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Brecht: un discorso sul metodo?

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Il Piccolo Teatro di Milano ricorda i sessanta anni della morte di Brecht e dell’allestimento dell’ Opera da tre soldi firmato da Giorgio Strehler con una nuova edizione affidata a Damiano Michieletto (recensita su Doppiozero da Maddalena Giovannelli), con una mostra e con alcuni incontri di carattere eminentemente storico sul testo e sull’autore, una delle figure centrali del Novecento. Ma l’attenzione per Brecht sembra rinascere in campi imprevedibili. A lui, ha dedicato un intenso libretto il filosofo teoretico Rocco Ronchi, Brecht. Introduzione alla filosofia, pubblicato nel 2013 dalle edizioni et al. di Milano. Lo abbiamo intervistato (grazie a Silvia Mercantelli per la trascrizione della registrazione; grazie a Silvia Colombo dell’Archivio Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa per le fotografie delle edizioni storiche dell’Opera da tre soldi di Strehler).

 

Che cosa può interessarci ancora oggi di Brecht, un autore legato a un periodo storico come il Novecento, a un’ideologia come il comunismo e a pratiche come il teatro epico che tendiamo a rimuovere, a cancellare? 

 

Bertolt Brecht. 

 

Distinguerei forma e contenuto. Il brechtismo come insieme di contenuti secondo me non è nemmeno fedele allo stesso Brecht; ridurre Brecht a una congerie di valori, di principi, a una questione ideologica, è estremamente riduttivo nei suoi confronti. Quello che c'è di assolutamente attuale nel pensiero di Brecht – e anche nella sua drammaturgia – è la questione del metodo, rispetto al quale anche il contenuto è in un certo senso subordinato. Secondo me è di qui che bisogna ripartire, dal metodo brechtiano che non è semplicemente un metodo confinato alla dimensione specifica della drammaturgia, ma va inteso nel senso più alto della parola, un po' come quando si parla del metodo cartesiano o del metodo scientifico, dove evidentemente la parola metodo rimanda a una “postura” che deve assumere colui che vuole conoscere e modificare la realtà. 

 

Vogliamo definire quali sono gli elementi del metodo brechtiano che interessano un filosofo come te?

 

Opera da tre soldi 1955-56. Peachum e famiglia: Giusi Raspani Dandolo, Mario Carotenuto, Marina Bonfigli, foto Archivio Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. 

 

Il metodo brechtiano e il metodo della filosofia sono sostanzialmente identici. La caratteristica rilevante del rapporto di Brecht con la filosofia non è dovuta semplicemente al fatto che Brecht introduca la filosofia o il marxismo come temi del suo teatro. Brecht introduce piuttosto la filosofia come metodo. Il suo teatro è filosofico dal punto di vista formale: in quanto tale esso è teatro “epico” . È un teatro filosofico perché parte dall'idea che l'operazione teatrale debba in qualche modo risolversi in una problematizzazione sistematica dell'ovvio. Il metodo brechtiano è questo dopo tutto: problematizzare l'ovvio. È molto simile a quello che Husserl chiama "riduzione fenomenologica", ed è per questo che il Brecht messo in scena da Strehler a Milano sollevò gli entusiasmi della scuola fenomenologica milanese, in primis Enzo Paci. Per riduzione fenomenologica Husserl intendeva la sospensione dell’“atteggiamento naturale”, vale a dire la sospensione della nostra ingenua fiducia nell'esserci delle cose e nell'esserci di una realtà già costituita secondo orientamenti prestabiliti.

 

Brecht in L'eccezione e la regola scrive: "Trovatelo strano, anche se consueto”…

 

Opera da tre soldi, 1958-59: Checco Rissone, Tino Carraro, foto Archivio Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. 

 

Che cos'è poi dopotutto il Verfremdungseffekt se non questa tecnica dello straniamento che sappiamo Brecht ricava dai formalisti russi durante il suo soggiorno in Russia? Ma la tecnica dello straniamento non è una tecnica drammaturgica; la tecnica dello straniamento è la riproposizione a livello drammaturgico di quella che da sempre è stata la postura del filosofo nei confronti dell'esperienza. Se uno ritorna all'incipit della filosofia occidentale trova la figura di Socrate. Ebbene che cosa fa di Socrate il filosofo prototipico? Il fatto che non si accontenta di quelle che sono le risposte tradizionali alle grandi questioni dell'uomo. Socrate problematizza sistematicamente queste risposte, cioè le mette costantemente in una situazione di epoché, cioè le sospende. Socrate non era forse paragonato a una torpedine? Questo viene detto nel Simposio, il famoso dialogo in cui Aristofane parla di Socrate. In esso si dice che Socrate nella città si presenta come qualcuno che intorpidisce l'interlocutore. Perché lo intorpidisce? Perché lo paralizza. Lo paralizza perché lo confuta, anzi perché lo mette nella situazione di doversi confutare da solo. Non è questa forse anche la posizione brechtiana? Non è forse questo il metodo drammaturgico brechtiano? Non è in questo che consiste anche la tecnica di recitazione degli attori brechtiani, che Brecht risolve in quella singolare formula "non così ma così"?

Molto controversa, per altro, su come si debba applicare…

 

Impossibile forse da applicarsi. Non sono un esperto di queste cose, ma mi sono sempre chiesto come fosse possibile insegnare a recitare in modo tale che di ogni azione drammatica fosse espresso al tempo stesso indirettamente anche l'altro esito, cioè c'è un'azione drammatica ma bisogna che l'attore esprima insieme all'azione che sta compiendo anche la possibilità di un'altra azione che non viene compiuta. È come se l'attore dovesse contemporaneamente affermare, dire qualcosa, e disdire quello che sta dicendo! Questo per Brecht era importante perché si trattava, appunto, di non cristallizzare, di non procedere a una immedesimazione troppo forte. Ma se uno ci pensa, qual è l'effetto che fa Socrate sul suo interlocutore? L'effetto che fa Socrate sul suo interlocutore è lo stesso, cioè l'interlocutore di Socrate rimane paralizzato dalla dialettica socratica. Egli deve prendere le distanze e giudicare criticamente quelle che sono le sue convinzioni abituali. In tal modo viene costretto ad auto-confutarsi. Ora, quando Socrate, quando Platone attraverso Socrate, presenta la confutazione, la presenta come una tecnica della purificazione, perché attraverso la confutazione si ha una purificazione. A essa Platone dà un valore religioso, sacrale. Qual è il senso del teatro epico? Non soltanto sospendere, mettere in epoché, problematizzare, ma al tempo stesso anche operare una purificazione, una vera e propria “catarsi” dello spettatore, anche se evidentemente la poetica brechtiana è antiaristotelica.

 

Opera da tre soldi, 1972-73, Domenico Modugno, foto Luigi Ciminaghi/ Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. 

 

E tu insisti su questo antiaristotelismo.

 

Sì insisto su questo antiaristotelismo perché secondo me dei due grandi classici del pensiero greco, Platone e Aristotele, Brecht sta decisamente dalla parte di Platone. La sua critica della poetica di Aristotele è una critica di ogni forma drammaturgica basata sul principio della Einfühlung, della immedesimazione, e quindi una critica del naturalismo... Ma questa critica implacabile che Brecht fa del teatro naturalista sembra, per uno che abbia un minimo di frequentazione delle cose filosofiche, una ripresa a duemila anni di distanza della originaria critica che della poesia faceva Platone nel decimo libro della Repubblica, quando Platone per ragioni politiche e per ragioni pedagogiche, esortava a cacciare dalla città ideale i poeti. Perché dovevano essere cacciati i poeti? Perché i poeti rappresentavano la pedagogia ufficiale. Nel mondo platonico, i poeti sono appunto i persuasori per via di immedesimazione, per via di incantamenti e di emozione. Il poeta per Platone non era quello che noi moderni consideriamo il “poeta”, cioè il libero creatore di immagini. Della poesia Platone non aveva una concezione estetica. Il poeta era per lui il pedagogo della comunità, era colui che si faceva portavoce di un sapere e di un potere che veniva tramandato oralmente e che doveva essere ridistribuito attraverso la parola.

 

Opera da tre soldi, Milva e Domenico Modugno, foto Luigi Ciminaghi/ Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. 

 

E quindi era l'incarnazione di un sapere tradizionale indiscutibile?

 

Di un sapere tradizionale indiscutibile che doveva essere trasmesso oralmente attraverso un procedimento mimetico. La parola mimesis in Platone prima di significare quello che poi significherà, cioè la riproduzione di un originale, indicava l'incantamento che si crea quando il poeta parla e il pubblico ascolta. Il pubblico si identifica nella parola del poeta e questa identificazione favorisce il processo di memorizzazione e di trasmissione del sapere: tutta la poesia è un effetto di incantamento mimetico. Contro questo modello Platone insorge e propone un altro modello pedagogico che sarà chiamato “filosofia”. E quest'altro modello pedagogico è basato proprio sul distruggere, tramite il giudizio critico, l'incantamento della parola poetica. Ci sarà filosofia se e solo se l'incanto della parola poetica, che esclude il giudizio critico, che esclude la distanza, che esclude la riflessione, sarà messo in questione. A questo fine mira la confutazione dialettica. Ci sarà filosofia se si cacciano i poeti dalla città. La critica brechtiana di Aristotele ricorda molto la critica platonica della poesia e non a caso, come Platone, anche Brecht ritiene che la funzione del teatro sia una funzione eminentemente politica, pedagogica, scientifica, e solo in modo derivato una funzione estetica.

 

Opera da tre soldi, 1972-73, Domenico Modugno, foto Luigi Ciminaghi/ Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. 

 

Per un'età scientifica tra l'altro, perché Brecht nel Breviario di estetica teatrale parla di un teatro di un’età scientifica come la nostra.

 

Parla di un teatro dell'età scientifica, quindi parla di un teatro che abbandona la deriva dell'immaginario, per approdare nel continente del reale. Cioè da un certo punto di vista il teatro brechtiano è un teatro radicalmente realista, se per reale si intende non la riproduzione mimetica della realtà, ma se si intende per reale il reale della scienza, cioè il reale che la scienza permette di far emergere come...

… tutto quello che è nascosto sotto l'apparenza della realtà… questa è la disputa con Lukảcs a un certo punto…

 

Quello che è nascosto sotto l'apparenza della realtà e quello che in qualche modo tende a uscire da una dimensione esclusivamente umana, che non è più riconducibile soltanto alla misura dell'Uomo. Brecht ce l'aveva con la retorica dell'umanesimo. Sono le grandi potenze della storia, sono le grandi potenze dell'economia, sono potenze che travalicano la misura umana che vengono messe in scena attraverso la tecnica dello straniamento. Nel teatro epico c’è una radicale scelta di campo, secondo me, per il reale contro la dimensione immaginaria del teatro, ed è questo uno dei motivi che rendono il metodo brechtiano assolutamente attuale, cioè assolutamente legato anche a una nostra esigenza.

 

Esigenza di quale tipo?

 

Ma, innanzitutto credo che ci sia l'esigenza di liberarsi da una dimensione, come dire, di chiacchiera, di curiosità. Credo che ci sia un’esigenza di veggenza, dove la parola veggenza non vuol dire intuizione profetica; veggenza significa capacità di vedere al di là delle apparenze, capacità di vedere le strutture profonde che governano i nostri comportamenti, la capacità di vedere oltre. Questo mi sembra essere ancora un motivo profondamente platonico: andare al di là dell'opinione, al di là del senso comune, al di là delle modalità abituali della comunicazione, per vedere quelle che sono le radici del nostro legame sociale. Ecco questa idea di veggenza, secondo me, è molto forte in Brecht. Il metodo dello straniamento deve produrre veggenza.

 

Opera da tre soldi, 2016, regia Damiano Michieletto, foto Masiar Pasquali Brecht e Benjamin. 

 

Ed è, deriva, è basato anche sulla sua fede materialista? 

 

Brecht è stato profondamente materialista, e lo si vede secondo me in una delle sue opere più controverse, quella che ha come titolo italiano La linea di condotta. Parla del sacrificio del singolo per il Partito che evidentemente è qualche cosa che letta con il senno di poi lascia di stucco... Lì si vede che cosa significa essere materialista per Brecht. Vuol dire che colui che parla per gli ultimi o colui che parla avendo operato, come per Brecht, una presa di posizione a favore del proletariato, non parla più in nome della morale, la morale diventa un elemento non sovraordinato all'azione ma è un elemento che dipende dall'azione. Provo a dirlo in un modo molto semplice: per Brecht gli imperativi ultimi sono imperativi ipotetici, e gli imperativi categorici sono subordinati agli imperativi ipotetici. Kant distingueva imperativo ipotetico e imperativo categorico, il vero imperativo morale era l'imperativo categorico, la legge della ragione. L'imperativo ipotetico, essendo finalizzato a un scopo determinato, non poteva essere un autentico imperativo morale perché subordinava la scelta a un fine, a un'inclinazione sensibile che la doveva determinare. Viceversa, se uno si chiede che cos'è il materialismo di Brecht, il materialismo di Brecht è proprio la subordinazione degli imperativi categorici agli imperativi ipotetici. Che vuol dire: la morale non può essere eletta a tribunale ultimo della condotta umana. La morale è in gioco, cioè la morale fa parte della lotta in corso. Questa è, secondo me, una lezione durissima, durissima, ma una lezione oggi molto opportuna. Perché se noi andiamo a vedere a che cosa si è ridotta sostanzialmente la sinistra nel nostro universo, scopriamo che essa si è ridotta a essere sostanzialmente il partito della morale, nient'altro che un movimento di opinione che sulla base di principi morali critica l'ordine costituito, lo critica in nome della Giustizia, in nome dell'Uomo, in nome di universali che vengono posti come trascendenti il piano dell'esperienza. Sostanzialmente, la sinistra nel suo complesso oggi in Italia è diventata questa critica morale dell'ordine esistente. È puro idealismo! Non è materialista. Brecht ci dice: il materialismo è parlare in nome di, a partire da una presa di posizione, una presa di posizione per gli ultimi, per il profugo, che è una figura chiave del teatro brechtiano. Ma chi parla per il profugo non sta parlando per la morale. Anzi, chi parla per il profugo può anche in qualche modo...

 

Brecht-Benjamin. 

 

…forzare la morale consueta?

 

Certo. Brecht è materialista perché nega che esistano degli universali astratti separati dall'esperienza, che la possono giudicare dall'alto.

 

Come la giustizia in Il cerchio di gesso del Caucaso?


Proprio come nel Cerchio di gesso, Brecht dice: gli universali sono in realtà delle armi che si usano nel corso della lotta, cioè non sono qualcosa che sta al di fuori del campo di battaglia e che stabilisce chi è buono e chi è cattivo, ma gli universali, i valori, sono strumenti della lotta. Questo è un materialismo che difficilmente oggi potrebbe essere accettato, perché va veramente contro il senso comune della sinistra secondo cui essere di sinistra vuol dire stare dalla parte del bene contro il male.

 

Questo discorso del metodo brechtiano dello straniamento poi tu lo riferisci nella seconda parte del libro alla struttura dell'enunciazione.

 

Sì, lo riferisco all'enunciazione perché la tecnica dello straniamento brechtiano è sostanzialmente una tecnica relativa alla comunicazione. Brecht individua chiaramente la natura performativa del linguaggio, sa bene che il linguaggio non è un semplice mezzo di comunicazione, sa che il linguaggio è sostanzialmente produttore della realtà e che quindi la comunicazione non si limita a registrare una realtà data ma è uno dei fattori che la generano. Per Brecht tutto il linguaggio è performativo. E Brecht sa bene che la lotta di classe passa attraverso la comunicazione e che la comunicazione è un momento della lotta di classe, cioè la lotta di classe non è qualcosa che pertiene solo al piano strutturale, ma riguarda anche il livello cosiddetto sovrastrutturale. Perché la comunicazione “fa” qualcosa: essa produce i propri oggetti. Se si vuol fare teatro epico, se si vuole applicare il metodo dello straniamento, si tratta allora di mettere a nudo i rapporti di forza reali impliciti all'interno dello spazio comunicativo. Uno spazio comunicativo è uno spazio di forze in lotta tra di loro: queste forze, per lo più sono inapparenti, sono nascoste, si tratta allora di farle emergere, di capire qual è la reale posta in gioco dell'atto comunicativo, quali sono i rapporti di potere che agiscono al fondamento della comunicazione. A questo serve la tecnica del Verfremdungseffekt, serve a straniare gli enunciati: qualcuno parla, ma chiunque parli, quando parla non parla mai semplicemente come un soggetto responsabile della sua parola ma parla sempre “in veste” di qualche cosa (come padre, come marito, come operaio ecc...). La parola non è un'etichetta messa sulla cosa. La parola appartiene sempre a un genere del discorso, appartiene a un universo di rapporti di forza, e questo contesto, che dà alla parola il suo senso e la sua efficacia, non è, non coincide mai con ciò che la parola effettivamente dice, non è riducibile al contenuto semantico della parola: esso è piuttosto ciò che ogni enunciato mostra ma non dice. Brecht sa bene che l'enunciato ha due facce. E che quello che l'enunciato mostra non è il contenuto del detto, ma è la potenza silenziosa che sta alla base della parola. Grazie al metodo brechtiano si diventa sensibili a ciò che gli enunciati mostrano senza dire. La tecnica dello straniamento, che è soprattutto uno straniamento linguistico, deve essere in grado di rendere lo spettatore, cioè il giudice, in grado di cogliere la struttura di senso, cioè il non detto che ogni enunciato si porta dietro. Questo è il “gesto”, la famosa questione del gesto…

 

Il gestus brechtiano…

 

Il gestus brechtiano è il gestus illocutivo che sta dietro a ogni atto di enunciazione. Cioè ogni enunciato rinvia a presupposti che sono “agiti” in ogni enunciato senza essere “saputi” come tali. Sono rapporti di forza, sono forme di violenza di classe. Far venir fuori questo elemento illocutivo è quello che Walter Benjamin chiama “rendere il gesto citabile”. Walter Benjamin, lettore di Brecht, e sai bene quanto fossero in sintonia l'uno con l'altro, ripete continuamente che il teatro epico brechtiano rende il gesto “citabile”. Cosa vuol dire rendere il gesto citabile? Vuol dire far emergere, mediante il metodo dello straniamento, il senso implicito nell'enunciato, quanto l'enunciato agisce ma non dice. I presupposti sono tematizzati e, quindi, problematizzati. È di nuovo un'operazione platonica: si va al di là dell'apparenza per arrivare alla struttura invisibile profonda. Rendere il gesto citabile… Brecht diceva ai suoi attori: voi non dovete “recitare” ma dovete “citare”. La differenza tra recitazione e citazione in che cosa consiste? La recitazione in qualche modo è un'immedesimazione naturalistica che mira ad assorbire, a portare l'attenzione dello spettatore esclusivamente sull'elemento di illusione; un attore che invece di recitare citi è un attore che, mentre sta recitando, mentre sta dicendo, rende evidente anche il gesto, questo “sotto”, questo presupposto. E però io mi sono chiesto sempre come facesse Brecht a ottenere questi risultati e se li ha mai ottenuti.

 

Mutter Courage, con Helene Weigel. 

 

L'inattualità del teatro brechtiano realizzato deriva dalla complessità del compito che lui si era proposto? I risultati del metodo brechtiano si vedono forse solo con la troupe del Berliner Ensemble, per pochi anni. Ci sono stati critici e filosofi conquistati proprio dal Berliner Ensemble. Prima hai citato Benjamin, ma c’è Roland Barthes che inizia la sua carriera come critico teatrale della rivista “Théâtre populaire” e si sposta verso la riflessione filosofica e la semiologia proprio dopo l’incontro con il teatro e con la compagnia di Brecht, in particolare con la Mutter Courage interpretata da Helene Weigel. 

 

Io trovo l'elemento profondamente brechtiano di Barthes dove magari in prima battuta non ce lo si aspetterebbe. Lo trovo nella sua riflessione sullo statuto del fotografico. Se si prende l'ultima sua opera, il saggio famosissimo sulla fotografia, praticamente la sua opera testamentaria, non per intenzione perché lui non sapeva che di lì a poco sarebbe morto investito da una macchina, ma di fatto è l'opera ultima. In La camera chiara di Barthes si vede all'opera il metodo brechtiano. Che cos'è infatti una fotografia per Barthes? Che cos'è che rende una fotografia una vera “immagine” secondo Roland Barthes? Un elemento che Barthes chiama punctum, in latino, e che si potrebbe tradurre in italiano con dettaglio. Ciò che rende un'immagine veramente un'immagine è la potenza del dettaglio, cioè qualche cosa che è parte dell'immagine perché evidentemente è contenuta nell'immagine, ma che da dentro l'immagine è in eccesso sull'immagine che la contiene. La contesta e la eccede dall'interno. Prendiamo un esempio di Barthes. La catenina al collo della signora è certamente un “particolare”, cioè una parte dell'immagine, ma perché Barthes dice che fa punctum? Fa punctum perché in qualche modo quell'elemento invece di essere un particolare, e il particolare si deduce sempre dal tutto in cui è compreso, è come se venisse fuori dall'insieme di appartenenza e fosse in eccesso rispetto a esso, come se si realizzasse una sorta di incompossibilità tra quell'elemento e il tutto che lo contiene. Quindi taglia, taglia proprio lo sguardo dell'osservatore, lo ferisce. Bene, qual è lo scopo del metodo brechtiano?


Che peraltro ha scritto una lode del dettaglio...

 

Qual è lo scopo del metodo brechtiano? Criticare il naturalismo. Cosa vuol dire criticare il naturalismo, l'effetto di insieme? Far emergere dei puncta di dissomiglianza sulla scena, far emergere sulla scena del teatro una serie di elementi che sono in dissonanza con il tutto. La scena non può essere più governata dal di fuori come un tutto organico, simmetrico, armonioso, no, la scena comincia a essere un mosaico di dettagli che sono tra di loro in una relazione talvolta anche anacronica, anche di non contemporaneità l'uno con l'altro. L'uso della cartellonistica, l'uso dei songs eccetera, cioè la potenza del metodo brechtiano mira proprio a generare sulla scena dei puncta di dissomiglianza che rompono l'unità aristotelica della scena, l'unità drammatica, e sono tutti momenti di veggenza, son tutti momenti di veggenza in cui la struttura profonda del reale, che normalmente viene dissimulata, assurge attraverso il dettaglio al primo piano. Credo che Roland Barthes in qualche modo sia sempre stato sedotto dal metodo brechtiano proprio perché il metodo brechtiano non significa la realtà, ma la mostra. 

 

Nei Saggi critici Barthes scrive: “Il postulato di tutta la drammaturgia brechtiana è che, almeno oggi, l’arte più che esprimere il reale deve significarlo”.

 

Il metodo brechtiano non mira a produrre un nuovo significato della realtà, a dirci come stanno le cose, che cosa la realtà è, ma mira a mostrare il reale. Del resto Brecht usava spesso il verbo zeigen per indicare proprio quello che doveva essere uno dei compiti del teatro: il teatro deve mostrare. Deve mostrare. Quindi, è proprio il contrario di raccontare. Se ci si pensa è curioso: se uno dice teatro “epico” si pensa al teatro narrativo, epica rimanda infatti alla narrazione, ma in realtà il teatro epico è un teatro di mostrazione, è un teatro basato sul principio del mostrare, e questo mi pare sia il punto rilevante, cioè il teatro deve essere in grado di mostrare il reale nella misura in cui il reale è ciò che nel detto è costantemente taciuto. E questa è un po' la questione, secondo me, che rende il metodo brechtiano straordinariamente attuale.

 

Helene Weigel. 

 

Stai preparando una riedizione del Brecht, con qualche modifica. Puoi anticiparci, per brevi linee, i nuovi argomenti che tocchi?

 

Uscirà per la casa editrice Orthotes di Napoli che ha deciso di ripubblicare il saggio, ormai introvabile nella sua veste originaria (le edizioni et al. di Milano non esistono più). Sarà integrato da due nuovi saggi che come oggetto avranno sempre il metodo dello straniamento visto però all'opera nell'ambito delle arti visive. Nel primo provo a ripensare il dispositivo prospettico rinascimentale intendendolo appunto come una procedura che, lungi dal creare un effetto di illusione naturalistica, strania lo sguardo fino al punto di de-umanizzarlo. Provo a leggere, insomma, "in positivo" le critiche tradizionali che la modernità, da Panofsky a Florenskij a Merleau-Ponty, ha rivolto alla prospettiva rinascimentale accusandola di essere un procedimento artificiale che poco ha a che fare con la concreta percezione. Secondo me essa è stata praticata fin da subito come un artificio antinaturalistico e, a causa del suo materialismo, è stata guardata con sospetto da letterati e dai teologi, mentre invece è stata riconosciuta e si è presentata come consustanziale alla nuova pratica scientifica. Nel secondo vorrei mostrare come lo straniamento dello sguardo, che già la prospettiva aveva inaugurato, diventi con la fotografia l'essenza stessa del gesto artistico. Anche la fotografia, al suo sorgere, sarà sottoposta a un diluvio di critiche da parte degli intellettuali umanisti. Vi vedranno la fine dell'arte, il tracollo dell’“esperienza vissuta” e la sua sostituzione con un automatismo privo di anima. Brecht e Benjamin ne colgono invece la potenza materialistica, democratica e rivoluzionaria. La fotografia fa infatti con l'immagine la stessa cosa che il teatro epico fa con gli enunciati: rende citabile il gesto. La fotografia non è mimetica. La fotografia non “dice” che cosa è il reale (per questo i letterati raramente la comprendono) piuttosto “mostra” il reale e quello che mostra eccede l'ambito del detto. La fotografia è indubbiamente una procedura largamente meccanica, come già lo era la prospettiva... ma proprio questo automatismo fa di essa una potenza anti-ideologica.

 

Ora ti chiederei, però, di spiegarci come è nato il tuo interesse per Brecht, perché e come ci sei arrivato? Dato che questo autore non fa parte di solito delle letture, dell’armamentario di un filosofo.

 

Ho sempre coltivato, e non la realizzerò mai, l'idea di scrivere un libro su quelli che sono i grandi moderni, cioè quelli che meglio esprimono il senso della modernità, del Novecento, del “secolo breve”. Nella mia testa ci sono quattro grandi moderni che potrebbero da soli essere in qualche modo presi in considerazione come coloro che portano la modernità a espressione compiuta, e sono appunto Brecht per il teatro, e per la letteratura e la poesia; Jean-Luc Godard per il cinema, e Godard è molto brechtiano…

 

Molto brechtiano, con le voci fuori campo, le didascalie scritte…

Certo, la critica della poetica aristotelica e la tecnica dello straniamento, il dettaglio al posto del particolare, è profondamente brechtiano. Poi aggiungerei Bob Dylan, che nell'ambito della musica popolare fa di nuovo un'operazione profondamente brechtiana, tanto è vero che c'è una sua famosissima canzone, The Times They Are a-Changin', che è una citazione di Jenny’s Song dell’Opera da tre soldi. Il quarto è Šostakovič per la musica colta. Questi quattro, Godard, Šostakovič, Bob Dylan e Brecht, delineano una sorta di periplo della modernità da un punto di vista artistico. C'è un tratto che accomuna queste esperienze così diverse ed è secondo me la fine di ogni assiologia, cioè la fine di ogni gerarchia di valore derivata dalla tradizione “alta”, una totale democratizzazione e deuricizzazione del gesto artistico. Voglio dire, l'uso dei materiali ad esempio, l'alto e il basso...

 

Il jazz e il valzer e la sinfonia…

 

Brecht e Benjamin. 

 

Si prenda Šostakovič: c'è la musica per film, c'è il jazz, c'è il valzer, c'è veramente l'idea che la modernità non possa più basarsi sopra delle distinzioni di valore che sono quelle che si ricavano dal passato, e questo vale per Bob Dylan a maggior ragione e per Brecht, che fa ricorso al teatro popolare.

 

Al teatro popolare, a quello cinese, all’opera lirica, alla drammaturgia ipercolta…

 

E il cinema di Godard, dove tutti gli elementi del cinema di genere sono mischiati con il cinema d'autore... Mi pareva che questa popolarità del gesto fosse un punto che accomunasse i quattro... e poi un'altra cosa ancora: l'idea del montaggio. L'opera non è più intesa monologicamente come la creazione sovrana di un soggetto che dice la sua opinione sul mondo. Il teatro di Brecht, il cinema-saggio di Godard, la musica di Šostakovič come le canzoni di Bob Dylan, sono basati su un'idea di montaggio, cioè sull'idea che si deve lavorare su dei materiali dati e montarli per ottenere effetti estetici, effetti espressivi, a partire dalla dissonanza di questi materiali, non dalla loro coerenza e dalla loro armonia. Pensa alla voce di Dylan, la voce di Dylan è una voce mostruosa, una voce atroce, cioè una voce non gradevole, no? E pensa alla tecnica cinematografica di quei falsi raccordi di Jean-Luc Godard, che sono effettivamente la trasposizione al cinema del metodo brechtiano dello straniamento. E Brecht, da questo punto di vista, di nuovo è uno che lavora continuamente su materiali preesistenti: prendi per esempio i suoi Diari di guerra, che sono proprio l'esempio più interessante, come pure il suo libro bellissimo sulla guerra, quel libro di fotografie…

 

Ti riferisci all’Abicì della guerra?

 

 

 Sì, proprio a quello, che è tutto un lavoro di montaggio. Il senso non è prodotto dall'enunciato, ma il senso viene prodotto anche attraverso l'enunciato, ma come se fosse il risultato dell'attrito di materiali tra di loro eterogenei. È chiaro che ci sono anche enunciati ne L'Abicí della guerra, ci sono bellissime poesie poste sotto ogni immagine. È chiaro che se prendiamo i Diari di guerra non ci sono soltanto collage ma ci sono anche riflessioni personali eccetera. Ma anche la parte dell’enunciato ci rientra dentro come materiale, non è più direil senso. E questa è un'operazione appunto che rende conto profondamente della modernità di Brecht. Allora probabilmente sono arrivato a Brecht perché ero profondamente appassionato dalla sua modernità anche aggressiva, anche arrogante, perché la modernità di Brecht si manifestava in tutta una serie di aspetti esteriori, dall'abbigliamento alle abitudini alimentari, ai rapporti con le donne… Era una modernità segnata dall'assoluto della sperimentazione. In lui tutto diventa sperimentale. Il teatro è sperimentazione per Brecht. Ma anche la vita privata è sperimentazione per lui. Questa idea che sia possibile fare della sperimentazione il fondamento è un'idea profondamente moderna, che oggi fa fatica ad avere spazio, perché fondare sulla sperimentazione vuol dire anche esporsi costantemente alla possibilità del fallimento, dell'aborto, è ovvio. Però questa idea che la sperimentazione possa essere un assoluto, ecco a me pare che questo sia il tratto più potente di Brecht, è questo il metodo brechtiano. Il marxismo non è l'ideologia di riferimento, è uno dei tanti, è uno dei tantissimi esperimenti... Un esperimento che fa la storia, in quel caso. Però Brecht lo vive come un esperimento. Ed è per quello che lo ama. E anche Godard, Dylan e Šostakovič sono autori totalmente sperimentali.

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Conversazione con Rocco Ronchi

Teatro come incantamento

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Il 28 e 29 maggio, a Reggio Emilia, «Dedicato a Gianni Celati». Qui il programma dell'evento.

 

 

Vorrei capire come mai sei arrivato alla scrittura teatrale così tardi, con Vecchiatto. In molte tue opere narrative si sente un’ispirazione quasi teatrale, e i tuoi personaggi sembrano corpi su una scena, maschere contemporanee...

 

È che sono sempre stato un po’ respinto dal teatro come si pratica ai nostri tempi, questo teatro dove gli attori fanno finta di scambiarsi battute in una lingua fintamente quotidiana, con in più la finzione che il pubblico non ci sia. Possiamo chiamarlo teatro borghese. Ma è l’essenza di tutte le abitudini nel teatro occidentale.

 

Il teatro borghese pretende di rimandare a una realtà…

 

Io direi che la sua regola si può formulare così: ‘Tu spettatore stai vedendo in scena dei fatti di vita come li avresti visti se fossi stato presente quando si svolgevano”. Di qui la necessità di costose messinscene, che più sono costose e più somigliano a quelle case-museo dei nuovi ricchi. Il pubblico è come se spiasse da fuori quello che si svolge in casa d’altri.

 

Si deve guardare la scena come se si avesse di fronte un pezzo di realtà non perturbata dall’osservazione…

 

Il nostro è un teatro per spiare delle scene di vita dall’esterno. Però poi gli attori debbono dare intensità a questa finzione rappresentativa, allora usano toni espressivi e modi di articolare le parole che in un dialogo quotidiano sarebbero ridicoli. Ed ecco quelle pause da attore, gravide di significati. Ecco quei gorgogli di gola per far sentire l’emozione che ribolle. A parte gli urli e i sopratono patetici, per drammatizzare frasi molto trite...

 

Rappresentazione della realtà più quotidiana ed enfasi teatrale: sembrano due sistemi di epoche diverse, coesistenti e in conflitto. Uno antieroico, novecentesco, smitizzante. L’altro romantico, sopravvissuto con la tecnica degli attori...

 

Una volta da giovane mi hanno cacciato fuori da un teatro insieme ad alcuni amici, perché eravamo nelle prime file e ci siamo messi a ridere come dei matti quando un attore con cipiglio tragicissimo ha pronunciato la battuta: “Le patate bruciano!”. Quelle patate che bruciano, espresse col tono d’una tragedia psicologica universale, rimane per me un riassunto del nostro teatro.

 

Il che non vuoi dire che sia tutto da buttar via.

 

No, ma conosco tanta gente che non ha nessuna voglia di andare a teatro e non gli do torto. Perché a teatro anche lo spettatore deve portare il peso della finzione rappresentativa, sforzandosi di vederci qualcosa che dovrebbe somigliare a una scena di vita privata, altrimenti quello che vede non ha senso. Questo è molto faticoso ed è uno sforzo che lo spettatore di solito sopporta solo perché è già catturato nell’altra messinscena dei rituali sociali... Pensa invece come è rilassante andare al cinema...

 

Va bene... Ma potresti dirmi cos’è il teatro, per te?

 

Il teatro fa parte delle abitudini e nelle abitudini di solito ci si immerge con la naturalezza degli animali. Poi viene il giorno in cui si resta fulminati da qualcosa di un po’ diverso e tutto cambia. Per me è stato il Parlamento di Ruzante, che ho visto quand’ero molto giovane, recitato non so più da chi. Da allora Ruzante è stato per me il teatro. Specialmente il Parlamento e Bilora, perché sono due monologhi con un personaggio che fa da spalla al primo recitante per stimolarlo a rilanciarsi nella sua verbigerazione. E questa è anche la struttura di Vecchiatto, se ci pensi.

 

Una struttura elementare, quasi primaria…

 

Io so che non darei via il Parlamento di Ruzante per tutto Goldoni e Alfieri e Pirandello e Ibsen messi assieme. Cechov invece no, me lo terrei stretto... Non c’è lingua teatrale più stilizzata di quella di Ruzante. Se uno la impara a memoria sente che tutti i passaggi sono scivolamenti per scatti sonori, ritmici, timbrici, nell’andamento stilizzato degli umori. Non è un dialogo, ma una verbigerazione, uno sfogo di umori con un sistema ritmico percussivo straordinariamente accentuato. Ad esempio: “Cancaro ai campi e la guera e ai soldé, e ai soldé e la guera”.

 

Il tuo amore per Ruzante ci porta a un teatro lontanissimo da quello che descrive scene di vita borghese. Siamo vicini al mondo delle maschere, a un universo arcaico dove la lingua quasi determina la realtà.

 

Pensa ad esempio al teatro Nô, dove la recita di solito comincia con un personaggio che viene in scena e dice al pubblico: ‘Voi avete davanti un viaggiatore che viene da lontano. Ho camminato tanto e vengo qui per far questo o quest’altro”. In questo teatro tutto comincia con un racconto del genere e non c’è la finzione che il pubblico non esista, né che la scena sia un luogo quotidiano dove i fatti si stanno svolgendo sotto i nostri occhi...

 

È un impianto più narrativo, come più narrativo era l’impianto del Parlamento di Ruzante. Qui la lingua con il suo stile crea un alone di realtà e l’unica realtà è la lingua, la relazione del parlare e dell’essere percepiti.

 

La cosa che più mi interessa nel teatro Nô è che niente succede in scena, tutto è sempre già successo. Non c’è azione, non ci sono fatti, ma c’è una continua evocazione di storie già accadute, di cose leggendarie o sognate. Non c’è neanche un sistema di battute per dire la psicologia d’un personaggio. Un personaggio può dire “io” ma poi il suo discorso può essere continuato in prima persona dal coro o da altri. Il che vuol dire che non contano i fatti da rappresentare, né l’interiorità delle persone, ma solo le parole che si spandono nello spazio come un incantamento.

 

Così arrivi all’idea d’un teatro sonoro, la cui sostanza è la materia della voce, non corrotta dall’enfasi della teatralità.

 

Certo. Però sto cercando di dire che nelle nostre latitudini è quasi impossibile scrivere per un teatro del genere. Cioè è difficile pensare a parole che possano essere modulate da una voce con tonalità non esteriori, senza gridare o miaulare in modo patetico per agganciare il pubblico svampito. Dico che è ben difficile trovare attori che siano disposti a rinunciare ai loro artifici convenzionali. Quello che si ascolta nei nostri teatri è di solito uno standard di effetti professionali, dove la tonalità delle battute diventa più o meno sempre la stessa, qualunque cosa si reciti. E raramente si sentono tonalità meno esteriori, meno di maniera...

 

Tu rifiuti la teatralità del naturalismo, le enfasi recitative del teatro borghese. Ma non per questo neghi il teatro. Anzi, il confronto tra la voce e il pubblico per te sono stati essenziali. Molti tuoi scritti, prima di pubblicarli, li sei andati a recitare in giro. Hai letto e raccontato, in diversi modi e occasioni, opere di Omero, Boiardo, Ariosto, fino a Delfini e altri contemporanei.

 

In queste recite cerco più che altro una stilizzazione della lingua. E quando la trovo è già una recita teatrale, ossia lo spartito per una recita teatrale senza bisogno di altre messe in scena.

 

Quali esperienze teatrali ti hanno più colpito?

 

Con tutti questi anni di frequentazione dei teatri, gli spettacoli che mi restano in mente perché mi hanno toccato si contano sulle dita. Può darsi ci siano altre cose molto interessanti da noi, ma io non abito in Italia da quindici anni. Alla rinfusa: 1) un Cechov di Peter Brook, che andavo a vedere tutte le sere quando stavo a Parigi e mi dava un sollievo come tornare tra amici, 2) uno spettacolo di Klaus Grüber con Jeanne Moreau, che andavo inseguendo per i teatri della Normandia, 3) un Beckett con Jack McGowen, però solo sentito in un nastro, e altri Beckett messi in scena in Inghilterra, 4) dei recitativi di Heiner Müller messi in scena da un mio amico a Bobigny, 5) uno recente di questa straordinaria attrice irlandese Fiona Shaw, che recitava The Waste Land di T.S. Eliot, a Londra, 6) poi quello di Ermanna Montanari, Lus, teatro sonoro meraviglia, canto della lingua, visto a Ravenna, 7) poi spettacoli africani vari.

 

Ai punti estremi del Novecento stanno i diversi sguardi sulla vita quotidiana di Cechov e di Beckett. Cosa pensi di questi autori che portano a opposte conseguenze la rappresentazione di qualcosa che potremmo chiamare l’uomo comune?

 

Cechov è il vero modello, soprattutto perché le sue battute girano a vuoto e si rimane lì sospesi, in balia del tempo che passa. Beckett fa uguale, senza azioni e senza fatti in scena, niente da aspettarsi e nessuna rivelazione. Tutto è già avvenuto, restano i racconti, oppure le nenie come in Not I, Rockaby, Ohio lmpromptu...

 

I teatri del Novecento che hanno criticato il naturalismo e la convenzionalità tradizionale sono poi andati spesso oltre la drammaturgia. Nel senso che hanno affidato al corpo, alla composizione scenica, all’immagine, il compito di superare la crisi della simulazione mimetica della parola. Come scrittore, immagino che tu non creda possibile una rifondazione del teatro fuori della parola.

 

Per la rifondazione del teatro è meglio che ti rivolgi a qualcun altro. lo vorrei solo aprire dei buchi e crepacci nello spazio della rappresentazione, in modo che non sia un comodo specchio per chi guarda. Altrimenti il teatro diventa solo un’immagine che tu valuti dal di fuori, facendo perno su te stesso, sulle tue presupposizioni a cui ti tieni ben attaccato, chiuso dentro il tuo guscio...

 

Spiegami meglio come intendi tu la relazione fra rappresentazione e spettatore.

 

Insisto sul fatto che c’è una prigione di noi stessi in cui siamo sepolti, come dentro un guscio. È una prigione che separa il nostro dentro e il fuori in modo abbastanza penoso. E dico che il sistema di battute nel nostro teatro mantiene e rafforza questa separatezza tra il dentro e il fuori. La mantiene con la finzione che stiamo spiando dei fatti di vita, come se guardassimo in una casa o in un altro luogo privato. Allora è come quando spiamo o come quando guardiamo qualcosa dall’esterno. Cioè noi siamo dentro alla prigione di noi stessi, mentre là fuori si svolge la vita come una cosa da osservare solo per tenersi informati, per scoprire dei retroscena e dare dei giudizi. Non può esserci incantamento in queste condizioni. L’ascolto, come la contemplazione, implica un diverso stato della mente...

 

Un teatro che procuri incantamento, aperture verso altri stati di coscienza, mi sembra un progetto che prescinde dalla realtà fisica dei teatri, fatta comunque di corpi, di modulazioni, pause, tecniche per far arrivare la voce...

 

Io sto parlando con la modalità dell’eventuale, la modalità ipotetica dei desideri e delle preferenze. Credo sia una modalità necessaria per poter pensare a certe cose, sia pure in modo donchisciottesco, ma diverso dal modo amministrativo. Dunque mi figuro un teatro che può fare a meno della materialità della messinscena perché lavora sull’immaginazione e sui voli della mente. Mi figuro un teatro che possa essere il luogo in cui si sciolgono certi irrigidimenti del corpo attraverso l’ascolto delle parole. E infine mi figuro un teatro non focalizzato sull’azione ma su una percezione dell’invisibile, ossia l’ombra e lo spazio che è dietro le cose...

 

Come si rende percettibile questo teatro dell’invisibile?

 

Intanto si tratta di abbassare la soglia d’intensità delle parole, abbassare il grado di stimolazione dello spettatore, smetterla di voler sedurre il pubblico a tutti i costi, di voler tenerlo inchiodato alla sedia. L’ascolto non può essere così. Se ci pensi, l’attore celebre o il regista celebre ha quasi sempre quest’atteggiamento col pubblico: l’atteggiamento del seduttore che deve portarsi a letto una donna eccitandola, blandendola. E questa è la storia dei grandi istrioni, anche se fanno finta di maltrattare il pubblico con le loro bizze. Come quel tale che fa tutto quel can can, come si chiama?

 

Ce ne sono tanti, troppi…

 

D’altronde è chiaro che lo spettatore abituato al nostro tipo di teatro è sempre in attesa di assistere a dei fatti in scena, sempre così in balia d’una stimolazione con le recite in sovratono, che appena sente un minimo soffio di rilassamento invece di incantarsi si addormenta e basta.

 

Questo pericolo d’un netto rifiuto per un teatro d’incantamento mi sembra reale. Perché è un sogno che reggerebbe con difficoltà in quel circo di gladiatori che è la scena teatrale. Non stai forse disegnando un teatro mentale, il sogno d’uno scrittore abituato a cercare una percezione mentale delle parole?

 

Mi sembra il contrario. La percezione mentale delle parole è quella dove l’ascolto diventa superfluo. E in realtà nel nostro teatro è così: l’ascolto delle parole, del suono e del ritmo e del timbro delle parole, diventa superfluo. Quello che conta sono i fatti o retroscena che vengono alla luce. Il pubblico irrigidito sotto il peso della rappresentazione dà per scontato tutto il resto... Bene. Lo chiameremo un pubblico diseducato? E chi lo dovrebbe educare all’ascolto? Quelli che pensano al teatro come un problema tecnico da risolvere? Questi lavorano per attivare il consumo dei biglietti, come è logico, riproponendo la solita storia degli oggetti di consumo...

 

Utopia e realtà. Utopia come sforzo per immaginarsi possibilità diverse. Realtà come esaurita convenzione. Questi mi sembra che possano diventare i termini della questione.

 

Insomma... Il teatro è una scatola magica, con una scena e una platea o palchi dove sta il pubblico. Cosa si va a fare in teatro? Si va ad ascoltare e guardare degli attori che parlano o cantano, fanno gesti o azioni mimiche. Il modo di funzionare di questa scatola magica dipende dalla recita, ma soprattutto dal modo di ascolto. Che ci sia un attore famoso là a recitare un testo classico o che sia messo in scena un nuovo testo con importanti significati storici da trasmetterci, tutto questo è secondario. Il fatto primario per me è il clima d’ascolto nella scatola magica, che la fa funzionare e in certi casi felici smuove l’immaginazione fino a portarci a uno stato d’incantamento.

 

Ma come è possibile scatenare questo incantesimo nel mondo d’oggi, troppo disincantato e troppo superstizioso? Che senso ha?

 

Che senso ha? Ha il senso dei fenomeni naturali. Come la lumaca che si costruisce la casa con la bava, così facciamo noi con la bava delle nostre parole...

 

Ma cosa vedi quando dici che il teatro è una scatola magica? Cosa intendi per magica?

 

Intendo che nei casi felici il teatro fa sì che io mi dimentichi di stare a guardare una messinscena. No, mi spiego meglio: vedo che è una messinscena, ma non sto più a distinguerla da uno scenario naturale, non sto più a far paragoni e smerciar dei giudizi, perché tutto diventa imparagonabile. Quello è il punto in cui il dentro e il fuori collimano, il pensiero e l’esperienza trovano un po’ di armonia, e non ti senti più come un estraneo rispetto alla situazione, rispetto al mondo esterno, eccetera. In quei momenti i giudizi sono l’ultima cosa che ti viene in mente, perché l’incantamento ti basta e avanza, e non hai neanche più l’attesa che un attore ti mostri la sua bravura...

 

In Vecchiatto, il protagonista è un vecchio attore disilluso dal mondo e dal teatro, infuriato contro mondo e teatro... Invecchiato, superato, emarginato, come il teatro moderno.

 

Tutti hanno visto solo le sfuriate di Vecchiatto contro i nostri tempi, prendendole troppo sul serio e sgridandomi perché sono troppo tristi. Che si tratti d’una verbigerazione come quella di Ruzante, d’una stilizzazione comica della lingua, questo è rimasto inosservato. La figura del vecchio attore che vuoI esibire la sua bravura era un modo per toccare un certo tasto, cioè quello d’un modo di recitare un po’ trombonesco o seduttivo, come dicevo prima. Infatti, con tutto che gli voglia molto bene, Vecchiatto è l’attore-seduttore per eccellenza: l’attore umanista... Poi nel testo ci sono tre cose che mi stavano a cuore da un punto di vista drammaturgico, e che la regia ha completamente liquidato. A parte il fatto che Mario Scaccia ha portato Vecchiatto in giro per l’Italia, ed essendo un grande attore mi ha fatto sentire onorato...

 

Quali sono queste cose che la regia ha completamente ignorato?

 

Le tre cose che mi stavano a cuore sono queste: 1) il fatto che qui si abbandoni la finzione che il pubblico non esiste, perché Vecchiatto e sua moglie Carlotta si rivolgono direttamente al pubblico, ossia alla spettatrice con la sporta, eccetera; 2) poi il fatto che si senta una fisarmonica fuori dal teatro e Vecchiatto e Carlotta l’ascoltino, ne parlino, dunque il teatro funzioni assieme al mondo esterno, con gli echi del mondo esterno, non come chiusura nell’interiorità.., tutto ciò cancellato dalla regia... 3) che alla fine i due attori Vecchiatto e Carlotta svaniscano assorbiti dall’ombra, nella dimensione dell’invisibile, come gli eroi del teatro Nô alla fine d’un dramma.

 

Ora hai scritto un nuovo testo teatrale. Come vorresti fosse realizzato?

 

Ristorante della pazienza è un quartetto per voci, pensato come un quartetto musicale con quattro strumenti diversi. Quello che serve sono quattro attori, dove almeno tre sappiano rinunciare a quei sovratono che ho detto, mentre il quarto li può usare. Per la messa in scena penso a puri effetti di ascolto. Anche qui penso agli effetti di ascolto nella notte, quando siamo in un luogo sperduto, nello spazio aperto e indeterminato, come negli inni alla notte di Novalis, grande ispirazione.

 

Mi sembra un programma ardito, questo mettere l’ascolto in primo piano. Specie in tempi distratti e frettolosi come i nostri.

 

Se tutto quello che ho detto ti sembra una pura fantasia, non ho niente in contrario. Ma mi eleggo come testimone di recite africane dove non capivo una sola parola, dunque non potevo capire se i recitanti erano bravi, ma dove la scatola magica funzionava nel modo che ho detto. È È vero che qui lo spaesamento era così forte che tutto andava a posto per forza, almeno dentro di me. Ma lo spaesamento deve esserci sempre, perché lo spazio teatrale non è altro che questa dislocazione del sensorio, per cui tutto quello che può accadere nella zona di visione e d’ascolto è come se accadesse non si sa più dove, non si sa quando...

 

In un altro mondo, in un altro spazio, per altre possibilità di noi stessi…

 

La cosa che si potrebbe dire è che il teatro funziona bene quando non c’è un soggetto, non c’è fissazione soggettiva, mentre invece si vede o si sente bene qualcosa che ci avvolge sempre... Tu guardi un attore che recita Amleto, ma non è né l’attore né Amleto che conta. Conta l’ombra che c’è dietro quella presenza. Come nel teatro Nô, dove il personaggio centrale si rivela quasi sempre un’ombra o il fantasma d’un eroe morto. L’incantamento è il viaggio tuo e dell’attore verso quel luogo d’ombra che vedi apparire, là fuori di te e dentro di te al tempo stesso.

 

Questa intervista è stata pubblicata su “Art’ò. Rivista di cultura e politica delle arti sceniche”, n. 5, aprile 2000.

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Conversazione con Gianni Celati

Populismi per il XXI secolo (I parte)

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L’Uomo Qualunque e la Ragazza della Porta Accanto

 

Frontespizio dell’edizione di Everyman pubblicata da John Skot (c. 1530). 

 

Parlare di populismo e qualunquismo per interpretare la scena politica europea contemporanea può apparire semplicistico, o addirittura fuorviante. Spesso queste categorie vengono utilizzate per liquidare gli avversari e sono prive di valore aggiunto interpretativo.

Può essere invece utile risalire la storia di quello che è stato definito “l’uomo qualunque”, “l’uomo della strada”, “l’uomo comune”, “la ragazza della porta accanto”, “la gente”, figure spesso invocate per indicare a un vasto pubblico la realtà di cui si parla. O meglio, per dare un effetto di verità alle proprie argomentazioni, magari per sancire o auspicare la nascita dell’uomo nuovo (o della nuova donna).

 

Jedermann (1930). Archivio del Salzburger Festspiele. 

 

Bene ha fatto Anna Schober de Graaf a usare questa figura per interrogare il presente, partendo dalle arti per arrivare alla politica e alla filosofia, nell’incontro sul tema “Addressing each and every one: Popularisation/populism through the visual arts” (Rivolgersi a ognuno e a tutti: divulgazione/populismo nelle arti visive), ospitato dalla Justus-Liebig-Universität di Giessen. In quelle aule due secoli fa passò Georg Büchner, il creatore di Woyzeck, una delle incarnazioni più struggenti e tragiche dello Jedermann. Quello seguito il 21 e 22 aprile 2016 è un percorso tra iconologia e filosofia politica, puntando allo snodo in cui l’ideologia prende forma nell’immaginario, e la Legge cerca la mediazione del Simbolo.

Il punto di partenza è lo Everyman della tradizione britannica, con l’omologo Jedermann della tradizione tedesca, che negli anni Trenta è stato rilanciato dalla riscrittura di Hugo von Hofmannsthal allestita da Max Reinhardt a Salisburgo. La figura ha radici teatrali alla fine del XV secolo, quando Everyman-Jederman è protagonista di una serie di morality plays. L’uomo comune riceve la visita della morte, che viene ad annunciargli che la sua ora è giunta. Questo messaggio individuale ha una valenza sociale. Everyman è l’eroe di un mito egualitario, visto che siamo tutti uguali di fronte a quella che Totò aveva poeticamente battezzato “’a livella”.

Il dottor Faust, che riceve la visita del diavolo, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (1915) e Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957) sono varianti di questo mito.

 

 

 
 

Foto Sander.

 

Di un’altra profetica variazione sul tema è stato artefice e protagonista August Sander, che negli anni Trenta costruì una gigantesca galleria di tipi fotografici, compresi molti ebrei alla vigilia della Shoah. Il suo Uomini del XX secolo è una galleria di Jederman alla cui porta stava per bussare l’angelo nero dello sterminio:

 

“Ho incominciato i primi lavori della mia opera Uomini del XX secolo nel 1911, a Colonia, mia città d’adozione. Ma è nel mio paesetto del Westerwald che sono nati i personaggi della cartella. Queste persone delle quali io conoscevo le abitudini fin dall’infanzia mi sembravano, anche per il loro legame con la natura, designati apposta per incarnare la mia idea di archetipo. La prima pietra era così posta, e il ‘tipo originale’ mi servì da referente per tutti quelli che ho trovato in seguito per illustrare nella loro molteplicità le qualità dell’universale umano”.

 

Jacques Bonhomme, ovvero l’Uomo Qualunque versione francese. 

 

Dagli albori della modernità l’Uomo Qualunque (e poi la Ragazza della Porta Accanto) hanno trovato molteplici incarnazioni, a volte contraddittorie. Sbucano nei contesti più vari, dalla politica alla filosofia, dalle arti visive al teatro, dal cinema alla pubblicità, e offrono un prezioso indicatore delle pulsazioni (e delle convulsioni) dell’immaginario collettivo. Con l’affermarsi della democrazia, il fulcro simbolico dell’ordine sociale non è più il Corpo del Re, vertice e fondamento dei corpi intermedi in cui si articolavano le società tradizionali. Ma non può esserlo nemmeno la massa indifferenziata, il crogiolo comunitario in cui le soggettività si sono azzerate in un’unica volontà. L’Uomo Qualunque è l’artificio retorico che offre una precaria soluzione al problema dell’identità e della volontà collettive.

Anna Schober de Graaf identifica due processi di mediazione svolti dallo Everybody. In primo luogo, quella tra il particolare e l’universale, tra l’individuo e la società: questa figura permette la creazione di una realtà collettiva che preserva le individualità. Di conseguenza, l’uomo comune consente una seconda mediazione, quella tra il sé e l’altro: in periodi di cambiamento, serve a riposizionare il soggetto (che deve diventare l’uomo nuovo).

 

Il settimanale “L’Uomo qualunque” (1946). 

 

Nella sua parabola, lo Everybody è agito da due paradossi simmetrici. Il primo nodo riguarda le modalità in cui il particolare – la differenza – si riconnette con l’universale, senza annullarsi ovvero senza perdere la propria identità. Simmetricamente, come è possibile che dalla molteplicità degli Everyone, dalla volontà di ciascuno di noi, si crei una public authority? Come le singole determinazioni si possono coagulare in una volontà collettiva? Da sempre la filosofia politica si interroga sulle modalità con cui l’individualismo del singolo può risolversi nell’individualismo dell’universale. Oggi questo processo trova una nuova esplosiva declinazione nel web: a caratterizzare la nostra presenza in un social network come Facebook è la dialettica tra l’aspirazione alla stardom e la tendenza all’egualitarismo. Questa mutazione della nostra immagine pubblica e dunque della nostra identità non può non avere conseguenze politiche.

 

2. Icone dell’Uomo Qualunque

 

Your Country Needs You (manifesto, 1914). 

 

Per tracciare un identikit dell’Uomo Qualunque si può partire da un’immagine rubata dall’attualità. Il metodo lo ha indicato Carlo Ginzburg, quando ha ricondotto l’iconografia del celebre manifesto che raffigura Lord Kitchener – “Your Country Needs You” – ai suoi antecedenti, la tradizione pittorica del ritratto frontale e quella del gesto di invocazione: è un’immagine “performativa”, che funziona sulla base della reazione dello spettatore più che sui contenuti che veicola.

 

Parigi, Place de la République, 11 gennaio 2015 (foto Fredrik von Erichsen). 

 

Nel suo intervento a Giessen, Michael Diers è partito da un’immagine fotografica di Fredrik von Erichsen che mostra, inquadrata dall’alto, Place de la République a Parigi l’11 gennaio 2015. Tra la folla (5 milioni di persone parteciparono alla manifestazione) spicca la gigantografia degli occhiali (e dello sguardo) di una delle vittime dell’eccidio di “Charlie Hebdo”, Charb.

 

Abraham Bosse, "Leviathan" (frontespizio). 

 

Diers riconduce la fotografia a un celebre antecedente, il frontespizio del Leviatano di Hobbes (1651). E trova un antenato di quelle immagini nell’opera di un allievo dei Bellini, Giovanni Mansueti: il Miracolo della reliquia della Santa Croce in Campo San Lio (1496) mostra la folla degli uomini nelle strade e nella piazza, osservata dalle donne affacciate alle finestre, in una dialettica tra interno ed esterno, tra spazio pubblico e privato, tra maschile e femminile.

 

Giovanni Mansueti, Miracolo della reliquia della Santa Croce in Campo San Lio (1496). 

 

A partire dalle immagini, è possibile individuare alcuni modelli iconografici per l’Uomo Qualunque.

 

Everybody

 

Il primo, come abbiamo visto, è il frutto dell’accumulo, della sommatoria degli individui che compongono il corpo collettivo.

I singoli diventano minuscoli e paiono scomparire, elementi indistinguibili nella massa.

Tuttavia zoomando resta possibile cogliere le caratteristiche di ciascuno, perché i singoli volti tornano riconoscibili. Quello raffigurato in queste icone è quello che potremmo battezzare Everybody, dove i singoli sono gli elementi che compongono il corpo (“body”) collettivo.

 

Gustav Gustavovic Klutsis, La bandiera di Lenin (1933). 

 

È un procedimento che nel Novecento ha ispirato El Lissinsky e Gustav Gustavovic Klutsis (per esaltare Stalin e Lenin) ma anche L’Italia fascista in cammino (con Mussolini) e la propaganda hitleriana.

 

La manifestazione dei Capi di Stato, Parigi, 11 gennaio 2015 

 

Nella figura del Leviatano, il corpo dell’Everybody trova una testa.

Nella manifestazione dell’11 gennaio 2015 c’erano in realtà due istanze simboliche che si contendevano il corpo gli Uomini Qualunque: quella democratica simboleggiata dagli occhiali di Charb, e quella che volevano imporre i leader mondiali raccolti intorno al presidente François Hollande per l’occasione.

 

Everyone

 

La seconda opzione, praticata anche da August Sander, è la serie. I singoli individui mantengono le loro individualità e identità, ma vengono inseriti in una sequenza.

Man mano che la serie si allunga, ciascun elemento diventa meno rilevante. Potrebbe essere questo lo Everyone, in cui i singoli “Ciascuno” restano elementi distinti di una serie potenzialmente infinita.

 

Gillian Wearing, Signs that Say What You Want Them to Say and Not Signs that Say What Someone Else Wants You to Say (1992–3). 

 

In ambito artistico, usano la stessa metodologia alcune opere di Gillian Wearing. Nel suo primo lavoro, Signs that Say What You Want Them to Say and Not Signs that Say What Someone Else Wants You to Say (1992–3), l’artista britannica chiedeva ai passanti che incontrava nelle strade di Londra di scrivere una frase e poi li fotografava con il cartello in mano: per esempio, un poliziotto con la scritta “Aiuto!”.

Ha seguito un procedimento analogo anche un progetto di arte partecipata come Ads del New York City Group di Richard Maxwell, iniziato a New York nel 2010 e passato nel 2012 al Festival di Santarcangelo. Sul palco sfilano uno alla volta i corpi virtuali (filmati in precedenza e proiettati in forma di ologramma) di cittadini diversi tra loro per età, estrazione sociale ed interessi, ai quali l’artista americano ha chiesto di elencare le cose in cui credono. Sono le piccole e grandi utopie dell'Uomo e della Donna Comuni, i loro sogni, desideri, ambizioni...

 

Un’interessante variante è Manifesto (2015) di Julian Rosefeldt.

 

Julian Rosefeldt, Manifesto (2015). 

 

Nei video che compongono l’installazione, l’attrice Cate Blanchett impersona dodici personaggi femminili (l’insegnante, la musicista punk, la presentatrice televisiva, la barbona…), che declamano frammenti di manifesti artistici e politici.

 

Everyman

 

Francis Galton, Composite Portraits (1878). 

 

Un’altra opzione, resa possibile dall’invenzione della fotografia e dalla crescente attenzione per la statistica, è stata esplorata nell’Ottocento con la Composite Portraiture ideata da Francis Galton a partire dal 1878 (a questa tecnica era dedicato l’intervento di Raul Gschrey, autore anch'egli di progetti artistici basati su questa tecnica). 

 

Raul Gschrey, The Typical Inhabitant or Automated Recognition Relies on Individual Characteristics Try to look average, 2008

 

Sovrapponendo – grazie a un calibrato processo di successive esposizioni – le immagini di una serie di volti di soggetti che condividono una caratteristica (una determinata patologia, o una condanna penale per un certo reato), Galton pensava di poter individuare (o costruire) un tipo “riconoscibile” collegato a quella determinata caratteristica. Al termine di un processo di questo tipo emerge l’Uomo Medio, costruito con criteri statistici. È un’astrazione, o un’invenzione, che spesso tende ad assumere valore normativo, in cui le differenze devono convergere verso l’unico centro, la media, come intima il titolo dell'opera di Raul Gschrey, The Typical Inhabitant or Automated Recognition Relies on Individual Characteristics Try to look average (2008) che crea il volto medio degli abitanti di una città. Potremmo dire che è lo Everyman, l’Ognuno, l’Adamo Demografico da cui ognuno di noi può misurare la distanza.

 

 

La campagna Benetton The Face of Berlin (2016). 

 

La tecnica della Composite Portraiture, a lungo abbandonata in ambito scientifico, è stata ripresa di recente in ambito pubblicitario, giornalistico, artistico. L’ha usata nel 2016 la campagna Benetton sulle città della moda “The Face of the City”, dove il volto costruito sovrapponendo quelli delle modelle di Milano o di Berlino si presenta come “la faccia della città”.

 

“Time” (18 novembre 1993). 

 

In precedenza, un Composite Portrait era finito sulla copertina della rivista “Time”: con il titolo The New Face of America (18 novembre 1993) lanciava un servizio sull’immigrazione negli USA.

 

Jake Rowland, Mother, father, brother, sister, self (2004). 

 

La tecnica è stata utilizzata da diversi artisti, come Jake Rowland, che in Reflections: Constructed Portraits (2004-2014) ha sovrapposto il proprio volto a quello dei genitori e dei fratelli, o di sua moglie e sua figlia.

L’artista newyorkese ha anche dedicato un sito alla storia al genere, A Brief Visual History of Composite Portrait in Photography

Ma è anche possibile ottenere effetti stranianti e conoscitivi, come fa dagli anni Settanta Nancy Burson, per studiare la nostra reazione (anche emotiva) di fronte all'Altro. Come lo vediamo, un volto umano? Come lo guardiamo? Come lo giudichiamo? In particolare, l’artista (che collabora con il MIT) ha costruito immagini che deformano i volti facendo loro assumere caratteristiche che associamo a etnie diverse, per vedere le reazioni che suscitano le diverse tipologie somatiche, dall’empatia alla repulsione.

 

Nancy Burson, The Human Race Machine. 

 

Dal 2000 Burson conduce un progetto che ruota intorno alla provocatoria domanda “What would you look as another race”: la “Human Race Machine”, viene spiegato, “ti mostra l’aspetto che avresti se tu fossi asiatico, nero, ispanico, indiano, mediorientale e bianco. Ci offre l’opportunità di un’esperienza unica per essere altro rispetto a quello che siamo. Siamo un’unica razza, la razza umana; un’unica nazione, l’umanità”.

 

Johnny_everyman. 

 

Lo stesso obiettivo “politicamente corretto” si era posto, negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, un supereroe creato dalla DC Comics, l’editore di Superman, Batman e Wonder Woman. Johnny Everyman girava il mondo per insegnare la tolleranza razziale ed etnica e favorire la comprensione tra i popoli (non ebbe grande successo, visto che la serie durò meno di tre anni).

La tecnica del composite portraiture (o face averaging) sta trovando nuova vita sui social network. Con quel procedimento è possibile costruire l’immagine dell’amico ideale (o medio) sovrapponendo per esempio le immagini di tutti i propri amici di Facebook. Sono numerosi coloro che hanno utilizzato l’immagine del loro “amico ideale” come immagine del proprio profilo.

 

The Ideal Man

 

Prassitele, Hermes e Dionisio (350 circa a.C.). 

 

Ci sarebbe anche una quarta opzione, che prevede la costruzione di un volto e di un corpo umani a partire da frammenti tratti da diversi individui. È l’unica strada che prevede una scelta, e dunque una scala di valori, e perciò sfugge alla logica dell’Uomo Qualunque perché produce (o dovrebbe produrre) l’Uomo Ideale: anche in questo caso emerge una tendenza normativa. È il bello ideale dall’arte classica greca. Per rappresentare l’uomo, inteso come limite perfetto a cui può giungere la forma umana, procedeva per approssimazioni successive, assemblando le parti migliori selezionate nei singoli individui (tenendo conto al tempo stesso delle proporzioni tra le varie parti del corpo).

 

Nobody

 

Una quinta opzione iconica cancella invece le caratteristiche individuali dietro una maschera neutra: è la scelta per esempio dei movimenti che scelgono la maschera di Anonymous, il protagonista di V for Vendetta, la graphic novel di David Moore disegnata da David Lloyd (1983-85). Questa maschera potrebbe essere il Nobody, il Nessuno che accompagna come un’ombra il cammino dello Everybody. Ma questo è anche il percorso di azzeramento dell’individualità seguito da tutte le organizzazioni che impongono l’uso della divisa, a partire dagli eserciti.

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L’Uomo Qualunque e la Ragazza della Porta Accanto

Il pane selvaggio di Piero Camporesi

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Il pane selvaggio di Piero Camporesi (1926-1997) riappare in libreria pubblicato dal Saggiatore, già editore di alcuni fondamentali classici della produzione dello stesso autore: La carne impassibile. Salvezza e salute tra Medioevo e Controriforma (1983); La terra e la luna. Alimentazione, folclore, società (1989); La miniera del mondo. Artieri inventori impostori (1990). Il volume di Camporesi fu pubblicato nel 1980 dalla casa editrice il Mulino a Bologna, città dove Camporesi era docente di Letteratura italiana da oltre un decennio presso l’Alma Mater Studiorum. Tre anni dopo, nel 1983, il libro conobbe una seconda edizione (che fu poi ristampata da Garzanti nel 2004), «riveduta e ampliata» e arricchita dell’Introduzione apparsa con il titolo Avant-propos à l’édition française del 1982 de Le Pain sauvage

 

Dietro al titolo Il pane selvaggio, tanto fascinoso quanto inquietante, si apre l’inedito scenario di un «vissuto» che vede come protagoniste le «folle stracciate e affamate dei secoli moderni», in balia di Fame, Carestia, Malattia. Nel suo lungo raccontare «il dramma quotidiano» dei poveri, Piero Camporesi giunge al «paese dello stento e dell’indigenza» più estremi, posto alla stessa latitudine di quello appena attraversato ne Il paese della fame (1978). Lo studioso dell’alimentazione, del “popolare”, del “marginale”, declina il tema della “fame” a quello del “pane”, che viene a configurarsi come un «oggetto polivalente da cui dipendono la vita, la morte, il sogno». 

Composto di diciannove capitoli, a partire da «La “miserabile malattia”» fino a «Il trionfo della povertà», il libro racconta gli effetti della Carestia sui poveri di villa e di città che si riassumono nella Fame, «miserabile malattia», «anticamera della morte», genitrice di fenomeni di antropofagia, coprofagia e autofagia dell’«uomo-bestia».

 

In Camporesi il pane diventa «soggetto culturale», che rappresenta «punto» e «strumento culminante, reale e simbolico, della stessa esistenza». Nella rappresentazione del pane prende forma in modo più evidente il «conflictus fra cultura alta e cultura bassa» che si profila «sub specie coquinaria» già nell’opera di Baldassarre Pisanelli (Trattato della natura de’ cibi e del bere, Bergamo, per Comino Ventura, 1587), a cui lo studioso dedica una delle sue pagine più sentite e strategiche per la ricomposizione dei rapporti tra “alto” e “basso”, tra elitario e “popolare”, tra ufficiale e subalterno. Il medico e astrologo bolognese diventa per Camporesi voce autorevole di quella parte della medicina che aveva teorizzato il «duplice regime nutritivo e dietetico […] a seconda delle differenze sociali: cibi adatti alle persone rustiche e cibi per gentiluomini, vietati ai primi»; che aveva, in tal modo, costruito e diffuso «tabù alimentari […] al servizio d’una ideologia di potere e di sopraffazione sociale» . 

La diversificazione del regimen alimentare e sanitario trova nel libro di Camporesi la sua più esplicita «metafora» come «"pane da prìncipi e da gran maestri" e "pan da cani"», il «pane di formento» e il «pane di fava» (G.C. Croce), il pane nero, «maligno» e «ignobile», e il pane bianco. La dicotomia si rifletteva anche sulla farmacologia, quella per i ricchi e quella per i poveri (cap. 10: «Medicina pauperum»). Per tutti, poi, quando non risultavano efficaci i segreti medicinali, entrava in azione lo «stregone di Dio», l’esorcista.

 

 

Il «pane selvaggio» è un «impasto polisemico denso di molteplici valenze», in cui la «funzione nutritiva» si amalgama con quella «terapeutica»; mentre la «suggestione magico-rituale» s’intreccia con quella «ludico-fantastica» per culminare in una rappresentazione «stupefattiva e ipnagogica» del reale, quando «il pane fuggente» (cap. 2), il pane negato dalle carestie e dalla miseria ritorna, “sardonico”, nelle vesti del «pane papaverino» (cap. 15), il pane «truccato» e «drogato», alloiato e alloppiato (tagliato con i semi del loglio o con i semi di papavero). È il pane «selvaggio di brughiera e di landa», il pane «sovventivo spontenascente succedaneo intero del pane ordinario», su cui nel XVII secolo «avevano lungamente elocubrato e meditato» intellettuali ed eruditi, religiosi e filosofi della natura come Ovidio Montalbani, fino a proporre miscele con un’ampia varietà di surrogati del frumento: dalla ghianda alla rapa, dalla gramigna alla coccola d’alloro, dal radicchio selvatico alle foglie dell’olmo, dai legumi ai cereali minori, come il miglio, il panico o il sorgo. Un pane dagli effetti leggermente «allucinogeni», studiato in età preindustriale secondo un preciso programma politico come rimedio eccezionale per intiepidire, se non spegnere del tutto, la fame dei poveri, «per contenere i furori della piazza», ma soprattutto per risospingere fuori dalle mura della città verso la terra e le erbe spontanee la «turba magna» «di miserabili, di irregolari, di paltonieri, di ammalati», di «mummie» (cap. 16-18). 

 

Fame e carestia ingrossavano, infatti, le file di poveri, straccioni e vagabondi che si riversavano nello spazio protetto della civitas, quando la madre terra stremata dalla malignità delle stelle, dalle guerre e dalle calamità naturali, agonizzante non li nutriva più con i propri frutti. Nel XVII secolo, e non solo in Italia, fame e carestia rappresentavano malattie endemiche che divaricavano ancora di più le distanze tra città e campagna, tra i ceti sociali, tra la percezione del tempo di chi aveva il ventre pieno e quella di coloro che lo avevano vuoto (il giorno più lungo è quello in cui si sta senza mangiare, sentenziava Bertoldo). Disorientata e disordinata, mendica e accattona, “lesinante” e furfantesca, la folla suscitava disordini, alimentava sospetti che serpeggiavano nei palazzi del potere (cap. 7). Paure che s’ingigantivano nel «tempo di notte» signoreggiato dagli spiriti del male: tempo demonizzato dei «malandrini, malagenti e malandanti» (cap. 8). Fin dalla fine del XVI secolo, l’intolleranza degli addetti alla res publica, al governo della vita sociale e sanitaria, per i poveri, «putridi vermi» e «sordide lumache» (cap. 17), s’incanala verso i provvedimenti drastici della segregazione, del ricovero, dell’ospizio, «silos di temporanea misericordia per i pezzenti», secondo un processo che durante il XVII secolo si radica fino a portare, all’inizio del XVIII, al «trionfo della povertà», o – come osserva Camporesi –

 «più correttamente» al «trionfo sulla povertà» (cap. 19).

 

Ne Il pane selvaggio si assiste alla rappresentazione di un paesaggio umano in bilico tra l’inferno del corpo e il paradiso della mente. Quando l’«invivibilità del reale» –

che non solo trovava compensazione ma alimentava anche utopie di riscatto sociale nelle mitologie popolari dei mondi artificiali, il mondo alla rovescia e il paese di cuccagna (cap.6) – diventava insostenibile e giungeva ai limiti della sopravvivenza; quando la fame instupidita e incantata dal pane alloppiato aggrediva «l’igiene mentale», allora si scatenavano «deliri tossici», «vertigini collettive». Allora le menti si annullavano in «sogni iperbolici», decollavano verso «paradisi artificiali», naufragavano in tregende demoniache (cap. 12-13).

Alla sua pubblicazione, Il pane selvaggio bucò lo schermo della produzione saggistica italiana: ebbe risonanza non solo in ambito accademico nazionale e internazionale, ma attirò anche l’attenzione dei media, della stampa e degli intellettuali. Contribuì alla nascita del “fenomeno” Camporesi” per il quale gli studi camporesiani furono proiettati in uno scenario culturale internazionale: nell’arco del decennio successivo alla sua uscita, il volume fu, infatti, tradotto in francese (1981), spagnolo (1986), inglese (1989), portoghese (1989) e tedesco (1990). La stessa fortuna editoriale accolse altri libri scritti in seguito dallo studioso romagnolo.

 

Come tutti gli autori di successo, Camporesi ebbe ammiratori e detrattori: questi ultimi si schierarono soprattutto sul fronte dell’Accademia. Mentre gli italianisti in genere preferirono velare il dissenso e celare l’imbarazzo per quel professore che deragliava dai binari della letteratura canonica sotto la retorica del silenzio; furono soprattutto gli storici tout court a far sentire le loro voci, verba e scripta, contrarie al metodo di quell’italianista che oltrepassava i confini “disciplinari” per fare storia a modo suo. Del resto Camporesi, proprio nel Pane selvaggio, era stato palesemente provocatorio quando, a proposito delle fonti da lui citate – testi che egli definiva “non propriamente letterari” – constatava come esse fossero «troppo ingiustamente non sfruttate dai pur benemeriti ricercatori d’archivio che talvolta cadono nell’illusione pseudoscientifica che una serie di dati più o meno giusti, più o meno comprensibili, siano più veri (e perciò più affascinanti) d’una pagina a stampa».

 

Piero Camporesi che «appartiene alla generazione degli scrittori anticlassici, nata negli anni XX» del Novecento, fu allievo di Carlo Calcaterra e compagno di studi di Ezio Raimondi. La sua formazione intellettuale va oltre il crocianesimo: ha alle spalle la Scuola storico filologica, la tradizione di studi ottocentesca non solo del «Giornale storico della letteratura italiana», ma anche dell’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» di Giuseppe Pitrè, il dibattito sul “folclore” e l’antropologia, tutto rivisitato e studiato alla luce delle idee sospinte verso la penisola dal vento parigino degli storici delle «Annales».

Rileggere oggi Il pane selvaggio alla luce della complessiva produzione saggistica dell’autore, consente di comprendere meglio l’iter di quell’italianista che, nato filologo e critico letterario (negli anni Cinquanta e Sessanta aveva studiato autori del canone come Francesco Petrarca, Ludovico di Breme, Vittorio Alfieri), a partire dal 1970 con l’edizione einaudiana dell’Artusi diviene nel corso degli anni e a seconda delle definizioni «uno storico sociale», «uno storico-antropologo» («dicono a nord delle Alpi»), un «antropologo della cultura popolare» (P. Camporesi), un «antropologo culturale» (U. Eco), uno «storico-scrittore oltre che scrittore-lettore» (M. Belpoliti). Già nel 1980, con Il pane selvaggio, si era compiuta la straordinaria metamorfosi di Camporesi in «academico di nulla academia», il tratto distintivo e inconfondibile del proprio autoritratto culturale ripreso da Giordano Bruno e tracciato, specchiandosi alla saggistica del tempo, nella dedicatoria «al lettore» che apre Il governo del corpo (1995, due anni prima della sua scomparsa). 

 

 

Rileggere un “classico” come Il pane selvaggio a distanza di trentasei anni dalla sua uscita e dopo diciannove dalla scomparsa dell’autore, significa riscoprire le potenzialità del testo, la complessità delle tematiche, l’unicità del metodo compositivo, la magia della scrittura; riflettere sulla ricerca scientifica camporesiana così intimamente intrecciata alla didattica: il libro è dedicato «Ai miei studenti». E, come accade per i classici, la cui rilettura ne scopre ogni volta aspetti di grande attualità, così il “pane selvaggio” dell’età moderna rinvia al “pane selvaggio” dell’inizio del secondo millennio, che non sarebbe certo sfuggito all’occhio critico costantemente fisso sul presente di Camporesi. Lo sguardo verso il passato dell’Europa d’ancien régime getta luce sull’oggi di un continente alle prese con fenomeni epocali di migrazioni di massa di disperati, dove l’antico confine tra città e campagna sembra separare oggi continenti e stati, terre e mari; dove le mura cittadine risorte in muraglie di lamiera e ritorte in gineprai e spirali di filo spinato tra stato e stato, sono corone di spine che fendono la terra e feriscono le carni vaganti alle frontiere; e i ricoveri di straccioni e di vagabondi che sancivano il trionfo del potere sulla povertà fanno pensare ai centri di umana accoglienza e di protezione che arrestano il cammino di fuggitivi, hotspots che soffocano speranze e sogni di una vita lontana dalla guerra e dalla fame.

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Pannella e il suo cupio dissolvi

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Lascia perplessi il coro unanime di laudatio alla morte di Marco Pannella.

 

La memoria del nostro spirito pubblico è, come da lunga e triste tradizione, molto labile. Ricordare Pannella significa invece mettere al centro la sua capacità “divisiva”, il suo creare conflitti e scontri. Perché era un democratico liberale – e libertario – fino in fondo. Perché sapeva che senza conflitto non ci sono né libertà né democrazia. L’unanimismo, le “ammucchiate” come amava dire, gli facevano orrore. Solo nel confronto aperto, diretto, violento a parole quanto disarmato nei gesti, poteva emergere un incontro tra posizioni diverse. Certo, le sue, quelle dei radicali, non ammettevano incrinature dall’impostazione originale. Cocciuto come un mulo molisano (uno dei suoi tanti modi di definirsi) Pannella trascinava se stesso e i suoi in uno scontro a testa bassa, contro tutto e tutti senza arretrare di un millimetro. Questa nettezza nei giudizi e nelle scelte gli è valsa una valanga di nemici, soprattutto a sinistra. Il disprezzo sarcastico e supponente fino ad espressioni di purissimo odio con cui veniva trattato dai comunisti degli anni del compromesso storico era frutto di una incompatibilità antropologica prima che politica. Il perbenismo soffocante della (doppia) morale togliattiana – leggere e rileggere Il Comunista di Morselli serve più di cento ponderosi saggi! –, unito alla mitologia dell’incontro delle grandi masse popolari, non poteva accettare un irregolare che irrideva alla rivoluzione proletaria e agli irraggiungibili paradisi per i lavoratori indicando invece il pragmatismo delle buone leggi. Un trucco della borghesia per distrarre il popolo dalle sue lotte, dicevano i dirigenti del PCI berlingueriano.

 

L’incomunicabilità con la sinistra di classe – con quella gruppettara qualche spiraglio si aprì, in particolare con Lotta Continua post-77 – era bilanciato da una certa disponibilità, a volte strumentale, a volte sincera, del nuovo corso del Psi di Craxi e Martelli, in nome di un socialismo democratico e riformatore. Una illusione di breve periodo, però, naufragata nell’orgia del potere craxiana. Per il resto il vuoto assoluto di connessioni e alleanze.

 

Pannella e il Pr continuarono da soli la loro marcia nel deserto. Però le oasi lussureggianti degli anni settanta e primi anni ottanta non si sono più trovate. Dopo la grande stagione dei diritti civili, la concentrazione ossessiva su un problema troppo grande anche per Pannella – la fame del mondo – e una visione catastrofista del sistema politico italiano che legava le mani e inibiva ogni progettazione, hanno rallentato la corsa radicale. Si apriva ancora uno spazio nel 1992, quando tutta la classe politica italiana andò all’inferno. Ma, incomprensibilmente, Pannella non si fece paladino del rinnovamento morale della politica, lui che era l’unico a poter vantare un’adamantina onestà. Ha preferito, con quel filo di cupio dissolvi che lo ha sempre accompagnato, dedicarsi ad altro, perdendo così l’ultima occasione.

 

Ma anche se la storia bella è lontana di decenni, non solo rimangono quelle “conquiste di civiltà”, ma resiste l’idea di una politica onesta, non-violenta, fatta in prima persona, e consapevole di rischiare qualcosa per affermare le proprie convinzioni attraverso la disubbidienza civile a leggi incivili. Una politica che oggi nessuno pratica più.

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Perplessi dal coro di laudatio

La misteriosa poetessa di Bolaño

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“In effetti, leggere è molto più importante che scrivere”. Questa potrebbe essere una frase di Roberto (Bobi) Bazlen, l’illustre scrittore sconosciuto senza libri, consulente graffiante degli editori italiani Adelphi, Einaudi e Bompiani nel suo periodo glorioso. Se fosse stata scritta da Bazlen, la coerenza e il senso della frase sarebbero certamente garantiti. Accade che il suo autore sia un altro Roberto, Bolaño. In un’altra occasione, lo stesso Roberto ha affermato che “leggere è molto più divertente che scrivere”. La dichiarazione suona paradossale, data la vasta letteratura scritta e pubblicata dall’autore, ma per i suoi fedeli lettori, ha perfettamente senso.

 

Una poetica della lettura incarna e dà forza alla letteratura di Bolaño - è qualcosa che si percepisce fin dalla gioventù di poeta infrarrealista in Messico fino al suo romanzo postumo, 2666. Tanto ne è già stato detto. C'è una simpatia nel suo volto che conferma il tono della sua voce narrante e ci avvicina a lui, come se anche noi lettori fossimo stati amici di Bolaño, in qualche momento furtivo della gioventù. Credo che anche coloro per i quali la gioventù non è ancora diventata un passato abbiano quella sensazione. I suoi lettori si riconoscono tra loro come un tipo raro di comunità che non ha paura di manifestare il piacere di tale convivio, sono più vicini ai cinefili che ai lettori in generale.

 

A volte, Bolaño ha fatto della prosa una tecnica particolare per incorporare al racconto di finzione le ossessioni prosaiche di un lettore di poesia. Espone così gli indizi di una storia letteraria da costruire, o persa, tormentata e affascinata dal fantasma di autori che lo hanno preceduto o che ha visto scomparire. Nei suoi libri, Bolaño ci conduce semiciechi attraverso un labirinto di titoli e nomi-enigma. Una scrittura da lettore, dunque, e uno dei rari casi in cui non si gioca la poesia contro la prosa, né si è guidati dal desiderio di eliminare dal prosaico la finzione precaria della vita, verso il cielo del sublime.

 

Come ha scritto Vítor Nogueira, “un agente segreto può essere chiunque”, così il lettore di Bolaño, chiunque sia, diventerà facilmente una spia, raccogliendo gli indizi del piacere della lettura altrui. Degli innumerevoli nomi disseminati in quest’opera (con tutti i brividi che la parola “opera” può ancora produrre), ce ne sono due che non hanno mai smesso di incuriosirmi: Sophie Podolski e il Montfaucon Research Center.

Sophie Podolski, ragazza belga suicida a 22 anni, era un membro del Montfaucon Research Center. A lei Bolaño ha dedicato una poesia, inclusa in La universidad desconocida, in cui dice di essere in partenza per il paese di Sophie, paese del nulla e della metamorfosi lunare. Il suo nome compare anche in Vagabondo in Francia e in Belgio, nelle pagine del diario di Juan García Madero, ne I detective selvaggi, e “Autori che si distanziano” incluso in Tra parentesi. In quest’ultimo, Bolaño si riferisce alla Podolski e al poeta francese Matthieu Messagier come esempi di quegli autori stupendi che sono stati amati e molto letti, ma i cui libri sono da tempo esauriti e introvabili. Questa idea della perdita e di una archeologia impossibile della letteratura ricorre anche in diverse poesie di Bolaño: “Tra mille anni non resterà nulla / di ciò che è stato scritto in questo secolo. / Si leggeranno frasi sciolte, macchie / di donne perdute”. Affinché non tutto si perda o sia dimenticato, Bolaño raccoglie e diffonde alcune tracce di questa letteratura in via di estinzione, come un CroMagnon che lascia il segno in negativo delle sue mani all’interno delle grotte per il piacere e la disperazione degli archeologi selvaggi del futuro.

 

Sono pochi i riferimenti a Sophie Podolski, e sempre in forma ellittica, da ciò certamente giunge il loro potere vibratorio. Bolaño potrebbe avere conosciuto Sophie Podolski personalmente? Improbabile. E poco importa. Potrebbe aver letto Podolski nella rivista francese Tel Quel, che ha pubblicato i suoi scritti in tre delle sue edizioni: nel numero 53 della primavera del 1973; nel numero 55 dell'autunno del 1973; e, postumo, nel numero 74 dell’inverno del 1978. Da quello che sappiamo, si deve allo scrittore Philippe Sollers, uno dei redattori della rivista, la pubblicazione dei brani originali da Le Pays où tout est permis. Un’altra ipotesi è che Bolaño sia venuto a conoscenza di questi testi dalla rivista belga Luna Park, edita da Marc Dachy, che viene citato in Tra parentesi.

 

 

 

Nel 2009, Luna Park ha pubblicato un ritratto di Sollers realizzato dalla Podolski accompagnato da una lettera che cominciava con “Philippe Sollers, ti lancio grandi segnali da lontano su pattini a rotelle. tutta verdina scivolo sul tetto, mentre il mondo urla e fluttua ecc giungendo accanto a te, mi racconti la strana avventura. abbiamo deciso di cercarla nel torrente dove riposa nella magnificenza dei suoi ultimi percorsi [...]”. La lettera è del 29 novembre 1972, Sophie aveva 19 anni. Non sappiamo come si sia creato il contatto tra i redattori di Tel Quel, con sede a Parigi, e il Montfaucon Research Center, che stava a Bruxelles, di cui Sophie era membro. La storia del rapporto tra la letteratura francese e quella belga non è sempre molto chiara, ma un possibile indizio può essere contenuta nella fitta corrispondenza (1958-2008) tra Philippe Sollers e l’autrice belga Dominique Rolin, recentemente depositata nella Biblioteca Reale del Belgio.

 

 

 

Dieci anni prima

 

Nel 2006, sono stata a Barcellona per lavoro. Ho alloggiato in una sorta di nascondiglio che si apriva da una porta segreta situata in una falsa parete dell’Istituto Francese, Carrer de Moià, 8. Se arrivavo all'istituto dopo l’orario di lavoro, dovevo disattivare un ingegnoso sistema di allarme. In caso contrario, la polizia del distretto sarebbe arrivata immediatamente. Il terzo giorno, già procedevo senza paura, sentendomi come MacGyver. Il nascondiglio era in realtà un bell’appartamento con due camere da letto, e vi rimasi per alcuni giorni in compagnia di una curatrice francese. Una notte, mentre passeggiavamo dopo cena, ci siamo imbattute in piccole librerie ancora aperte verso mezzanotte. In una di queste ho acquistato Anversa, di Roberto Bolaño. Due giorni dopo, ero su un treno diretto ad Anversa, dove sarei rimasta per un mese con una sovvenzione da parte del Vlaanderen Pen Center.

 

Arrivai ad Anversa con vaghi progetti di scrivere qualcosa su Paul Van Ostaijen, il poeta tisico, autore di una bella poesia grafica in onore della macchina da cucire Singer. Ma la lettura del libretto di Bolaño mi aveva messo in uno stato d’animo da detective selvaggia, così ho trascorso quel mese rileggendo il libro più volte nel tentativo, certamente stupido, di capire il rapporto tra quel titolo misterioso e le scene slegate di cui è fatto. L’unica vera menzione della città appare nel capitolo intitolato “Anversa”, dove Bolaño parla di un incidente tra un camion carico di maiali che era andato in collisione con un’auto, uccidendo l’autista di questa e vari suini. Ho cercato (invano) negli archivi della città la notizia dell’incidente che coinvolgesse un camion di maiali nel 1970. Un altro indizio era il nome della poetessa belga Sophie Podolski, il cui suicidio all'età di 22 anni è commentato dal narratore con un misto di rimpianto e di identificazione.

 

Anversaè stato scritto nel 1980, poco prima del passaggio di Bolaño poeta alla prosa. Alcuni critici hanno visto in essa l'irruzione della finzione all’interno di una scrittura poetica frammentata. Nell’introduzione, Bolaño stesso afferma che il libro è stato scritto in un periodo di troppo caffè e fumo, rabbia, orgoglio e violenza - quel tipo di violenza che comprende l’autodistruzione e uno spirito critico spietato - un periodo in cui leggeva molta più poesia che prosa. Si tratta di un libro di transizione, che articola il materiale finzionale con il modo aperto della sua poesia.

Bolaño potrebbe essere stato attratto dalla tensione tra una scrittura poetica e delirante e l’impulso narrativo propri della Podolski. Si tratta di una scrittura di difficile lettura, in contro ritmo, in frasi e pensieri che scivolano l’uno sull’altro e si abbandonano. Il cuore si situa nel cervello, e il polmone, nel fegato, tutto molto erotico e tossico, qualcosa di beatnik, e qualcosa di stranamente semplice che irrompe nell’ambiente di una lingua asfissiante.

 

Sophie Podolski ha pubblicato solo un libro, oltre a testi sparsi nelle riviste. Il libro, Le Pays où tout est permis, è stato scritto durante il periodo in cui ha vissuto e lavorato nel Montfaucon Research Center. La prima edizione è stata pubblicata dalle edizioni Montfaucon nel 1972, in fac-simile, e due anni dopo il libro è stato ristampato da Belfond, che lo ha pubblicato accompagnato da una prefazione di Philippe Sollers.

 

 

Ma che cosa esattamente è stato il centro di ricerca di Montfaucon e che tipo di ricerca realizzavano i suoi membri? Ecco una storia ancora da raccontare. Le informazioni sono scarse, di solito note senza fonte o menzioni dubbie. Alcuni vi si riferiscono come a una comunità hippy, altri fanno riferimento esclusivamente ai film realizzati tra la metà degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80. Nella sezione Montfaucon del sito del Centro Georges Pompidou compare solo il nome di Joëlle de la Casinière. In Mille Plateaux, Deleuze inserisce una nota a pié di pagina in relazione al lavoro cinematografico di Joëlle de la Casinière e cita Montfaucon. In una nota biografica, Joëlle attribuisce la fondazione del gruppo a se stessa “e altri nomadi a cui piaceva la poesia grafica e l’arte di vivere”. Nella stessa nota si legge: “Montfaucon, c'est rien qu'un gibet pour les pendre, Research, parce qu'ils ne trouveront jamais, et Center, tiens justement il n'y a pas de centre [... ]”. Un blog menzionava due altri membri del gruppo: Alberto Raposo e Pidwell Tavares. Questi sarebbero due poeti dispersi nelle pieghe della letteratura portoghese, non fossero in realtà che una sola persona: Alberto Raposo Tavares Pidwell, meglio conosciuto nel mondo letterario come Al Berto, scomparso nel 1997.

 

Questa sì, era una pista incredibile.

Con Joëlle e altri giovani artisti e musicisti, Al Berto fondò nel 1972 Montfaucon, situato al numero 25 di rue de L'Aurore nel quartiere di Ixelles a Bruxelles.

Curiosamente, è nei libri di Al Berto che si trovano le più preziose risposte all’enigma del Montfaucon Research Center. Sophie Podolski, l’unico membro nato a Bruxelles, si sarebbe unita al gruppo nel 1973 dopo averli incontrarti in un mercato. Gli altri membri di cui si ha notizia sono Michel Bonnemaison, il peruviano Carlos Ferrand, l’italiana Olimpia Hruska e il musicista Jacques Lederlin. À Procura do Vento num Jardim d'Agosto (Alla ricerca del vento in un giardino d'agosto), del 1977, spesso considerato il primo libro di Al Berto, in realtà è il secondo, l’esordio ha avuto luogo pochi anni prima con Projectos 69, pubblicato nel 1972 dallo stesso Montfaucon Research Center sotto la supervisione di Joëlle.

 

 

 

Progetto 69 è una sorta di album di immagini, con l'estetica della fanzine, contenente diverse proposte di azioni e performance all’interno degli spazi della casa dove vivevano in rue de L'Aurore. Sono esperimenti grafici e immagini, alcune delle quali ricordano i lavori di Antonio Dias negli anni Settanta. Bernardo de Montfaucon, il cui nome deve aver ispirato il battesimo del gruppo, è stato un benedettino del XVII secolo, conosciuto come l’inventore della paleografia. È l'autore di una importante opera sulla storia dell’alfabeto greco. Probabilmente per questo ha esercitato una forte attrazione su quel gruppo di artisti-poeti, che sperimentavano la lettera nel suo limite grafico. C’era tutto un ambiente di identificazione e di mutua influenza tra i membri, in modo che molti disegni di Sophie Podolsky assomigliano ai disegni di Al Berto. A lei Al Berto ha altresì dedicato una poesia, inclusa nelle sue opere complete, O medo, La paura (Assyrian & Alvim): apri la finestra affacciati lascia che il mare inondi gli organi del corpo diffonda il fuoco sulla punta delle dita e tocca leggermente quello che deve essere preservato.

 

Al Berto è giunto a Bruxelles nel 1967, in esilio, cercando di sfuggire ai militari portoghesi. Studia pittura presso l’Ecole Nationale Supérieure d'Architecture et des Arts Visuels (La Cambre), dove probabilmente ha incontrato alcuni amici con cui avrebbero fondato il Research Center. Il Montfaucon non era un collettivo artistico nel senso attuale, non c'era l’efficienza della produzione, e la collaborazione non era stata definita in precedenza. Importava più l’ambiente e l'intensità della vita come stimoli creativi, importava la vita che vi si viveva, in generale nei suoi limiti drastici, con molto sesso, eroina, birra, hashish, nausea, vomito, perdita di sé, follia reale e di viaggi senza ritorno. Non si guardavano allo specchio ed erano sempre pronti a offrire a se stessi il diritto alla morte. Anche le stanze della casa servivano come spazi performativi e sperimentali. A giudicare dai testi di Al Berto si legavano l’un l’altro così come gli amori e i corpi si lasciavano attraversare.

 

Nel 1989, tornato in Portogallo, dove si stabilisce definitivamente, Al Berto pubblica Lunário, Calendario lunare, breve romanzo autobiografico in cui rielabora i testi scritti nel 1975 e racconta, in modo molto più sobrio, l’esperienza di quegli anni a Bruxelles. Quello che era un flusso psichedelico e frammentario in À procura do vento num jardim d’agosto appare ora con molta maggiore attenzione, delineando i personaggi e con una voce più stabile che conduce il lettore attraverso il cammino dell’amicizia e di un amore ben raccontato, la cui memoria guida il desiderio di narrare. È la storia del giovane Beno, che lascia la casa dei genitori e arriva da solo e con pochi bagagli in una città di cui non si dice il nome, dove frequenterà assiduamente Lura, il bar dove tutto accade e dove conoscerà Nemu, di cui si innamorerà e con chi vivrà nella mansarda di rue de l'Aurore, con Alba, Kid, Zohía e il suo amore, Alaíno.

 

Naturalmente, Zohía è Sophie. Il capitolo intitolato “Luna calante” è una delle più belle storie di qualcuno che si allontana progressivamente da se stesso fino a perdersi completamente nel delirio per trasformarsi nella voce sorda di un’ombra. È anche il racconto sull’amore devastato dalla follia. Al Berto narra con tatto e in un equilibrio teso e difficile la sofferenza psichica di Zohía fino al momento in cui sarà internata per sempre. Racconta inoltre il dolore di Alaíno, il suo fidanzato, che la va a trovare nella clinica psichiatrica e si prende cura dei suoi scritti. Già internata, Zohía chiede che Alaíno le porti i suoi quaderni. “Pensava che, rileggendoli, forse potesse tornare a ciò che aveva dimenticato quasi del tutto: la vita. Per anni, aveva annotato con frequenza e dettaglio ciò che le stava accadendo. Disegnava molto, isolava le parole in elenchi infiniti o scriveva pagine e pagine raccontando la sua passione per Alaíno. Riempiva quaderni e fogli sciolti, buste, ritagli di stoffa con una grafia a volte curata e leggibile, a volte completamente illeggibile e misteriosa ".

 

 

 

In una intervista realizzata al tempo della pubblicazione di Lunário, Al Berto disse che questo è un libro di “scene di amicizia, di limpidezza. E altre di stordimento, di eccesso. E ha la sua bellezza. Una sorta di sanguinosa bellezza”. È questa bellezza maledetta che riconosciamo nei testi di Sophie Podolski. L’illeggibilità di molti tra questi deriva da una intensità che fa esplodere la scrittura diaristica in varie direzioni, esplosione che parla di un soggetto fatto a pezzi, che non sa più piangere, che fugge ma non sa più dove, che non può proseguire e non può tornare indietro. Bolaño inseguiva la stessa bellezza maledetta, e può essere che abbia incrociato Al Berto o Beno a Barcellona, ma nemmeno questo è certo.

 

Traduzione di Enrico Valtellina.

Laura Erber è scrittrice, artista visuale e docente di Teoria e Storia dell’Arte presso UNIRIO, Università Federale di Rio de Janeiro.

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Che ne è stato di Sophie Podolski?

Pannella e il destino dell'antipolitica

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Non ho mai amato la figura di Pannella e non tanto per via del suo stile di comunicazione plateale e smodato, e neanche per la fine che hanno fatto alcuni suoi seguaci storici: da Rutelli, a Capezzone a Giachetti. Nemmeno sopravvaluterei la questione ben più cogente di una strategia di posizionamento tanto velleitaria quanto opportunistica che, specialmente negli anni novanta, ha visto Pannella e il suo gruppo ondeggiare da una parte all'altra dello scacchiere politico, senza o quasi soluzione di continuità.

 

Seppur come tanti giovani d’un tempo abbia votato almeno una volta nella vita per la sua Lista, il motivo di tale idiosincrasia è certamente più profondo. Certo i più potrebbero obiettare: come si fa a non apprezzare la caparbietà con cui lui e i suoi fedeli hanno portato avanti lotte decisive per il cambiamento di costume della solita italietta retrograda? Come non adorare un modello di politica militante così attenta alla difesa delle virtù liberali e forse ultimo erede dell'universalismo illuminista?

Il problema sta nel fatto che nella fase espansiva delle democrazie europee, trainate da uno sviluppo incessante e da una vasta cetomedizzazione, tematiche come il divorzio, l'aborto e la liberalizzazione delle droghe leggere trovavano un certo sostegno da parte di quei ceti che erano tutti  rivolti nella direzione del progresso e intendevano lasciarsi alle spalle le catene della tradizione e le costrizioni della vita comunitaria. Lungo la curva ascendente dello sviluppo industrialista e postindustrialista, le lotte radicali diffondevano un'euforia per il progresso unita a una nuova etica della società civile che molti paesi protestanti potevano solo invidiare. Anche in Italia questa euforia contagiava i militanti dei partiti di sinistra che, seppur antitetici su posizioni chiave, non potevano non riconoscere l'utilità di quelle battaglie. Nonostante gli anni ottanta, tramite le figure della Thatcher e di Reagan, avessero già mostrato il volto duro del neoliberismo, la questione dei diritti – legata a doppio filo all'espansione della globalizzazione – profumava ancora di novità, giustizia e solidarietà. Solo successivamente, a partire dagli anni novanta, ci si sarebbe resi conto che il legame covalente tra universalismo dei diritti e neoliberismo era solo un modo per rivestire di una patina desiderabile qualcosa che, nella sua portata epocale, avrebbe messo in pericolo l'ordine mondiale e spaccato in due la politica non più lungo l'asse orizzontale della dialettica destra-sinistra, bensì lungo quella verticale dell'opposizione tra capitale globale e nuove comunità di resistenza.

 

 

Passando dalla crisi globale a quella della politica nazionale, in accordo con ciò che ha detto Massimo Teodori sul Messaggero del 20/05/16, Pannella sarebbe stato travolto dai cambiamenti sistemici degli anni novanta, senza riuscire più a produrre innovazione né proposta politica. Anche secondo Antonio Padellaro, l'iniziativa del leader radicale si sarebbe arenata nello stesso periodo, a causa dello tsunami di Tangentopoli rispetto al quale la proposta radicale, ancora in controtendenza, si sarebbe schierata contro il cambiamento promosso dalla magistratura e per una riforma della giustizia che lo avrebbe avvicinato al berlusconismo allora rampante.  

 

Per Marco Damilano (L'Espresso 19/05/16) che elenca tutti i digiuni del leader italiano più anticonformista che si ricordi, egli "ha anticipato tutto: la politica spettacolo, la trasversalità, la personalizzazione (nel 1992 fu il primo a candidare in Italia una lista con il suo nome: lista Pannella). La disaffezione... e la partecipazione, La bio-politica: l'onda lunga che è arrivata fino ad oggi, alle unioni civili".

 

La categoria foucaultiana di biopolitica in effetti ben rappresenta il mutamento di paradigma del tardo novecento che muove dalla metafora "positivista" del corpo politico alle molteplici politiche del corpo. Pannella si rese conto in anticipo sui tempi di questo scostamento decisivo e del modo in cui la vera politica avrebbe dovuto interessarsi della concretezza del quotidiano piuttosto che delle grandi contrapposizioni ideologiche dell'epoca. Ma proprio questo mutamento di prospettiva ha rappresentato il punto di rottura con la sinistra in generale e con quella più radicale in particolare. Un contrasto ancora vivo e riassumibile nel recente intervento di Oreste Scalzone alla presentazione della rivista “Sudcomune” a Milano quando ha parafrasato la celebre massima di Marx sulla storia che si ripete sempre due volte... "prima come Pasolini e poi come Vendola".

 

Sebbene Pannella abbia anticipato forme di comunicazione che oggi definiremmo come anti-politica – il suo bavaglio richiama il cappio leghista ma anche i gadget dei 5Stelle – nessuno si sarebbe mai sognato di definirlo come un populista perché, tutto sommato, il suo ideale politico era coerente con un modello economico e giuridico ben più potente e legittimato su scala mondiale. Questo il paradosso mai risolto dei Radicali: una formazione profondamente di sinistra che sposa ideali economici di destra.
Del resto il circolo di intellettuali collegato al movimento si chiamava Amici del mondo (riferito al Mondo come testata ma anche all'apertura al mondo come vocazione virtuosa e incontaminata).

Se in una fase di relativa espansione del processo di globalizzazione il ruolo dei radicali era pura avanguardia, nella fase discendente, quando i difetti stessi del sistema-mondo vengono a galla, ai radicali non resta altro che scimmiottare le loro vecchie conquiste oppure specializzarsi, come ha acutamente fatto la Bonino, nella geopolitica o nelle relazioni internazionali. Queste costituiscono a ben vedere la trama che connette il potere globale e la vulgata neoliberista nelle loro declinazioni locali, specialmente se si considera il rapporto tra Europa e mondo arabo. La bandiera dei radicali si è ammainata rispetto al dibattito sulle unioni civili, a parte alcuni interventi su Radio Radicale e sul sito Radicali.it. Mentre lo stesso tema è diventato fiore all'occhiello e ammirevole conquista dell'amministrazione Renzi. Anche questa conquista, come quelle sacrosante sull'aborto e sul divorzio, è stata avversata dalla peggiore ideologia reazionaria ma anche dalla sinistra più radicale perché troppo sbilanciata in favore degli interessi di classi privilegiate. Edmondo Berselli (L'Espresso 22/04/2004) lo ha definito come un uomo "in grado di reinventarsi ad ogni stagione", una sorta di "autobiografia della Nazione" che ne riassume i principali pregi e difetti. Ormai più che altro "un uomo politico che parla alle élite, e sicuramente le influenza... ma chissà se parla ancora all’opinione pubblica, e se l’opinione pubblica ha voglia di ascoltare le sue strepitose manipolazioni politiche vestite da argomenti di inoppugnabile civiltà giuridica".

Per capire ciò che è accaduto può essere utile la  categoria antropologica di omologia. Sino agli anni settanta-ottanta la questione dei diritti civili era integrata in una narrazione che conteneva altri discorsi coerenti con quei valori e che preannunciava una società migliorata dal progresso e dalla tecnica. Oggi questa omologia s'è frantumata e la questione dei diritti ha assunto una dimensione trasversale, mentre l'opposizione tra politiche neoliberiste e nuovi "populismi"è il vero territorio del conflitto. Certo, anche il populismo è fatto di sfumature diverse: Salvini totalmente anti-progressista ma per la legalizzazione della prostituzione, Grillo contro l’asse mittel-nord europeo ma a favore delle coppie di fatto. La nuova omologia dell’antipolitica, come ad esempio per la destra francese, tiene insieme antieuropeismo, critica alla globalizzazione dei capitali, delle persone, delle merci ecc., recupero delle tradizioni, del localismo, del saper fare localistico.

 

Nel nuovo sistema non più globale, né locale, ma multilocale, le innovazioni sul fronte della biopolitica iniziano a essere viste con sospetto. Come il risultato di una prevaricazione della tecnica sul naturale corso della vita quotidiana. Per questo parte dell'opinione pubblica s'appresta a rinunciare alle conquiste liberali e a indietreggiare consapevolmente sul fronte dei diritti – dalla extraordinary redemption di Bush alla recente chiusura delle frontiere di mezza Europa – per guadagnare un pezzetto di confortante sicurezza. In questo contesto ben più radicale e polarizzato non c'è più posto per figure politiche come quella di Pannella, il cui insegnamento può essere integrato nelle posizioni ibride e "triangolate" di grandi coalizioni, di partiti della nazione o semplicemente di una sinistra che fa politiche di destra (come il PD) o come nel Regno unito, dove la destra incorpora elementi del programma laburista.

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Una crisi che dura dagli anni Novanta

Sebald. L’esistenza nomade della fotografia

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La fotografia, intesa come illustrazione, ma anche come motivo letterario, è entrata a far parte, in una molteplicità di forme, della letteratura del XX secolo. Nei libri dello scrittore tedesco W.G. Sebald colpisce in modo particolare l’uso delle fotografie. A differenza di autori come Rolf Dieter Brinkmann o Alexander Kluge, si percepisce qui una nuova sensibilità nei confronti della singola immagine.

 

Christian Scholz ha conversato con W.G. Sebald su letteratura e fotografia il 14 novembre 1997 a Zurigo.

 

 

Chi legge i suoi libri si accorge immediatamente del forte valore che lei attribuisce alle fotografie. A ogni singola immagine viene rivolta una particolare attenzione. C’è stata una miccia che ha innescato questo processo?

 

Non c’è stata nessuna miccia iniziale vera e propria, nel senso che non mi sono rifatto a dei modelli. Non pensavo nemmeno ad Alexander Kluge quando ho cominciato a scrivere in questo modo, e ciò è accaduto relativamente tardi. L’impulso è sorto a partire da singole immagini. Per molti anni ho raccolto, in modo completamente asistematico, fotografie. A volte le si scopre tra le pagine di vecchi libri acquistati nei negozi di stampe e libri antichi o nei mercatini dell’usato. È tipico delle fotografie il fatto che conducano un’esistenza nomade e che vengano poi “salvate” da qualcuno.

 

August Sander, Gemelli, 1925/26 circa. 

 

Per finire di nuovo in una scatola di scarpe...

 

Sì, ma nelle ore morte della giornata spesso frugo in queste scatole. E ogni volta che lo faccio mi accorgo che da queste immagini si innalza un appello immane. Un appello rivolto all’osservatore, che gli chiede di raccontare o di immaginare cosa si potrebbe raccontare a partire da queste fotografie.

 

Nel concreto come procede?

 

C’è un nucleo molto reale e attorno a questo nucleo un enorme contorno fatto di nulla. Non si sa in che contesto si trovi la persona raffigurata, di che paesaggio si tratti. È la Francia meridionale o l’Italia? Non si sa. E bisogna iniziare a pensare per ipotesi. Seguendo questa strada si giunge inevitabilmente alla finzione e al racconto. È nella scrittura, poi, che si riconoscono le possibilità di narrare prendendo le mosse dalle immagini, o di calarsi con il racconto nelle immagini stesse, o di sostituirle a un passaggio testuale e così via.

 

W.G. Sebald, Gli emigrati, p. 82. 

 

Cosa significano per lei una fotografia, un ritratto, l’istantanea di un attimo? Cosa significano le ombre, le alte luci, le superfici nere, i contrasti? Perché diffida del colore?

 

Non diffido del colore a priori. È solo che le immagini in bianco e nero sono più facilmente reperibili. Le fotografie a colori, quando non sono ben fatte, hanno spesso qualcosa di ordinario, cosa che invece nella produzione in bianco e nero non accade quasi mai. Mi ha sempre attratto l’aspetto discreto del bianco e nero. I dettagli tecnici sono cose di cui non mi sono mai molto preoccupato.

 

Lei vede quindi l’immagine solo come frammento di un racconto?

 

Esatto. Può trattarsi di un paesaggio, di una persona, di un interno. C’è sempre qualcosa che mi spinge a guardare dentro questi oggetti. Si tratta esattamente della stessa impressione che suscitavano in me, da bambino, quei visori che c’erano allora e in cui si guardava dentro. Si aveva la sensazione di essere con il corpo ancora nella propria realtà piccolo-borghese e con gli occhi già completamente altrove: a Rio de Janeiro o nei misteri della passione di Oberammergau o ovunque fosse dato vedere. La stessa sensazione la risvegliano in me quelle fotografie che esercitano sull’osservatore una sorta di risucchio e che lo distolgono in maniera inquietante dal mondo reale e lo conducono in uno irreale, un mondo che non si sa esattamente di cosa sia fatto, di cui tuttavia si intuisce l’esistenza.

 

W.G. Sebald, Die Ausgewanderten, p. 265. 

 

O quanto meno l’esistenza passata.

 

Giusto. Ma essa rimane fissata lì. Ogni immagine interroga, parla, sfida. Nel bel testo di Barthes La camera chiara c’è una fotografia che riproduce un ragazzino in piedi in una corsia tra i banchi di scuola. Indossa questo grembiulino che portavano i bambini nelle scuole francesi. Non so più esattamente quali parole usi Barthes a proposito di questa immagine, ma poneva la questione di cosa ne fosse stato più tardi di questo bambino, Ernest si chiamava. Possiamo immaginare che corresse l’anno 1903 e che quattordici anni dopo questo giovane uomo di circa vent’anni abbia perso la vita nella Somme o nella Passiondale o in un altro orribile luogo. È facile fare congetture sulla strada che possono aver preso queste vite che tendono ad uscir fuori dalle fotografie in modo molto più preciso di quanto non accada in un dipinto.

 

Soprattutto guardando i ritratti di bambini si vorrebbe sapere quale sia stato il loro destino. Si pensi solo alla famosa fotografia del fotografo tedesco August Sander, scattata nel 1924, che ritrae due bambini davanti alla porta di un soggiorno borghese...

 

I ritratti di due bambini erano molto usuali nelle famiglie borghesi. Si facevano fare ritratti dei bambini addirittura da pittori di fama. Ce ne sono a centinaia. Ma da nessuno dei ritratti dipinti si innalza questo appello. Sono solo le fotografie a portarlo in sé. Non so esattamente da cosa dipenda. Ho delle idee particolari in merito. Forse si tratta di questioni metafisiche molto complesse, non in senso mistagogico, ma nel senso che da qualche parte c’è una forma di esistenza secondaria o a noi coordinata, sovraordinata o postordinata. E le persone che scompaiono continuano a vagare in questa esistenza.

 

W.G. Sebald, Vertigini, p. 117. 

 

Nei suoi libri compaiono sia fotografie di altri sia lavori provenienti dal suo archivio o dall’archivio familiare. Inoltre si scoprono lavori scattati da lei personalmente. Nell’atto del fotografare ricerca più l’aspetto documentario o quello artistico di un’immagine?

 

Accadono davvero cose singolari quando si va in giro per il mondo senza una meta, si capita da qualche parte e si vuole stare a guardare cosa succede in quel momento. Così avvengono cose che a raccontarle nessuno le crederebbe. E quello che avviene è molto importante: è necessario fermare queste cose. Lo si può fare, naturalmente, scrivendo, ma lo scritto non è un vero documento. La fotografia è il vero documento, il documento per eccellenza. La gente si lascia convincere da una fotografia. La seconda cosa è che io uso la macchina fotografica come una sorta di linguaggio stenografico o aide mémoire. Non la associo ad alcuna ambizione artistica. Perciò la mia macchina fotografica non è quasi mai costosa. Mi sono abituato però ad averla sempre in tasca. È indifferente che tipo di pellicola ci capiti dentro.

 

Come mai non si premura di avere buone pellicole? È una trascuratezza...

 

Non voglio inserire all’interno del testo immagini di alta qualità fotografica, si tratta semplicemente di documenti rinvenuti, di qualcosa di secondario. È molto bello quando questa indeterminatezza penetra in qualche modo nelle immagini.

 

Per il terzo racconto del libro Gli emigrati, quello intitolato “Ambros Adelwarth”, lei ha preso una serie di immagini dai suoi album di famiglia. Che cosa prova quando le capitano in mano questi album? Rivivono vecchie nostalgie? Intende ricostruire la sua biografia a partire da materiale fotografico?

 

Franz Kafka, 1887 circa. 

 

Il fatto è che ormai vivo da tempo all’estero e ho acquistato una certa distanza nei confronti dell’ambiente da cui provengo. D’altra parte però questi album di famiglia non mi lasciano del tutto sereno. Li si è sfogliati già da bambini in modo completamente ingenuo, quando non si ha ancora un concetto di storia, un senso per la storia, non si sapeva nulla del Terzo Reich, non si sapeva quale ruolo i propri genitori avessero presumibilmente avuto in tutto questo, quale posizione avessero assunto. Si sfogliavano questi oggetti solo così, per gioco. Poi li si è lasciati in un cassetto, ignorati. Una volta ripresi in mano verso i quarant’anni, dopo un intervallo, diciamo, di circa venti o venticinque anni, quello che si vede ha tutta l’aria di una rivelazione negativa. Perché nel frattempo si è imparato che cosa sia la storia. Si sa cosa è successo. Si hanno sospetti sul ruolo sociale che i propri genitori e parenti hanno rivestito in quel contesto e ora lo si vede, ad un tratto, del tutto chiaro davanti a sé, in un’evidenza visiva. E lo shock di solito non è assente. L’aspetto inquietante e scioccante dell’osservare fotografie di famiglia ha naturalmente a che fare anche con il processo d’invecchiamento.

 

A questo proposito lei una volta ha affermato che chi si trova intorno ai cinquantacinque anni assiste all’evidenza del processo di invecchiamento sul proprio corpo.

 

Sì, lo vede con una chiarezza allarmante sul corpo dei propri genitori, quando arrivano intorno agli ottant’anni, e da questa posizione si volge lo sguardo all’indietro di cinquanta, sessanta, settant’anni, quando questi individui avevano diciannove anni e si erano appena fidanzati. Non è possibile immaginare cosa sia questo lento auto-dissolversi della vita lungo i decenni, è assolutamente terribile dover vedere tutto questo e dover prendere in considerazione la possibilità che una persona reale che ora, nel 1999, ha, diciamo, ottantacinque anni, allora ne avesse solo ventidue. È plausibile tutto questo? Entra nelle nostre teste? Come riusciamo a capirlo? Cosa ne facciamo di questa informazione?

Per me, in quanto uomo che pensa e scrive, e lo fa per professione, questa è la denuncia del fatto che ci muoviamo costantemente su una lastra di ghiaccio terribilmente sottile, a rischio di rompersi in ogni istante, che tutto è di una fragilità tale, che non è quasi permesso nemmeno tirare avanti alla giornata e che di fronte a questa evidenza si ha la sensazione di poter solo star seduti fermi, senza muoversi, in modo che tutto vada il più lentamente possibile. Già queste sono cose in sé terribili, per non parlare di quelle cose terribili che presenta lo specifico del contesto tedesco: mio padre da giovane, entrato al servizio militare nel 1931, seduto in una stanza ad Augusta mentre esegue calcoli geometrici per misurare la gittata di un cannone. E poi il pensiero di cosa accade dopo.

 

Come modello per le sue descrizioni Marcel Proust utilizzò dei ritratti della società parigina eseguiti da Félix Nadar. Che cosa la interessa nei ritratti? E dove finisce l’interesse? Negli abiti? Nelle calzature?

 

Franz Kafka con la sorella Ottla. 

 

Dipende molto dalla situazione di scrittura in cui l’immagine deve inserirsi. Può darsi che mi interessi particolarmente anche solo l’occhio del soggetto ritratto. In un passo del racconto “Max Aurach”, per esempio, viene riprodotto l’occhio del pittore. Può veramente essere anche solo il frammento di un corpo. Si può trattare di qualcosa che si trova completamente al margine dell’immagine, in queste cose procedo a seconda della situazione. Magari poi spiego al lettore che talvolta sono proprio gli aspetti secondari di un’immagine a farne il mistero.

 

Nei suoi libri però non si trovano solo fotografie; in alcune narrazioni familiari o di viaggio è il fotografare stesso a venir tematizzato. In Vertigini, nel capitolo “All’estero”, lei si sofferma a raccontare addirittura la nascita di una singola fotografia.

 

Il passo che lei cita, davanti alla pizzeria di Verona, è un mezzo racconto poliziesco. Si narra di omicidi efferati susseguitisi per diversi anni nell’Italia settentrionale e in questo contesto la pizzeria riveste un certo ruolo. Quando, qualche tempo dopo, il narratore ritorna a Verona, vede che le porte e le finestre della pizzeria sono inchiodate con delle assi. È facile supporre che anche qui sia accaduto qualcosa di terribile. E il protagonista non ha con sé la macchina fotografica, deve perciò chiedere a un passante di scattare la foto.

Mi sono trovato diverse volte in questa situazione. Si verificano sempre di nuovo situazioni in cui si pensa: non è possibile, non può essere, in cui veramente si dovrebbero fare queste istantanee. Mi è successo, ad esempio, poco tempo fa all’aeroporto di Amsterdam, dove ho dovuto passare la notte perché l’intera area era immersa nella nebbia e il traffico aereo era bloccato. Era passata la mezzanotte e tutti erano coricati, orizzontali, su quei divani che ci sono al piano superiore della sala partenze. Buttate sopra avevano delle coperte azzurre di lana leggera che la KLM aveva messo a disposizione degli accampati. Una scena straordinariamente spettrale – come morti composti nelle loro bare, giacevano rannicchiati su un lato o rigidi sulla schiena. E fuori, attraverso il vetro, l’immagine riflessa dell’interno.

Queste costellazioni ingenerano ogni sorta di possibilità sulle quali riflettere. Ma sono verificabili solo se è stata scattata una fotografia. Altrimenti, si pensa, non è altro che una delle tante eccentricità di questo scrittore che si è inventato tutto, che prolunga le linee di quello che avviene nella realtà fino ad avvolgere intorno a un lavoro una certa corrispondenza di significati o un certo simbolismo.

 

Come riesce a fermare degli estranei in una città, a farsi prestare la loro macchina fotografica, addirittura a farsi aiutare nello scatto o a farsi raccontare, pur restando in una posizione contemplativa e sommamente concentrata?

 

È molto difficile. È una cosa che dovrei veramente imparare. Ci vuole un’enorme capacità di andare oltre se stessi, soprattutto quando ci si deve esprimere in una lingua straniera, che si padroneggia solo in parte o si è costretti a storpiare. Ma credo che lo scrivere e il fotografare siano strettamente legati all’arte della ricerca. Questa è una cosa che gli scrittori di oggi in gran parte trascurano. È l’arte del reportage: andare da qualche parte e in una settimana, come fece Joseph Roth portando a casa qualche frammento dalla Galizia o dalla Francia meridionale, doversi arrangiare per cucirvi intorno un articolo. La maggior parte degli scrittori stanno seduti a casa al loro computer e passano il tempo a ostinarsi sulle loro cose. Nella maggior parte dei casi ne escono cose molto anemiche.

 

Franz Kafka era uno scrittore cui di rado le fotografie hanno dato tregua. A Riva del Garda lei si è messo sulle tracce di Kafka e in Vertigini compare una sua fotografia.

 

Per Franz Kafka il conservare immagini era in fondo una cosa terribile. Ciò ha diverse ragioni, una delle quali, la più arcaica, che ho appena cercato di illustrare, è naturalmente la proibizione dell’immagine presente nella religione giudaico-ortodossa: la proibizione è un motivo centrale che ha agito anche in Kafka. Le immagini che egli produce nella sua prosa, o meglio con la sua prosa, hanno già in sé qualcosa di estremamente discreto. Kafka non raffigura quasi mai gli individui come tali, ma ne tratteggia solo i contorni. Tutti i ritratti che abbiamo di lui sono caratterizzati dal fatto che già in anticipo sia presente una sorta di trasparenza della persona, che poi aumenta man mano che l’uomo invecchia, ma che c’è già nel bambino.

 

Ha in mente un esempio particolare?

 

Si pensi a quella fotografia in cui Kafka è in piedi, con indosso un abito alla marinara, un piccolo bastone da passeggio nero, un cappello di paglia laccato nero, e un’espressione assolutamente sconsolata in volto, quegli enormi occhi scuri che guardano nell’obiettivo o per metà oltre l’obiettivo, lo sguardo abbassato, e ci si accorgerà che già in questa immagine è presente qualcosa che l’uomo adulto non potrà mai dominare. Ed è così in tutte le foto, fino alle ultime, in cui lo si vede poco prima della fine, ancora sorridente, in piedi nel giardino antistante la casa della sorella, in un cappotto troppo grande, con un cappello appoggiato insolitamente troppo in alto sulla testa, quasi un’apparizione sacra – a metà tra il copricapo di un clown e l’apparizione sacra, perché il cappello sembra quasi librarsi sulla sua testa. Queste immagini anticipano la trasparenza che le fotografie avranno più tardi, quando la persona che vi è ritratta non vivrà più. Sono tutte cose molto singolari.

 

La fotografia nel punto in cui vita e morte si saldano...

 

Credo che la fotografia, le zone grigie della fotografia in bianco e nero, segnino esattamente questo territorio che si trova tra la vita e la morte. Nella fantasia arcaica non esistevano solo la vita e poi la morte, come pensiamo noi oggi, ma tra le due c’era un’enorme terra di nessuno dove gli individui erravano e dove non si sapeva esattamente per quanto tempo ci si dovesse fermare: poteva essere il purgatorio cristiano o una specie di zona desertica che si doveva attraversare per giungere dall’altra parte.

 

Ha una fotografia particolare che non ha ancora trovato il suo posto in un testo?

 

Ci sono sempre delle fotografie di cui non si riesce a liberarsi. Io ad esempio ho trovato già diversi anni fa una fotografia montata su un cartoncino delle dimensioni di un A4 in cui ci sono due uomini in piedi su un palcoscenico. Si trovano sul lato sinistro della foto. Il palco ha un fondale che rappresenta un paesaggio alpino dipinto in modo molto naïf, vi si distingue una sorta di ghiacciaio che attraversa un bosco e scende a valle fino a livello del palcoscenico. I due signori, un uomo e una donna, portano abiti invernali. Probabilmente si tratta dell’impresario teatrale e di sua moglie, o forse di due protagonisti di quello spettacolo, non si sa.

Questa è una di quelle immagini a cui mi capita di pensare spesso e che da tempo mi perseguitano. Vorrei farne qualcosa. Un’immagine così è come un oggetto che giace sul pavimento e accumula polvere. Ha presente quelle cose dove si impigliano i vortici della polvere, diventando gomitoli sempre più grossi, finché alla fine si riesce a tirarne fuori dei fili? È più o meno così.

 

Traduzione dal tedesco di Judith Kasper.

 

Imm. Sovrapposizioni. Memoria, trasparenze, accostamenti

 

E. Grazioli, R. Panattoni (a cura di), Imm'. Cultura dell'immagine. Sovrapposizioni. Memoria, trasparenze, accostamenti, Moretti & Vitali, 2016.

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Conversazione con W.G. Sebald

Le vittime di Cannes

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In un saggio pubblicato un paio di anni fa, intitolato Critica della vittima, Daniele Giglioli metteva in luce come nella costellazione ideologica contemporanea l’identificazione con la vittima sia diventato uno dei principali generatori di identità. La vittima è davvero “uno degli eroi dei nostri tempi”. Avere sofferto un dolore, avere subito un torto, avere patito una qualche forma di violenza garantisce innocenza e immunizza da ogni critica. Il cinema, che è storicamente uno dei punti sensibili attraverso cui leggere le formazioni ideologiche dei propri tempi, è stato negli ultimi anni complice e artefice di questa elevazione della vittima a oggetto del desiderio del nostro immaginario. Il cinema americano in particolare – sia quello mainstream che quello indipendente –  forse influenzato da un discorso pubblico sempre più ossessionato dall’igienismo del politicallycorrect e dalle feticizzazione delle garanzie delle minoranze, negli ultimi anni ne ha pescato a piene mani: ne è un esempio il pessimo film-spot per Medici Senza Frontiere di Sean Penn presentato un po’ incomprensibilmente a Cannes quasi al termine del concorso e accolto da degli unanimi fischi nell’imbarazzo generale.  

 

Più segnato dall’immaginario coloniale che dall’ideologia umanitaria che vorrebbe promuovere, The Last Faceè un esempio perfetto di come la vittima nel momento in cui viene elevata a soggetto assoluto di autenticità viene nello stesso tempo destoricizzata e di fatto ridotta a un oggetto inerte indistinguibile dalla propria esperienza di sofferenza.

È anche questo uno dei molti motivi di interesse di due dei film più belli passati al concorso negli ultimi giorni e che ieri a Cannes sono stati premiati dalla giuria di George Miller: Bacalaureat di Cristian Mungiu (che ha vinto il premio per la miglior regia, a ex-aequo con Olivier Assayas) e Forushande di Asghar Farhadi (che ha vinto sia il premio per la miglior sceneggiatura che quello come miglior interpretazione maschile con l’attore Shahab Hosseini). Entrambi i film pur affrontando una storia di vittimizzazione scartano completamente la via della monumentalizzazione della vittima, e decidono invece di andare a indagare i paradossi di una posizione soggettiva molto più complessa e stratificata.

In Bacalaureat Cristian Mungiu racconta la storia di Romeo, un medico di un piccolo villaggio della Transilvania, la cui figlia adolescente, Eliza, è all’alba degli esami di maturità. Il padre vorrebbe che la figlia l’anno successivo vada a fare l’università in Inghilterra – perché, come ripete spesso, a Cluj, dove si svolge il film, non c’è futuro  – ma la borsa di studio che ha già vinto diventerà effettiva solo nel caso che la media dei voti del suo esame non sia minore di 9. La cosa dovrebbe essere alla portata di una studentessa così brava come Eliza, se non che il giorno prima dell’inizio dell’esame, sulla strada per andare a scuola, l’adolescente viene assaltata e stuprata da uno sconosciuto.

L’elemento sorprendente del film è che Mungiu non colloca la traumaticità dello stupro nell’evento in sé, ma nel modo con cui viene “simbolizzato” all’interno delle relazioni famigliari e sociali. Il padre una volta venuto a conoscenza di ciò che è accaduto alla figlia è più preoccupato delle conseguenze per la borsa di studio e per il suo futuro in università in Inghilterra che non per quello che concretamente la figlia ha dovuto subire. Mungiu, come spesso accade nel suo cinema ci fa vedere la storia di una relazione paradossale con la legge: Romeo vuole che la figlia abbia un trattamento “particolare” per quello che le è successo, ma questo per le procedure normative delle correzioni dell’esame di maturità rumeno è impossibile. Per far sì che le venga riconosciuto quello che è giusto (Eliza è un brava studente che si merita quelle che semplicemente le spetta) il padre inizia un lungo peregrinare tra amici, conoscenti, insegnanti etc. che nell’opacità delle relazioni di potere rumene sconfina ampiamente nella corruzione. Dunque che cosa è giusto? La correttezza formale, seguendo la quale la figlia probabilmente andrà incontro a una sicura bocciatura? O quella sostanziale che utilizzerebbe un piccolo atto di corruzione per far sì che la figlia riesca semplicemente ad arrivare all’obiettivo che di fatto si è già meritata? La progressiva dissoluzione delle relazioni famigliari a cui Romeo va incontro fa della contraddizione fondamentale di Bacalaureat tra legge e giustizia un conflitto propriamente tragico, senza possibilità di soluzione. È per questo che il film di Mungiu non è soltanto un’opera che riflette sulla contemporaneità della Romania come molti hanno detto (un esito a cui molti film non occidentali vengono condannati) ma è a tutti gli effetti una riflessione sull’universalità del rapporto tra un soggetto e la legge.

La storia di Forushande di Asghar Farhadi è per certi versi il contraltare del film di Mungiu. Il regista di Una separazione ha portato a Cannes un’opera densa e stratificata, che ha come al solito nella scrittura drammaturgica il suo punto di forza. Il film si apre con un’immagine potentissima: una casa nel centro di Teheran che sta per crollare a pezzi. All’inizio pensiamo sia un terremoto, o forse semplicemente un problema delle fondamenta dell’edificio: ma dopo aver visto tutti gli abitanti del palazzo essere costretti ad evacuare di soprassalto la propria abitazione, la macchina da presa attraversa una finestra e guarda in basso e ci mostra che in realtà il problema era stato causato da una ruspa che stava facendo dei lavori in un terreno adiacente a quello del palazzo. Il trauma dunque non è un evento esterno che viene dal nulla e che il soggetto subisce come se non lo riguardasse. Il crollo del palazzo è un evento mediato (dalla società, dai piani urbanistici, dalla decisioni di fare di lavori in un luogo insicuro che causerà il crollo del palazzo vicino). Non è il trauma che viene al soggetto, perché il soggetto è già da sempre parte del trauma che lo riguarda. E in un certo senso ne è responsabile.  

È per questo che è solo all’inizio che l’evento che scatena la vicenda del film – l’assalto in casa a Rana, la moglie del protagonista, avvenuto nel nuovo appartamento dove i due sono stati costretti ad andare dopo l’evacuazione del palazzo –sembra arrivare dall’esterno e non riguardare i soggetti in questione. Cosa c’è d’altra parte di più estraneo di un assalto da parte di uno sconosciuto che irrompe in una casa e che violenta una donna ignara che mai l’aveva visto prima? Ma basta poco per constatare che il problema maggiore, esattamente come in Mungiu, molto più dell’evento in sé, è rappresentato dalle reazioni che “simbolizzano” quest’evento, e in particolare quelle del marito di Rana: Emad. Emad non chiama la polizia per denunciare l’accaduto ma tenta autonomamente di ricostituire la scena attraverso i segni che l’assaltatore ha lasciato in casa: dei soldi, un paio di calzini, le chiavi di un pick-up (e il pick-up stesso che è stato abbandonato sotto l’abitazione). Il marito insomma è come se avesse una sorta di attrazione nei confronti della posizione di colui che ha partecipato all’assalto dato che il suo atteggiamento non rivolto alla massima efficacia (per la quale chiamerebbe la polizia) ma semmai alla ricostruzione di tutti i tasselli che compongono la scena (anche se nel frattempo tenta in tutti i modi di nascondere ad amici e colleghi quello che è successo). In un film di grande complessità e che gioca su molti livelli differenti (i due coniugi sono attori di teatro e il film è costruito attraverso un continuo mise en abyme creato dai due livelli della rappresentazione) Farhadi riesce a fare uno dei film più intensi della sua carriera, dove il trauma di una vittima è l’espediente per costruire una riflessione sul proprio desiderio di possesso e di vendetta e sulla propria inclusione nella scena, e dove il confine tra vittime e carnefici, tra sofferenza e colpa viene continuamente ribaltato e messo in discussione.

Ma può essere letto anche come un ribaltamento del paradigma della vittimizzazione persino la scelta della Palma d’Oro che la giuria presieduta da George Miller ha deciso di assegnare (con sorpresa di tutti) a I, Daniel Blake di Ken Loach, l’ennesima tappa di quella singolarissima epopea di classe che il regista inglese ha costruito lungo una carriera che ormai dura da mezzo secolo: questa volta concentrandosi sulla crisi del welfare di stato.

Se parliamo di sorpresa è proprio perché quest’anno Cannes ha proposto uno dei suoi concorsi migliori degli ultimi anni, con tantissimi film che avrebbero meritato di prendere un premio. È stato senz’altro l’anno di Olivier Assayas e di Personal Shopper (di cui abbiamo parlato nella scorsa puntata dello speciale) ma anche dell’applauditissimo Toni Erdmann della tedesca Maren Ade (un vero e proprio caso, con lunghissime code nelle repliche che hanno reso quasi impossibile accedere alle ultime proiezioni). C’erano oltre a Mungiu e Farhadi anche un grandissimo Verhoeven, che con Elle ha fatto praticamente un piccolo trattato sulla perversione. Ma c’era anche Xavier Dolan, che con Juste la fin du monde– un piccolo film, preparato in fretta e furia per arrivare sulla Croisette in attesa che la sua prima produzione in inglese The Death and Life of John F. Donovan sia pronta per essere girata –  vince ancora il Gran Premio della Giuria a soli due anni da Mommy.

Si sa che in questi casi, quando in concorso vi sono moltissime opere di livello (e molte di esse sono opere che “dividono”, come l’ingiustamente fischiato Personal Shopper di Olivier Assayas), è facile che la giuria trovi l’accordo su film formalmente più “inoffensivi” ma che riescono a trovare un minimo comune denominatore tra idee di cinema molto diverse. È il cosiddetto “effetto Ang Lee”, il modesto autore taiwanese che a Venezia vinse due volte il Leone d’Oro in anni in cui in concorso c’era pieno di film di qualità. Ma a volte in quello stranissimo microcosmo che sono i festival del cinema l’opinione media ha la meglio sulle spigolosità più edgy che è difficile che riescano a essere condivise da un pubblico – quello della giuria o dei giornalisti accreditati – che nonostante si presenti come qualificato non è qualitativamente diverso dal pubblico generico.

Se è vero che è difficile trovarsi d’accordo con un verdetto come quello emesso dalla giuria di quest’anno è anche vero che l’importanze di questi verdetti andrebbe sempre relativizzata: la vita dei film a un festival come Cannes è appena iniziata, e spesso accade che i film vincitori non siano necessariamente quelli che verranno ricordati più a lungo. Non c’è nemmeno bisogno di andare molto indietro nel tempo, basterebbe citare Dheepan di Jacques Audiard che ha ricevuto la Palma d’Oro appena dodici mesi fa e che in pochi già si ricordano.

 

Ci consoliamo allora con una delle opere più squilibrate e interessanti di quest’anno, passato in concorso in uno degli ultimissimi giorni di festival e che ieri sera alla premiazione è rimasto a bocca asciutta: The Neon Demon di Nicholas Winding Refn. Un film che parla del mondo delle modelle losangelino, ma che è stato capace, forse meglio di ogni altro negli ultimi anni, di fare una riflessione assolutamente universale e di straordinario interesse sull’incolmabile distanza che divide il corpo immaginario e il corpo reale. In una Los Angeles che sembra nata dalle fotografie di david LaChapelle, ma che nasconde dietro gli onnipresenti specchi l’orrore dei corpi di un film di David Cronenberg, Refn ha costruito uno dei film più importanti di quest’edizione. C’è da scommettere che, indipendentemente dai premi, saranno film come questi (e come Assayas, Mungiu, Farhadi, Kashyap, Jarmusch, Bellocchio, Verhoeven, Mendoza e molti anni) che sopravvivranno a questa edizione di Cannes. Che al di là della premiazione di ieri sera non è davvero un’esagerazione definire come straordinaria.

 

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Vince Ken Loach

Campioni # 18: Alessandra Carnaroli

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Alessandra Carnaroli

da Ead., elsamatta (Roma, «Syn. Scritture di ricerca» ikonaLíber, settembre 2015, pp. 62,  € 7), p. 9

 

Elsa matta quattrocento sessanta sette membri

 

il lavoro si basa sui commenti postati all’interno di un gruppo fb,

«quelli che una volta gli ha fatto fare la fuga l’elsa matta».

Svago e tragedia normale, quotidiano di una donna matta e dei suoi seguaci fedeli, quasi

[cani.

 

Alessandra Carnaroli (1979) ci ha abituati già da tempo a una scrittura in versi che «fa le fughe», che ci mette in fuga dando voce ai vari volti implicati nella violenza sociale. Di volta in volta quella voce sa adattarsi al bagaglio culturale, all’immaginario e di conseguenza al registro linguistico del soggetto scelto. Chi scrive esemplifica un esercizio di estraniazione da sé, utile in un’epoca di chiusura degli orizzonti attorno a individualismi asfittici; la lettura dei suoi testi offre quindi l’opportunità di mettere in discussione se stessi e le proiezioni più consolidate della realtà esterna. Ne abbiamo di nuovo conferma con la sua ultima pubblicazione: Elsamatta è apparsa alla fine del 2015, non a caso nella collana Syn delle edizioni IkonaLíber, curata e garantita dallo sguardo atipico di Marco Giovenale.

 

Il titolo ci rivela un’identità inscindibile dalla propria diversità, o meglio, dalla propria anormalità, intesa come esclusione dalla società che si considera normale. Le prime pagine rivelano immediatamente il meccanismo genetico della raccolta: un montaggio di post tratti dal gruppo facebook «quelli che una volta gli ha fatto la fuga l’elsa matta», accompagnato dalla registrazione dei “mi piace” e di eventuali commenti.

Ne risulta un romanzo collettivo, scritto a più mani dai vari membri, il cui soggetto non protagonista è Elsa, che nell’arco di una ventina d’anni impressiona con le sue bizzarrie gli abitanti di un quartiere metropolitano e infine è reclusa in un manicomio. Attorno alla costruzione della sua leggenda, entra in scena in primo piano chi dice io, chi dice noi, chi descrive lei attraverso le proprie memorie, le proprie emozioni, i propri preconcetti.

 

Alessandra Carnaroli, Elsamatta. 

 

Il contesto, da cui la composizione trae ispirazione, autorizza a riprodurre e giocare con il netspeak tipico del social media: un linguaggio scritto che ibrida forme colloquiali, informali, inconsapevolmente o sfacciatamente sgrammaticate. Con questa neolingua, fatta di disordini sintattici, di anarchia rispetto alla punteggiatura, di refusi che veicolano significati differenti rispetto alle intenzioni (esemplificative sono le scale mostre), la Carnaroli gioca: la forma poetica si cala nel parlato e, attraverso le spezzature del discorso, fa risaltare le sinapsi concettuali, filtrandone anche le formule ritmiche e fonetiche sottotraccia.

È proprio il linguaggio a smascherare la disinvoltura con cui vengono confessate e condivise paure e soprattutto certezze.

 

Così com’è capace, con molta nonchalance, di mandare a morte i congiuntivi, di sacrificare in modo pleonastico i pronomi, di ricorrere illecitamente a espressioni informali, chi domina e decide il racconto dei fatti può serenamente, incoscientemente, agire e registrare la banalità del male.

Siamo ben lontani dalle fotografie in versi di figure del disagio mentale e sociale, scattate, ad esempio, da un Tonino Guerra. I pochi lampi di commiserazione – i poverina, gli ipocriti «in fondo le volevamo bene» – sono troppo episodici e fulminei per parlare di compassione e comprensione. La comunità che si ritrova virtualmente, si aggrega per legittimare autenticamente le proprie reazioni di paura di fronte ad atti di terrorismo compiuti da Elsa a bordo di un triciclo.

 

Non servono avvertimenti per cogliere la pericolosità, qui illustrata, dei processi di costruzione dell’identità in corso attraverso forme di dialogo fittizie, di confronto minimizzato e appiattito a semplici emoticon, di una popolarità conteggiabile a colpi di click.

Il gruppo ha paura: un sentimento che si propaga per contagio e si rafforza per risonanza, facendo leva su istinti ancestrali, su evidenze semplificate, sulle norme rassicuranti del conformismo. Tra una testimonianza e l’altra, questa paura si dimostra la cartina di tornasole dell’impreparazione, per non dire della pochezza, di strumenti culturali ed emotivi per accogliere, comprendere, riconoscere il diverso, senza sottrargli dignità. Ma di quale diversità si parla? 

 

elsa mattaspaventa bambini

insegue femmine per strappargli i capelli,

uno a uno o a

ciocche come rametti

di salvia per arrosti amante

di soldati, uomini bestie / gatti a gattoni

sul davanzale dove l’elsa presta

comecapra sacrificio

per pulire le scale mostre.

gli angoli vespe

altre paturnie

 

io l’ho vista trascinare con triciclo

una bambina

/maira/ sul selciato

la madre che gridava e la piccola diventata scarpa

sfuggita per un soffio alla terza guerra.

 

L’arma del Soldato Futuro è il fucile d’assalto ARX-160 in calibro 5,56 mm munito di 

[lanciagranate

da

40 mm GLX-160

 

Un motivo ricorrente allude ad un armamento collettivo e suggerisce un’interpretazione meno particolare: viene infatti rappresentata una sezione minima di una società che si arma con fucili d’assalto, che elabora programmi per il soldato futuro, che si sente – o meglio, si sentiva – sfuggita per un soffio allaterza guerra, combattuta con poche risorse e soprattutto con poca creatività. Nel corso del memoriale, dall’architettura coesa e difficilmente campionabile, le carte vengono scompigliate ed è legittimo domandarsi di quale scontro o confronto si parli, chi sia la vittima e chi l’aggressore, soprattutto, che cosa rappresenti davvero l’Altro.

 

Elsa resta un mondo isolato, sconosciuto, distanziato anni luce dall’incapacità di empatia di chi la descrive. Tra lei e il mondo si sviluppa un rapporto che si esplica soltanto con reazioni e controreazioni, atti provocatori letti dai “sani” come aggressione e risposte di fuga che, a ben vedere, appaiono sottrazioni. La parola di Elsa di tanto in tanto fa capolino nei commenti ai post: distinta da un linguaggio ancor più disarticolato, ci conduce con spavalda incoscienza ad aspetti primordiali, sul filo di una crudeltà artaudiana. La lingua e la logica vanno oltre, non hanno timore di scomporre «la moralità pubblica e il buon costume» calandosi in un contatto ulteriore con la realtà materiale, a tratti volgare, lì dove istinto fisiologico e intelligenza emotiva si amalgamano in un tutt’uno.

 

[…] 

gomma bollente

benzina e fiamme

vetro come figlio

posizionato storto

come parto

come guerra

questa donna

resa collo

resa colla

come merda evasa

nella fanga

si diserta e si deserta

cerca forma di vagina avanza

cerca la sua panza

per ricostruire il mestruo

una digestione apparente

apparato riproducente

sangue e pelle

in avanzato stato interessante

avanzato incessante

di sperma che infesta

diserbo e scordo

signor tenente

 

 

L’identità di Elsa si incarna in un corpo che è esso stesso segno di femminilità e di maternità, corpo in cui il fluido mestruale periodicamente ci riconduce a istanze biologiche primordiali, represse nella nostra. In questo quadro in cui il bios tesse il discorso del logos, la tensione all’unione ritorna in un orizzonte spontaneo e naturale e al tempo stesso interseca un che di sublime: «dio vuole che figlio» è come dire che la Vita, il Cosmo, il mio Organismo hanno dato questo e non un altro corpo per una finalità sacra, ovvero la procreazione.

 

Eppure l’approccio dell’altro è repellente, come un infestante o un diserbante. La tensione alla relazione, espressa in forme distorte, è altrettanto malamente interpretata come aggressione e malamente corrisposta da un consumo prostituente e da stupri di gruppo che sterilizzano quell’ansia e quella potenzialità generativa.

La lingua di Elsa sembra spingerci al confronto con quell’abisso come struttura dell’essere di cui parlava Patrizia Vicinelli, citata in conclusione: in lei si può scorgere un principio generativo non riconosciuto e represso, contrapposizione violenta a una altrettanto violenta visione razionalistica che produce distruzione.

 

Alessandra Carnaroli è nata a Fano nel 1979 e vive a Piagge (PU). Ha pubblicato le raccolte Taglio intimo (Fara 2001), Femminimondo (Polimata 2011), la plaquette autoprodotta Animalier (2013) e Sei Lucia (Isola 2014). Finalista al premio «Antonio Delfini» nel 2005 con la raccolta poetica Scartata e nel 2013 con Annamatta 467 membri, suoi testi sono inoltre inclusi nelle antologie 1° non singolo (sette poeti italiani), con una nota di Aldo Nove (Oèdipus 2006), Registro di poesia #5 (D’If 2012), Bastarde senza gloria (Sartoria Utopia 2013) e Femminile Plurale (Vydia 2014). Suoi racconti e prose sono pubblicati su diverse riviste cartacee e online.

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Alessandra Carnaroli, sinapsi dell’anormale

Milano. Il tempo che passa

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Sottotitolo: 

Un certo giorno di qualche tempo fa Antonino Costa è andato ad abitare in via Boffalora, una strada che si trova tra la Barona, Famagosta e Gratosoglio. Periferia di Milano, una di quelle zone dove finisce la città e inizia la campagna, o almeno dovrebbe iniziare, perché a volte non succede. 

Luogo di confine con palazzoni, rogge e fiumi, cavalcavia, plinti di cemento, vecchie case di ringhiera, prati. Lì il vecchio fronteggia il nuovo, che tra poco inesorabilmente rovinerà: il nuovo è già consunto, logorato, decrepito. Zona ibrida, di mescolanze, zona di solitudini e incontri strani. 

Con la macchina fotografica Antonino Costa è andato in giro. L’attirano cose minime e minori. Scatta e poi scrive. È il “Fotogiornale”: fotografie e parole. Un giornale personale e privato esposto in pubblico.  Sulla roggia Carlesca un bambino sta seduto sui parallelepipedi di cemento che costeggiano le acque: un grande tubo, e dietro, oltre la trave di cemento, il ciglio della strada, al di là delle erbe che crescono spontanee, ci sono i camini di metallo e i silos. Tutto è abbandono e dimenticanza, come se gli déi fossero fuggiti da questo luogo. Ci sono invece uomini e donne. Come gli zingari in fila indiana nell’istantanea che li ritrae mentre si dirigono chissà dove (per viottoli, campetti, piste ciclabili), in tuta e con la maglia del numero 10: Del Piero. 

 

La stanza d’ospedale schermata dalle due tende bianche: immagine diafana della malattia, scampato pericolo. Natura morta della nostra inevitabile tristezza.

Poi gli anziani al bar: sigaretta in mano, occhiali poggiati sulla fronte, sguardo perplesso. Tutto sembra usurato in questi scatti, eppure è tutto vero. Antonino Costa fotografa la vita che passa, che scorre, che non si ferma. Non quella che va di fretta, ma quella che passeggia, e a volte sosta. Una vita così. 

Alla Chiesa Rossa, l’uomo con la maglietta a maniche corte davanti all’altare della Madonna. Cosa fa? Prega? Probabilmente sì. Questa umanità spersa visita le chiese e si rivolge al divino: cerca intercessione. Anche Antonino Costa fotografa così: per intercessione (intercedere: “passare attraverso”). Interviene a favore di questa umanità, ci passa attraverso. 

 

I ragazzini che con la lunga pertica pescano i palloni nel Lambro, là dove la corrente addensa i rifiuti, gli scarti, le scorie: bottiglie di plastica, taniche, contenitori di polistirolo. Chi passa di lì non può non guardare il pattume che si concentra nell’angolo della gora che più in là scorre veloce. Hanno afferrato un pallone bianco e nero, e lo tirano verso di sé. Costa intercede per loro. Li fotografa così come si dice una preghiera: con devozione e cura. Che le parole escano bene dalla bocca e dalla mente, e salgano verso l’alto. Per fotografare bene bisogna pronunciarle bene. Il punctum della foto è lo sferoide sospeso a metà del muro, cui corrisponde il bianco del vestito (mi avvicino e guardo meglio: potrebbe essere una ragazza e accanto a lei un ragazzino, potrebbe). 

La coppia se ne va imbacuccata nei suoi vestiti sul piazzale con le macchie scure sull’asfalto (tutto è sempre macchiato qui). Fa freddo. Non si vedono i visi, ma solo le gambe di lei, e dietro il passo mobile di lui. Siamo a Famagosta, al capolinea degli autobus. Uno scatto preso al volo. Remissione dei nostri peccati.

 

Nella fotografia di Costa ci sono a volte i campi di calcio, o quelli di basket. Lo attirano le porte vuote, i tabelloni del canestro. Cosa fanno le cose quando noi non le guardiamo? Dormono la notte o sono insonni? Il bianco e nero di questo scatto (“Canestro notturno”) esalta la solitudine del riquadro sospeso nel vuoto sotto la luce caliginosa del lampione. La notte noi dormiamo, Costa va in giro. Scatta ritratti alle cose, inquieto. Niente riposa mai per lui. 

La donna a Famagosta, dentro il parcheggio, sfuocata, presa anche lei al volo, rivela qualcosa di questo spazio nebbioso ed evanescente. Il ritratto di un desiderio? Desiderio di vedere e ricordare. Niente attira lo sguardo come una porta vuota e lo spiazzo antistante tutto spelacchiato. Fotografo di simmetrie, Antonino Costa non solo guarda, ma immagina. Nell’istantanea c’è anche la partita che hanno giocato i ragazzini qualche momento prima e quella che giocheranno dopo. Tutto continua. 

 

Allo stesso modo la pensilina del tram con le sue luci crepuscolari. 

 Scrive il fotografo: “Ero partito con l’idea di fotografare gente e ho finito col guardare i vuoti”. Gli piacciono i vuoti, non meno delle persone. Dipende dai momenti, perché il “Fotogiornale” è anche un diario di stati d’animo. Di chi? Di Costa o della periferia? Lui, il fotografo, si è messo in ascolto. Ha teso l’orecchio, perché questo vuoto che c’è nella foto è prima di tutto auditivo: lo spazio vuoto si sente. 

Il lavandino nel gabinetto del bar, probabilmente lo scatto di questo album che preferisco. Per l’inquadratura, certo; per l’oggetto ritratto, per la sua forma. Tutto questo insieme. Per l’acqua che esce dal rubinetto. Squallore, desolazione, ma anche vita. L’acqua che scorre è vita. Costa coglie lo spazio che sta “tra”: tra l’abbandono e la vita, tra il vuoto e il pieno, tra ciò che è stato e ciò che forse sarà. È un fotografo d’interstizi.

 

Passeggiando vede la mantide religiosa. Un’apparizione. Gli déi non se sono andati. Uno di loro, di colore verde acceso, è lì sull’asfalto della strada. Dietro, un passante. Come a dire: tutto questo è reale, non è un sogno o una visione. 

La ragazza ci guarda con intensità. Cosa chiede? Non è facile dirlo. Anche lei è un’apparizione. Possiede la bellezza dell’improvviso, dell’imprevisto, dell’inatteso. La bellezza dell’asino: le mani congiunte, il cinturino dell’orologio, i seni, le spalle, i capelli, gli occhi. Una divinità della periferia. Potenza dell’apparire. Lo sguardo di Costa è aperto anche a questo. Sono istanti di rivelazione. Basta inquadrare una ragazza seduta davanti a casa, in via Boffalora. Nessuno può mai prevedere cosa incontrerà: un muro, delle auto in sosta, un cespuglio in fiore. Tutto appare, tutto è sereno. 

Infine, la casa, quella dove Antonino ha abitato, fotografata due volte. La seconda con la neve. Una spruzzata bianca sul prato antistante, da cui spuntano i ciuffi delle erbe spontanee. Laggiù in fondo vedo qualcosa che conosco già. Una casa di ringhiera, come tante altre. Qualcosa che c’è.

 

Antonino Costa ha fotografato Milano come non la si fotografava da anni. L’ha ritratta in rapporto a se stesso, così come appare, non così com’è. L’ha colta nel momento in cui finisce, e non è più. Nel suo sguardo non c’è nessuna malinconia, nessun rimpianto, solo una grande pietà per ogni cosa, così come si presenta. Nessun luogo o nessuna persona è in qui in posa. Tutto è colto nel corso del tempo che passa. Forse Costa ha fotografato una cosa sola: il tempo che passa; tempo scandito dalle lancette dei secondi, come in una vecchia sveglia che avanza a scatti, ed eternamente si ripete. Il tempo va e torna. Qui, in queste immagini, gira in tondo. Torna su se stesso, non avanza. Sentiamo il ticchettio reiterato della lancetta. 

Il tempo si è esaurito lì sul bordo della città, eppure ricomincia ancora. Basterebbe andare là, in via Boffalora, e constatarlo di persona. Antonino Costa c’è stato, l’ha guardato e l’ha ritratto.

 

La mostra di Antonino Costa si apre oggi alle ore 18.00 e termina il 31 maggio presso la Galleria Lorenzo Vatalaro in Piazza S. Simpliciano, Milano.

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Una mostra fotografica di Antonino Costa

Pavese una lontana amicizia

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“So che cercò al telefono altri amici, credo anche Felice Balbo, ma era un agosto tremendo, caldissimo, e chi poteva scappava in montagna, andava al Plateau Rosà oppure in Valle d'Aosta o al mare. Erano tutti in vacanza. E anche lui decise di partire. Aveva solo 42 anni.” Queste sono le ultime righe di Al santuario con Pavese (EDB 2016), firmato da Franco Ferrarotti. E rappresentano l'inevitabile punto di caduta per lettori appassionati, studiosi e, tanto più, per gli amici dello scrittore di Santo Stefano Belbo. Ferrarotti racconta nei primi capitoli, dove la propria biografia viaggia in parallelo a quella di Pavese, l'incontro tra un men che ventenne e un uomo fatto, trasformatosi presto, misteriosamente, in amicizia, forse per la comune ascendenza contadina che li faceva un po' estranei alla città, Torino.

 

Nella quale, a guerra finita, cominciarono a tradurre per Einaudi – ma Pavese già aveva fatto Moby Dick con Frassinelli; Ferrarotti testi saggistici su cui i due si confrontavano nel “culto del termine esatto” (p. 20), tra i quali Theory of the leisure class di Veblen nel'49, apertura di una prossima carriera accademica. C'è molto all'inizio della vita giovanile e randagia dell'autore, ora a Parigi ora a Londra quindi presso Adriano Olivetti, come poi molte le citazioni dei propri scritti; proseguendo si torna sul reticolo di nodi problematici che avvolgono la “quieta, riflessiva disperazione” di Pavese “verso il tragico approdo finale” (p, 87). Sostanzialmente tre: sempre in rapporto con le donne, con la Resistenza e di seguito con il clima politico-culturale del dopoguerra.  

 

Sul primo tema Ferrarotti polemizza soprattutto con Segre per evitare ogni riduzionismo intimista, notando efficacemente come il terrore per il fallimento rimandi “a questioni più profonde: la finitudine umana, la brevità quasi insignificante del nostro passaggio su questa terra, l'inerme, nuda debolezza di fronte all'imperscrutabile universo e all'inesorabile impersonalità dei processi naturali” p.(67). Forse più difficile da smontare la misoginia di Pavese con il solo argomento del troppo esibito per essere vero; mentre fine e quasi struggente la conclusione “è mancata un'amante materna” (p. 69). Davvero cruciali gli anni '43-5, quelli ritratti ne La casa in collina, pubblicato nel 1948, che rappresenta il capostipite esplicito di una certa letteratura della zona grigia, del resto piuttosto larga tra gli intellettuali italiani, tormentata ma anche felice, come aveva ben ricostruito Raffaele Liucci con Spettatori di un naufragio (Einaudi 2011).

 

Ferrarotti gira attorno al disimpegno o al nascondimento offrendo spunti interessanti (“Pavese mi sembrava passare da un complesso di colpa all'altro, dall'inerzia logicamente inspiegabile durante la Resistenza alla chiara insofferenza per la disciplina interna del Partito comunista” p.(31), senza tuttavia affondare in modo risolutivo, e quasi così arrendendosi al “carattere oscuro e addirittura, in taluni passaggi, labirintico” (p. 50) dell'uomo. Più circostanziata la continuazione dell'“apparente disinteresse per le situazioni politiche” (p. 24), che transita da un antifascismo poco militante all'eterodossia successiva, nonostante la pronta iscrizione nel'46 al P.C. A fronte degli intellettuali “pronti a turare i buchi dell'universo con i loro berretti da notte” (p.47), sta la profonda radice langarola, contro lo storicismo crociano e marxista dei bigotti del laicismo, come li definisce l'autore, stanno gli interessi per il mistero di Dio e i rovelli sul sacro, l'attenzione per i racconti metastorici, gli archetipi e alla mitologia (da cui la celebre collana viola e i Dialoghi con Leucò che stavano sul tavolino dell'hotel Roma), fonti tutte di “risposte criptiche alle pulsioni profonde che costituiscono l'uomo in società” (p. 49). Di qui la solitudine e la sostanziale incomprensione dell'epoca registrata da Ferrarotti con piglio polemico (anche verso il ragazzo mai cresciuto tratteggiato dalla Ginzburg), che secondo lui continua ancora oggi per esempio con le idee di fuga letteraria dalla realtà, cui viene opposta la formula di “realismo onirico”.

 

 

Insieme all'accerchiamento di uno scrittore così chiuso a riccio, nonostante l'autoanalisi del Mestiere di vivere, proprio la vivacità della pagina e gli scatti umorali (anche se a volte un po' prevedibili nei bersagli: la civiltà delle macchine, l'interiorità messa in pubblico sui social network etc.), mescolati agli aneddoti di prima mano, rappresentano il meglio del libro. Come quello, quasi kafkiano ed emblematico, della sorella di Pavese, che lavorava in tabaccheria e scostando una tendina, a mo' di sipario, esibiva lo scrittore con rivelazione enigmatica. 

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I novant'anni di Franco Ferrarotti

Walker Evans. Italia

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Un mondo che c’è ancora, il passato sempre vivo, il documento e il ricordo; ragioni di cui la fotografia si è sempre fatta carico, ma qui qualcosa è diverso. Qui, l’occhio è alle prese con una semplicità quasi austera, con la neutralizzazione di ogni intento idealista o anche solo commovente. Questi sono sguardi che si scambiano, in silenzio, e tuttavia dicono molto.

 

Lucille Burroughs, daughter a cotton sharecropper Hale County Alabama 1936, Collezione Marco Antonetto. 

 

Se volessimo guardarci, anche solo per gioco, dall’assumere il significato di ogni parola come dato, dovremmo considerare, per esempio, che il senso originario della “crisi” (dal verbo greco κρίνω: “separare, decidere”) non si riferisce a un baratro, che spartisca la terra aprendosi sotto i nostri piedi ma, piuttosto, a un nuovo orizzonte, che scardina la continuità e vi traccia un sentiero improvviso, imprevisto. Crisi, allora, sarebbe soltanto il futuro che disattende le nostre aspettative e diventa qualcos’altro, non necessariamente peggiore. D’altro canto, vallo a raccontare a chi nella crisi ci ha perso il lavoro. In quella attuale, che dura dal 2008, o in quella che iniziò dal crollo di Wall Street del 1929 e prese il nome di Grande Depressione. I volti e i luoghi di quel cataclisma sociale divennero il ritratto di un’America mai esistita prima e, perciò, inimmaginabile e a raccoglierli fu Walker Evans, che a Wall Street ci aveva lavorato, fino al ’29.

Certamente, il Walker poco più che ventenne che abitava e lavorava a New York, dopo aver atteso a buoni studi superiori nel Massachusetts e aver trascorso un anno a Parigi, non poteva sospettare che, proprio attraverso quel drammatico scambio, si sarebbe presentato il suo futuro. Un futuro – Evans sognava di fare lo scrittore e fotografava solo dal 1928 – segnato dalla crisi, quella che affondò gli Stati Uniti e che spinse la Farm Security Administration a dare a lui l’incarico di raccontarla attraverso i suoi scatti, dal 1935 al ’38. È in quell’anno che il MoMA scelse il suo lavoro quale soggetto della prima mostra che il museo abbia mai dedicato a un singolo fotografo. Walker Evans: American Photographs e l’omonimo catalogo tracciarono un altro futuro, e stavolta non solo per Walker, ma per la storia della fotografia.

 

Minstrel poster in Alabama town 1936, collezione Giovanna Calvenzi. 

 

E di quella italiana, in particolare. Per loro stessa ammissione, i grandi fotografi che, a loro volta, hanno impresso una decisiva svolta alla tradizione del nostro Paese e hanno marchiato in modo indelebile la strada stilistica dei loro successori, furono influenzati e indirizzati dal lascito di Evans. Mimmo Jodice, Guido Guidi, Olivo Barbieri, Luigi Ghirri, Gabriele Basilico si lasciarono volentieri ispirare dal grande artista americano. Questo orizzonte nuovo, questa onda lunga che si stende dagli anni ’30 e attraversa tre quarti di secolo e un oceano, è il generatore da cui scaturisce Walker Evans. Italia, esposizione curata da Laura Gasparini e allestita nella splendida cornice di Palazzo Magnani, a Reggio Emilia, per essere uno degli eventi di punta dell’edizione 2016 di Fotografia Europea.

 

 

Main street faces 1935. 

 

Quelle case tutte uguali e così singolari, quei distretti urbani dal sentimento insieme immarcescibile e troppo fragile, l’espressione di un territorio che si scontra con la vanità di cui per decenni si è ornato di buon grado; e poi i volti, la fierezza e l’onore delle ferite. L’opera di Evans, nelle parole di Luigi Ghirri, «è tra le poche del Novecento che lascia agli spazi, agli oggetti, ai paesaggi, il compito di rivelarsi al nostro sguardo, con una riservatezza, una dignità, prima sconosciute».

Si fatica, per quanto ci si sforzi, a vedere nelle opere esposte soltanto il racconto di un mondo ormai antico, passato. Le fotografie, provenienti da collezioni pubbliche (il Centro Studi e Archivio della Comunicazione – CSAC dell’Università di Parma, la Galleria Civica di Modena) e private (la Fondazione Mast di Bologna, la collezione di Giovanna Calvenzi e quella di Gabriele Basilico) emanano un afflato di eccezionale contemporaneità.

 

View of Morgantown, west Virginia 1935. 

 

In effetti, l’intera operazione costituita dalla mostra mette lo spettatore alla prova del tempo in quanto realtà multidimensionale e fatta di rinvii, di rimandi, di ritorni e anche di balzi in avanti, di precessioni. Si percorre un ponte gettato tra lo sguardo di Evans, figlio e testimone delle strade americane, e la percezione degli Stati Uniti che si aveva in Italia, passando per il desiderio presto materializzato di guardare al nostro Paese in modo analogo e, in un riavvolgimento complessivo, rivedendo le fotografie iniziali sotto una nuova luce. Ci si accorge, così, che il germe del futuro, che quelle stesse immagini inocularono, torna a infondervi interpretazioni nuove e ad alimentarle di altre visioni e si finisce per vedere in esse quello stesso futuro anticipato, anteriore. Si cammina per le stanze allestite e si avverte forte quella sensazione, potenza di cui solo la grande fotografia dispone, di star avanzando verso il futuro rivolgendogli le spalle (non immuni da un’impressione sublime, mista di fascinazione e di terrore per quella catastrofe prospettata da Benjamin a proposito dell’Angelus Novus di Klee).

 

st Street between 1st and 3rd avenues New York. 

 

Da questo punto di vista si rivela un prezioso supporto il catalogo, edito da SilvanaEditoriale e curato anch’esso da Laura Gasparini, che raccoglie le parole che completano l’essenza di Walker Evans. Italia e ne regalano la più felice tra le prospettive ermeneutiche. Oltre ai testi che recano le firme della curatrice, di Walter Guadagnini, di Paolo Barbaro e di Giovanna Calvenzi, risultano particolarmente significative le pagine in cui Basilico, Ghirri, Barbieri e Guidi (gli ultimi due in conversazione con Gasparini) raccontano il “loro” Walker Evans. Si tratta, del resto, di un’esposizione che trova una grossa parte della sua ragion d’essere nel cosmo bibliografico, non fosse altro per il fatto che numerosi libri ed edizioni rare, raccolti dai maestri già citati, trovano spazio nelle sale grazie a un sapiente allestimento.

 

 

Luigi Ghirri, Roma 1978. Collezione eredi di Luigi Ghirri. Reggio Emilia, biblioteca Panizzi. 

 

A chiudere l’evoluzione concettualmente acrobatica del progetto, concepito per essere non tanto una lezione quanto un dialogo senza soluzione di continuità, non potevano che essere le opere fotografiche con cui L’eredità italiana fece Omaggio a Walker Evans. Vedremo allora gli esiti della conversazione che la grande scuola italiana intessé con il pensiero per immagini del grande maestro americano. E percepiremo, un attimo prima di uscire, che la direzione stessa di molta fotografia odierna (Fotografia Europea 2016 pone questo aspetto in forte evidenza) sembra segnata da quel futuro critico ormai (non) passato e appare, anch’essa, procedere nel suo solco, spalle in avanti.

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A Reggio Emilia: edizione 2016 di Fotografia Europea

Battlefield, una meditazione in forma di fiaba

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In un raccontino hassidico due amici parlano insieme e uno chiede all’altro: “Ma come sarà il mondo dopo la venuta del Messia?” E il secondo gli risponde: “Sarà come è adesso, noi parleremo qui, il bambino dormirà di là nella stanza, tutto sarà come è ora, soltanto un po’ diverso”. Forse questo scarto leggero, quasi inavvertibile, e tuttavia decisivo, con cui un mondo traspare da un altro, è quel che più rimane impresso nello spettatore di Battlefield, lo spettacolo con cui Peter Brook e assieme a lui il drammaturgo Jean-Claude Carrière e la co-regista Marie Helène Estienne sono tornati sul Mahabharata. Non si spiega altrimenti la profonda sensazione di pace che qualcuno confessa di aver provato davanti a quella che tuttavia gli sembrava una semplice recita che del teatro smorzava i rumori più animosi, smussandone i rilievi, a cominciare da un tono in cui l’interpretazione e la narrazione si sospendono a vicenda: è poca cosa questo Brook, anzi no, a pensarci bene, è tutto. È il mare di fango e di sangue in cui la terra è stata trasformata dalla disastrosa battaglia finale tra i fratelli Pandavas e i cugini Auravas per il possesso di una città che poi il Gange spazzerà via, anche se di questa catastrofe sulla scena non si vede nulla – è talmente immane che solo nella parola ha lasciato un segno. 

 

Tre uomini e una donna che parlano, alcuni bastoni appoggiati alla parete di fondo, un percussionista giapponese, Toshi Tsuchitori, che siede sulla destra del proscenio con il suo tamburo tra le gambe, un po’ in disparte come un testimone. Non la musica, ma solo una parte di essa, il rythmos. Pochi colori, quelli dei mantelli e degli scialli, il rosso e il giallo, essenze vivide e accese dalle luci di Philippe Vialatte come in un quadro di Rosso Fiorentino. La rigorosa economia di un regista che ha inflitto il colpo di grazia al teatro come opera d’arte totale e sommatoria di altre discipline artistiche ma che in nessun altro spettacolo, nemmeno in quelli che accompagnano la sua lenta uscita di scena, è apparsa altrettanto radicale, altrettanto nuda. Eppure è dal poco di una messinscena visibilmente concentrata su ciò che resta, su ciò che viene dopo – dopo la catastrofe, dopo il Mahabharata di cui ha scontornato un episodio, persino dopo il teatro di cui Brook, come suggerisce Massimiliano Civica, mantiene soltanto la punteggiatura – che si srotola un vertiginoso intarsio di storie che contengono altre storie. 

 

Foto di Caroline Moreau. Jared McNeill, Sean O’Callaghan, Ery Nzaramba, Carole Karemera. 

 

Battlefieldè una meditazione che gli attori passano agli spettatori sotto forma di fiaba, mettendoli di fatto nella stessa condizione in cui i bambini indiani ricevono il Mahabharata, oralmente, da un narratore (come Brook e Carrière la ricevettero una prima volta, nel giro di alcune notti, dal racconto di Philippe Lavastine). E ogni gesto di Carole Karemera, Jared McNeill, Ezry Nzaramba e Sean O’ Callaghan, prende le misure in questa offerta cerimoniale: sobrio, lieve, elegante (di un’eleganza organica, che i corpi sembrano aver ingerito come un farmaco), con punte di humour che di tanto in tanto attraversa placidamente la quarta parete per liberare nel pubblico il respiro di una risata aperta, finalmente priva di cinismo – si ride, pensate un po’, per un verme che parla e dice di trovare anche lui i suoi “piaceri nella vita”, si ride di paradossi metafisici che di colpo acquisiscono l’arguzia dei proverbi, si ride perché siamo in quella dimensione che la tradizione ebraica definisce aggadah dove la favola è la verità, ma nella forma dell’oblio, e lo scherzo pesa quanto il pensiero.

 

Leggeri per profondità, come avrebbe detto Nietzsche, e tuttavia restando nel cuore di una tragedia cosmica, anzi sprofondandoci dentro sempre di più, come quell’uomo che alla fine dello spettacolo entra nel ventre di un bambino e ci scopre l’infinito.

Non stupisce che il regista britannico abbia dichiarato che gli spettatori ideali del suo spettacolo sono persone come Obama, Putin e altri grandi della terra: ambientato tra le rovine invisibili di una guerra totale, Battlefield racconta di prìncipi che non vogliono governare (proprio come Arjuna che poco prima della battaglia si chiede “perché combattere?”), di re che al potere preferiscono la solitudine, di madri torturate dal rimorso di aver abbandonato un figlio. De te fabula narratur, racconta che l’unica azione possibile non è quella che agisce nel potere, ma quella che sospende la rinuncia ad agire una volta scoperta la propria impotenza. 

 

Attratto nel cerchio del racconto, scavalcando persino la barriera architettonica del palcoscenico all’italiana, lo spettatore non ha neanche il tempo di registrare tutte le risonanze che si sprigionano tra le figure di un’epopea che cominciò a vedere la luce quattro secoli prima di Cristo, ne è colpito, come da un’aria di famiglia. Forse è per via di Sean O Callaghan, potente attore irlandese perfettamente a suo agio nei panni di un nobile indù, che una livida luce shakespeariana illumina la storia del re che, disgustato dal male che ha generato, volta le spalle agli onori per ritirarsi nella foresta e vivere come un’asceta. Se ne va come Lear, ma è cieco come Edipo (o Gloucester, o Tiresia, e in genere, tutti coloro che hanno ottenuto in dono una seconda vista).

 

Foto di Caroline Moreau. Jared McNeill, Carole Karemera, Ery Nzaramba. 

 

Ed è la suggestione che lega insieme i miti, a farci sobbalzare quando veniamo a sapere che la principessa interpretata da Carole Karemera concepì un figlio dal sole e lo consegnò alle acque, come Mosé. Duryodana, il figlio rifiutato, era in realtà il fratello di Yudhisitra, principe vittorioso e sopravvissuto, perché è sempre tra fratelli che ci si uccide, ora è un guerriero maledetto che, come nell’Antigone, va seppellito. In una delle immagini culminanti del racconto, il vecchio re e la principessa che si sono esiliati nella foresta vedono attraverso il fuoco le schiere di guerrieri morti entrare nel cielo, e li riconoscono uno a uno: è quell’ingresso di anime in paradiso, quella ricapitolazione finale, che nella teologia cristiana prende il nome di apocatastasi.

 

Echi, coincidenze, somiglianze che si possono tranquillamente mettere sul conto di Carrière e di Brook-Estienne come corsivi intenzionali del loro lavoro di traduzione. O semplicemente, ci si può dire con Grotowski che “ciò che umano trova analogie ovunque”. Il sortilegio che li fa apparire è lo stesso che rapidamente li cancella, perché questa cerimonia è pur sempre un gioco. La sua principale magia anzi consiste nel mostrare apertamente l’artigianato che la costruisce; così in Battlefield, gli animali parlano, come nella Conferenza degli uccelli che Carrière trasse da uno dei più famosi poemi sufi per un altro spettacolo di Brook, ma non c’è nessuna maschera di animale in scena: il verme che vorrebbe attraversare la strada prima dell’arrivo del carro è uno scialle rosso che viene lentamente arrotolato usando un piede e un bastone; il falco che sfida il re è la testa della Karemera che, strabuzzando gli occhi, si appoggia con il mento a un’asta. Krishna appare come vuole e quando vuole, per entrare nel corpo di qualcuno gli basta indossare il suo mantello. Niente è nascosto, tranne, magistralmente, l’arte, che trasalisce in lievi, precisi tocchi da pennello zen.

 

Finché nel finale da una delle classiche sospensioni brookiane – che fa tornare alla mente il bacio che suggellava un suo Grande inquisitore di alcuni anni fa – scaturisce un’impressionante fermo immagine degli attori seduti uno accanto all’altro, dove niente si muove, ma tutto vibra, come se l’eterno fosse appena trapassato nel tempo. La risposta all’ultima, fondamentale, domanda è un nome mormorato all’orecchio che nessuno sente, ma che pure viene pronunciato. L’ultimo teatro del novantunenne Peter Brook, il suo teatro testamentario si mette veramente, come scrisse Georges Banu all’epoca di Un flauto magico, sotto il segno dell’evanescenza del Prospero shakespeariano. Ma quale atto, finalmente, è più magico di quello con cui la magia rinuncia al proprio potere e restituisce al mondo il suo incanto? “Tutto sarà come è ora, solo un po’ diverso”.     

 

 

Dopo le recite al teatro Argentina di Roma e alla Pergola di Firenze Battlefield si può ancora vedere allo Storchi di Modena il 29 e il 30 maggio alle 21.

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L’ultimo Mahabharata di Peter Brook

Goldkorn. Il bambino nella neve

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La zia Nachcia, sua madre e la figlioletta Rut furono deportate assieme, ad Auschwitz. Nachcia teneva Rut tra le braccia. Quando scesero dal treno la madre capì tutto. Aveva un aspetto giovanile e dimostrava meno dei suoi anni. Così disse a Nachcia: “Dammi la bambina”. Pensava di farsi passare per la madre di Rut. “Va avanti da sola, ti salverai. Io vado con la bambina: penseranno che sia io la madre”. Nachcia rispose: “Non è un mondo degno di essere vissuto. Non è un mondo degno di me”. E andò nella camera a gas con Rut tra le braccia… Questo racconta il giornalista polacco-italiano Włodek Goldkorn, figlio di ebrei sopravvissuti alla Shoah, nel suo straordinario libro Il bambino nella neve (Feltrinelli).

 

Bisogna e si deve raccontare l’irraccontabile. “La vendetta è il racconto”, sosteneva Pier Vincenzo Mengaldo, nel suo acuto libro (Bollati Boringhieri, 2007) dedicato alle testimonianze e riflessioni sulla Shoah: un evento che ci sovrasta ancora e ci mette di fronte, con Macbeth, a una storia “piena di frastuono e di furore, che non significa nulla”. Si ha a che fare con qualcosa che costituisce una rottura epistemologica e ontologica ed è l’assenza stessa della parola, della spiegazione, del perché. La Shoah, “uno strepito abitato dall’inumano”, non ha nulla di metafisico e non era l’inevitabile conclusione della storia. Non si può dare un senso a una morte che non ha avuto senso né ragione: una morte causata dall’irrimediabile idiozia dei carnefici convinti che annientando gli ebrei il mondo sarebbe stato migliore. 

 

La Shoah, dice Goldkorn, è solo un vuoto. Cercare di riempirlo con presunti significati positivi e con un messaggio di speranza è peggio dell’angoscia: è il rifiuto di capire quanto il Male sia radicato dentro di noi. E allora, narrare cosa accadde non è soltanto una testimonianza, contro coloro che avrebbero voluto nascondere e cancellare i crimini, ma anche un doloroso sforzo di mostrare la controversa natura del Male, con la speranza, come diceva Primo Levi, di insegnare a riconoscerlo quando si dovesse ripresentare. 

Oggi la gran parte dei sopravvissuti e dei testimoni diretti della Shoah è scomparsa. Ci sono i loro figli e nipoti, nati e cresciuti dopo, e un grande problema con la Memoria. Włodek Goldkorn che, essendo nato negli anni Cinquanta, appartiene alla “seconda generazione della Shoah” è convinto che “la memoria è solo il nulla su cui cerchiamo di strutturare la nostra identità. Ed è un bene che sia così. Altrimenti non avrei potuto vivere e amare le persone vive. Il desiderio ha come premessa l’oblio.” Goldkorn lavora spietatamente sulla memoria, tirandola a fatica fuori da sé, lottandoci contro, ma alla fine rendendola viva: “La memoria dei ghetti e dei campi teatro della Shoah non serve a niente se non a promuovere e difendere, ovunque e nel concreto, le istanze di emancipazione. È comodo pensare di essere vittime e poi pranzare in famiglia, leggere libri, scrivere sui giornali, fare viaggi esotici. Non sono vittima, ma soggetto della storia.

 

Le vittime sono solo i morti. Noi, i viventi, dobbiamo essere giudicati per le nostre azioni, non per il passato dei nostri genitori o per il modo in cui morirono i nostri nonni, le nostre zie, i nostri cugini. (…) Per me la memoria della Shoah significa saper parlare e trasmettere agli altri il linguaggio della ribellione, della radicale contestazione delle verità del potere. Altrimenti quella memoria non esiste: si riduce a un esercizio di vuota retorica, un cerimoniale che non serve a niente; a un rituale “mai più” che non diceva nulla a nessuno e niente può dire”. Questa è una novità: un passo oltre nella strada indicata da Primo Levi nel suo testamento I sommersi e i salvati (Einaudi, 1986).

 

Il messaggio radicale e innovativo del libro di Goldkorn non rinuncia però alla “vendetta del racconto”. Anzi, la narrazione di tante storie famigliari e collettive è tutt’uno con le profonde e tormentate riflessioni. Dalle une scaturiscono le altre, e viceversa. Il Goldkorn narratore fa appello a una memoria che è per molti versi tutta immaginazione. Egli fa i conti non soltanto con ciò che accadde ai suoi parenti (la nonna materna Taube, la zia Nacha, la cugina Rut, e Srulik e Yokheved, Róźka, Hela, Tola e il piccolo Uszerek furono uccisi ad Auschwitz), ma racconta anche: l’esilio in Kazakistan dei suoi genitori, durante la guerra; il loro ritorno in patria per costruire, nelle loro speranze, una Polonia socialista e rispettosa delle minoranze; i massacri degli ebrei sopravvissuti (“molti ebrei, finita la guerra, vennero uccisi per non dover restituire un piumone…”); l’impegno del padre per tenere viva la cultura yiddish e per far la guardia alle tombe dei propri parenti e del proprio popolo in terra polacca; la giovinezza nella città ex tedesca di Katowice, dove i figli degli ebrei e comunisti giocavano, invece che a guardie e ladri, “ad Auschwitz”; le delusioni politiche e il trasferimento della famiglia a Varsavia; la campagna antisemita del regime comunista nel 1968 e la decisione forzata dei Goldkorn di lasciare la propria patria e trasferirsi in Israele, attraverso Vienna; le difficoltà di ambientamento a Tel Aviv; il traumatico servizio militare (l’episodio del diverbio con l’ufficiale, alle pagine 110-113, è un grande pezzo di letteratura) e la fuga a Francoforte.

 

Ma anche da lì Włodek se ne andrà presto (“la Germania non faceva per me”) per trasferirsi definitivamente in Italia: “pensai che se era condannato a non avere una casa, avrei vissuto nel paese più bello del mondo”. 

Nel racconto è centrale la figura dei genitori, e un’idea particolarmente forte di famiglia. Come spiegò disperatamente il padre Goldkorn, durante la guerra e l’esilio in Unione sovietica, a un funzionario kazako che non voleva aiutarlo a salvare sua moglie gravemente ammalata: “Noi ebrei siamo gente strana, che voi kazaki non riuscite a comprendere. Per noi la famiglia è tutto. Per la famiglia siamo disposti a uccidere e morire”. Una famiglia che poi si rafforzerà nei suoi legami “perché quando il proprio mondo è scomparso rimangono soltanto gli affetti”. Un padre e una madre che a tavola parlavano sempre di politica e trasmettevano valori basati sul mettersi sempre nei panni dell’altro: “sono stato fortunato a crescere in una famiglia in cui il rancore, l’odio, l’idea di vendetta erano inconcepibili”. I genitori erano reticenti sulla Shoah e non raccontavano ai figli tutto quello era successo: “perché dire tutto avrebbe significato per i nostri genitori abbandonarsi al senso della vergogna.

 

E la vergogna è il sentimento della morte. La vergogna è la morte senza lutto e quindi una memoria senza possibilità di oblio”. Una famiglia profondamente legata alla Polonia (almeno fino al 1968) che si identificava nella cultura e nella bandiera polacca ed era contraria agli ideali sionisti: “In Israele abbiamo parenti e ci abitano gli ebrei, per cui è uno Stato che ci è caro, ma la nostra patria è la Polonia, e non abbiamo altra bandiera che quella polacca”. 

Grazie anche a questa educazione, nonostante l’esilio, Goldkorn riscoprirà la Polonia: “Decisi di essere polacco pochi anni dopo che le autorità di quel paese mi privarono della cittadinanza. Lo decisi perché altrimenti, accettando la mia estraneità al mio paese natio, mi sarei rassegnato a essere vittima. Così feci quello che avrei fatto se fossi rimasto in Polonia: allacciai contatti con l’opposizione democratica e mi misi al servizio dei suoi militanti”. C’è sempre, in questa famiglia, la ferma volontà di non abbandonarsi alla vergogna e la dignità di non sentirsi, e apparire, vittime (forse, in questo atteggiamento, un po’ l’educazione comunista c’entra). Ma Goldkorn ha anche l’onestà di riconoscere la propria condizione, nonostante tutto, di “privilegiato”: “Sono emigrato in vagone letto, la mia vita in Occidente non è stata una storia di stenti né fame”. Eppure, su questo distacco, un dubbio aperto gli rimane. Alla fine si chiede: “Davvero non sono, non siamo, vittime? Davvero il ricordo di Auschwitz, la memoria della Shoah, l’esilio dalla Polonia non mi hanno reso vittima, malgrado tutti i miei sforzi?”.

 

Il bambino nella neveè un libro strano, difficilmente catalogabile (e infatti la casa editrice lo ha collocato nella collana “Varia”; io lo avrei inserito nei “Narratori”) . Strutturalmente è diviso in due parti diverse. La prima, il racconto autobiografico, potrebbe terminare a pagina 115 con l’arrivo dell’io narrante in Italia. Poi c’è, apparentemente, un intermezzo, assai importante per dare un senso al racconto di memoria e introdurre, con una chiave di lettura forte, quello che verrà dopo. 

   Proprio in Italia, Goldkorn racconta di aver sentito parlare per la prima volta dell’eroico comandante, sopravvissuto alla rivolta del ghetto di Varsavia (aprile 1943), Marek Edelman (del quale curerà il libro intervista, assieme a Rudi Assuntino: Il guardiano. Marek Edelman racconta, Sellerio 1998, 2016): “Fino ad allora i combattenti del ghetto di Varsavia facevano parte del mio immaginario, ma in quanto morti, eroicamente”. Edelman, che dopo la guerra è voluto rimanere in Polonia, facendo il cardiologo a Łódź, è stato il continuatore delle idee del Bund (il movimento socialista ebraico) e ha regalato la sua biografia e il prestigio che ne poteva derivare a chi lottava per un futuro migliore e per la libertà, in Polonia ma anche all’estero. Per Włodek Goldkorn è stato, con il suo esempio di vita e azione politica e con le sue affermazioni spiazzanti, un “maestro di vita”: colui che gli ha dato una chiave per affrontare il problema della memoria della Shoah e dell’ebraismo. 

 

La seconda parte del libro è un viaggio, anche nel senso letterale del termine, ad Auschwitz e Birkenau, e in altri campi di sterminio in terra polacca (Bełżec, Sobibór, Treblinka), accompagnato dalla fotografa Neige De Benedetti (le cui foto aprono ogni capitolo del libro). Nel campo di sterminio di Birkenau diversi suoi famigliari “sono diventati in poche ore cenere e fumo”. Goldkorn ricorda che, nel 1964, suo padre, che faceva anche lui il giornalista, andò ad Auschwitz per seguire un sopralluogo dei giudici della Corte di Francoforte. Mentre camminavano in mezzo al fango, vi scorse un libro di preghiere per donne. Lo prese e lo ripulì, e vide nella pagina aperta la preghiera dei morti. In quell’istante immaginò, anzi ebbe la certezza, che quel libro fosse appartenuto a sua madre, che pregava mentre veniva condotta alla camera a gas. Il trauma fu tale che svenne. 

 

Il campo-museo di Auschwitz, ben diverso da Birkenau e dagli altri campi di sterminio che visita, pare a Goldkorn una “fantasmagorica costruzione posticcia”, una sorta di museo degli orrori. Non trova Memoria in quelle baracche e in quegli oggetti: “molto orrore e poca riflessione”. Il museo non aiuta a immaginare la vera realtà di quei luoghi, che erano essenzialmente morte, violenza, sangue, fango, pidocchi, merda, liquami… Da una visita là, oggi non se ne può trarre nessun “insegnamento”. Anzi: “noi tutti versiamo una lacrima pietosa quando pensiamo a quegli ebrei che, se oggi fossero tra di noi, in mezzo alle nostre piazze o all’assalto delle nostre frontiere, li tratteremmo da rom o clandestini e musulmani; noi tutti ci commuoviamo per la loro sorte, perché la consapevolezza che sono morti provoca una specie di catarsi”.

 

Invece Primo Levi, sostiene Goldkorn, potè raccontare efficacemente Auschwitz proprio perché, in qualche modo, ne è rimasto estraneo. La fabbrica chimica della Buna dove lavorò si trovava lontano da Auschwitz e anche dal campo di sterminio di Birkenau. Levi era un borghese torinese e laico che “guardava con apparente distacco quella gente dell’Est che parlava una lingua a lui poco comprensibile: li osservava quasi come l’oggetto di studio di uno scienziato positivista”. Ma proprio questa “distanza” fisica e culturale gli permise di raccontare l’irraccontabile. Levi, come ha sostenuto più volte Marco Belpoliti (cfr.Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda 2015), è stato un grande scrittore della Shoah, non tanto un testimone. Testimoni ce ne sono stati diversi (tutti importantissimi!), ma di scrittori come Primo Levi, o Tadeusz Borowski, assai pochi. Quello che essi hanno immaginato e narrato di Auschwitz è letteratura (il che non significa che non sia vero!) e ha la forza chiarificatrice che soltanto l’arte della scrittura possiede, anche quando si aiuta con la fantasia. Per questo Włodek Goldkorn, il cui libro è dello stesso tipo di letteratura (un po’ narrativa e un po’ saggio), può affermare: “Io, senza Levi, senza quel suo apparente distacco, di Auschwitz avrei capito molto meno di quanto credo di avere compreso”. 

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Auschwitz e la cura della memoria

A passeggio con Gianni

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Oggi e domani a Reggio Emilia «Dedicato a Gianni Celati»: due giorni di incontri in occasione dell'uscita del Meridiano Mondadori.

 

Estate di venti anni fa. Aspettavo Gianni, alla stazione delle Appulo-Lucane. Nella “littorina” intravvidi una figura allampanata: era lui. Ma scese dalla parte sbagliata; gli andai incontro, incespicò in una rotaia e non ci fossi stato io sarebbe finito steso tra i binari. Sorrise di quell’aiuto provvidenziale. Quel sorriso inerme  mi riportò ai suoi racconti, perché le sue storie erano inermi. E tali sono rimaste, le sue storie, dalla prima all’ultima. Non fanno mai nulla per coinvolgerti. A casa dormì in un letto dove ci andava appena: doveva rannicchiarsi. Mi è sempre piaciuta la sua aria da padre delle stanze che abita e che si sorprende di abitare, così come si sorprende di abitare i racconti che racconta. La sua faccia da padre perennemente stordito da notti insonni e dalla meraviglia di tornare a vedere le cose del mondo. Mia moglie, il mio amore buono, gli friggeva i peperoni secchi (era maestra nel non farli bruciare). Lo chiamava Gianni Gelati. Non aveva mai letto i suoi racconti, neanche uno; ma non aveva letto mai neanche i miei. Era una donna meravigliosamente concreta, allegra, incapace di prendere il sopravvento, tranne quando si stancava di seguire una storia, una qualsiasi conversazione. Allora, come una bambina dispettosa, mandava in frantumi il vaso delle parole, fosse stato l’ultimo racconto sul letto di morte del Padreterno. 

 

Il giorno appresso andammo a Cancellara, un paese a venti minuti da Potenza. Una signora dai capelli bianchi, e con una gentile, dolorosa vaghezza negli occhi, venne ad aprirci la cappella di Santa Caterina. Era lei che custodiva la grossa chiave. Gianni e il suo taccuino. Non ricordo se usava la biro o una matita, ma per me che ho bisogno di spazio a causa della mia grafia storta ed espansiva, vederlo prendere appunti mi riportava al mistero delle parole tolte alla schiavitù della testa. Disse qualcosa degli affreschi del cinquecento, della faccia di Dio, mite e astratta come quella di certi cani, uscì sul terrazzo che dava sulla campagna, preceduto dalla signora della chiave che guardò assieme a lui, e solo per fargli compagnia, il cielo di agosto. Dopo un giro nei vicoli, ci sedemmo su una lunga gradinata che finiva nella piazza del mercato. Mi confessò che aveva in mente di raccontare quello che si dicevano gli italiani nei bar, nei pullman, nei treni. Gli dissi che una sola cosa distingue la gente di un paese da quella di un altro: sono le storie d’amore e di morte di ogni singolo paese. Solo raccontando quelle storie, la gente rivive la parte sognante e terrestre di se stessa. Ricordo che Gianni annuì, e in quel momento un bambino ci passò accanto fischiando. 

 

Quella notte dormì in albergo. Venne a casa presto, facemmo colazione con i biscotti di Maria nel caffelatte. Poi, in macchina, verso il Volturino. A Marsicovetere, una bottega, il pane. Ma quando arrivammo a Tramutola erano le 2, il paese era deserto. Bussai a una casa a pianterreno e una donna sui quarant’anni mi diede un mezzo bicchiere di olio e un po’ di sale. Ci prestò un coltello per tagliare il pane. Quando mi girai, vidi Gianni guardare la donna come si guarda un racconto benevolo o il proprio sonno. Fui io a spartire il pane, a sfregare i pomodori, a versare l’olio. Pranzammo davanti a una antica fontana, sui gradini di una casa disabitata. Poi Gianni si allontanò e io mi appisolai col rumore del ruscello che scorreva accanto alla vasca dove andavano a lavare i panni. Quando mi risvegliai, cercai Gianni e lo trovai non lontano, seduto per terra, con il quadernetto aperto.

 

Tornando a casa, là sulle montagne c’incantammo a guardare una ragazza che ci passò un po’ più sopra la testa col suo parapendio. 

Il primo incontro con Gianni fu a Bologna. Entrò in una libreria e ne uscì con un libro, che mi regalò. Il libro era Giardino, cenere di Kiš. Gli avevo portato dei racconti. Non sopportava più l’università. Gli piacque il racconto della partita di calcio. In quella storia, raccontavo di un mio compagno d’infanzia che si incantava al cinema, al punto che le zoccole gli mangiavano le calze e lui non se ne accorgeva. In trattoria, e, più tardi, per strada, mi cantò le “e” di Leopardi. 

Durante una passeggiata a Napoli, entrò in una libreria e mi donò la sua traduzione del libro di London Il richiamo della foresta. Poi, nel nostro peregrinare, mi raccontò le case.

L’ho ritrovato, dopo tanti anni, leggendo le pagine di Passar la vita a Diol Kadd. Un umanissimo, magico raccontare inerme.

 

Gli ultimi libri di Rocco Brindisi sono: "Elena guarda il mare" (Quiritta), "Il silenzio della neve"(Quiritta), "La figliola  che si fidanzò con un racconto"(Empiria), "Il bambino che viveva in uno specchio"(Diabasis), "La moglie di Youssef gioca con i fiocchi di neve"(Empiria), "Cose"(Empiria). È nato e vive a Potenza, dove racconta storie nelle scuole.

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Oggi a Reggio Emilia «Dedicato a Celati»

Un bizzarro funerale

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“Zechenah Jolanda Aschenazi Valabrega”, ripeteva il Rabbino. La cantilena ebraica lo vincolava a chiamare più volte per nome e cognome, da nubile e maritata, la zia che veniva sepolta. Ma, prima di invocare, con raccapriccio, il nome proprio, s’interrompeva e alzava il mento per rivolgere la barba rosso-iraconda a me, proprio a me, come se fossi io il colpevole: Yoh-lan-dah suona infatti assai male in ebraico. Lui non era in grado di connettere quella cacofonia alla… Figlia del Corsaro Nero, figuriamoci poi alla principessa degli esotici Savoia, la nostra indimenticabile casa regnante alla quale mio nonno, uomo del Risorgimento, era stato fedele, ma era morto nel 1934, prima che diventasse così famigerata.

Il Rabbino comunque, dopo aver qualificato la zia “zechenah”, cioè vecchia – e su questo aveva ragione perché se n’era andata a novantadue anni e la morte in vecchiaia costituisce un merito per il giudaismo, un grande merito, tipo “valoroso caduto per la Patria” – mi si rivolgeva con un ringhio. E io allargavo le braccia sconsolato: “No, il nonno un secondo nome ebraico non lo diede a nessuno dei suoi dieci bambini, non era ancora in uso all’epoca del sogno dell’assimilazione”. 

 

Nel mattino assolato e caldo, nella mesta e dolce tarda primavera della mia Torino del 2000, il Rabbino si era messo addosso un pesante soprabito a scacchi da detective inglese, alla Sherlock Holmes.

Il corteo funebre era composto dai figli della zia, dai vecchi nipoti e dai figli dei nipoti, quasi vecchi anche loro. Una piccola folla, sì, perché dieci erano stati i figli del nonno cent’anni prima. Una quarantina di nomi dunque, a occhio e croce, stretti attorno alla piccolissima bara.

L’ira che il Rabbino non si preoccupava di contenere dipendeva però anche dal corteo funebre: alcuni erano ebrei – quasi certamente – ma la maggior parte no di certo. Quello, in sostanza, era un branco misto e assai poco affidabile: lo capiva, se ne rammaricava e sospettava.

Le papaline che quasi tutti calcavano sui crani calvi o canuti però lo confondevano, e per questo gli mancava il coraggio di andare in giro a chiedere a ognuno: “Scusi, lei per caso sarebbe ebreo?” perfino a quelli che, senza papalina, portavano sul capo un fazzoletto da naso con i nodini agli angoli. Noi israeliti dobbiamo essere nelle funzioni almeno dieci maschi, adulti e in regola con la circoncisione. Almeno dieci per recitare il kaddish, l’indispensabile preghiera dei defunti, quella protesta contro la morte che forse garantisce il passaporto per la rinascita alla fine dei tempi. 

Il suo dramma era doppio. Il primo problema era Isacchino, il suo infido assistente. Quello lì, lo sanno tutti che più che un rabbino era un prete perché malato fin dall’infanzia di carità mezzo cristiana. Quel “prete”, pensava il Rabbino, nella sua frenesia circoncideva virtualmente sul campo i maschi presenti purché a capo coperto, e anzi, forse, qualche papalina l’aveva distribuita proprio lui, di soppiatto. Kippah, non papalina. 

 

Però il Rabbino torto del tutto non aveva. Uno tra i più giovani, un pronipote, era vestito con un body nero attillato che non nascondeva muscoli da Mister America, mentre la kippah si appoggiava oscillante ai capelli a ciuffo, irti in cima al cranio rasato a formare una cresta biondobrunastra. Era anche un po’ trafitto da “piercing” idolatrici, solo alle orecchie però, da quel che si vedeva, perforate appunto da sei orecchini su ambedue i padiglioni, più un grappolo a catenina che pendeva dai lobi. Perfino Isacchino nutriva qualche dubbio sull’ebraicità di quel vecchio ragazzo. Seri dubbi, ma voleva che comunque venisse recitato il kaddish; ci teneva proprio, disposto, al limite, a chiudere un occhio anche di fronte al punk coi piercing. Invece il Rabbino Capo titubava, sospettava malafede, e ne contava comunque nove al massimo, di maschi validi presenti. 

 

Nove più uno, Ugo, che sarebbe stato il decimo, se solo avesse potuto azzardarsi a metter piede dentro il cimitero. Ma non poteva. Era anzi sufficiente che uno di noi dicesse: “C’è anche Ugo che fa dieci” perché il Rabbino interrompesse le preghiere, per gridare: “No, lui no! Lui non può entrare! Fuori di qui!”. E si guardava attorno, con gli occhiacci ittiti, temendo di vederselo lì, accanto al feretro, alla fossa appena scavata con la terra accumulata vicino al bordo. Ugo, poverino, se ne stava invece cheto e disciplinato fuori dal recinto, sogguardando dal cancello con faccia mansueta, un po’ annoiato e anche, come sempre, vergognoso della sua esclusione. 

Vergognoso, no, non avrebbe proprio dovuto esserlo Ugo, perché il suo cognome, in ebraico, è quello della casta superiore e immacolata, i Cohen, che esercitava cerimonie sacrificali e lustrali fino al 70 e. v., fino al giorno dell’incendio dell’alto Tempio di Gerusalemme. Avendo quella tribù un po’ braminica, se mi si passa il termine, presieduto a compiti rituali sacri – interrotti solo per causa di forza maggiore negli ultimi 1900 e passa anni di dopoguerra judaica – nessuno dei Cohanim può avvicinarsi mai, dico mai, alla terribile impurità della morte… Ho inviato questo racconto a numerosi Saggi per non incorrere in errori.

 

Ho ricevuto questa preziosa e-mail da rav Frank Johan Drawings dell’Università ebraica di Dillingham, Alaska (USA): Non è vero che i Cohanim non possono “avvicinarsi mai, dico, mai” ai morti. Possono farlo (e quindi andare al cimitero) per il funerale dei parenti stretti (primo grado). E possono farlo anche nel caso del cosiddetto “met mitzvà”, ossia un defunto che non abbia nessuno che se ne occupi: in questo caso, anche il Cohen ha il dovere di occuparsi della sua sepoltura, pure se il morto è a lui del tutto estraneo. Il rispetto per l’estinto ha infatti la prevalenza”. Si vedrà che della zia Jolanda, da un certo punto in poi, non si occupava più nessuno. E allora, nel nostro caso, Ugo sarebbe, o no, potuto entrare al cimitero, dico io nel mio piccolo? 

 

 

 

L’altro triplice corno del dramma, peggiore di Isacchino, era una sorta di cerimonia privata che il Rabbino vedeva ma non comprendeva e perciò se ne allarmava. S’era formata una coda ordinata di persone che si rivolgevano una a una a Sergino, il figlio minore della zia, per farsi raccontare che cosa era avvenuto nelle ultime ore, brevi, dell’agonia. Sembra che la vecchietta fosse finita catturata da un bellissimo sogno, dovuto al vacillare della vita, ma bellissimo sul serio ugualmente, una specie di sogno che lei aveva rivissuto col figlio mentre lui la stava vegliando. E lui ne faceva adesso, lì al cimitero, puntuale, commossa e stupita relazione a noi in fila per ricevere questa strana “comunione”.

Era cominciato male quel deliquio, stava raccontando Sergio. Dapprima la zia era stata angosciata a lungo dal pianto sconsolato di chissà quale bambino fantasma, poi aveva visto irrompere gli agenti d’ordinanza della morte, le SS e la Gestapo, e aveva sussurrato al figlio, tirandolo a sé per il bavero: “Scappa, scappa, sono di là nel salotto, sono tornati”. Ma poi per fortuna, i fantasmi del passato brutto erano svaniti, anche il bambino s’era chetato, e il delirio si era girato ai fantasmi del passato bello. 

La zia dunque, in quell’ultimo giorno di sua vita, aveva gioito di una grande festa in villa con i nove fratelli morti tornati giovani, e ne aveva riferito al figlio ingiungendogli più e più volte che poi ce la venisse a raccontare. 

 

Zio Guido, diceva, “il più sensibile e fragile”, era arrivato, per la festa nel salone elegante della villa, stazzonato e anche con la necessità urgente di una bella doccia, perché, per una serie di inconvenienti, nel lungo viaggio per arrivare in tempo alla festicciola di famiglia, sembra avesse dovuto dormire sotto i ponti e in qualche fienile. Per forza, dico io, dato che il povero zio dall’Australia arrivava: dall’Australia, da Sydney (New South Wales), dove morì nel 1942. O nel 1943.

 

Toccava a me, l’ultimo della fila: “E la mia mamma? Cos’ha detto? Cos’ha fatto, dopo trent’anni d’assenza a causa della sua, di morte? Che età aveva alla festa?”. 

“Su di lei non mi ha raccontato un granché. Però adesso che ci penso...”

Il sogno narrato si interruppe qui, perché intanto era accaduto qualcosa di sgradevole che, in pratica, sospendeva anche la cerimonia religiosa.

 

Qualcuno, il cui nome conosco ma non riferirò, perché perfino l’imprudenza, l’impudenza e la dabbenaggine debbono essere protette in quest’epoca di dilagante ortodossia e malafede, aveva sussurrato al Rabbino titubante e nervoso, ma non ancora del tutto incontrollabile, gli aveva sibilato all’orecchio: “Guardi che sul mucchio di terra della tomba c’è un osso. Un osso umano”. In quel momento l’officiante era impegnato a sistemare il figlio maggiore della zia, al quale stava stracciando, com’è uso nei lutti ebraici, la camicia. Siccome però Guidino, il fratello maggiore di Sergino, non era praticante e non se ne intendeva per niente di primogeniture e conseguenti riti, aveva indossato, purtroppo, una camicia nuova comprata apposta, che così veniva lacerata, ziiip-strap, sotto i suoi occhi sbalorditi di non credente sprovveduto. “Allora egli si stracciò le vesti e si ricoperse il capo di cenere…” sta scritto un mucchio di volte nella Bibbia: è una fortuna che la cenere non sia rimasta nei riti ebraici, ma sia stata regalata ai cattolici per il loro apposito Mercoledì. Comunque il primogenito se ne stava lì, sotto il sole, a chiedersi quale disgrazia poteva ancora accadergli al funerale di sua mamma.

 

Ho poi appurato quell’osso trattarsi del frammento del bacino di un qualche defunto ignoto, morto molti anni prima, che nel rimescolio dei cimiteri era emerso finalmente alla luce del sole di primavera, dopo chissà quanto tempo e quali umidi viaggi sotterranei. Bastava un velo di terra in più, santocielo!, e quel dissennato di spione, che il suo nome mai venga pronunciato se non fra stretti congiunti, non avrebbe visto né sussurrato alcunché. E invece l’infame sussurrò.

Il Rabbino, che per la sua miopia non avrebbe mai potuto percepire da solo quei resti estranei, immondi ma minimi, si buttò ginocchioni e a faccia in giù come un musulmano, raspollando fra il terriccio. Il pantano subalpino era stato trasformato dall’effetto serra, dicevano quell’anno, nel polverume desertico della Valle detta di Giosafat (noi la chiamiamo Valle del Kedròn per via di un torrentaccio secco che dovrebbe sfociare, se potesse, nel Mar Morto, che si chiama Morto proprio per la scarsità di affluenti, ove si escluda un rinomato fiumiciattolo, il Giordano, che ora muore anch’esso per lo più nei rubinetti di Tel Aviv: bei posti comunque, ma piuttosto inquietanti), il luogo della resurrezione dei morti, quando i popoli, e perciò anche il possessore dell’anca smozzicata e spersa, si riaffacceranno in una vera primavera, senza reumi quella volta lì, a godere assieme i mille anni sereni del Regno promesso, anzi giurato più volte, in più capitoli del Pentateuco, dei Profeti, soprattutto Isaia, e di molti che non so più.

 

L’officiante, che finalmente capivamo perché si era messo per istinto fuori stagione il soprabito da investigatore dilettante, si alzò dritto e, tenendo fra il pollice e l’indice l’osso, sibilò, rivolto ai becchini atterriti: “E questo che cos’è?”.

Io nel frattempo ignoravo questo incidente perché continuavo a insistere per sapere della mia mamma giovanetta alla festa. Sergio però aveva interrotto la sua narrazione, anche lui in attesa degli sviluppi del nuovo scandalo. Speravamo che la faccenda si chiudesse al più presto, e ricominciassero le incomprensibili preghiere in ebraico, poiché dapprima i becchini rispondevano ognuno: “Mi sai nen”, non so nulla, in piemontese omertoso. Poi tentavano disperatamente di chiudere l’incidente: “Si tratta, reverendo-detective, di un osso di pollo o di qualche altra bestiola”; “Signor Sherlock, anzi, scusi, reverendo Holmes, per me quello lì è un sasso, strano, ma è un sasso”.

Alcuni anni dopo ci fu uno scandalo tanto grave da far vacillare perfino la Giunta Comunale di Torino: le riesumazioni del cimitero cattolico venivano affidate in appalto a una ditta truffaldina che usava i bulldozer, e gli ossi rimestati erano consegnati a casaccio ai parenti affranti: ognuno dei quali aveva, nella propria cassetta, un pezzo di ragioniere di Orbassano mescolato a una casalinga di Poirino, con l’aggiunta di un ladro d’auto morto prematuramente. L’osso del racconto veniva quindi con qualche probabilità da quel rimescolio fraudolento. Malafede e ortodossia questa volta stavano per fronteggiarsi l’una con l’altra, aspramente, con santa ragione dell’ortodossia! Gli ebrei non riesumano le salme per via, sempre, della resurrezione nella Valle del Kedròn.

 

 

 

Qualche speranza che la funzione riprendesse c’era ancora, per la verità, ma posava ormai sulle gracili spalle del povero Isacchino, che, nell’ansia di recitare il kaddish, aveva raccolto sulla tomba, con la bara già affossata, i due anziani orfani; Guido si guardava sbalordito e indignato la camicia nuova stracciata e cercava con ostinazione nevrotica di rabberciarla con le dita. Per quanto il Rabbino proseguisse nella sua indagine sull’osso, non si astraeva però dalle altre sue competenze e, oltre ad avere interrotto, lui, il suo proprio ufficio, sempre con l’osso in mano, smettendo per un attimo di imperversare sui becchini, interrompeva anche i riti di Isacchino strillandogli: “Il tuo kaddish è abusivo, perché siamo in nove, manca Ugo che farebbe dieci, ma deve stare fuori dal cancello. Smetti subito”. 

Nell’istante in cui Isacchino sospendeva a malincuore la sua preghiera illecita, il Rabbino riprecipitava nella sua indagine con sempre maggior veemenza, tanto che si era dovuto chiamare il capo becchino, visto il peggiorare della situazione.

 

Non è da escludere che in quel momento la zia, giù nella fossa mezza coperta e mezza no, si sia risvegliata dal sogno e abbia cominciato a ridacchiare. Sono contento che le sia tornato il buonumore, un po’ per il suo sogno della festa, ma soprattutto per il susseguirsi degli incidenti che interrompevano così di frequente il suo curioso funerale. Lei, ebrea nonostante il nome, era però atea e non osservante nel modo di una volta. La zia, da viva, era infatti seguace del Voltaire, non di Maimonide, che anzi forse neppure conosceva se non di nome e da morta si schierava decisamente dalla parte di Guido che continuava a rimpiangere la sua camicia stracciata.

Aveva torto la zia Jolanda dal fondo della fossa, a irridere con il suo abituale scherno razionale, ma era difficile trattenersi dall’ilarità anche per noi, perché nel frattempo il capo-becchino fronteggiava impavido il Rabbino infuriato con giustificazioni penose: “E la terra?” inquisiva il Rabbino indicando il mucchio: “Quella? Quella viene dal Vivaio”, rispondeva lui con la sicumera ebete dei truffatori.

 

Anche Isacchino aveva interrotto le sue preghiere per tentare di spostare la faccenda dalla tremenda e inappellabile legge ebraica a più banali e burocratiche clausole contrattuali torinesi. Anche lui si rivolgeva al capo becchino, simulando un’indignazione che non provava: “Questa è una violazione della Convenzione, una violazione bella e buona! Comunque per oggi smettiamola qui, smettiamola. Ma sarà poi necessario un incontro con la Direzione.” gridava con voce acuta, “smettiamola qui, per ora”. 

E, mentre lui rifarfugliava il kaddish, veniva stroncato dall’urlo roboante del Rabbino mesopotamico: “Ma quale Convenzione e Convenzione, quale smettiamola qui, vieni via subito anche tu”. Il quale Rabbino intanto si cacciava nell’ampio tascone del pastrano l’osso, mentre, oramai fuori di testa, correva a gambe levate verso l’uscita inseguito dai becchini in camisaccio blu e dal capo-becchino in doppio petto grigio, che minacciava: “Non lo faccia, non lo faccia, se asporta il frammento cadaveriale chiamo subito i carabinieri”. Il Rabbino, sordo a queste ingiunzioni, anziché rallentare, guadagnava con un balzo il cancello dell’uscita, con l’osso in tasca, una mano sul cappello perché non cadesse e le falde del soprabito che svolazzavano, e correva verso il viale ove bivaccava, oramai sconsolato, Ugo, al quale, incrociandolo, si rivolgeva fulmineamente fra una falcata e l’altra: “Tu non ti muovere, non ti muovere di lì, sei il decimo, il kaddish magari lo diciamo poi qui fuori sul viale. Non entrare”. Ma, raggiunta l’auto posteggiata davanti all’ingresso, si accorgeva, ahimè, che alla Ford Fiesta 1977 non si apriva né l’uno né l’altro sportello. E per forza, dato che l’automobile non era sua ma di Isacchino, il quale, invece di accorrere come avrebbe dovuto, si attardava con il corteo dei cugini dando a ognuno un bacio per guancia, cioè tanti quanti bastavano alla squadra di becchini indispettiti per raggiungere la garitta e chiamare il 113, nel mentre che il Rabbino correva di nuovo all’ingresso del cimitero per gridare a Isacchino di mollarla coi bacetti e aprirgli l’auto. 

 

Il Rabbino non pensava certo in quel momento a banalità come sanzioni penali, “puah!”, e, men che meno, a inadempienze contrattuali, “puah!”. Lui, certamente o probabilmente, rifletteva angosciato: “Cosa farò dell’osso nel giorno del Giudizio?”. Nella valle di Giosafat miliardi di risorti si aggirano, stupiti sì, ma contenti, dandosi la mano l’un l’altro come fanno i cattolici prima della Comunione, e lui intanto, risorto anche lui, deve in quella felice confusione cercare non già uno zoppo qualsiasi, ma il suo zoppo, uno fra centinaia di milioni di zoppi, al quale si adatti lo specifico osso che lui tiene in tasca. 

Anch’io correvo su e giù fra il viale e l’ingresso del cimitero, anch’io correvo per vedere e riferire al gruppo rimasto in attesa: “Novità! Novità! È sopraggiunta una volante dei carabinieri”. 

E nel frattempo un becchino spiegava agli astanti la legge napoleonica: “…che vieta, eccome!, di asportare cadaveri, anche a pezzetti, dai luoghi cimiteriali”.

 

Volevo godermi di persona la Benemerita nel mentre che arrestava il Rabbino: “Molli l’osso, reverendo” sarebbe stata la conclusione della sgommata e dello sbattere delle portiere dell’Alfacentosessantaquattro, ne ero sicuro. Ma quando sono arrivato trafelato, i carabinieri non c’erano più. C’era il capo-becchino che rientrava bofonchiando: “Così un’altra volta impara, roba da matti”. 

E l’osso? Che fine avrà fatto l’osso? 

 

E-mail del 22 settembre 2008, da uno dei pronipoti presenti alla mesta funzione: “Vuoi sapere che fine ha fatto l’osso? Quando il Rabbino esce con l'osso dal cimitero e viene raggiunto prima da Isacco e poi dai carabinieri, esco anche io e cerco di convincerlo a lasciare l’osso. Alla fine lo cede al capo-becchino dietro promessa che venga esaminato per sapere se è umano. Non credo che sia poi statofatto alcunché, forse è stato dichiarato di pollo (il che produrrà un pollo fra i risorti?) Ciao. Paolo”.

 

 

Roma, 27 marzo 2016 

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Il fuoco a mare

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Negli anni Cinquanta, quando ancora era forte l'urgenza di dire, di testimoniare il presente e il passato prossimo, ci fu una collana editoriale, "I Gettoni" di Einaudi, che assolse più di tutti questo compito. Elio Vittorini battezzò grandi scrittori che poi fecero carriere anche molte diverse come Lucentini, Fenoglio, Lalla Romano, Anna Maria Ortese, Testori, Ottieri e altri nomi, alcuni dei quali oggi sepolti nell'oblio.

Mi sono venuti in mente "I Gettoni" leggendo Il fuoco a mare (Monitor, p.216 15 euro), debutto di Andrea Bottalico, un Gettone dei nostri tempi, volume passato tra le mani di editori importanti e poi tornato al punto di partenza: la redazione di Napoli Monitor in uno scantinato dei Quartieri spagnoli.

 

Pur essendo meritevolissima, l'attività di Napoli Monitor (qui abbiamo segnalato il volume collettivo, Lo stato della città), il libro avrebbe meritato una sorte diversa, perché è bello e importante.

Racconta di Castellammare di Stabia, ultima città del Golfo di Napoli prima della Costiera Amalfitana. "La grande metropoli a stento s'intravedeva, la sua eco chiassosa non arrivava fin qui. Napoli era finita da una trentina di chilometri, ma era come se non fosse mai cominciata. Appena dopo, passate alcune spiagge, l'atmosfera cambiava all'improvviso: ti ritrovavi a Vico Equense e il discorso era chiuso".

Castellammare, oltre alle rovine romane, al Castello, alle ville legate a un turismo termale che ha lasciato qualche bell'esempio di architettura balneare, è soprattutto il Cantiere (Bottalico lo scrive sempre con la maiuscola). Fondato nel 1783 è il nostro più antico cantiere navale, la più antica industria d'Italia. Il suono delle sirene ha scandito le giornate di Castellammare, la vita del cantiere, i suoi umori profondi.

Andrea Bottalico ha raccolto la sfida di raccontare il suo declino, ma prima ancora la sua storia, il suo funzionamento e il suo rapporto con la città. È un racconto che richiede una lingua pulita, precisa (viene in mente, toutes proportions gardées, l'Ottieri di Donnarumma all'assalto che narra un fiducioso e, al tempo stesso, problematico atto di nascita industriale dall'altra parte del Golfo), che deve addentrarsi nei dettagli tecnici, nel gergo del cantiere. C'è anche un utilizzo molto sorvegliato del dialetto, che ha naturalmente finalità espressive (le rammère a indicare le lamiere e i profilati, i materiali che stanno alla base della costruzione di un'imbarcazione).

 

Bottalico ha un suo Virgilio, Totore, che lo introduce nell'ambiente e gli fa conoscere le persone che vivono o hanno vissuto il cantiere. È uno sguardo corale, ma sono i dettagli che l'autore raccoglie nei suoi incontri a rendere vivi i singoli ritratti di una delle ultime aristocrazie operaie. Lo sguardo si allarga anche ai superiori, ai dirigenti di Fincantieri, una controparte spesso sfuggente, o ai sindacalisti che rappresentano, con sempre meno nerbo, la solidarietà di un gruppo che vive insieme anche fuori dal cantiere: le mangiate, il tifo per la Juve Stabia, quel che resta dell'impegno politico, che in alcune epoche (il dopoguerra, gli anni Settanta) fu intensissimo.

Naturale per Bottalico proseguire la sua indagine, il suo reportage – con la tecnica della testimonianza che si inserisce nella narrazione – anche al resto della città (che oggi conta 65.000 abitanti). Diversa per storia dalle altre città del circondario napoletano, con una sua tradizione politica a sinistra, divenne la base elettorale della famiglia Gava, prima Silvio, poi Antonio che fu anche ministro degli Interni (se ben ricordo, la battuta che girava all'epoca fu: "hanno fatto sceriffo il capo dei banditi").

 

Gli anni di Gava furono quelli in cui il voto di scambio divenne lo strumento attraverso il quale la camorra cominciò a controllare territori e attività sempre più consistenti. Bottalico ricostruisce la storia di Michele D'Alessandro, la sua ascesa a capoclan e la scia di morti che costellò la sua attività.

Nel finale del libro l'autore compie un viaggio a Trieste per parlare con chi si occupa del futuro della cantieristica, del settore navale più in generale. Difficile capire se ci sarà un futuro per il cantiere di Castellammare e per le sue tradizioni.

È nell'epilogo il cuore del libro, quando Andrea Bottalico, oggi ricercatore universitario, mette a confronto il suo impegno di oggi con quello del padre, che a 14 anni entrò in fabbrica.

 

Cercate Il fuoco a mare : è uno dei libri necessari di questa stagione.

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Il debutto di Andrea Bottalico

Digitale purpurea

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Sottotitolo: 
Abstract: 

Parigi, Parc Monceau. Ero lì per la grande Davidia in fiore (Davidia involucrata) che anche Proust avrà senz’altro conosciuto, quando una voce femminile mi fece volgere a un rialzo roccioso: «Cette année les digitales sont magnifiques!». Le lunghe spighe s’alzavano vigorose ben oltre il metro sul cespo basale di foglie pelosette: indimenticabili.

Immagini: 

The Game of Thrones: come funziona

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L'articolo contiene informazioni sul finale della puntata trasmessa dalle reti italiane in prima visione il 30 maggio 2016.

 

Kill em all

 

The Game of Thrones, in italiano Il trono di spade (scompare quindi nel titolo tradotto il riferimento al gioco, presente nell’originale, e fondamentale per capire la machiavellica costruzione della narrazione), è una serie televisiva che ha introdotto un elemento del tutto nuovo nelle narrazioni popolari contemporanee.

Se già serie come The Walking Dead, Breaking Bad e, forse in misura ancora maggiore, Sons of Anarchy avevano cominciato a utilizzare lo strumento della morte di un personaggio principale come effetto scenico scioccante e inaspettato, che crea una sensazione di insicurezza nello spettatore, di solito abituato a dare per scontata la presenza dei “suoi” protagonisti per l’intera durata dello show, The Game of Thrones eleva questo espediente a sistema. Viene presentata una serie lunga (e a tratti quasi stucchevole) di protagonisti, divisi geograficamente, per lignaggio, per ascendenza e per ruolo. Lo spettatore, all’inizio, è quasi confuso dal proliferare delle casate e delle ambientazioni, dai nomi altisonanti e dalle genealogie familiari complesse. Lo sfondo su cui si intrecciano le storie è eminentemente politico: malgrado ci siano delle concessioni al fantastico – ed è quasi un paradosso, visto che la serie è ascrivibile al genere fantasy– siamo molto lontani dall’archetipo di Tolkien. È una brutalissima realtà quella di Westeros, il mondo in cui le vicende vengono narrate. La violenza e l’intrigo politico, l’assassinio, la guerra, il tradimento sono le componenti basali che regolano la vita (e la morte) dei protagonisti, tutti legati più o meno a doppio filo ad una delle casate che si dividono il potere nel mondo ideato da George R. R. Martin nella sua serie di romanzi A Song of Ice and Fire.

 

In The Game of Thrones, infatti, la morte dei protagonisti, spesso dei personaggi più amati dal pubblico, è una costante: la struttura “decentrata” della narrazione, per cui non c’è una figura accentrata di eroe, ma un pluriverso di azioni, attori e territori, rende possibile l’identificazione con una serie di protagonisti. Ed è questo il punto in cui Martin e i registi della serie colpiscono: proprio perché la serie si basa su un mondo in cui le storie parallele sono molte e fitte è possibile eliminare, con dei colpi di scena notevoli, uno o più dei protagonisti senza ledere la narrazione.

Vengono annientate intere famiglie, distrutte casate, linee di discendenza, figure (apparentemente) centrali, come succede nell’episodio emblematico The Rains of Castamere (episodio 9, stagione 3) in cui viene massacrata quasi per intero la famiglia Stark (per comprendere l’emotività dei colpi di scena è interessante guardare i video che riportano le reazioni di fan della serie alle scene più sconvolgenti degli episodi, come il seguente.

 

Ma forse la cosa più interessante – da un punto di vista “filosofico” – è l’incertezza esistenziale che la serie trasmette allo spettatore: viene rotta la linearità della narrazione, viene messa in questione la rassicurante identificabilità con i protagonisti: con la loro esistenza viene messa in pericolo anche la nostra. Non esistono compiti ineludibili, eroi che non possono essere sacrificati nella logica narrativa del “gioco dei troni”: i protagonisti sono marionette di un caso – o meglio della necessità terribile e schiacciante – di una vita fin troppo realistica, date le precondizioni “fantastiche” della narrazione. 

Questa assurdità e al contempo (paradossale) verosimiglianza “mortalistica” della serie (se si esclude la recente resurrezione di uno dei protagonisti) viene esemplificata in maniera magistrale da un monologo di Tyrion Lannister, il nano geniale e anticonformista interpretato da Peter Dinklage, sul cugino “un po' tardo” Orson Lannister, che dopo aver “picchiato la testa” non faceva altro che schiacciare insetti con una pietra grugnendo “kuh”.

 

Tyrion racconta questo aneddoto al fratello Jamie, andato a trovarlo nella cella, poco prima della sua programmata esecuzione. All’obiezione del fratello, che sostiene che gli insetti schiacciati da un pazzo non significano di certo molto di fronte alle migliaia di uomini, donne e bambini uccisi ogni giorno, diventa palese che in realtà il significato è – al contrario – lo stesso: come senza significato “l’orologiaio cieco” Orson decide secondo il suo disegno imperscrutabile della vita e della morte degli insetti, così la vita lo fa con noi, e così i narratori fanno con i protagonisti de The Game of Thrones

 

 

Ecce Hodor

 

Nel 1888 Friedrich Nietzsche scrive a Torino, in pochissimi giorni di scrittura incandescente, uno dei capolavori inarrivati del genere autobiografico: Ecce Homo.

Non vorrei, né sarebbe possibile analizzare in questo contesto il libro, per cui basti limitarsi a una delle interpretazioni possibili del sottotitolo, apparentemente paradossale: come si diventa ciò che si è

Come si può diventare ciò che già si è? 

In realtà non si può fare altro, e ci vuole tutta una vita, ci dice Nietzsche. 

 

Ci vuole una vita intera per realizzare quello che fin dall’inizio siamo, per rendere atto quel determinato quantum di potenza individuale che la natura, il caso e la necessità ci hanno assegnato. Non esistono vite incompiute, progetti irrealizzati, vite che non dicono tutto il loro potenziale: il potenziale coincide con la vita, senza riserve, e bisogna viverla tutta, affinché esso si realizzi, senza che ne possa avanzare alcunché.

In The Game of Thrones, uno dei personaggi che fin dall’inizio ha ispirato più simpatia nel pubblico è sicuramente il mezzo gigante Hodor, interpretato dal DJ nordirlandese Kristian Nairn. Fin dalla prima stagione “Hodor” è un buffo aiutante della casa Stark: enorme, innocente, forte e goffo, che si esprime solo attraverso la parola – apparentemente priva di significato – “Hodor”. Qualsiasi sia la gamma emozionale, la finalità o la situazione che Hodor deve esprimere, sarà “Hodor” la parola che verrà scelta per portarla a verbalizzazione.

Hodor assumerà anche un ruolo fondamentale nel salvare e trasportare uno dei figli del defunto Eddard Stark, Bran, nell’estremo Nord, salvandolo dalla persecuzione di cui la sua famiglia è oggetto e da molti altri pericoli. 

 

Bran svilupperà nel corso della narrazione le sue doti di veggente, sviluppando la capacità di viaggiare estaticamente nel passato, di vederlo, e persino di viverlo.

Quello che però Bran, nel suo apprendistato sciamanico ad opera dell’immortale attore-feticcio di Ingmar Bergman, Max von Sydow, imparerà è che la presenza nel passato non è scevra di pericoli. Non solo chi guarda troppo spesso il passato rischia di restarne intrappolato, ma rischia anche di essere visto, udito, percepito dagli attori delle vicende trascorse, alterando così la linea temporale.

In una di queste situazioni, in cui Bran si sofferma troppo a lungo nella sua casa natia del passato prima che gli eventi tragici all’inizio della serie ne portassero al radicale e drammatico cambiamento, compare il giovane Hodor, che ancora parla e non ha preso il nome derivato dal suo curioso monolinguismo. Proprio mentre Bran ha la visione di questo passato idillico, il luogo in cui il suo corpo privo di coscienza è rinchiuso viene attaccato da un’orda di mostruosi non morti, gli Estranei, e Hodor e la sua altra compagna di viaggio Meera Reed devono fuggire, portando Bran – ancora privo di coscienza – sulle spalle, fuori dal rifugio.

 

I non morti incalzano, Bran non riprende coscienza (ed inoltre è paralizzato nella parte inferiore del corpo), la fine del tunnel che conduce all’esterno della grotta in cui erano accampati è vicina, ma Hodor capisce che solo chiudendola dall’esterno e tenendola ferma con la sua forza e la sua imponente mole potrà dare il tempo a Meera di portare Bran in salvo.

Meera grida disperata ad Hodor “Hold the door” (“Tieni la porta”), e quel grido, tramite la coscienza di Bran ancora presente nel passato giunge fino alle orecchie del giovane Wylis, il futuro Hodor, che cade a terra in preda alle convulsioni, ripetendo ecolalicamente “Hold the door” fino allo sfinimento, storpiando quelle tre parole decisive, mischiandole, sovrapponendole, fino a fare di “Hold the door” “Hodor”.

Il destino di Hodor si compie in quel preciso istante, sia nel passato che nel futuro: nel futuro Hodor morirà per tenere chiusa la porta da cui i non-morti vorrebbero uscire, mentre nel passato Wylis perde la sua identità, la sua possibilità di esprimersi, in virtù proprio di quel compimento futuro. Wylis era fin dall’inizio Hodor, ed Hodor, fin dall’inizio sarebbe stato colui che avrebbe tenuto chiusa la porta di fronte agli orrori e alla morte che minacciavano Bran Stark.

 

Nel momento del compimento del suo destino Hodor incarna il suo nome, diventa “colui che tiene chiusa la porta” e si consegna con un gesto eroico al paradiso dell’immaginazione (pop) collettiva, diventando ciò che, già da sempre, è.

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Hodor: come si diventa ciò che si è
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