italiano esattamente come i loro concittadini bianchi.

 

Tuttavia, anche nella realtà della diaspora in Italia, gli eritrei hanno costruito la loro nazione. Il Festival eritreo di Bologna, documentato da Asmarina, è stato un elemento fondamentale nella lotta di liberazione che ha chiamato a raccolta gli eritrei della diaspora provenienti non solo dall’Italia, ma anche dall’Europa e dal resto del mondo. Del resto, come osserva l’antropologa Victoria Bernal, all’epoca dell’indipendenza eritrea, un eritreo su tre (all’incirca un milione di persone) viveva in realtà fuori dal Paese, per cui l’Eritrea è sempre stata una nazione costituita da un “network” di relazioni extraterritoriali. Questo forte legame tra Italia ed Eritrea, frutto delle relazioni tra i due Paesi, mette in discussione l’idea della nazione come spazio confinato o entità ermeticamente sigillata: un’idea dalle conseguenze fatali nella realtà contemporanea.

 

Quinsy Gario (left) and Jörgen Gario (right) performing on the third day of “Treaties and Gifts of Shifting Wills.” . 

 

L’attuale scenario postcoloniale

 

I protagonisti di Asmarina sottolineano più volte l’assenza di un confronto aperto sul colonialismo italiano, nonostante l’uso aggressivo di armi chimiche e di sistemi di segregazione razziale come l’apartheid. È solo da una quindicina d’anni che gli studiosi hanno iniziato a dedicarsi in maniera rigorosa, e con approccio critico, ai trascorsi coloniali dell’Italia (sebbene manchi ancora una consapevolezza pubblica su questo tema). Ciò è dovuto alle nuove possibilità di accesso agli archivi coloniali e alla trasformazione dell’Italia, dalla fine del XX secolo, in una meta di flussi migratori postcoloniali provenienti dal continente africano: una circostanza che ha imposto la necessità di confrontarsi seriamente con le conseguenze dirette e indirette del colonialismo. Tuttavia, com’è possibile comprendere questa storia coloniale come qualcosa di diverso da una mera astrazione? La risposta arriva da Asmarina: attraverso l’esperienza vissuta, i corpi, la memoria.

 

Un altro suggerimento giunge da un luogo inaspettato: il Salone del Mobile di Milano del 2016, attraverso l’installazione-performance interattiva “Treaties and Gifts of Shifting Wills”. Durante la settimana del festival del design, l’artista e attivista olandese-caraibico Quinsy Gario (noto per le sue iniziative di protesta contro il personaggio di Zwarte Piet  e suo fratello, il musicista e poeta Jörgen Gario, hanno allestito una serie di brevi performance, molto forti dal punto di vista emotivo, sul Trattato di Uccialli: un documento siglato nel 1889 tra l’Abissinia e l’Italia, che portò alla prima guerra italo-etiope, con la sconfitta dell’Italia ad Adua (prima vittoria anti-imperialista africana) e la nuova invasione guidata da Mussolini nel 1935.

 

 

Per sei giorni, nello spazio abbandonato di un loft modernista in Via Ventura, appartenuto a un architetto deceduto, i fratelli Gario hanno lentamente costruito un monumento dedicato alla violenza del colonialismo italiano. Dopo una solenne lettura del trattato da parte di Quinsy, con l’accompagnamento musicale di Jörgen al sintetizzatore, i due fratelli hanno iniziato ad adagiare strisce di nastro adesivo bianco sull’erba e ad attaccare cordicelle di spago agli olivi. Agli occhi dello spettatore, ciò è apparso immediatamente come una rievocazione della proliferazione di muri, confini e steccati in tutto il mondo. Come fa anche Asli Haddas in Asmarina, Quinsy sottolinea che l’Italia ha avviato una politica di apartheid molto prima del Sudafrica. Effettivamente, l’Italia ha partecipato insieme al resto d’Europa alla corsa alle conquiste imperiali ed è stata quindi complice nella creazione di un sistema coloniale basato sulla segregazione razziale, che ha reso possibile la costruzione della Fortezza Europa e il consolidarsi di un “noi” necessariamente contrapposto a un “loro”. Attraverso la performance di Quinsy e Jörgen, ogni striscia sull’erba e filo sugli alberi si trasforma in un archivio vivente, e sempre più ampio, di lutto, dolore, rabbia e legittima indignazione. Ma proprio come per la comunità eritrea di Asmarina, per la quale i ricordi sono un modo per guardare al passato e immaginare un futuro diverso, questi archivi sono un simbolo di lotta e di speranza. O, per dirla con le parole di Quinsy, sullo sfondo del canto appassionato del fratello: “Mi schiererò con un ‘noi’ che crede che questo ‘noi’ sia necessario al futuro”.

 

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Retaggi coloniali, migrazioni transnazionali, legami familiari e politiche diasporiche

Giacometti. Preferisco le sculture dei pittori

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Lunedì 22 marzo 1965

 

Il futuro è piuttosto chiuso... Mi chiedo per quanto tempo potrò ancora fa­re della scultura... Uno, due anni, sei mesi?... Sono in un vicolo cieco. Non so ve­ramente come ne uscirò... Dall’ultima volta che ci siamo visti, sono stato operato. Mi hanno tagliuzzato per quattro ore e mezza. Mi hanno tolto tutto lo stomaco... Me ne resta solo un pezzetto... Pare che basti...

 

Trovo un Alberto Giacometti dimagrito, curvo, fluttuante nei suoi vecchi ve­stiti, il volto sempre più scolpito, rilavorato dalla sofferenza. Tuttavia la luce che brilla nei suoi occhi arrossati dall’insonnia è intatta e la sua voce è rimasta al­trettanto seducente, sicura, calda.

Giacometti parla con vivacità. Dimagrito, la sua somiglianza con Cocteau di­venta ancora più flagrante. Questa somiglianza l’ha prima divertito molto, poi infastidito. Ma le lunghe mani di Alberto sono più solide, la sua testa più robusta e come tagliata con l’accetta, le sue spalle più forti e i suoi capelli, ribelli come quelli di Cocteau, non si rizzano a spatola, ma brulicano come i mille serpenti di Medusa. È un Cocteau incrociato con un paesano del cantone dei Grigioni che mi parla rapidamente, ma si regge appena in piedi, si aggrappa con le braccia a un cavalletto come un naufrago.

 

Brassaï, fotografami così... Questa posa corrisponde esattamente al mio stato fisico... Sono stanco, sfinito. Sono uno straccio, un relitto. E malgrado tutto, vedi, lavoro, continuo il mio lavoro... Ieri sera sono rimasto fino a mezzanotte ad ac­canirmi su questo busto che ancora devo a Maeght, poi ho fatto un giro alla Cou­pole. Rientrando, alle tre del mattino, invece di andare a letto ho continuato a mo­dellare fino alle sette... Ho dormito appena... Ed ero così impaziente di riprendere questo busto che non ho neanche bevuto un caffè...

 

È stato nel 1932 che sono venuto per la prima volta da Giacometti, in questa stessa catapecchia buia, sporca e umida, dove si annida il suo atelier, al 46 di Rue Hippolyte-Maindron, nel quattordicesimo, tra la Rue du Moulin-Vert e la Rue d’Alésia; un angolo di Parigi dove case, viuzze, recinti di vigne vergini conservano ancora il fascino vecchiotto alla Utrillo. Ma, come una minaccia di morte, si erge già un fabbricato bianco, nuovo fiammante, proprio accanto a questo tugurio di ateliers di Alberto. A destra del piccolo e lugubre cortile c’è il regno dello scultore, a sinistra quello di suo fratello, il suo migliore amico, il suo factotum, il suo modello da sempre. È di Diego che Giacometti fece il suo primissimo busto all’età di quattordici anni. Bisogna risalire a Theo e Vincent Van Gogh per ritrovare un’amicizia tra due fratelli come quella che lega Alberto e Diego. In quel periodo, volente o nolente, Giacometti divenne lo scultore accreditato del gruppo surrealista.

 

Nel 1929, quando espose alla galleria Pierre i suoi oggetti-sculture in legno, pietra e gesso – entità plastiche nate dal sogno e dall’automatismo – i sur­realisti lo salutarono con entusiasmo e lo incorporarono nel movimento. Ricordo un articolo ditirambico di Salvator Dalì su «La Révolution surréaliste»; quanto a André Breton, considera quelle sculture «a funzionamento simbolico» come i primi «oggetti surrealisti». Mentre fotografavo la famosa Boule suspendue o il Pa­lais à quatre heures de l’amprès-midi, ora al Museo d’Arte Moderna di New York, Alberto mi spiegava che tutti quegli oggetti gli si erano presentati alla mente pressoché definiti, che li aveva eseguiti senza neppure cercarne il significato e che il loro senso gli si rivelò solo dopo. Così, mi confidava, questo palazzo fragile che nasconde una spina dorsale di legno, uno scheletro d’uccello, una bambola e una palla fissata su un piatto ovale, era la reminiscenza di un amore recente... E poi bruscamente, verso il 1935, dopo aver portato non poca acqua al mulino sur­realista, Giacometti si staccò dal gruppo.

 

Tra i surrealisti e me, mi disse, c’è stato un malinteso. Hanno considerato le mie sculture come un punto di arrivo; ora, per me, esse erano solo un momento di passaggio... Mi trovavo in un vicolo cieco. La nostra collaborazione è durata circa sei anni. Ma non ho più partecipato alle loro ultime esposizioni di prima della guerra...

 

Cos’era successo? Giacometti scoprì all’improvviso questa verità banale che la grande questione della scultura è sempre stata la rappresentazione della figura u­mana, immobile o in movimento, la vita del corpo nello spazio. Scoprì anche il principio più convenzionale delle belle arti, quello dell’imitazione. Non voleva più creare deliberatamente, spontaneamente, ma ricreare, riprodurre la vita. In verità, ci provava già quando lavorava con Germaine Richier alla Grande-Cha­u­mière, nell’atelier di Bourdelle, ma senza successo. Più si applicava, meno la sua opera lo soddisfaceva. Stanco di distruggere le sue sculture, si chiese: «Ma dove sta dunque la somiglianza? Dov’è la verità, visto che la copia più fedele ce ne allontana?». Ed è per disperazione nell’impotenza di rappresentare la figura umana in modo adeguato, che arrivò a concepire opere plastiche a memoria. In ogni nostro incontro, come una monomania, poneva le stesse domande:

 

Come riprodurre una cosa, creare un’immagine, un’apparenza dell’oggetto rappresentato? Come rendergli giustizia? Come cogliere la somiglianza? Non trovi che sia un compito impossibile in un universo dove tutto è unico, inimitabile?

 

Così riprendeva sempre lo stesso modello, Diego, o sua moglie, Annette, che ha sposato nel 1949, o il fotografo e cineasta Elie Lotar, che posa per lui da un anno a questa parte. Venne alle mani con la realtà, riprese tutto il problema pla­stico da zero. Si gettò nella rissa con accanimento, in uno stato di intensa eccitazione: «Si può passare tutta la vita senza arrivare a un risultato soddisfacen­te», amava ripetere. E impiegò sette o otto anni prima di esporre una scultura di cui non era troppo scontento. Ogni opera che usciva dalle sue mani era solo una semplice tappa della sua incertezza e insoddisfazione.

Ricordo il suo atelier intorno al 1940, quando i busti, come in seguito a una rivoluzione climatica o geologica, cominciavano a rimpicciolirsi fino a ridursi a teste di spillo. Poi, all’improvviso, divennero piccole figurine che si slanciavano come piante intristite che cercano la luce tastoni. In quel periodo si camminava su una montagnetta di resti di gesso, un’ecatombe di figure condannate e distrutte in una specie di rabbia.

 

«Dovrei forse fermarmi...», diceva Alberto dopo una notte di sterile battaglia, capelli cosparsi di gesso, bianco dalla testa ai piedi, mani pietrificate, o meglio: «Forse la prossima ci riuscirò...», quando era di umore meno massacrante. La gloria, la consacrazione dei maggiori musei, l’ammirazione degli amici non bastavano ad accontentare questo eterno insoddisfatto nella «sua corsa alla so­miglianza». Ed è da testimone sorpreso e meravigliato più che da autore delle sue metamorfosi degne di Alice nel paese delle meraviglie che parlava del brutto colpo che gli giocava senza sosta il demone della somiglianza.

 

 

«Riga», a cura di Marco Belpoliti e Elio Grazioli

 

Si pensa che io riduca le teste o che allunghi le mie figure di proposito. Le riduco o le allungo per rimanere fedele al modello, per cogliere la somiglianza. La testa è solo una piccola palla; il corpo non è che un lungo bastone. È sotto questa forma che mi appare la figura umana nello spazio. Ho capito veramente la gran­dezza dell’arte primitiva soltanto proseguendo le mie ricerche... Trovo che certi feticci dell’Oceania o dell’Africa abbiano molta più verità, siano molto più vicini a quanto cerchiamo di una scultura di Michelangelo o di Donatello o di un altro scultore dell’arte tradizionale dell’Occidente. Cosa curiosa del resto, io nella scultura moderna preferisco non le sculture degli scultori ma quelle dei pittori, di Picasso, di Matisse...

 

E io penso ad Alberto stesso. Così amabile, così semplice. Potrebbe viaggiare in Rolls, ricevere gli amici in un palazzo o un castello. No, è rimasto fedele alle sue abitudini, al suo vecchio quartiere, al suo sordido tugurio, indifferente perfino alla comodità. Il successo non ha cambiato di uno iota la semplicità quasi monacale del suo genere di vita. Una zolla di argilla a portata di mano, un po’ di gesso, qualche tela e fogli di carta bastano alla sua felicità. Nessuna traccia, nessun odore di denaro qui; un divano usato, dei tavoli, sgabelli e, al soffitto, la stessa lampadina nuda e cruda da quarant’anni, unica luce, forse, in questo isolato che di solito si spegne solo all’alba... 

 

Pubblicato in «Le Figaro Littéraire», 20 janvier 1966. Poi in «Riga» 11, a cura di Marco Belpoliti e Elio Grazioli, Marcos y Marcos. Traduzione di Elio Grazioli.

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L'ultima conversazione

Nura danza ai giardini pubblici

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Nura Bingaladish viaggia sulla via Emilia in direzione ovest di ritorno da una serata al Nilo Blu e si addormenta sul treno di mezzanotte, i piedi troppo stanchi anche per sollevarli sul sedile di fronte. Si sveglia appena in tempo per scendere a Reggio, prende la bici e pedala fino a casa senza accorgersi che – succederà di mattina – nel vagone già sfrecciato da qualche altra parte ha dimenticato tutto l’archivio di fotografie di quindici anni di danza del ventre, le immagini delle esibizioni e gli articoli di giornale, il ricordo degli spettacoli dove le transenne bloccavano il flusso migratorio qualche passo prima di raggiungere i piedi di questa ballerina irresistibile, rossa di henné, un metro e ottanta di Occidente irrorato di potenza orientale. Dieci anni dopo, viaggiando sulla via Emilia verso est alle dieci di sera, un controllore si offre di praticarle un massaggio plantare, in uno scompartimento troppo vuoto per frenare la misericordia.

 

Tornando da Bologna dopo un incarico a Catania, Nura Bingaladish prende atto che insegnare alle ostetriche la danza del ventre può essere un compito gravoso, e mentre le gravide apprendono l’arte di muovere l’addome con minor danno alla maniera delle zingare indiane, lei si mette a letto con due apofisi rotte e sei mesi di busto in gesso. 

Forse è il momento di lasciar perdere la danza, pensa Nura Bingaladish mentre accetta l’incarico di rilegare i libri della biblioteca, muoversi ogni giorno verso ovest da San Maurizio al centro come dipendente comunale. Le cose cambiano finché viene spostata al piano delle cancellature, tutto un destra e sinistra di gomito e gomma per dissolvere le tracce vandaliche delle matite, una perversione degli studenti troppo giovani per controllarsi e che le costa tre tunnel carpali. Mentre attraversa la città dentro al Tram 2 per tornarsene a casa, Nura Bingaladish vede tramonti africani sul Rodano, a cui non importa di essere un torrente se basta qualche albero storto e rinsecchito per evocare il clima di un altro continente. Al termine della corsa, l’aspetta il palazzo scrostato di via Pasteur, dove s’aggira quale unica bianca tra settanta famiglie straniere: nella visione metafisica – anni di sufismo e meditazione – una volta lo vede volare simile a un’astronave. 

 

Al ritorno da Ancona, dopo le follie della Riviera, centinaia di volte si riporta a letto verso ovest, piena di sonno e appoggiata all’Adriatico, tenendo la testa dentro a un cappello napoleonico che non conosce ancora né esili né disfatte. «N» di «Nura», reciterebbe l’iniziale impressa, un nome datole dal maestro di danza la prima volta che le ha aperto la porta e gli è balzato in mente il termine arabo per «luce».

L’unica luminosità di quattro anni a Islamabad, al seguito del compagno fitopatologo esperto di piante tropicali, sono proprio quelle lezioni di danza segreta e clandestina, bandita dal regime fondamentalista contrario a ogni forma d’arte in nome di Allah. Anna Maria Elisabetta Dall’Aglio, prima di chiamarsi Nura, resta folgorata da una cartolina al supermercato con l’immagine della donna più felice del mondo, certamente per l’effetto dell’apertura dei Chakra. Cerca le scuole di danza ovunque fino alle campagne pakistane – in linea d’aria sulla via Emilia molto a est – finché un fornaio non le spiffera che esiste ancora una famiglia di anziani che insegna il mistero del ventre in una casa diroccata, al riparo da sguardi indiscreti. Tutto il resto della giornata sfuma tra le faccende e le bombe in giardino, e quando le viene in mente di uscire senza velo per le strade della città, un passante le tira addosso una pietra. 

Al suo ritorno a Reggio, Nura Bingaladish ricomincia a danzare ai Giardini pubblici. Danza in piazza Navona, in piazza San Marco, davanti al Pantheon e va in scena con i cccp per il primo maggio al suono di Punk Islam. All’ex-professoressa di psicologia dedica «Fiabe tra Oriente e Occidente», un libro per bambini pieno di scimmie danzanti. 

 

Indecisa se sposarsi, dopo tre ore di preghiere a Padre Pio una voce le suggerisce di ricavare un acronimo dai propri nomi, così lei va a nozze con a.m.e.d. più giovane di ventitré anni. Naufragato il matrimonio, si confida con un’amica suora di clausura che le aveva chiesto una regia per portare Giovanna D’Arco a teatro. A consolarla sono i giovani rapper. Racconta che gli dei antenati avevano scelto questi diamanti neri per festeggiare la bellezza su un corpo bianco e biondo, che li aveva contemplati con devozione per strada, sulle scale e alle fermate degli autobus, grappoli di uva nera dal nettare estasiante

Sulla via Emilia verso Modena, al padiglione Lombroso del San Lazzaro, Nura Bingaladish viene assunta come animatrice all’interno del Museo della Psichiatria. Su YouTube pubblica «Dolcezza e tormento», videoclip straziante ambientato nel complesso manicomiale, per dire che l’amore è la follia e la sua cura.

 

Mentre cammina sulla via Emilia, la raggiunge una calata di quiete proprio di fronte la biblioteca Ospizio, vicino al Quetzal e alla gelateria, un punto della strada dove la magnificenza si esprime tra i semafori. Dell’ultimo dell’anno ricorda un lento procedere in auto alle due di notte attraverso la via. Madre d’asfalto e padre di catrame, dice. 

 

Nella casa di Pieve ora troppo a ovest, le fanno compagnia la statua di Anubi, una manciata di coriandoli sul pavimento, un altarino di mixer e casse per David Bowie, un gatto col nomignolo dell’ex marito e Lady Green, la pianta col sonaglio che si nutre delle sue canzoni. Anche dopo una giravolta, Nura Bingaladish saprebbe in un istante in quale direzione guardare verso la via Emilia.

 

Reggio Emilia, edizione 2016 di Fotografia Europea: La Via Emilia. Strade, viaggi e confini. Mostre fino al 10 luglio.

Il testo è tratto da Ermanno Cavazzoni (a cura di), Almanacco 2016. Esplorazioni sulla via Emilia, Quodlibet.

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Reggio Emilia, edizione 2016 di Fotografia Europea: La Via Emilia. Strade, viaggi e confini. Mostre fino al 10 luglio. Il testo è tratto da Ermanno Cavazzoni (a cura di), Almanacco 2016. Esplorazioni sulla via Emilia, Quodlibet.

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Sulla via Emilia

Fratelli

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Inauguriamo con Marco Balzano - vincitore del Premio Campiello 2015 con L'ultimo arrivato - il nuovo speciale «Cantiere»: le opere che saranno. Una anteprima dei libri in lavorazione: incipit di libri futuri di scrittori, saggisti, filosofi e conferenzieri.

 

 

I

 

Quando è squillato il telefono ero a casa a tradurre. Fuori il sole abbrustoliva la città deserta. Il silenzio delle vie lo faceva rimbalzare più forte contro i muri, l’asfalto, i cartelli stradali. Mi sono affacciato alla finestra a fumare e il fiato mi si è accorciato ancora di più. Ho guardato per tutto il tempo della sigaretta la saracinesca del bar di Sergio. La notte prima l'aveva abbassata fino a farla sbattere sul marciapiede, facendo sfollare dai tavoli di plastica gli ultimi ubriachi, me compreso perché senza accorgermene mi ero scolato cinque Campari. Poi aveva tirato un sospiro di sollievo e attaccato con soddisfazione un foglio: “ci vediamo a settembre”. Gli ho fatto notare che è la frase che dicono i professori agli alunni rimandati e allora lui ha prima sorriso e poi sbadigliato. Anche quel 21 giugno ho allungato il ritorno a casa. Al posto che i soliti trenta passi ho girato attorno alla Villa. Ormai è qualche anno che il parco della Villa la notte resta chiuso. Verso le otto e mezza il comune spedisce una coppia di vigili in bicicletta, che con le chiavi in mano minacciano i barboni di chiuderli dentro. Allora I barboni li guardano dall’alto della loro barba zozza e dei loro due litri di vino in cartone, scuotono la testa e si girano di lato. Se qualcuno ha in corpo dell’aria superflua, volentieri approfitta per direzionarla verso I pubblici ufficiali. Ho fatto il giro largo, come quando avevo Teddi, un collie che è morto mangiando il veleno dei topi. Io e Teddi giravamo dentro la Villa, la sera tardi e il mattino presto. Lui si faceva una corsa, pisciava sotto qualche quercia maestosa e ce ne tornavamo a casa. Se lo stesso giro lo facevo di giorno i bambini non lo lasciavano in pace un momento. Dopo di lui ho preso un coniglio, Whisky, ma non è la stessa cosa. Dopo non è mai la stessa cosa. Siccome tutti i cancelli erano chiusi ho girato tre o quattro volte intorno alla Villa come un metronotte. Man mano che smaltivo la sbronza sentivo più freddo sulle spalle. Poi nel cielo si è aperta una feritoia di luce arancione, che in fretta è diventata rosa. Allora mi sono avviato verso via Osculati, dove abito. Una casa di ringhiera che affaccia su un'altra casa di ringhiera. A sinistra si vede il parco, sotto il bar di Sergio. È un orizzonte un po' angusto ma ci ho fatto il callo.

Mi sono messo a tradurre con il mal di testa. Mi sembrava il miglior modo per reagire allo strazio che è diventato il mio lavoro. Prima traducevo i romanzi di Nick Job, alcuni classici americani e negli ultimi anni anche qualche spagnolo in odore di Nobel. Avevo a che fare con le metafore. Stavo ore a rigirare un periodo come fosse un calzino, mani sulle tempie a scegliere un sinonimo. Ora invece “i tempi sono cambiati”, dicono in casa editrice.

Devo essermi appisolato sulla scrivania. Verso le dieci mi sono stropicciato gli occhi e ho ripreso seduta stante a lavorare. Poi mi sono preparato un caffé. Avrò tradotto un'altra decina di pagine, non di più. Finché nauseato dalla noia e dai residui di Campari che hanno ripreso a galleggiarmi nello stomaco ho alzato la cornetta e chiamato Mustacchi:

“Ormai per tirare avanti bisogna puntare sulla Varia!” mi ha aggredito il direttore editoriale senza farmi dire “Il commerciale ci rimanda indietro tutto il resto. Sono tempi neri e questa crisi non l’ho mica inventata io”. I suoi sbuffi non so come mi arrivavano dalla cornetta dritti in faccia.

“Puntare sulla Varia”. Questo è diventato il mantra di Editalia. Investire, cioè, su uno sconfinato contenitore di cazzate, che però la gente, a detta dei cervelloni del commerciale, di questi tempi legge volentieri. Almeno non pensa a tutte le rogne che la affliggono.

“Forse le cose vanno male perché la gente legge troppo la Varia” ho argomentato schiarendomi la voce “è un problema di inversione del principio di causa-effetto”.

“Spiegati” ha risposto scontroso. Come al solito mi ero avventurato in un ginepraio.

“Voglio dire che voi riempite gli scaffali di quella roba, la gente non trova altro e finisce per comprarla”.

“E allora?”.

“E allora a furia di leggerla succede che non pensa più. O che pensa male”.

“Bianchetti stai filosofando” ha detto irritato.

“I grandi editori dovrebbero sentirsi più responsabili del livello culturale medio” ho azzardato.

“Ah! dunque se riempiamo gli scaffali di Carlo Marx, secondo il Bianchetti pensiero, finalmente scoppia la rivoluzione?”

Sono rimasto per qualche secondo a fiato trattenuto, poi senza convinzione ho continuato “L’esempio è un po’ forte, ma il ragionamento regge”.

“E allora stai facendo il romantico!” ha ribattuto Mustacchi fuori dai gangheri “Tu Bianchetti hai sempre il potere di farmi imbufalire, sei peggio di mia suocera!” e ancora sbuffi dritti in faccia “Non so nel tuo mondo ma da queste parti il libro non è più un valore culturale, è diventato un prodotto commerciale almeno da trent’anni! come il prosciutto, come le scarpe! Anzi, sai cosa faccio?” ha gridato minaccioso “Ti passo quello del commerciale, così ti schiarisce le idee”.

Non ho fatto in tempo a dirgli che non era il caso che immediatamente è partito il solito passaggio delle Quattro stagioni. E io lì, impotente, con la cornetta appiccicata all'orecchio. Ho avuto tutto il tempo di compiangere la malasorte di Vivaldi, ormai immortalato nei jingle d’attesa più che nelle sale da concerto. È evidente che l’arte non assicura privilegi, né in vita né dopo.

Anche quell’altro ha cominciato saltando i saluti. “Il fatto è che tu a furia di tradurre cose serie mi sei diventato snob”. Dalla cornetta questa volta saliva un odore acre di dopobarba “Guarda che non appaltiamo agli esterni nemmeno più un giro di bozze. Ritieniti fortunato a fare ancora parte dell’organico di fatto”.

Quello del commerciale l'ho visto una volta sola, poi mi sono proposto di evitarlo vita natural durante. Si tratta di un tipo in abito gessato, orecchino e vocali aperte. Cotolétta, idéa, ciélo. Un luogo comune ambulante.

Insomma, da Nick Job alla Varia, nel giro di nemmeno un anno. Il precipizio è sempre in agguato. La prima volta Mustacchi mi aveva inviato un libro sulla filoterapia, accompagnato da una lunga mail di scuse. Giurava che “trattasi di emergenza”. Poi ha proseguito con un opuscolo che in barba agli studiosi di genere ha osato definire “pamphlet” e che trattava di due tizi che hanno fatto il giro della California in skateboard. Dopo mi è toccato un libricino sull'ippoterapia. E infine mi ha assestato il colpo di grazia con un poderoso volume sui fiori di Bach. Tutte cose che di solito traduceva qualche professoressa di scuola in pensione o qualche volenteroso laureando in lingue. Da allora fino ad oggi solo pattume. E senza più preamboli.

Quando è squillato il telefono traducevo un libro di dessert di una scrittrice del Thennesy, un'autrice di romanzi rosa che per giustificare la sua progressiva somiglianza a un cetaceo del Pacifico e il prosciugamento della sua vena creativa si era data a raccogliere ricette di dolci e a corredarle con brani tratti dai suoi romanzi. Un caso esasperato di egocentrismo e glicemia. Nei momenti di stallo tornavo a guardare la sua foto in copertina, che la stampante aveva fatto uscire in bianco e nero. Sorrideva giuliva all'obiettivo, addosso un vestito nero aderente con allacciato in vita un grembiule coi ricami. Cucchiaio di legno da una parte, libro dall'altra. Un'ostentazione sfacciata del difetto nella speranza paradossale di negarlo. Per ripicca verso Mustacchi ho dichiarato un uovo di meno alla Puddle cake. Mi sono bevuto un secondo caffé in una tazza da latte, l'unica pulita. Il lavello e il secchio della biancheria da lavare in casa mia, verso la fine del mese, tracimano sempre. Poi l'1 arriva Maria, una filippina alta un metro e mezzo che riordina e deterge fino alla morte dell'ultimo acaro. Quando torno a casa il primo del mese resto sempre imbarazzato sulla soglia e alla fine me ne vado da Sergio a mangiare un panino perché mi sembra irrispettoso sporcare. Verso Maria più che altro, perché a me l'odore di Liso Form non è che dia fastidio, ma quello del tostapane dimenticato acceso mi piace di più. Dopo il caffé mi sono riaddormentato sul divano. Non mi sono nemmeno tolto le scarpe. Il silenzio assordante che arrivava da fuori per un attimo mi ha spaventato. Mi sono risvegliato a ora di pranzo, ma in nome dell'incontro col dietologo che avevo nel pomeriggio non ho toccato cibo. Ho continuato a lavorare col computer sulle ginocchia, anche se poi ho dovuto mettere sotto un cuscino perché mi scottava le gambe. Avrò tradotto altre cinque o sei ricette. All’improvviso mi è tornato in mente quell'idiota del commerciale e allora ho sbattuto lo schermo sul pc, deciso a farmi una doccia gelata. Proprio mentre l'ho sbattuto è squillato il telefono.

“Buongiorno è la Polizia stradale. Lei è Martino Bianchetti?” ho risposto di sì “I suoi genitori sono stati investiti da un tir finito fuori strada sulla Milano-Laghi”.

“Si sono fatti molto male?” ho domandato lentamente. Il sudore mi macchiava il colletto della camicia.

“Sono morti” ha risposto l'agente, non so se dispiaciuto o annoiato.

 

Lorenzo Mattotti

 

 

II

 

Il mio sacco lacrimale deve essere depositato più giù del normale. Avranno da fare un percorso di risalita particolarmente ripido, le mie lacrime. Non è sempre stato così, però. Da giovane piangevo con una certa facilità. Rigorosamente da solo, ma piangevo. Adesso sono passati molti anni dall'ultima volta. Anzi, non ricordo quando è stato l'ultima volta. Certo non quando la voce al telefono mi ha comunicato quella notizia. Sul momento ho solo sentito una strana sospensione del tempo che mi schiacciava le spalle e diminuiva il ritmo della respirazione.

Il poliziotto mi ha dato appuntamento in ospedale. Non ho riflettuto che per ospedale intendeva l'obitorio. La camera mortuaria di Niguarda è staccata dai padiglioni di degenza, affaccia proprio sulla tangenziale e quando sono sceso dalla macchina il caldo che saliva dall'asfalto mi pungeva le braccia. Ho continuato a telefonare nevroticamente a mia sorella fino all'ingresso, ma non mi ha risposto. Non so perché il poliziotto abbia telefonato a me e non a lei. Cristina dei due è la più affidabile. Più puntuale nelle visite, nelle telefonate serali, nel ricordarsi i compleanni. Specialmente da quando ha avuto Chiara. La bimba è cresciuta con nostra madre e questo ovviamente le ha unite. Il loro rapporto è diventato quotidiano.

Nell'obitorio c'erano da scendere scale. La temperatura si è decisamente abbassata. Sentivo finalmente rientrare il sudore. Il medico ha tirato fuori i corpi da lunghi cassetti, con la stessa facilità con cui una segretaria preleva moduli prestampati. La colonna degli autopsiati da una parte e quella dei cadaveri che si possono lasciare in pace dall'altra. In quest'ultima avevano stipato i miei. Quando li hanno trasportati al centro della stanza sotto lenzuola bianche ancora non ho pensato a niente. Mi sembravano tovaglie dimenticate sul lavello. Solo quando il medico ha tirato su il primo lenzuolo ho realizzato. Magari risulta difficile da credere ma non ricordo una sola parola del medico. Mentre guardavo a occhi sgranati mia madre e mio padre esposti come farfalle in una teca lui mi spiegava con voce bassa le cause tecniche della morte, che per qualche ragione, forse l'air-bag, non aveva lasciato segni sui volti. Dal lenzuolo sporgevano i piedi. Sul pollice era attaccata una fascetta con un numero di matricola. Gli occhi di entrambi erano chiusi. Chissà chi gli aveva abbassato le palpebre e perché non è usanza chiedere a un figlio o a un fratello se questo gesto lo vuole compiere lui. Mio padre aveva sul volto un broncio bambinesco. Mia madre sembrava crucciata. Non facevano nessuna impressione. Il medico mi ha ripetuto un paio di volte se volevo sedermi e prima di andare mi ha messo sotto il naso un foglio.

“Cos'è?” ho domandato distratto.

“Il documento che certifica il riconoscimento dei corpi, l'ora di entrata e quella di uscita del cadavere da qui dentro”.

Ho firmato.

 

Mia sorella invece ha pianto subito. Mi ha abbracciato come da tempo non faceva. Appena riemerso dal seminterrato sono andato a cercarla a lavoro. Cristina fa l'assistente sociale in una cooperativa comunale dove si occupano di handicappati. Li portano in giro, fanno far loro attività ricreative e culturali, gite per la città e d'estate qualche giorno di mare. Lei si occupa di ragazzi down. Non ero mai stato al suo lavoro, né lei in tanti anni è mai venuta in casa editrice, dove del resto anch'io ormai metto piede di rado. Da quando non abitiamo più dai miei ci vediamo poco. Vite diverse. Lei ha famiglia, io sono spiantato. Lei fa un lavoro con orari regolari, io no. O forse queste sono le balle più a portata di mano. In verità, come capita a quasi tutti quelli che si perdono, ci siamo staccati senza una ragione particolare. Ci siamo fatti assorbire dalle nostre vite, sicuri che i rapporti familiari rimangano lì, che non ci sia bisogno di coltivarli. E piano piano non abbiamo avuto più niente da dirci. I segreti li confidavamo ad altri e quello che più mi dispiace è che non so chi siano oggi per lei questi altri.

Cristina pensava fossi lì per una delle mie solite distrazioni. Le chiavi perse, la macchina portata via dal carro attrezzi, il portafogli rubato da qualcuno sull'autobus. Sulla soglia della cooperativa mi sono venute in mente tante scene da cinema, quelle in cui l'attore annaspa nel silenzio, cerca parole che non trova. Ho cercato di non teatralizzare, ma certe volte è impossibile. È come per le frasi fatte, capita che stiano a pennello. Parole trite che calzano alla vita come un abito da sartoria.

Le ho detto “Forse è meglio se vieni via da lavoro per oggi”. Lei ha fermato una ragazza bionda e me l'ha presentata. Ha detto “Rossella lui è Martino, mio fratello” con quella sua voce che è la stessa di quando era bambina.

Ho dovuto insistere. “Davvero, vieni via”.

Quando le ho ripetuto così Cristina ha iniziato a incupirsi e a guardarmi storto. Siamo andati fuori e si è accesa una sigaretta. Fuma Camel. Proprio quando dovevo parlare ho sentito che le lacrime, con mia grande sorpresa, avevano scalato i condotti ripidi del mio volto. Le sentivo bussare dietro gli occhi.

“Mi ha chiamato la Polizia Stradale. Un tir tedesco ha investito mamma e papà. Sono già stato all'obitorio a riconoscere i corpi”.

Il tempo un'altra volta si è fermato. La prima lacrima è rimasta incastrata nell'occhio e mi ha annebbiato la vista. Pensavo che Cristina mi abbracciasse, invece non l'ha fatto.

 

Gabriele Basilico

 

Al funerale c'era più gente di quella che mi aspettassi. Mamma e papà non avevano molti amici. Non più. I sabati sera li passavano in casa. In pizzeria ci andavano se va bene una volta all'anno. In ferie quasi mai perché papà era diventato sedentario. Al mare della sua Sorrento preferiva la poltrona. Il sole è stato impietoso anche quel giorno e dai passi trascinati mi sembrava che la gente fremesse per tornarsene a casa. C'era anche la sorella di mio padre arrivata da Roma. Guardavo la zia e pensavo a mia madre che soffriva per il silenzio che si era creato tra me e Cristina.

“Tuo padre avrebbe tanto voluto averla vicino sua sorella... Voi due invece abitate attaccati e vivete come due estranei” ripeteva con un'amarezza che le incollava lo sguardo in un punto lontano.

Rassicurarla che tra noi c'era rispetto, che avevamo la possibilità di contare uno sull'altra non serviva. E nemmeno dirle che era piacevole la domenica pranzare tutti insieme.

- In fondo manca solo la quotidianità di un tempo – rispondevo.

Ma mia madre voleva solo comunicarmi il suo dispiacere di madre, non ascoltare le mie ragioni. E dunque è morta con questa delusione senza attenuanti.

Alla fine del corteo una fila di persone è venuta a stringerci le mani e a baciarci le guance. Più d'uno ci ha invitato a cena.

“Vostro padre parlava sempre di voi” ci hanno detto in tre o quattro “Diceva che tu lavori troppo e non ti riposi mai” ha detto una signora a mia sorella. “E che tu fai il traduttore” ha aggiunto il marito col cappello in mano.

Io e Cristina ci siamo guardati furtivamente negli occhi. Non sapevamo il nome di nessuno di loro.

 

Dopo il funerale – la strada fino al cimitero l'abbiamo percorsa a braccetto – non ho più visto Cristina. Siccome lei abita in zona Navigli e i miei erano proprio dietro via Osculati mi sono occupato io della lapide e delle pratiche con l'agenzia funebre. Ho volturato i contratti di luce, gas e telefono tribolando coi call center. Sono andato in banca per sbloccare il conto corrente con cui ho pagato il funerale. Non so se queste incombenze mi abbiano distratto dalla sofferenza, l'abbiano attutita, oppure trasformata in qualcosa di più deteriore.

Cristina è presa con la bambina, dice. Sembra che sia l'unica a questo mondo ad aver avuto una figlia e a dover lavorare. Mi scrive qualche messaggio quando passa dal cimitero. Mi dice dei fiori che ha messo. Le piacciono le camelie. Coi messaggi ci si può anche non sentire per mesi. Solo qualche frase breve e due faccine sceme. Dimenticheremo presto le voci anche di quelli che fanno parte della nostra vita. I visi sostituiti dalle foto ritoccate dei profili.

Nemmeno io però sono passato da lei. Un buon fratello maggiore l'avrebbe fatto, se non altro per senso del dovere. Credo di aver definitivamente deluso Cristina per le poche attenzioni che dedico a Chiara, sua figlia. Cristina si aspettava che fossi uno zio affettuoso e presente, una specie di secondo padre. Insomma, ci hanno fregato le aspettative. Lei voleva essere compresa perché madre, io perché solo. E poi la parola figlio da qualche anno proprio non la riesco più a sentire. Passi la parola amore, coi suoi disgraziatissimi derivati: fidanzata, moglie, matrimonio, famiglia. E passi anche la parola donna. Non ho avuto né amore né donne, e va bene, è andata così. Ma quando uno legge bene ad alta voce come me o lo fa per mestiere oppure lo fa per un figlio: la sera, con la sedia di fianco al letto.

Quando sono tornato a casa dopo il funerale ho mangiato un panino alla finestra. Subito dopo è venuto a beccare le briciole il solito piccione. Non riesco a cacciarlo in nessun modo. Quel bastardo ha un coraggio da felino della giungla, non da bestiola di città. Mentre mangiavo pensavo se adesso ero diventato anch'io orfano. Se mi potevo definire anche io, a quarantasei anni suonati, un orfano a tutti gli effetti. O se si diventa solo gente che ha perso un altro pezzo per strada. Il tempo, si sa, legittima le perdite. Mi sono sdraiato sul divano, con le mani dietro la nuca. Avevo voglia di birra ma l'appuntamento col dietologo l'avevo spostato al giorno dopo e ancora, stoicamente, mi sono trattenuto. Dalla finestra si sentiva la sigla del telegiornale che arrivava dalla casa di fronte. L'inno dei giorni uguali, è la sigla del telegiornale. Quando finalmente è diventato buio ancora pensavo alla parola orfano. Prima al minimo dubbio mi arrampicavo sull'ultimo scaffale della libreria e consultavo freneticamente il dizionario etimologico comprato coi risparmi delle prime traduzioni. Non so un solo numero di telefono a memoria, ma ho la testa piene di radici greche e latine, sanscrite e provenzali. Mi entusiasmavo a cercare di capire come da un gruppetto di consonanti simili a un grugnito nascano piste di parole che si possono seguire e che inaspettatamente deviano per sentieri sterrati. Ora non ci credo più. Un gruppo di consonanti simili a un grugnito resta un gruppo di consonanti simili a un grugnito. Mi sta contagiando una visione del mondo in cui tutto si riduce all'apparenza. Senza più niente sotto, senza più niente dietro. Solo gusci. Lo stesso, per curiosità non per fiducia, mi sono alzato a cercare. Molta polvere su quel dizionario. Un allergico ci avrebbe lasciato le penne. Sono salito sulla sedia girevole. Mentre afferravo il volume ho sentito un frullo d'ali e mi è sembrato che quel bastardo fosse entrato in casa. Mezzo giro a destra, mezzo a sinistra, un altro quarto a destra, e sono caduto. Centoventi chili tutti sul ginocchio.

Si fa sentire la solitudine quando cadi ed è buio. Per sua fortuna il piccione era solo nella mia testa. Mi sono concentrato a pensare all'inesistenza del dolore e mi sono messo carponi a cercare sul vocabolario. Come se niente fosse. Ho allungato la mano per accendere il lume sul tavolino, che per poco non fracassavo. Sotto ho trovato dei calzini e un vassoio. Chissà cosa ci faceva un vassoio da quelle parti. Ho ripreso a sudare. Forse “cieco”, forse “privo di ispirazione”, forse “fanciullo”. Mutazioni verbali, chiosavano i compilatori a piè di definizione. In realtà irrazionali storpiature del tempo, di cui non se ne sa mai niente. L'ho chiuso con violenza, il dizionario. Il ginocchio adesso mi pulsava più forte. Mi sono alzato claudicante. La definizione di orfano, il piccione immaginario, la luce triste del lampione che dalla finestra entrava in sala insieme al rumore dei grilli che frinivano oltre i cancelli della villa... Tutto questo mi è sembrato troppo da sopportare senza una birra. Me la sono bevuta sdraiato sul pavimento del balcone. A grandi sorsi. Tirando profondi sospiri nell'aria blu.

 

 

III

 

Sono rimasto chiuso in casa per giorni. Sul display del cellulare comparivano numeri sconosciuti. Non ho mai pianto. Ho solo sparpagliato il tempo e lasciato più disordine in giro. Mi sentivo giustificato a immaginarmi un ramo nel fiume. Di buono c'è che ho finalmente finito di tradurre Dolci racconti, il ricettario della scrittrice americana. Appena gli ho spedito il file Mustacchi ha provato a rifilarmi un saggio sul vino americano. Un libretto firmato da uno di quei tuttologi da rotocalco patinato. Abbiamo battibeccato un po' al telefono ma alla fine gli ho detto di no.

- Mi prendo una pausa. Risentiamoci a settembre.

Sono uscito di casa solo per sbrigare la faccenda della lapide. Non ho fatto incidere niente oltre alle date. Mio padre probabilmente avrebbe gradito un crocifisso visto che negli ultimi anni si dichiarava credente. Una fede tutta sua, senza chiesa né preti. Forse senza nemmeno preghiere. Ricordo che mi aveva lasciato un santino nel cruscotto della macchina. Frugavo per cercare il libretto dell'assicurazione e me lo sono trovato in mano. Una Madonna su sfondo azzurro, parecchio pacchiano. Volevo restituirglielo ma mia madre ha detto “Non ti costa niente tenerlo”. Frasi come queste mi sembravano solo modi per sviare discussioni e lasciare scadere il rapporto senza più rimorsi. Tutto doveva sempre restare insabbiato in nome di un quieto vivere che era una sua speranza astratta, ma di fatto una prospettiva estranea a tutti e quattro, lei per prima. Ora quelle stesse parole mi appaiono attenzioni di una moglie protettiva. Ecco quello che è successo in questi giorni: si sta ribaltando tutto. La memoria diventa terra arata e voci e ricordi a richiamarli assumono altre dimensioni, prendono significati inediti che io resto inerme a guardare. Come quando gli portava il caffè dopo cena. Gli metteva la tazzina in mano e si appostava a mo' di sentinella a tre passi da lui perché gliela restituisse in fretta. Almeno non vanno sgrassate con la spugnetta, diceva.

“Posso aspettare che si raffreddi o devo ustionarmi la lingua?” gridava lui.

Quelle nevrosi quotidiane mi sembrano oggi nient'altro che il meritato traguardo di poter essere se stessi.

 

Ieri pomeriggio sono andato a trovare Berto. Gli ho detto che sarei passato verso le cinque ma alle quattro ero già in Villa. Di colpo non riuscivo più a restare in casa. Si riprende a vivere perché ci si stufa anche del proprio dolore. A guardarmi dall'esterno, ciondolante tra la scrivania e la cucina - un caffè amaro una doccia, una doccia un altro caffè amaro – mi è salita nausea. Whisky mi ha zampettato sulla gamba ancora dolorante e a guardare la sua espressione stupida provavo una strana invidia e una vigliacca voglia di sbarazzarmene. Così ho recuperato un paio di pantaloni dal cesto della roba da lavare, mi sono infilato una polo e sono uscito. Per strada lo stesso deserto e lo stesso sole torrido che mi stordivano davanti alla porta dell'obitorio. Qualche moscone che ronzava e in lontananza la radio della gelateria Cono o coppetta? dove si erano installati due vecchi. Nient'altro. Dopo pochi passi mi è venuto un crampo alla pancia. Ora mordeva ora si ritirava in chissà quali recessi. Mi sono fermato davanti alla gelateria con la voglia di una brioche con due palline di pistacchio, ma l'incontro col dietologo ormai era alle porte. E non si può dire che nell'ultima visita non fosse stato chiaro: “Finocchi sedano e carote, stop” e ha tagliato con le mani l'aria “In libera quantità ma rigorosamente crudi”.

“Cotti fanno molto male, dottore?” ho chiesto timidamente.

“No, ma se li cuoce poi certamente li affoga nell'olio. E se li affoga giuro che...” e aveva volontariamente interrotto la frase. Giuro che io affogherò lei! questo voleva dire Crivelli, luminare del San Raffaele, un uomo da centoventi euro a seduta. Aveva preso il mio caso sul personale. E prenderla sul personale, si sa, peggiora sempre le cose.

Ho disegnato un percorso scriteriato sul prato della villa. Mi sono appoggiato un paio di volte a una quercia e dopo aver inciampato su due ragazzi che pomiciavano mi sono accasciato su una panchina, con le mani sul ventre. Di fianco due pensionati parlavano accanitamente di calciomercato e vedendomi arrancare sono slittati sulla panchina a fianco. Forse non era solo fame. Era proprio mal di stomaco. O forse era la stessa fitta che assaliva la mamma quando diceva “ci ho l'anima secca”. Io tornavo da scuola, forse otto forse nove anni, e ancora con lo zaino in spalla le chiedevo la merenda. Lei non si alzava nemmeno dal divano, restava con le mani a protezione sul grembo e lo sguardo chino. Rispondeva solo “oggi ci ho l'anima secca”. Una frase che trovavo spaventosa perché non capivo che significasse. Stava male? Era annoiata? Le stava per accadere qualcosa di brutto?

Forse stava succedendo anche a me. Un incrostamento dell'anima, come una noce di tempera dimenticata su una tavolozza. Un rinsecchimento che non fa funzionare gli ingranaggi interni e ti obbliga a restare seduto col ventre tra le mani e lo sguardo assente.

Appena ho ripreso fiato mi sono tolto la maglietta e ho infilato la testa sotto la fontana. Capelli e barba bagnati. Due bambini in bicicletta mi sono sfrecciati vicino e mi hanno gridato “lardone”. Poi la chiamano l'età dell'innocenza. Ho scosso i capelli in aria come fanno i cani dopo il bagno e appena ho smesso di gocciolare mi sono incamminato verso la biblioteca.

Berto era dietro il banco prestiti con la faccia appiccicata allo schermo. Mi sembrava concentrato a sbrigare chissà quale pratica invece guardava un sito di viaggi last minute. È subito venuto ad abbracciarmi. Poi mi ha rimproverato per non avergli risposto al telefono.

Siamo andati sul balcone della biblioteca. Lui ha fumato una sigaretta. In cielo non c'era una nuvola. Nella luce del pomeriggio il parco sembrava ancora più immenso. Querce maestose nell’aria azzurra. Qualcuno faceva jogging, qualcun altro se ne stava spaparanzato sul prato a leggere, un gruppo di ragazzi di colore aveva organizzato una partita di calcio. Ero l'unico in tutto quel parco a cui riusciva così impietosa l'estate?

 

A casa Berto si è messo a raccattare calzini e magliette sparsi in giro, a posare nel lavandino le tazze da caffè, gli asciugamani dal divano.

“Beh, poi non ti lamentare se qui dentro una donna fa fatica a metterci piede, sembra un bordello”.

“La vita è troppo corta per piegare la roba nell’armadio”.

“Però è anche troppo bella per vivere nella merda!”.

Ho sorriso.

“Vieni sul balcone, lì è pulito” gli ho detto.

Abbiamo bevuto una lattina di birra. Poi un'altra. Lui ha fumato un paio di Marlboro.

“Stai un po’ meglio?”.

“Ho ricostruito la dinamica dell’incidente e credo che sia stato tutto molto veloce. Se rendersi conto è soffrire, allora non dovrebbero aver sofferto” gli ho risposto guardando il cielo biancastro.

“E tu come stai?”

“Ci sono ancora un sacco di cose da sbrigare. La casa, i soldi… non ce la farò mai a sistemare tutto…” ho continuato con le mani nei capelli e i gomiti piantati sulle ginocchia.

“Sì, ma a parte le cose da sbrigare, tu come stai?” ha ripetuto scandendo le ultime due parole.

“Posso fare qualcosa?” ha proseguito Berto paziente, vedendo che non rispondevo “Sai che nemmeno io farò ferie”.

“Mi dovrebbe dare una mano mia sorella Cristina. E invece ci siamo rivisti al funerale, poi è sparita di nuovo”.

Berto mi ha guardato con occhi interrogativi “No, non abbiamo litigato” gli ho detto per risparmiargli una domanda superflua “semplicemente non ci vediamo. Ormai è anni che andiamo avanti così, lo sai”.

“Da giovani eravate sempre insieme” ha detto parlando a se stesso più che a me.

“La giovinezza è sempre un’eccezione”.

Ho lanciato la lattina nel cestino che traboccava di altre lattine, senza preoccuparmi di vederla rotolare a terra.

“Ma possibile che in casa tua qualsiasi contenitore tracima?” ha vociato sperando di farmi ridere.

Ho scosso le spalle. Mi sentivo vuoto come quella lattina.

“Il fatto è che non ci vediamo mai” gli ho detto guardando un punto a caso del cielo “La morte di mia madre e mio padre, oltre a tutto quello che puoi immaginare, mi imbarazza perché non ho lacrime da versare e perché come fratelli ci mette di fronte uno all’altra” ho cercato di soffocare la tosse che improvvisamente mi ha assalito “Siamo restati noi due, senza mediatori. E non so cosa siamo ancora capaci di fare, insieme”.

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Parigi. Il marzo infinito

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#75marzo.

Tre giorni fa la Loi Travail è scandalosamente passata grazie al 49.3 (articolo della Costituzione che consente al Governo di adottare una legge senza il voto del Parlamento) ma le notti passate in piedi sono molte di più, e il Movimento «ne lâche rien» (non molla), anzi. La città si accende di nuove occupazioni e investimenti di spazi fortemente simbolici. Il #73marzo, mentre gli studenti occupavano un’ala delle Beaux-Arts con i militanti di Nuit Debout, l’AG (assemblée générale) si è tenuta tra lo sbocco di un ponte e i semafori spenti sul Quai d’Orsay davanti all’Assemblée Nationale, e faceva un certo effetto vederle giustapposte, queste due assemblee.

…mentre scrivo leggo su Le Monde che l’occupazione delle Beaux-Arts è stata sgomberata dalla polizia stamattina e ho un moto di sconforto, mi dico che è tardi, che questo entusiasmo dovevo scriverlo prima, sbrigarmi prima a raccontarli, questi giorni; poi penso alla disciplina e alla determinazione della piazza, che fa i bagagli e si autosgombera ogni sera per tornare il giorno dopo, adesso ancora più motivata dal colpo di mano di un primo ministro che per applicare una legge iniqua ricorre a uno strumento antidemocratico come il 49.3; e comunque, come dice uno slogan di Nuit Debout, il Movimento non si limita a contrastare la Loi Travail, ma è «contre la Loi Travail et son monde» – mondo cui da 46 giorni oppone la piazza; e tra un’ora inizia lo sciopero dei precari della BNF (la Bibliothèque Nationale), che camionisti, ferrovieri, portuali e lavoratori delle raffinerie seguiranno a ruota.

 

La sera del #59marzo, a ridosso della quarta manifestazione contro il progetto di legge, mentre in un’AG gremitissima si dibatteva con i sindacalisti invitati (tra cui il segretario generale della CGT Martinez) la necessità di indire uno sciopero generale (quello memorabile del maggio ’68 durò tre settimane), con Bertrand siamo andati a trovare i suoi colleghi di Radio France, ora in piedi e in onda da Radio Debout, sulla sinistra del gazebo dell’AG accanto alla Logistique – che fronteggia i problemi pratici delle varie commissioni di stanza sulla piazza – e alla tenda della Cantine, la mensa, dove servono piatti a base di resti di mercato e donazioni cittadine per un prezzo a discrezione dell’utente; abbiamo curiosato sul banchetto di Biblio Debout – con la sua libera circolazione di libri –, ci siamo seduti alla Commission Vocabulaire – la parola discussa era «politique» – e io mi sono distratta a osservare l’operato della Commission Accueil et Sérénité, l’effettiva gentilezza con cui neutralizza gli animi eccessivamente infiammati e/o fradici, un’abilità che le è valsa le lodi perfino del prefetto; mi sono distratta a pensare la complessa struttura di questa occupazione, che assomiglia sempre più a un villaggio e ha una sua avvolgente e dinamica armonia – il #73marzo, di ritorno sulla République a tarda sera dall’Assemblée Nationale, Adil, membro della Commission Écologie, mi indicherà un lampione dicendo: vedi, noi siamo sempre lì. E a un tratto sono arrivati: gli zadistes, insieme agli studenti delle Beaux-Arts, trascinando (su ruote?) una montagna di assi e altro materiale. Bertrand è scattato in piedi e siamo corsi all’albero intorno al quale, in un tempo incalcolabile ma molto breve, una cinquantina di persone coordinate in modo sorprendente hanno costruito un fortino a pianta circolare di una decina di metri di diametro e forse cinque metri d’altezza: qui si sarebbero rinchiuse quando la piazza si sarebbe svuotata e avrebbero resistito alla polizia oltre l’ora consentita. All’ingresso del fortino, un cartello dice «Prenons la place qui est la notre», e io penso: quanto è vero, e quanto questi agili costruttori e arrampicatori lo incarnano, il rapporto con lo spazio, con il cosiddetto suolo pubblico (dalla cima dell’albero uno sta tirando dei fili che collegano la costruzione alla statua di Marianne); sono degli splendidi animali urbani e tutt’intorno la gente è allegra, quasi euforica. E tutt’intorno, i gendarmi e i CRS chiudono la piazza. Alle 22:30, le sette vie d’accesso alla République sono tutte bloccate dalla polizia in assetto di guerra con i furgoni schierati e i lampeggiatori accesi – rimarranno accesi per ore, in un’atmosfera assurdamente fantascientifica.

 

 

La folla gradualmente si dirada e la sproporzionata presenza delle forze dell’ordine è sempre più incombente. Con Bertrand e Silvère circumnavighiamo la piazza e i poliziotti sono tantissimi, il clima chiaramente di attesa: loro aspettano che i cittadini rientrino ordinatamente a casa per intervenire indisturbati, gli occupanti aspettano il mattino. E sono festosi. Qualcuno è riuscito a introdurre un impianto stereo (gli altoparlanti dell’AG vengono rimossi ogni sera all’ora imposta dalla prefettura) e si balla. Bertrand è stanco ma io e Silvère vogliamo restare, ballare e sostenere, ci pare vile lasciarli ora, dopo averci passato la serata; ci pare impossibile che questo popolo in festa possa dar luogo a uno scontro. Qualcuno al microfono grida «chi può resti con noi, chi non può, torni domattina coi croissants!». Seduto sullo zoccolo della statua, un ragazzo di forse vent’anni mi dice, lucidissimo: ho imparato più qui in un weekend che in un anno a scuola o altrove, ho scoperto un sacco di modi di vedere e pensare il mondo, e poi la sera, sempre qui, fai festa e conosci gente nuova; fantastico, no? ma domani si parlerà solo di quello che succede con loro – e indica la schiera di poliziotti all’imbocco di rue du Temple.

 

Sono le due meno un quarto, Bertrand continua a essere stanco, io e Silvère cediamo. Li lasciamo lì festeggianti e prendiamo rue du Faubourg du Temple aprendoci un varco tra i CRS, e per la prima volta lo guardo da molto vicino, il flash ball, questo fucile che coi suoi proiettili di gomma ne ha già accecati più di uno. I miei amici mi salutano 700 metri più su, al civico 84 dove vivo, e appena metto piede in casa l’aria esplode. Le mie finestre affacciano su un cortile interno eppure li sento chiaramente, i botti e le urla. Mezz’ora dopo scendo in strada ed è un teatro di guerra: fumo, sirene, frotte di poliziotti che risalgono la via attaccati ai walkie talkie. Proseguo in compagnia di qualche ubriachissimo – gli habitué notturni di questo quartiere –, supero un automobilista incazzato sceso dalla macchina a spostare un cassonetto imprecando «ils font chier», guardo il bar La bonne bière un po’ più giù sulla sinistra e penso che questa stessa via appena risalita dai casseurs qualche mese fa l’hanno percorsa in senso inverso i terroristi dell’Isis falcidiando gli avventori en terrasse.

 

 

Non mi tornava: non mi tornava, il contrasto tra l’allegria disarmante e disarmata della piazza mezz’ora prima e quello scenario di guerriglia urbana.

Nei giorni successivi ho visto documenti video e letto testimonianze di soprusi della polizia su studenti pacifici ai margini della piazza, e non ho potuto fare a meno di pensare a Genova. Di sentire Genova luglio 2001 nell’aria.

Sono andata alla manifestazione del primo maggio con Silvia e Silvia. Una densità di forze dell’ordine mai vista, mi conferma una delle due silvie, iscritta prima al Parti de Gauche e poi al PC. Ci siamo progressivamente spostate verso la testa del corteo e quando abbiamo raggiunto i liceali, poco prima di Nation – la piazza d’arrivo –, il corteo era fermo. O meglio, decapitato. Mi sono arrampicata su una finestra. La polizia aveva accerchiato i cosiddetti casseurs (manifestanti violenti – pare fossero una cinquantina) spezzando la manifestazione e soprattutto gasando sconsideratamente e indiscriminatamente la folla – quella folla molto eterogenea composta anche da famiglie, e quindi bambini, di qualunque corteo del primo maggio. Lembi tossenti e arrossati di manifestazione cominciavano a staccarsi e ripiegare, indignati quanto il resto dei manifestanti determinati invece ad arrivare alla Nation – perché «non si è mai vista una manifestazione del primo maggio che non arrivi a destinazione» – come pure a mai più votare «questo partito di destra al potere». Hanno gasato ancora. Gli abitanti della via ci hanno aperto i portoni. La polizia ci ha tenuti fermi più di un’ora e siamo arrivati a Nation con la netta sensazione che qualcuno in piazza non ci vuole. Ci hanno voluto en terrasse dopo gli attentati, storditi e consumanti, ma in piazza consapevoli e dialoganti – e, certo, protestanti – no, non ci vogliono proprio. All’uscita dalla piazza un CRS: «madame, retirez les étiquettes, s’il vous plaît». Quali etichette dovrei togliermi? Intende gli adesivi distribuiti dalle varie parti in lotta? Mi vien da ridere. Lui insiste. Non rido più e gli dico vibrante: «tutto ciò è completamente suicida e non ve ne rendete neanche conto». Su rue du Faubourg St. Antoine una delle due silvie, quella avvezza alle manifestazioni, si apre la giacca e indicandosi il petto mi dice: lo vuoi?

 

Non sono una militante, ma mi sono stampata sul petto il suo adesivo con scritto «colère».

 

 

Lunedì #63marzo sono andata al seminario di antropologia visiva che Didi-Huberman tiene all’Institut national d’histoire de l’art, e che quest’anno si intitola Peuples en larmes, peuples en armes: un percorso che indaga le varie forme di «soulèvement» (sollevazione, rivolta) spaziando dall’arte alla filosofia, partendo dal presupposto che il lutto mette in moto il mondo e la potenza del gesto di rivolta risiede nel desiderio. Guardo i dipinti di Goya e penso a quello che sta succedendo, a quello che è successo negli ultimi mesi in questa città e a un tratto mi pare che in questo seminario si specchi l’attualità, e Didi d’altronde non esita a farvi allusione. Questa società francese che pareva intorpidita e depressa si sta scuotendo e torna a essere desiderante, a chiedere altro e di meglio della paura che le è stata propinata per mesi. On vaut mieux que ça (valiamo più di così).

 

Esco motivatissima a raggiungere l’AG, con quella carica, quella felicità direi che ti mettono addosso ogni volta le riflessioni di Didi-Huberman e la generosità con cui condivide i suoi entusiasmi, ma all’altezza di Place des Victoires – siamo nel primo arrondissement e al centro della piazza circolare troneggia una statua equestre di Luigi XIV – il terziario seduto en terrasse prende l’aperitivo, e Place de la République è così lontana che mi sento quasi ridicola. Però ho promesso ad Anna e Marco che ci vado, a sentire che cosa dicono, e ho promesso a me stessa che stasera ci parlo, a un gendarme; perché sospetto che ce li terremo nel quartiere in abbondanza e per lungo tempo, quindi, tant qu’à faire.

Parlando da sola come una pazza cammino provando i possibili «approcci al gendarme», e quando da rue Notre Dame de Nazareth svolto in rue du Temple ci rimango di merda: un cordone di CRS (o gendarmi? che ne so, sono stufa di stare a distinguerli) che fermano i cittadini in transito e frugano le borsette. Mi prendono così in contropiede che le mie prove d’approccio risultano vane. E la piazza, quindi? Sotto chiave, territorio nemico (di chi?), o zona franca. Loro e noi. È avvilente. Raggiungo l’assemblea dove gente senza birra – «à République, le 90% c’est des mecs bourrés», a République il 90% della gente è sbronza, mi dirà un gendarme (o CRS?) all’Assemblée Nationale qualche sera dopo – discute, di cosa?, ma dei soprusi delle forze dell’ordine, naturalmente. E dell’opportunità o meno di dissociarsi dai casseurs. Un esponente della Commission Sdf (senzatetto) prende la parola in difesa della polizia che, dice, nelle banlieues dove a lui e ai suoi colleghi capita di dormire li protegge dalle continue aggressioni notturne. Si dibatte, qualcuno gli fa notare che qui a Place de la République e in generale nei confronti del movimento la polizia non ha più una funzione protettiva, ma meramente (e violentemente) contenitiva. Io penso che intanto questa dicotomia spaziale mette ancora più in evidenza ciò che è in atto, questo esperimento di condivisione e occupazione alternativa del suolo pubblico, questo ridisegnarsi dell’interazione sociale. E inizio a vedere, seduta dentro a un’AG molto concentrata su cui comincia a piovere e in cui qualcuno prende la parola per avvertirci che ci stiamo invischiando in un dibattito focalizzato sulla repressione, che così perdiamo energia e ci scostiamo dagli obiettivi e facciamo il gioco del repressore, inizio a vedere chiaramente come il fattore spazio e il fattore tempo siano fondamentali sia per capire le logiche di un movimento sociale come questo, sia perché tali logiche possano radicarsi e produrre esiti concreti.

 

Torno a casa costeggiando le camionette coi poliziotti dallo smartphone in mano, a riposo su facebook o in qualche altro luogo, e paradossalmente questo primo tratto di rue du Faubourg du Temple, che di solito con i suoi kebabbari e i suoi teatri non esattamente d’avanguardia trovo tetro, mi appare più piacevole: nonostante la dicotomia noi/loro che qualcuno vorrebbe imporre, l’aria si è rimescolata.

 

 

Martedì #64marzo torno a République con Camilla, la compagna di Bertrand che staserà rimarrà a casa con il loro bambino di tre anni e mezzo.

Sedute all’AG, io tendo a fare come al cinema ma lei non si lascia distrarre, è attentissima. Le brillano gli occhi più del solito, da quando c’è Nuit Debout. Come sempre le varie commissioni e i vari collettivi vengono a riferire delle azioni intraprese durante il giorno: hôpital debout è andato non so più in quale ospedale a sostenere il personale sanitario che protesta contro l’introduzione di misure dettate dall’austerity, quelli di lutte debout stanno sensibilizzando gli impiegati delle poste e di altri settori del servizio pubblico sulla necessità di uno sciopero generale… Tra le azioni previste per il giorno successivo, una portavoce del Comité de Soutien des Migrants de la Chapelle chiede rinforzi per il Lycée Jean Jaurès, un liceo dismesso del diciannovesimo arrondissement, da dieci giorni occupato da trecento richiedenti d’asilo e del quale il tribunale amministrativo ha decretato lo sgombero l’indomani all’alba. Chi è disposto a recarsi sul posto in sostegno agli occupanti può unirsi tra cinque minuti a una delegazione del comitato, o altrimenti l’appuntamento è per domattina alle cinque davanti all’entrata principale del liceo. Camilla mi guarda e col suo accento romano mi dice: che facciamo, andiamo?

 

Leggi anche:

Parigi. Il marzo infinito (parte prima)

 

Fotografie dell'autrice.

Maurizia Balmelli è nata e cresciuta a Locarno, Svizzera. Ha vissuto quattordici anni a Torino, un anno a Napoli e da cinque vive a Parigi. Traduce dal francese e dall’inglese per varie case editrici italiane. Tra gli autori tradotti: Cormac McCarthy, Romain Gary, J.M.G. Le Clézio, Agota Kristof, Emmanuel Carrère, Jean Echenoz, Yasmina Reza, Aleksandar Hemon , Martin Amis.

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Nuit Debout (parte II)

Delete l’arte di dimenticare

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Prologo: B.I.

 

Inizierò con un prologo. Nell'aprile del 1995 comparve sulla rivista «Iride. Filosofia e discussione pubblica» un mio saggio dal titolo: Il velo e il fiume. Riflessioni sulle metafore dell'oblio. Quando l'articolo uscì non sapevo ancora che il mondo sarebbe cambiato di lì a pochissimo per me e per molte altre persone comuni (per gli addetti ai lavori ovviamente già prima); proprio due mesi dopo mi recai negli USA con una fellowship e lì, nella biblioteca dell'Università di Princeton, assistetti per la prima volta alle prestazioni di Internet; mi fecero infatti vedere come era possibile collegarsi a siti di altre università e entrare in relazione col mondo. Nel 1996, prendendo servizio all'università a Lugano, ebbi il mio primo indirizzo elettronico e la possibilità di mettermi in contatto con la posta elettronica con chiunque sulla terra avesse un analogo indirizzo. Di quel momento alla Firestone Library ho il ricordo vivissimo di un'esperienza sconvolgente, mentre di altri momenti trascorsi a Princeton conservo un ricordo sbiadito. In questo prologo, intitolato b.I., before Internet, ho usato alcune metafore della memoria e dell'oblio per poter raccontare quell'episodio: ho parlato di ricordi vivi, sbiaditi, richiamati alla memoria come se fossero persone o stoffe che hanno perso i colori originari. Sono stata costretta a far così perché realtà come la memoria e l'oblio non si possono concepire né tanto meno esprimere senza ricorrere a metafore, esattamente come il tempo, di cui non si può parlare che per metafore. Il ricordo poi non è stato tirato fuori a caso dal magazzino della memoria; è il ricordo di quello specifico evento che ha rappresentato per me – ognuno avrà avuto il suo – la perdita del mondo dell'oblio e l'ingresso nel mondo della memoria. In questa specie di prologo ho comunque detto già molte delle cose che mi premeva esporre: che c'erano da sempre la memoria e l'oblio, che c'e da pochissimo tempo internet e che ora ci sono la memoria e l'oblio ai tempi della rete, i quali svolgono un ruolo diverso che in precedenza. Quell'articolo del '95 come pure il libro di Weinrich sull'oblio – l'opera più geniale che sia stata scritta sul tema – che è del 1997, risalgono all'epoca avanti Internet, b.I. oppure a.I., a piacere. Poiché dunque il salto l'abbiamo fatto e nella rete ci stiamo dentro ogni giorno di più, e la rete non dimentica, the net never forget, non me la sono sentita di ignorare il fenomeno e di parlare delle metafore dell'oblio nell'età classica, ma ho preferito inglobare anche l'età presente. 

 

Condurrò la mia argomentazione nel modo seguente: dopo il prologo riproporrò una collaudata ripartizione delle metafore della memoria e su di essa imposterò la mia analisi delle metafore dell'oblio, vecchie e nuove, mostrando come esse si modellino sullo stesso paradigma, adattandosi con la coerenza e le ragioni delle metafore, che non sono proprio ferree anzi. Mi soffermerò poi brevemente sul comando delete/cancella della tastiera, sul senso e sulla metaforica di questo termine, e concluderò segnalando alcuni dei rischi più gravi che corrono gli attuali comportamenti scientifici quando si fa cadere nell'oblio qualcosa di importante. 

 

Metafore della memoria

 

Nel 1976 Harald Weinrich aveva pubblicato uno studio importante sulle metafore della memoria (che riprendeva suoi lavori precedenti), che sarebbe in parte confluito in Lethe, del 1997 come sappiamo, pubblicato nella traduzione italiana, mia, nel 1999. In quel saggio del '76, Metaphora memoriae, Weinrich scrive che la grande quantità di metafore con le quali scrittori e filosofi si sono espressi sul tema della memoria sono tratte quasi esclusivamente da due campi metaforici che egli chiama «metafore del magazzino» e «metafore della tavoletta di cera». Quell'intuizione continua a essere valida: così come per la memoria esistono metafore che non si possono integrare né nell'uno né nell'altro campo metaforico, altrettanto è evidente che i due modelli sono assolutamente prevalenti e si disputano il favore dei pensatori quando non sono compresenti nello stesso autore. Rimane convincente anche la spiegazione offerta da Weinrich secondo la quale tale duplicità è relativa alla duplicità del fenomeno del ricordare: le metafore del magazzino si raccolgono prevalentemente intorno al polo della memoria, cioè delle cose ricordate, quelle della tavoletta invece intorno al polo del ricordo, o meglio al processo del ricordare, con tutta la vaghezza e le imprecisioni da una parte, ma anche, dall'altra, con tutta l'efficacia e l'incisività tipiche delle metafore.

 

 

La metaforica della memoria come traccia nella tavoletta di cera si trova per la prima volta nel Teeteto di Platone, 191 d-e, dove Socrate spiega a Teeteto:

S - ...supponi che nelle nostre anime si trovi una massa di cera, in qualcuno più grande, in qualcuno più piccola, e in qualcuno di cera più pura, in qualcun altro di cera più sporca e indurita [d] e in altri di cera più molle, in altri ancora di consistenza intermedia.

T – D'accordo.

S – Diciamo allora che questo è dono di Mnemosine, la madre delle Muse, e che in esso, ponendolo sotto le nostre percezioni e i nostri pensieri, come se vi imprimessimo dei sigilli, imprimiamo ciò che vogliamo ricordare fra le cose che vediamo, udiamo o pensiamo. Di ciò che viene impresso abbiamo memoria e scienza...; ciò che viene cancellato...invece, lo dimentichiamo e non ne abbiamo scienza.

 

La metaforica del magazzino della memoria è sviluppata invece da Agostino nel libro X delle Confessioni dove si parla del tempo e dove tutte le metafore, per la memoria e per il tempo, sono spaziali; di questo spazio o luogo Agostino si rende perfettamente conto che non è un luogo, è un non-luogo e infatti così lo chiama, non locus (interiore loco, non loco, X, 9, 16), altro che Marc Augé, un luogo che non ha luogo, un luogo che non è luogo eppure, paradossalmente, contiene così tanto.

Dopo il saggio di Weinrich che imposta la ripartizione impronta/deposito, io scrivo il mio saggio sulle metafore dell'oblio, insistendo sulle due immagini del velo dell'oblio e del fiume dell'oblio, che Weinrich riprende a sua volta in Lete. Se ora mettiamo insieme le sue considerazioni con le mie e con quello che è stato scritto dopo di specifico sulle metafore della memoria e dell'oblio, che davvero non è molto, arriviamo a una duplice constatazione.

 

Primo, non possiamo che confermare la permanenza e la assiduità, fino ad oggi, dei due modelli della memoria, l'impronta e il magazzino, per il processo del ricordare e per la cosa ricordata; secondo, non possiamo che convenire sul fatto che le metafore dell'oblio si costruiscono su questi due modelli ad essi adattandosi, con tutta la vaghezza e l'imprecisione ma anche con tutta l'efficacia, ripeto, delle metafore, e inserendo una specificità del dimenticare rispetto al ricordare: il fatto che l'oblio presenta caratteri negativi che la memoria non ha. Ricordare è «bene», per dir così – eccetto che nei casi estremi di persone con memoria eccezionale dalla quale sono oppresse – dimenticare è «male», soprattutto quando la dimenticanza è involontaria; se invece alla base del dimenticare c'è una volontà attiva di cancellare, in francese effacer, togliere dalla faccia, il processo è percepito positivamente perché la cancellazione è riuscita (se poi si vogliono cancellare dalla storia, facendoli dimenticare con una censura della memoria, episodi o personaggi sgraditi, questa è un'altra storia).

 

Metafore dell'oblio

 

Passiamo ora a presentare le metafore dell'oblio, anch'esse tratte prevalentemente da due campi metaforici che rappresentano un'elaborazione dei campi metaforici della memoria: metafore delle acque (profonde) e metafore della cancellazione della scrittura.

Se si immagina la memoria come un magazzino – partiamo da questa metafora – un deposito, un ricettacolo (Agostino parla di recessus, 8, 13 e receptaculis, 8, 12), l'oblio viene a trovarsi nella sua parte più profonda, buia, umida, bagnata, piena d'acqua. Questa può essere l'oscura profondità del pozzo di Thomas Mann («profondo è il pozzo del passato»), il «profondo deposito dell'io» di Hegel, la «oscura dimenticanza» di Shelling, il «cupo oblio» di Victor Hugo, «l'azzurro oblio», azzurro come le acque marine, di Nietzsche, l'«oblio profondo» di Blanchot. In questo modello l'acqua è spesso presente, sia che si trovi in fondo al pozzo, sia che, per i retori romani, circondi i luoghi (loci) della memoria, che stanno fermi ed eretti mentre l'oblio giace tutt'intorno, sia che avvolga la zattera della memoria in Kundera, sia che si estenda e si allarghi come laguna dell'oblio ne Die Ausgewanderten, Gli emigrati di W.G. Sebald, sia che scorra come acque dell'oblio, acque del tempo, acque dalle quali i ricordi del passato «risalgono a galla» o «emergono alla superficie». 

 

Talvolta il deposito della memoria è bucato come un setaccio o un colabrodo: lo dicono due passi della fine del secolo XVIII, uno del Tristram Shandy di Sterne, «a memory like unto a sieve, not able to retain what it has received», l'altra di Kant che descrive la propria smemoratezza – Kant soffriva di Alzheimer – allo stato in cui la testa è come «una botte piena di buchi». Ricordi che escono dai buchi del setaccio per finire nel fiume dell'oblio o ricordi che dai buchi scivolano fuori come acqua: la metaforica rende bene il fenomeno del passaggio di proprietà ben noto ai metaforologhi: acqua che si beve, acqua che ci beve. Bere l'acqua del Lete provoca dimenticanza, come spiega l'ombra di Anchise al figlio Enea che è riuscito a incontrarla nel Tartaro, come narrato da Virgilio. e infatti le anime destinate a dimenticare le loro esistenze passate per poter incarnarsi in nuovi corpi longa oblivia potant, bevono lunghi oblii; ma l'acqua che si beve è anche l'acqua che beve, che inghiotte i ricordi, sicché il fiume dell'oblio è sia il fiume la cui acqua, se ingerita, provoca l'oblio, sia il fiume d'acqua che beve ricordi e memorie, talvolta permettendo loro di emergere, talaltra assorbendoli per sempre nei suoi strati più reconditi.

 

La persistenza della memoria, S. Dalì. 

 

Anche l'autore di un recente testo, del 2009, tradotto in italiano nel 2011 e dedicato alla virtù dell'oblio nell'era dei computer, Viktor Mayer-Schönberger, non sfugge, per parlar di memoria, alla metaforica del magazzino (store, storing, storage) e, per parlar di oblio, a quella della profondità e dell'oscurità del deposito, dell'acqua nella quale si cade o si sprofonda «endeless sea of bits in which we risk to drown», dove le informazioni sono «immersed in her past» o rischiano di «drown in the sea of sensory impression». Coesiste peraltro nello stesso autore, senza che egli stesso si ponga troppe domande, il modello della memoria quale «tavoletta di cera». Mayer-Schönbeger parla di «electronic footprint», di fatti passati «etched like a tattoo in to our digital skins», di memoria «etched in stone» quanto paradossalmente dotata di una buona dose di «malleability». 

 

Tornando indietro da Mayer-Schönbeger a Platone (si parva licet) attraverso Bergson, Schopenhauer, Racine ecc. notiamo, a latere, che la metafora della tavoletta di cera si sovrappone e si confonde sovente con quella dell'impressione, con l'idea che immagini ed eventi forti possano venir impressi nella mente come un sigillo, come un carattere a stampa. L'impressionabilità della mente è stata tradizionalmente attribuita alle donne: sono loro che con la loro mente morbida e docile si lasciano impressionare come una lastra fotografica, fino al punto di trasmettere le loro impressioni al feto: lo dimostrano sia la strana vicenda di Clorinda, nata bianca da genitori mori perché la madre aveva a lungo guardato una statua bianca della Vergine durante la gravidanza, come pure la storia del piccolo Ciro della Tammurriata nera, di Nicolardi e Mario, nato nero da mamma bianca perché la genitrice era rimasta sott'a bbotta impressiunata.

 

Al di là della parentesi di gender, quale metafora dell'oblio nascerà dal modello della traccia impressa? Soprattutto per quanto riguarda l'oblio volontario, in azione quando si vuole deliberatamente cancellare (anche questo metafora: si cancella quando si tirano su una scrittura dei freghi per lungo e per traverso che rendono la figura di un cancello)? Sarà il gesto di rendere liscia la tavola di cera incisa: è questa la metafora implicita nel verbo latino obliviscor e nel sostantivo oblivio, da cui gli italiani oblio, obliare, obliterare ecc.), che sta per render liscio, levis, spianare le tavole della mente, togliere rilievi e riempire incavi, anche quelli lasciati dai punti, quindi in questo caso ex-pungere, espungere, cancellare, eliminare.

 

Delete

 

Oggi invece di affaticarsi a lisciare cera o a tracciare cancelli sulla pergamena o sulla carta, per gettare i dati nel pozzo dell'oblio basta premere il tasto delete, sul cui nome e sulla cui funzione spenderemo ora qualche parola, anche per rendere merito al titolo.

Il termine inglese delete, che significa rimuovere qualcosa di scritto o di stampato, come primo significato, e poi cancellare, espungere, togliere, viene direttamente dal participio perfetto del latino dēlēo, dēlēre, fratello del greco dēléomai. Dēlēo e dēléomai hanno entrambi un senso ben più aggressivo del cancellare uno scritto: dēléomai sta per «ferire, danneggiare, distruggere», e l'aggettivo dēlētērios, diventato poi termine prevalentemente medico che sta per qualcosa di nocivo, che avvelena e distrugge. Per dēléomai però, dichiara apoditticamente lo Chantraîne, «pas d'étymologie». 

 

Forse il latino dēlēo ci offre qualche speranza in più, dal momento che risulta un verbo composto, da de, che designa allontanamento, e li, una radice che ha che fare con il verbo latino lino, linire = lenire, ammorbidire con unguenti, spalmare, lisciare, cancellare: come scrive Ovidio nella prima delle Epistole dal Ponto, alcuni dei suoi versi meritano di essere lisciati, cancellati (plurima cerno, me quoque, qui feci, judice digna lini). In greco lo stesso concetto è reso con leio, ammorbidisco, lenisco, rendo morbido e liscio. Nel passo del Teeteto sopra citato, quando Socrate parla del blocco di cera cancellato usa la forma verbale del verbo exaleífo, composto di ex e aleífo, ungere, spalmare, anche intonacare e, in senso traslato, cancellare, spegnere, estinguere: viene così confermata la vitalità operativa della metafora della memoria come impressione anche nella faccia negativa dell'oblio. Delete come de lethe: rendi liscio e spiana, rendi all'oblio. Nel dimenticare la memoria, per usare le parole di Mayer-Schönbeger, sarà «erased», «expunged», «delete». 

 

Rischi dell'obliovinismo scientifico

 

La negatività dell'oblio viene però oggi ribaltata, afferma lo stesso Mayer-Schönbeger, dal fatto che viviamo nella condizione diametralmente opposta: se per millenni il difficile fu ricordare e facile il dimenticare, tant'è che venne inventata ogni sorta di supporti per la memoria (pittura, scultura, scrittura, fotografia, cinema, registrazioni ) nell'attuale epoca digitale, dove ogni cosa inserita in memoria vi rimane in maniera indelebile (the net never forget), il difficile è dimenticare. La sua proposta è di istituire come rimedio a questo fenomeno, che rischia di cedere ad altri il potere di controllo su noi stessi, una data di scadenza per i dati, come per il latte, programmando il computer a dimenticare, come fanno gli umani. Ci sarà qualche differenza, perché nella mente umana i ricordi svaniscono a poco a poco e in maniera casuale e incontrollabile mentre col computer la scelta è digitale, sì o no, uno, due, tre, via (sono i tre secondi che ognuno di noi impiega per decidere se tenere una foto o una mail o no, e proprio per non perdere quei tre secondi, decidiamo di tenere tutto). La tesi è interessante e pure il libro delete lo è, eppure ha un grave difetto. Il fatto è che il suo elogio dell'oblio e le sue proposte di pratiche per dimenticare, Mayer-Schönbeger è il primo a metterli in pratica dove non dovrebbe; dimentica infatti di citare Weinrich, dimostrandosi così seguace dell'obliovionismo scientifico, Oblivionismus der Wissenschaft, lo chiama Weinrich, praticato da molti ricercatori anglofoni o anglofili, la cui prima regola proclama:

 

- ciò che è pubblicato in una lingua diversa dall'inglese – forget it (il libro di Weinrich è stato tradotto in inglese, quindi, strettamente parlando, avrebbe potuto sfuggire dalle maglie della prima regola ma sicuramente NON della seconda:

- ciò che è pubblicato in forma diversa da un articolo in una rivista scientifica – forget it. In quanto monografia dunque, fuori, anche se l'editore è più che prestigioso. Fuori anche il mio saggio dal momento che, pur avendo forma di articolo in una rivista scientifica, non è in inglese. E fuori in ogni caso entrambi anche rispetto alle ultime due regole:

- ciò che non è pubblicato in una delle prestigiose riviste x, y, z – forget it e dimentica pure

- ciò che è stato pubblicato da più di cinque anni circa. 

 

E con questa triste considerazione concludiamo, sperando di aver detto qualcosa di ragionevole sulle metafore dell'oblio, e allo stesso tempo di aver lanciato un messaggio di avvertimento a coloro che credono in queste quattro regole o in ogni caso che pensano di doverle applicare a tutti i costi: cancellatele, grattatele via, espungetele, eliminatele, gettatele nel fiume dell'oblio, fate bere loro l'acqua del Lethe, usate le metafore che volete ma per favore dimenticatele, forget it.

 

Questa è una versione priva di note e lievemente modificata del saggio pubblicato in Le sponde della memoria: il ruolo dell'oblio nel panorama mediale contemporaneo, a cura di Leonardo Gandini, Daniela Cecchin, Matteo Gentilini, Quaderni di Archivio Trentino, 2012.

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Metafore dell’oblio

Cannes. Neruda, la parola e la realtà

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I giornalisti si lamentano spesso dei programmi elefantini dei festival che sempre più spesso sovrappongono film importanti e rendono oggettivamente impossibile riuscire ad avere il tempo materiale e la giusta attenzione verso tutto quello di cui sarebbe necessario parlare. Ci sarebbe poi da discutere sulla sostenibilità di un programma che costringe a scegliere tra Marco Bellocchio e Ken Loach, tra Pablo Larraín e Bruno Dumont e che ha deciso di concentrare in pochissimi giorni gran parte del cinema più importante di un intero anno.

Ma d’altra parte si sa che la competizione a Cannes non è solo tra i film in concorso ma anche (e soprattutto) tra il festival francese e gli altri festival del cinema che in giro per il mondo fanno di tutto per riuscire ad accaparrarsi le première più importanti. E Cannes quest’anno ha davvero preso tutto quello che c’era da prendere. Se l’anno passato il concorso era sembrato a tutti particolarmente debole spostando gran parte dell’attenzione dei giornalisti verso Un Certain Regard e la Quinzaine des Réalisateurs (ricordiamolo, l’anno scorso Miguel Gomes, Philippe Garrel, Arnaud Desplechin, Apichatpong Weerasethakul, ovvero molti dei film più di successo della scorsa stagione erano tutti fuori dal concorso) quest’anno, anche solo a leggere i nomi dei registi della mostra concorso, sembra di avere di fronte una specie di all-star game del cinema mondiale: Almodóvar, Refn, Assayas, Farhadi, Mungiu, Verhoeven, i Dardenne, Jarmusch, Park Chan-Wook, Nichols, Loach, Dolan etc.

 

Questa strategia di  “pesca a strascico” con il quale il festival di Cannes tenta di spodestare la concorrenza in primis di Venezia e di Berlino (ma anche dei festival nordamericani) e di prendere tutto quello che c’è da prendere, è riuscita comunque nel capolavoro di lasciarsi sfuggire quello che da molti qui sulla croisette è stato finora considerato come il film più bello visto finora. È infatti abbastanza incredibile che il cileno Pablo Larraín, che ormai è da diversi anni uno dei nomi più rilevanti del cinema mondiale, finisca con il film più importante e ambizioso della sua carriera (e probabilmente quello con il più grande potenziale commerciale) in una sezione indipendente come la Quinzaine. Successe la stessa cosa tre anni fa con No, che non solo quell’anno fu uno dei film più apprezzati dalla critica ma che poi incassò tantissimo e venne incluso nella cinquina degli Oscar come migliore film straniero l’anno successivo. Se una svista può capitare, il fatto che Cannes riesca sistematicamente a escludere dal concorso Pablo Larraín ha a questo punto più il sapore di un ripicca o comunque di un’ostinazione abbastanza incomprensibile.

 

 

Il film presentato alla Quinzaine di Larraín, Neruda, non è il bio-pic che molti si aspettavano. Più un film “nerudiano” che un film sul poeta Pablo Neruda – come lui stesso ha ammesso presentando il film – l’ultimo lavoro del regista cileno gioca sul complesso rapporto tra linguaggio e realtà focalizzandosi su un periodo storico molto particolare: quello che va dalla fine degli anni Quaranta all’inizio degli anni Cinquanta in Cile. Neruda era all’epoca un parlamentare comunista in aperto conflitto con il governo di destra di Gabriel González Videla (che non ha nulla a che vedere con il più tristemente famoso dittatore argentino), responsabile tra l’altro di violente repressioni nei confronti dei minatori cileni in sciopero in quegli anni. Videla intraprese in quegli anni una dura politica anti-comunista che culminò nella messa fuori legge del Partito Comunista cileno e in un mandato d’arresto nei confronti di Neruda.

 

Neruda inizia così alla fine degli anni Quaranta un lungo periodo di fuga dalla legge ma invece di lasciare subito il paese decide – come in ThePurloinedLetter di Edgar Alla Poe – di nascondersi “palesandosi”, ovvero di lasciare tracce continue della sua clandestinità alla polizia che lo sta cercando. Larraín è affascinato dal fatto che Neruda inizi a trattare la sua fuga come se fosse un’opera letteraria: conscio ormai della marginalizzazione del partito comunista (il personaggio di Neruda continua a ripetere nel film che tutti i suoi compagni sono in carcere, e che è rimasto solo) il suo problema non è più la fuga dalla legge, ma semmai la capacità di creazione di un “mito” che la sua figura sarebbe capace di rappresentare.

Il film di Larraín si focalizza allora su questo gioco d’inganni: una sorta di manifestazione indisguise continuamente messa in atto dal poeta cileno che viene messa in scena nel film con un notevole e abbastanza geniale secondo livello d’inganno nei confronti dello spettatore (in un paio di scene Neruda si traveste e inganna anche noi). Tutti i giochi di prestigio però, hanno bisogno di un pubblico: che in questo caso è costituito da un poliziotto, Oscar Peluchonneau (interpretato da Gael García Bernal), che non solo ha la funzione dello sparring-partner antagonista di Neruda, ma anche di luogo-tenente dello spettatore nel film (e non a caso, fa anche da narratore). La seconda parte del film diventa allora una lunga scena d’inseguimento, di tracce e finti indizi, di nascondigli, travestimenti e doppi fondi che veicolano sempre più consapevolmente questa dimensione esplicitamente finzionale e linguistica dell’immagine.  La letterarietà della fuga di Neruda prende il sopravvento sulla realtà, la mito-poiesi sulla storia, la finzione sulla verità fino a una conclusione – una sorta di western borgesiano – dove questi diversi livelli vengono espressi in modo ancora più esplicito.

 

Il macchina filmica di Larraín è perfetta e l’importanza del film nell’annodare in modo così efficace forma e contenuto è difficilmente sottostimabile. Tuttavia non si può non notare un certo compiacimento nel gioco linguistico che viene messo in atto dal regista cileno, che però non è tanto da imputare a un vezzo narcisistico di Larraín (i suoi film ne sono sempre stati privi) quanto all’oggetto storico stesso. Questa insistenza sulla parola che crea l’immagine, sulla rappresentazione che viene prima della realtà sono la forma estetica di uno snodo storico fondamentale di cui la figura di Neruda in questo film diventa metafora. La vicenda della clandestinità di  Neruda e la repressione del movimento comunista in Cile sono i primi segni di una sconfitta più generale del movimento comunista del dopoguerra che riscriverà radicalmente la relazione tra il ruolo intellettuale e la politica (e quindi tra la letteratura e la realtà). La parola insomma non si fa più politica e Neruda da parlamentare cileno si vede costretto a ripiegare verso un atto linguistico più auto-centrato, letterario, ma nello stesso tempo anche inevitabilmente più inoffensivo nei suoi effetti di realtà. Se la parola letteraria all’inizio del film è dentro al parlamento (vi è un annodamento virtuoso tra parola e realtà), l’atto linguistico della fuga, che gioca sull’inganno e il trompe-l’œil assume fino in fondo il fatto che la realtà si è separata ed è troppo lontana per potersene appropriare, e che quindi l’unica cosa che è possibile fare è crearla e ri-crearla tramite il linguaggio. In questa soglia dove l’immagine diventa prodotto della parola c’è già tutta quella che sarà la svolta postmoderna dove la realtà non è più oggetto esterno, traumatico e perturbante ma è emanazione stessa della parola. 

 

 

Viene sempre dalla Quinzaine anche un altro bellissimo film di questi giorni, e quello che è forse il film italiano più importante che è qui a Cannes quest’anno: Fai bei sogni di Marco Bellocchio. Il fatto che il film fosse tratto dall’omonimo best seller di Massimo Gramellini (cosa ha fatto comprensibilmente storcere il naso a molti) non deve far preoccupare. Si capisce già dalle prime battute che Bellocchio è solo vagamente interessato alla parabola di vita del giornalista torinese ma che anzi, ha usato il materiale narrativo a sua disposizione come pretesto per sviluppare alcuni dei classici temi cari ai suoi film. Il film racconta del modo attraverso cui Massimo a soli nove anni, a seguito della perdita della madre, è costretto a confrontarsi con l’esperienza della morte: non tanto della morte come fine-vita di un proprio caro, ma della morte più generale, in quanto scoperta del non senso del proprio stare a questo mondo. Il rapporto dal sapore quasi incestuoso tra la madre e il figlio che vediamo all’inizio del film (in una bellissima scena estatica di ballo) viene brutalmente interrotto dal fatto che la madre da un giorno all’altro e senza alcun avvertimento, non si vede più. Massimo non sa cosa è la morte – e il modo attraverso cui il film ci fa assumere il suo sguardo nei primi venti minuti è davvero stupefacente – quindi lo vediamo mettere pian piano a fuoco quello di cui si tratta: prima gli dicono che è in ospedale, poi che forse è andata in cielo a trovare Gesù che l’ha chiamata a sé, poi che prima o poi l’andrà a trovare etc. La morte insomma non è l’evento che riguarda un defunto ma un improvviso vuoto dell’esistenza: inaspettato e terribile. L’intero film è allora la rappresentazione non tanto del modo attraverso cui la vita di Massimo dovrà avere a che fare con questo evento traumatico, ma di come la vita in generale non è nient’altro che il modo attraverso cui incontriamo il non-senso e proviamo a dargli una forma. La forma che gli darà Massimo è data da una particolare formula di compromesso: quello dello schermo. Massimo da piccolo amava guardare i film con la madre che gli copriva gli occhi quando c’era qualche scena che avrebbe potuto fargli paura. Quell’esperienza sarà allora la matrice attraverso cui Massimo costruirà il suo stare al mondo: schermando e mettendo a distanza la traumaticità del reale

Con Fai bei sogni Bellocchio costruisce quello che è forse il suo film più coscientemente psicoanalitico da molto tempo a questa parte con alcune trovate autenticamente geniali e altre che ad alcuni hanno dato l’idea di un eccessivo didascalismo. Tuttavia sarebbe sbagliato ridurre tutta la parabola del film allo schema dal: “visto che così è successo quando era piccolo” allora “questo gli succederà quando diventerà adulto”. Il determinismo psicoanalitico, si sa, è stata una delle più grandi rovine per la psicoanalisi, ma Bellocchio è un intellettuale troppo attento per cadere in questa trappola. Il film allora salta continuamente dal presente al passato e ci mostra un passato che è unicamente un fantasma retrospettivo. Perché quando abbiamo a che vedere con l’inconscio il rapporto tra passato e presente è sempre strutturalmente problematico, e molto spesso può capitare che non sia il passato a determinare il presente, ma che sia il presente che costruisce (e redime) quello che (non) siamo (mai) stati.

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Festival de Cannes 2016

Mario Giacomelli. Fotografia poetica

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Basta l'incontro con una singola immagine di Mario Giacomelli per capire di trovarsi di fronte a una fotografia poetica: ovvero, un lavoro in cui il mezzo, che è sia la macchina fotografica che la realtà che essa riprende, agisce allo scopo di esprimere qualcosa che è dentro e oltre l'immagine e il mondo da cui questa era stata attinta. Visitando la mostra La figura nera aspetta il bianco, a lui dedicata ora a Palazzo Braschi fino al 29 Maggio, si possono osservare varie serie fotografiche che richiamano un senso dello spirito originato dalla materia, da Ospizio a Lourdes, fino ai seminaristi giocondi de Io non ho mani che accarezzino il volto. La carne è qui un oggetto consumato che decade e soffre, sia per i vecchi all'ospizio che per i malati in preghiera, ma proprio dalle sue fondamenta crollate esala uno spirito di umanità, di dolcezza e rabbia che aumenta di pari passo con l'apparente crudezza delle immagini di Giacomelli: perché l'animo dei derelitti fotografati, derelitti comuni nella misura in cui tutti nella vita, invecchiando e ammalandoci, siamo destinati a diventarli, sovrasta i loro corpi come in una delle sue fotografie più famose, un bacio fra due anziani fragili il cui sentimento potente irride alla debolezza dei volti scavati dalle rughe, le schiene ingobbite e un bastone a sorreggere.

 

Non può mancare allora però nemmeno una malinconia che nasce dall'amarezza di sapere il sentire umano incastrato e infine interrotto dentro una materia fisica impietosa, immagine stessa del tempo, perché questo amore e questa tenerezza nascono e muoiono insieme ai corpi delle persone; mentre i seminaristi, uomini propriamente di spirito, nei loro giochi diventando sempre più vaghi e indistinti, macchie di nero mosse nel bianco, come impressioni rapidamente colte, e la lieve allegria catturata in forma di una sbavatura visiva ilare del tempo.

 

Fotografia di M. Giacomelli. 

 

Una fotografia poetica richiede, come ogni altro componimento dello stesso tipo, un estremo rigore linguistico: in Giacomelli questo si traduce in una precisa estetica che predilige il non accontentarsi di ciò che si crede di vedere, per interpretarlo invece in modo consapevole. Ciò si concretizza in bianchi e neri saturi e fortemente contrastati, che compongono nell'immagine forti macchie opposte e ravvicinate. Difficilmente è possibile sentire un senso del reale nel guardare ad esempio i paesaggi dall'alto, o queste figure che noi presupponiamo essere persone e che però nelle sue fotografie appaiono sagome illusorie, senza dimenticare i volti invece nitidi e comunque ricombinati dalla composizione visiva, come se le linee dei volti – soprattutto quelli invecchiati, adunchi e deformi – assumessero un altro significato. Giacomelli parte dalla realtà per scavarla concretamente, e trovare nella materia più ovvia e tangibile qualcosa che non è possibile toccare pur apparendo improvvisamente agli occhi. La frantumazione visiva che ne deriva può essere colta nelle macchie luminose, e nel contrasto oltremodo violento fra luce e ombra. 

 

 

Vedere in ciò che esiste qualcosa in più della sua trasparente e opaca esistenza significa aggiungere il sentimento e il pensiero umano alla natura indifferente, ritrovando nella realtà quotidiana un'ulteriore realtà esclusivamente umana, come qualcosa che pare sempre esistito solo nel momento in cui lo si riconosce. La poesia visiva permette alle linee, alle masse di bianchi, neri e grigi, ai volumi di sommergere l'immagine e le figure umane che contiene, sottraendole al vocabolario comune per farle parlare un nuovo linguaggio. Non sorprende dunque ritrovare nella mostra serie fotografiche esplicitamente dedicate a singole poesie (da A Silvia di Giacomo Leopardi a Io sono nessuno di Emily Dickinson), ogni fotografia intenta a proporre in immagini i versi. Giacomelli aveva detto, “È difficile definire la vera sostanza della poesia, ma se dovessi esprimermi in due parole, per me è la vita stessa. È la cosa più semplice che esista sulla terra, perché è fatta con le stesse parole che usiamo tutti i giorni” e si pensa leggendolo che il suo lavoro sia consistito proprio in questo: usare le cose comuni, che abbiamo sempre davanti a noi senza magari averne la consapevolezza – come il tempo che passa sui nostri volti e corpi –, ricomponendole per ottenerne immagini da una parte irreali, e ciò nonostante parte di qualcosa che pur meno concreto appare nell'intimo ugualmente reale e vivo.

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In mostra a Palazzo Braschi

Baccalà, stocafisso, bagnacauda

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Che legame può esserci tra un saggio che esamina la diffusione e la tradizione del baccalà sulle pendici vesuviane – Note di storia del baccalà nella dieta vesuviana e napoletana di Carmine Cimmino (Dante & Descartes) – e un piccolo grande libro come Il Salto dell'acciuga di Nico Orengo (Einaudi), ormai quasi un classico della letteratura a sfondo gastronomico ?

 

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Sciascia cruciverba barocco

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«Perché questo è da tener presente: delle cose scritte da Savinio non c’è briciola che non splenda d’intelligenza, che non solleciti – per dritto o per rovescio – a riflettere, a pensare; e a dare quel godimento che pensiero e riflessione danno a chi sa pensare e riflettere». Lo scriveva, nel 1988, Leonardo Sciascia, in un articolo pubblicato da “Tuttolibri” che viene adesso riproposto dal curatore Paolo Squillacioti in Fine del carabiniere a cavallo. Saggi letterari (1955-1989) (Adelphi, 2016, 23 euro). E sono parole che si potrebbero adattare tranquillamente alle “cose scritte da Sciascia” sì da spiegare perché è molto utile, a più di 25 anni dalla morte dello scrittore, la pubblicazione di questi saggi letterari che erano stati pubblicati sulle più varie pagine ebdomadarie o in forma di prefazione a libri altrui ma mai prima d’ora raccolte in volume. 

 

I lettori fedeli di Sciascia riconducono la sua attività saggistica a tre volumi: La corda pazza, dedicato a “scrittori e cose di Sicilia” (e, come tale, evoluzione del più lontano Pirandello e la Sicilia); Cruciverba, magnifica selezione di saggi che incrociavano su immaginarie (ma ben avvertibili alla lettura) caselle orizzontali e verticali i cortocircuiti suggeriti a Sciascia dal quotidiano commercio con le arti, i libri, gli uomini, le città; Fatti diversi di storia letteraria e civile, pubblicato nell’anno della morte, il fatidico 1989, come un’appendice del precedente, giocata fin dal titolo tra Gide e Croce. Postumi, a cura della vedova, uscirono L’adorabile Stendhal, che raggruppava i non pochi scritti stendhaliani di Sciascia (ma di Stendhal si parla anche in questo nuovo libro), e Per un ritratto dello scrittore da giovane, che sommava all’antico libretto eponimo sul giovane Borgese altre pagine critiche di fulminante efficacia, tra cui una splendida e precoce interpretazione di Jorge Luis Borges. 

 

Arriva adesso questa nuova raccolta, allestita e annotata dallo stesso sapiente curatore della nuova edizione completa delle opere di Sciascia, edita da Adelphi. È Squillacioti a sottolineare che la scelta dei testi raccolti in Fine del carabiniere a cavalloè «ristretta a testi di argomento letterario (etichetta che va presa in senso estensivo) e che non pretende dunque di restituire un’immagine a tutto tondo dell’attività saggistica di Sciascia» e che ha operato una selezione anche cronologica, escludendo i saggi letterari scritti prima del 1956, l’anno di pubblicazione delle Parrocchie di Regalpetra, quello che Sciascia considerava il suo primo, vero libro. Ma ogni regola conosce un’eccezione, ed è proprio questa che dà il titolo alla raccolta: il sintagma “fine del carabiniere a cavallo” risale, infatti, a un breve scritto del ’55 nel quale Sciascia sottolineava il legame presente in tanta letteratura della prima metà del Novecento tra “ritorno all’ordine” formale e conservatorismo ideologico: sarebbe stata la pubblicazione di Conversazione in Sicilia a interrompere questo legame; tanto che, aggiunge Sciascia con un po’ di (raro e forse eccessivo) ottimismo, «a leggere oggi l’ultimo libro di Rea o di Pratolini, o l’ultimo “gettone”, appar chiaro che del carabiniere a cavallo ci siamo già liberati». 

 

Un sintagma-metafora, segno di quell’idea fortemente militante di letteratura che appartiene anche ai saggi letterari di Sciascia, che si presentino o meno come recensioni; a tal proposito, può essere utile osservare che gli scritti meno recenti qui raccolti, quelli della seconda metà degli anni Cinquanta, si adeguano maggiormente alla forma tradizionale della recensione: come nel caso delle notevoli pagine su Calvino o di quelle su Casa Howard di Forster; e non manca mai, in queste recensioni, un cenno quasi sempre polemico alle scelte, agli errori e alle condizioni in generale del mercato editoriale, visto dall’ottica (insieme, esterna e interna) del giovane intellettuale meridionale che conosce questa realtà pur essendone ancora, nella sostanza, ai margini. Ma ne diventerà, poi, un protagonista importante, con le collane “inventate” per Sellerio, con i suggerimenti, più o meno ascoltati, dati a Bompiani e ad altri editori. 

 

Col passare degli anni, il saggio letterario sciasciano prende sempre più la forma della divagazione a partire da un libro, non sempre di natura strettamente letteraria, così come d’ambito tutt’altro che letterario sono le considerazioni svolte dall’autore: semmai morale, politico, storico, sociologico. Basti leggere la seconda sezione del libro, Divagazioni sulla storia e la cultura europea, in cui risalta l’eccellente saggio-racconto La sesta giornata, del ’56, o le poco note pagine ispirate al suo «sguardo disincantato» (Squillacioti) dalla lettura di Controrivoluzione e rivolta di Marcuse, o, ancora, il tornito, fascinoso arzigogolo su Giraudoux e Pirandello. Certo, la lettura di questi «elzeviri storici e critici» (la definizione, impeccabile, è ancora del curatore) ci fa pensare che una forma come l’elzeviro, adattissima al procedere curvilineo della scrittura di Sciascia, era legata alla stagione rondesca del “carabiniere a cavallo”, che forse proprio finita non era. 

 

In altri casi, il saggio sciasciano nasce a margine della pubblicazione d’un libro ma ne viene fuori, piuttosto, un ritratto, scorciato ma ricco, dell’autore, come nel caso di Leo Longanesi o Gesualdo Bufalino o, ancora, di scrittori su cui Sciascia voleva richiamare l’attenzione di un mercato editoriale particolarmente disattento (come nel caso di Enrico Morovich), o, infine, di scrittori amatissimi, come Brancati e Borgese o, prediletto su tutti, Savinio. Tutti esempi, insomma, di quel particolare procedere della sua pagina, reticolare e lineare insieme, frutto della «forte coesione interna del sistema concettuale sciasciano» (Squillacioti). 

 

Se dovessi, per concludere, indicare un testo, tra quelli meritoriamente raccolti in Fine del carabiniere a cavallo, che riassuma a pieno le capacità che Sciascia aveva di tenere insieme letteratura e civiltà, libri e uomini, stili e idee, forse indicherei proprio l’ultimo, che nasce come recensione al romanzo Retablo di Vincenzo Consolo ma è un magistrale, sintetico esempio di cruciverba artistico e letterario, milanese e siciliano, illuminista e barocco: come quel romanzo dello scrittore amico, come i disegni e le pitture di Fabrizio Clerici che lo ispirarono e che tante volte ispirarono lo stesso Sciascia. 

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Fine del carabiniere a cavallo. Saggi letterari

Kristen, I love you (storie di altri mondi)

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Nella proiezione ufficiale di ieri, Aquarius del brasiliano Kleber Mendonça Filho, il cast del film, durante la sfilata sul tappeto rosso al Grand Théâtre Lumière ha mostrato dei cartelli alle telecamere che denunciavano l’atmosfera di sospensione democratica che sta vivendo il Brasile negli ultimi mesi: “In Brasile c’è stato un colpo di stato”; “il mondo non può accettare questo governo illegittimo”; “maschilisti, truffatori e razzisti sono diventati ministri”. È uno di quei rari momenti in cui la bolla spazio-temporale che contraddistingue Cannes in questi giorni viene spezzata e ci si ricorda, per un momento, che in effetti un mondo fuori dalla Croisette esiste ancora. Anche all’ottavo giorno di Festival. 

 

Un festival del cinema può essere un’esperienza estremamente spossante. Non è tanto la stanchezza fisica (si tratta pur sempre di andare al cinema), quanto la fatica mentale di entrare e uscire continuamente da una storia, da delle identificazioni, da delle percezioni e sensazioni. È per questo che i giudizi – spesso un po’ irresponsabilmente perentori – che vengono sentenziati sui film a Cannes andrebbero sempre presi con le pinze: perché il test più importante per un film – quello del tempo – è l’unico impossibile da emettere a poche ore di distanza da una proiezione. Un film – e questo è vero soprattutto per certi film di un certa densità, come vedremo sarà il caso di Assayas –  avrebbe bisogno di un po’ di vuoto percettivo, prima e dopo la visione; e avrebbe bisogno anche di tempo per essere discusso e pensato, magari insieme a quella comunità di critici cinematografici che troppo spesso preferisce appassionarsi di stelline, voti e giudizi e quasi mai dell’atto di pensare un film (magari lasciando per un momento sullo sfondo il proprio idiosincratico giudizio soggettivo, che poi non vuol dire nient’altro che lasciare sullo sfondo il proprio narcisismo). Invece qui a Cannes si finisce spesso per vedere 4 o 5 film in un giorno e per limitare il proprio lavoro all’emissione numerica di un voto (al più, argomentato in un paragrafo o poco più). 

 

 

In questa bolla emozionale dove si entra e si esce in continuazione da mondi diversi è facile dimenticarsi dell’esistenza del nostro mondo (Gilles Deleuze diceva che era proprio questo il merito più grande del cinema: farci credere in questo mondo). È per questo che il brasiliano Aquariusè non solo un film efficace e convincente, ma anche un film importante soprattutto in questi giorni, visto che non è possibile non vedere un cortocircuito tra quello di cui parla il film (la bolla immobiliare brasiliana, ma anche la sua società oligopolista e razzista) e quello che sta accadendo in quel paese. 

Ma facciamo un passo indietro e riassumiamo brevemente il contesto dell’“azione” degli attori di Aquarius. Dilma Rousseff è stata accusata a più riprese di corruzione e a seguito di un lungo e controverso iter parlamentare è partita una procedura d impeachment: si tratta di un evento che con tutta evidenza può essere definito come una versione soft di un vero e proprio colpo di stato, con il quale viene di fatto chiusa l’esperienza del Partito dei Trabalhadores al governo.

 

Sono stati 13 anni dove il Brasile ha avuto un enorme boom economico, con indici della povertà dimezzati, salari e PIL in crescita e una significativa ascesa della classe media del paese. Ma sono stati anche 13 anni di corruzione da parte di un potere sempre più solido da parte di una rete politico-imprenditoriale oligopolistica ristretta e legata a poche e influenti famiglie. Aquarius parla proprio di questo Brasile, e in particolare di quello che della sua crescita contraddittoria e dai piedi d’argilla è l’esito più drammatico e visibile: l’enorme bolla immobiliare che ha non solo finanziarizzato il paese ma anche ribaltato urbanisticamente molte delle sue città. 

 

 

Il film, ambientato a Recife, si apre proprio con un piano sui nuovissimi grattacieli e condos che ora svettano nel centro città. Ma subito lo sguardo del regista si sposta su una delle pochissime vecchie case rimaste. Qui nell’ultimo appartamento che non è stato ancora acquisito da una real estate company che vuole radere l’intero complesso al suolo, vive Clara, la protagonista del film, una donna di 65 anni che non ne vuole sapere di lasciare la casa piena dei ricordi di una vita nonostante le più che lusinghiere offerte economiche che le vengono proposte dagli agenti immobiliari. Kleber Mendonça Filho fa un filmarchitettonico ed è interessato soprattutto al confronto tra due diversi modi di guardare gli oggetti: quello denso di storia di Clara per cui i mobili, gli album di fotografie e persino i vinili sono densi di ricordi; e quello dell’astrattezza del capitalismo brasiliano che costruisce grattacieli radendo al suolo la vecchia parte della città e cancellando il passato. Ma questo conflitto che sembrerebbe opporre qualitativo e quantitativo, è in realtà falso. La resistenza di Clara nei confronti della gentrification di Recife non può che essere velleitaria: non soltanto perché gli immobiliaristi suoi nemici non si faranno problemi a usare mezzi ben oltre il limite della legalità, ma anche perché Clara stessa è parte delle èlite, come si vede dal vero conflitto che attraversa la città: quello tra le élite bianche e il sottoproletariato dei neri che lavorano come muratori a giornata o fanno le pulizie nella case dei ricchi.

 

 

Un altro grande sguardo su questo mondo è passato alla Quinzaine un paio di giorni fa, ed è un film indiano di uno dei grandi maestri contemporanei del detectivenoir: Anurag Kashyap. Il regista indiano – che negli ultimi anni ha firmato alcuni dei grandi capolavori di questo genere, come Gangs of Wasseypur, Ugly o Bombay Velvet– ha presentato uno dei film più riusciti e avvincenti della sua carriera. Il titolo della pellicola – Raman Raghav 2.0– si riferisce a un famoso caso di cronaca nera della Bombay degli anni Sessanta: Raman Raghav era infatti un serial killer che si macchiò di decine e decine di omicidi. Tuttavia il film – come viene detto non senza ironia nell’esergo al termine degli opening credits non parla di questo, ma dello strano rapporto tra un poliziotto e un killer nella Bombay di oggi. Ramanna, il killer, e Raghava, il poliziotto, sono infatti le due polarità “spirituali” del serial killer degli anni Sessanta. Il primo è uno psicopatico che uccide senza alcun tipo di senso di colpa o di remore, mentre il secondo è un poliziotto istericamente macho dall’altalenante virilità che si mette sulla tracce del criminale (con il quale instaura un rapporto tra l’antagonistico e il seduttivo).

 

Il film, diviso in otto capitoli e girato con un ritmo altissimo come accade sempre nelle opere del regista indiano, vede la progressiva ascesi perversa del poliziotto che finirà non per trovare un equilibrio alla sua tendenza autodistruttiva verso la dipendenza e la violenza fine a se stessa, ma che semmai riuscirà fino in fondo a fare della violenza una paradossale forma di legame sociale e di soggettivazione. Il cinema di Kashyap è tutto concentrato nel mostrare la natura radicalmente perversa della metropoli indiana e in questo compie una rilettura contemporanea e tardo-capitalistica del genere: se il noir tradizionalmente mostrava la dimensione nascosta e denegata della legge sociale, nel mondo di Kashyap non c’è più una vera e propria legge da trasgredire, ma è semmai la trasgressione stessa che è elevata alla dignità di (paradossale) norma sociale.

 

 

Ma Raman Raghav 2.0 non è solo un film noir, è anche un grande film politico perché ci dà quella che è forse la rappresentazione definitiva della città capitalistica perfetta: quella dove vi è una assoluta permutabilità tra tutti gli oggetti del panorama urbano. In Raman Raghav 2.0, tutto è scambiabile: la vita, gli oggetti, le armi, il silenzio, le donne etc. Anche quando vediamo compiersi i crimini peggiori, vi sono sempre dei passanti che accanto alla scena del crimine continuano imperterriti nel loro quotidiano arrabattarsi per tirare a campare, come se nulla fosse accaduto. Questa co-esistenza una accanto all’altra di ogni tipologia di merce (compresa quella umana) rende in modo chiarissimo l’assoluta indifferenza da parte del capitalismo nei confronti di qualsiasi specificità qualitativa. La metafora perfetta di questa onnipervasività della circolazione di merci non può che essere la spazzatura: il luogo dove tutte le merci vedono ricostituita l’indifferenza della loro origine. E infatti Bombay nei film di Kashyap assomiglia tremendamente a un’enorme discarica a cielo aperto (interessantissimo, come sempre, l’attenzione alla pluralità cromatica dell’immagine, come fu per BombayVelvet). Si tratta di una poetica che viene enunciata chiaramente già dagli opening credits dove al ritmo di una techno forsennata vediamo susseguirsi immagini di gatti che rovistano nella spazzatura, gente che balla in discoteca, strisce di cocaina, campi totali sugli slums della città, escort etc. 

 

Ma oltre ai film che hanno portato il festival a guardare a questo mondo, ci sono stati anche grandi film che ci hanno portato non tanto in altri mondi, quanto in modi alterati per abitare questo. È quello che fa Olivier Assayas in Personal Shopper uno dei grandi film di questo concorso e quello che (nonostante i fischi della proiezione stampa) forse più di ogni altro fino a questo momento meriterebbe la Palma d’Oro. Assayas ci ha sempre abituato a riflettere sul rapporto di inseparabilità tra la vita e la sua rappresentazione. In Sils Maria– in un fim così garrelliano, da sembrare quasi uno spin-off di SauvageInnocence  – Maria-Juliette Binoche interpretava un’attrice di mezza età che era chiamata dopo molti anni a rimettere in scena la pièce teatrale che aveva lanciato da giovane la sua carriera: una storia di rivalità-seduzione tra due donne con molti anni di differenza (e dove la giovane finiva per spingere la più adulta al suicidio) che inevitabilmente finiva per risvegliare in lei i fantasmi del passato. 

 

Si sa che quando si “mette in scena” qualcosa, non si tratta mai soltanto di un gioco (l’inglese mantiene il doppio senso del verbo to play). La rappresentazione retroagisce sulla realtà. È dunque impossibile provare a separare le due cose, e tenere la vita sul binario dell’autenticità e la rappresentazione su quello della finzione. Come diceva Lacan, la verità ha sempre la struttura di una finzione, e dunque non c’è accesso alla vita se non attraverso il medium del raddoppiamento linguistico-finzionale, che però – come sempre quando si tratta di linguaggio – si porta con sé anche un effetto d’opacità e di ambiguità. Il problema è che quando la vita è inseparabile dalla sua narrativizzazione (quando è “impestata” di linguaggio), è praticamente inevitabile che sia la vita stessa a perdere la sua aura di immediatezza e a essere popolata da spettri (“che cosa vuol dire?”). La domanda su se stessi e sulla realtà che ci circonda (l’enigmatico “Sei tu Lewis? O sono soltanto io?” con cui si chiude il film) è la struttura minima del desiderio. La psicoanalisi ce lo dice in tutte le salse: il desiderio non è un oggetto di questo mondo ma una domanda. E quasi nessuno (forse soltanto Garrell) ce l’hai mai detto così chiaramente al cinema come Olivier Assayas: la vita è solo la domanda, e l’ambiguità, che viene rivolta a se stessa. 

 

Personal Shopperè la storia di Maureen, giovane ragazza americana che lavora come personalshopper di Kyra, una modella professionista a Parigi. Il suo lavoro consiste nel girare per la città a ritirare e comprare vestiti con i quali la sua datrice di lavoro dovrà mettere in scena la propria rappresentazione di femminilità. Maureen però è anche sorella di un sensitivo – Lewis – che è da poco scomparso per una malformazione cardiaca di cui anche lei soffre, ma che pare essere ancora in contatto “spiritualmente” con lei. Maureen è insomma presa dentro due circuiti della rappresentazione o dell’inganno: quello che la lega a suo fratello medium e quello che la lega al mondo della moda (ovvero, il mondo della mascherata per eccellenza). Ma Maureen è anche un carattere mascolino e quasi asessuato (almeno fino a che non prova di nascosto i vestiti di Kyra, con i quali si trasforma immediatamente anche lei in una modella).

 

È quindi costantemente sulla soglia: tra questo mondo e quello dell’aldilà (Lewis), tra il maschile e il femminile, tra la rappresentazione di sé e quella di Kyra (hanno ovviamente la stessa taglia di vestiti).  

 

Kristen Stewart non è solo l’attrice protagonista, è a tutti gli effetti la sostanza di un film davvero straordinario, che Assayas ha scritto specificamente pensando a lei e che si nutre della sua femminilità ambigua come incarnazione cinematografica della domanda soggettiva per eccellenza, ovvero del desiderio. Se il film prende la forma dell’horror – e Assayas dimostra di saper gestire i tempi e i toni del genere in modo affatto esemplare – è solo perché questa è la forma cinematograficamente più efficace per “mettere in scena” la domanda per eccellenza: “chi sono io?”, “che cosa è questo?”, “è la realtà o è la mia immaginazione?”. La fascinazione per il soprannaturale e i fantasmi può fare sorridere – come purtroppo è accaduto a molti giornalisti – solo se non si capisce che la questione fondamentale che sta dietro alla scelta del genere, come per altro la conclusione mostra in modo tutt’altro che ambiguo, è la forma della domanda, non certo l’apparizione del soprannaturale. 

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Cannes. Parte 3

Claudia Losi alla Collezione Maramotti

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Finis Terrae. La Collezione Maramotti, che galleggia nelle placide linee verdi della pianura padana, si è trasformata temporaneamente in un cul-de-sac geografico, uno di quei luoghi in cui si arriva e un ostacolo naturale invalicabile impedisce al viaggiatore di proseguire oltre. Il suo guscio grigio di corazza industriale somiglia adesso più al basalto delle falesie che al cemento armato e tendendo l’orecchio, lontano, ci si aspetta di sentire un sibilo d’uccello in planata, un moto d’onda.

La ragione della trasmutazione risiede nella mostra How do I imagine being there? Nelle sale della Collezione, Claudia Losi ha scelto di dare un corpo a ciò che inizialmente veniva concepito come progetto per un libro. Dopo una gestazione di 4 anni, il risultato è sì un volume d’arte edito da Humboldt Books ma anche un corpus di oggetti, tessuti cuciti, disegni, fotografie che testimoniano un andare-oltre, un andare-verso, che da sempre è uno dei tòpos del lavoro dell’artista. Presentato attraverso una conversazione con Matteo Meschiari, Professore di Geografia all’Università di Palermo, antropologo e scrittore, erudito e appassionato studioso del paesaggio, e una performance con Zero Vocal Female Quartet e HsiaoPei Ku, la mostra è la manifestazione tangibile di un viaggio reale e immaginario, innesco di un processo che l’artista ha messo in atto coinvolgendo colleghi e studiosi per realizzare un’opera aperta, collettiva, potenzialmente ancora in process.

 

Claudia Losi How do I imagine being there? veduta della mostra / exhibition view Collezione Maramotti, Reggio Emilia Ph. Marco Siracusano. 

 

Alpha e omega del viaggio al centro dell’indagine: l’arcipelago di St. Kilda, estremo nord ovest della Scozia, un remoto paradiso naturale. Un altro finis terrae, costantemente spazzato dai venti e in balìa dei marosi atlantici, un luogo che Losi ha raggiunto solo al secondo faticoso tentativo di approdo, mentre altre persone coinvolte nell’elaborazione di testi e materiali non lo visiteranno mai, se non grazie alla cartografia e alla letteratura dedicata.

Come raccontare un mostra che è al contempo un libro e una esplorazione, in parte reale, in parte immaginaria? Quali parole scegliere per riflettere su una conversazione e una performance, un progetto di elsewhereness che non è una fuga ma una pratica artistica, un tentativo di ridefinire lo spazio di rappresentazione attraverso lo strumento del camminare?

 

Nel tentativo di delineare una forma che contenga questo tutto e aderisca alla sua superficie, scorro i documenti che testimoniano il lavoro di Richard Long, Walter De Maria e Hamish Fulton, di quegli artisti della Land Art che hanno trasformato in arte lo spazio e il camminare in gesto performativo, per cercare di inquadrare anche storicamente la mostra presente. Sarebbe però una forzatura tentare di inscrivere il progetto di Losi in categorie storicizzate: lasciati alle spalle il minimalismo e le istanze eco-politiche che non le appartengono, piuttosto è forse utile guardare a quel peculiare passaggio culturale come a una traccia da cui partire per procedere in avanti, tenendo ferma alle spalle ciò che è stata l’esperienza della Land Art e ampliandone l’orizzonte verso una proposta che coinvolga discipline in dialogo quali la geografia, l’antropologia, le neuroscienze, la biologia, l’etnografia.

 

Claudia Losi No Place 2015 tavolo con fotografie, vetri, collages, pietre, oggetti in ceramica, fusioni in bronzo, cartapesta, incisioni su zinco, libro in plastica / table with photographs, glasses, collages, stones, ceramic objects, bronze sculptures, papier-mâché, zinc etchings, plastic book particolare / detail 

 

Osservando le opere in mostra penso a George Perec, che in Specie di spazi a cavallo tra il 1973 e il 1974 scrive: 

“Da tempo avremmo dovuto prendere l’abitudine di spostarci, di spostarci liberamente, senza che ci costasse troppo. Ma non lo abbiamo fatto: siamo rimasti lì dove eravamo; le cose sono rimaste com’erano. Non ci siamo chiesti perché fosse lì e non altrove, perché fosse così e non altrimenti. Poi, ovviamente, era troppo tardi. La piega era presa. Ci siamo messi a credere di stare bene là dove eravamo.”

Ecco, mi pare che ciò a cui si oppone il lavoro di Losi sia proprio l’assunzione dello stato di immobilità, il subire passivo del soggetto rispetto ai luoghi, il comfort pericoloso della stanzialità. Non attraverso un’azione di antagonismo, ma in maniera assertiva, tramite la ricerca di un “linguaggio-paesaggio” alla luce del quale ridefinire la propria identità artistica e umana. Se è vero che oggi siamo Sapiens evoluti perché ci siamo costruiti attraverso la necessità di sopravvivere al mondo esterno e il rapporto con lo spazio è stata la relazione primaria a cui ci siamo assoggettati, l’acquisizione di una consapevolezza ambientale può davvero cambiare radicalmente il nostro modello cognitivo e il nostro rapporto con il reale. Qualcosa di radicale, che è stato intuito filosoficamente sin dall’antichità del pensiero ellenistico – Ippocrate definiva ad esempio il camminare vis medicatix naturae– ed è stato indagato con accezioni differenti dai Trascendentalisti americani, da Luther King e da Whitman, da Gandhi e dagli esploratori tutti, ma anche da Jules Verne a Werner Herzog e Umberto Eco, Borges, Calvino, Buzzati, Bachelard, Joseph Campbell, Alberto Manguel, Yves Klein, il western e il road movie, la Land Art, Frank-Lloyd Wright, Cezanne e gli astronauti dell’Apollo, un nutrito e pacifico esercito di camminanti, curiosi e pensatori di ogni latitudine.

 

Claudia Losi Lead 2015 
piombo, filo di cotone, acquerello. Installazione site-specific / lead, cotton thread, watercolours. Site-specific installation particolare / detail. 

 

Terra reale o immaginata, per Losi l’interrogativo continuo si pone qui, nell’esperienza della relazione tra l’individuo e il paesaggio, nella landscape mind. Ne emerge un legame ancestrale tra limite spaziale e atto creativo, un patto di sangue. Come le pitture rupestri, che sono concentrate proprio nei territori che impediscono all’uomo preistorico di proseguire nel suo viaggio di scoperta del mondo, così Losi si autoimpone un luogo simbolico e realmente ostacolante scegliendo un arcipelago alla fine del mondo per generare un salto fantastico, un ponte verso l’altrove: come se di fronte al mare sconfinato, o a una montagna impervia, non potessimo esimerci dall’immaginare cosa ci aspetti al di là, né smettere di desiderare di rimetterci in cammino.

 

How do imagine I been there?è un progetto liquido ma non ambiguo, dove la liquidità non ha a che fare con le teorizzazioni sociologiche quanto piuttosto con una primeva natura ittica che rimane impressa come marchio genetico (un’eco) nelle parti più remote del nostro essere umani. È un suono che abbiamo udito la prima volta nel Pleistocene, un cetaceo, una lepre selvatica, un pipistrello, animali totemici che designano il territorio come spazio sacro nella sua immanenza. Sono le rocce glabre dell’arcipelago di St Kilda, estremo occidente delle Ebridi Esterne, Scozia, terra vulcanica e brulla che custodisce le scogliere più alte del Regno Unito. Disabitata dal 1930, un luogo altro per eccellenza.

 

In questo vagabondaggio tra memorie reali e fittizie, ipotesi, linee narrative, dove individuare un principio di senso, ordinatore? Mi sembra centrale la suggestione del geografo ed esploratore “senza bussola” Franco Michieli, con il suo invito a perdersi per riscoprire capacità che credevamo ormai svanite. Il suo andare ostinato, ai miei occhi folle, di viaggiatore che rifiuta i dispositivi cartografici ci invita a uscire dai sentieri tradendo le mappe che sono uno strumento di controllo economico, militare, di assoggettamento del paesaggio. Rovesciare la prospettiva finché l’abbandonarsi all’andare non ci conduca a scoperte inaspettate. Come Colombo che cercando le Indie scoprì l’America, una proposta radicale per “essere continuamente impreparati a quello che verrà”. Forse può risiedere qui una possibile chiave di lettura della mostra, ovvero la possibilità di reinventarsi come spettatori e come individui di fronte a un paesaggio – naturale ma anche antropizzato – che abbiamo piegato alle nostre necessità di umani inurbati, smarrendone per sempre il senso e con esso, perdendo forse anche parte della nostra stessa identità.

 

Claudia Losi How do I imagine being there? veduta della mostra / exhibition view Collezione Maramotti, Reggio Emilia Ph. Marco Siracusano. 

 

Tutti gli oggetti accuratamente scelti per comporre l’esposizione appartengono a un mondo lontano eppure curiosamente familiari, alcuni ormai inutilizzati, coperti di concrezioni vegetali e trasmutati allo stato di reperti di una memoria finzionale. Gli scarichi di fornace, i portolani, le rocce che testimoniano l’opera di catalogazione del Museo Spallanzani di Modena, il telo ricamato che richiama Athanasius Kircher, sono essi stessi inviti a partecipare al viaggio, in quel detournement che tipicamente avviene nel momento in cui l’esperienza – vera o presunta – si tramuta in narrazione. Il legame tra il compiersi di un viaggio e il racconto è così intrinsecamente profondo che sospetto non possano esistere l’uno senza l’altro: la parola trova il proprio senso primario e la sua completezza nell’arco spazio-temporale di un moto a luogo, è sempre inconfutabilmente elemento che ci trascina da un punto ad un altrove; lo spostamento non può essere se non trova accoglimento e forma in una narrazione, anche muta e non esplicitata, ma vivente, che appare ogni qual volta fantastichiamo su un andare, come un riflesso in uno specchio d’acqua.

 

How do I imagine being there?è in ultima istanza una esortazione gentile a prestare attenzione, uscire dalla strada maestra, cercare terre oltre le terre. Perdersi e costruirsi le proprie mappe, cogliendo ciò che nella cartografia rimane celato, si dà in assenza, attende di essere illuminato.

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How do I imagine being there?
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