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Marina Abramović. Corpo senza limiti e confini

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Danica e Vojin Abramović avevano l’abitudine di dormire con una pistola carica sul comodino. Ex combattenti partigiani comunisti ai tempi di Tito, i genitori di Marina Abramović vivevano in un perenne stato di allerta, anche in tempo di pace. Addestrata come un soldato dalla madre, la figlia ricevette una ben singolare educazione all’autodisciplina, dalla quale deriva il suo stoico e imperturbabile esporsi al pericolo e al dolore senza lamentarsi. Nella performance Rhythm 0 eseguita presso lo Studio Morra a Napoli nel 1975, Marina espose il suo corpo alle conseguenze di qualsiasi azione compiuta dai visitatori utilizzando 72 oggetti posati su un tavolo, tra i quali una pistola e un proiettile. “Se qualcuno voleva caricare la pistola e usarla, ero pronta alle conseguenze” scrive nella sua autobiografia (Attraversare i muri, Milano, 2016, p. 84). 

 

Nelle sue performance Abramović mette a rischio la sua incolumità saggiando la resistenza e i limiti del proprio corpo, un corpo senza limiti e confini spiega l’artista nel corso della lecture alla quale sto assistendo nella suggestiva sala storica del Teatro Sociale Giorgio Busca di Alba. “Attraverso il corpo sento l’anima” racconta utilizzando le parole di Ruda Iandê, un indigeno erborista incontrato in Brasile nel corso di un suo road movie artistico e spirituale che è diventato un documentario: The Space in between. MarinaAbramović and Brazil (2016). 

 

Lecture di Marina Abramović con la proiezione di alcune fotografie scattate nel corso della performance Rhythm 0 del 1975.


Mentre ascolto la lecture dell’artista penso che la sua idea di anima, la cui solidarietà con il corpo è messa alla prova dalle ordalie alle quali si sottopone con indifferenza degna di uno stoico, sia per certi versi aderente alla concezione che ne aveva lo stoicismo stesso. Sembra che i primi filosofi della Stoà abbiano preso a prestito dalla scuola medica siciliana il concetto di pneuma inteso come soffio, respiro, spirito vitale, usato per indicare il principio sia del movimento del corpo che della conoscenza sensibile. Questo spirito vitale diverrà per gli stoici l’anima umana concepita come qualcosa di corporeo (Maria Tasinato, Tempo svagato. Marco Aurelio: il savio, il distratto, il solitario, Milano, 1990, p. 44). Al sorgere del primo stoicismo il pneuma si presenta solidale con il corpo e con l’intero cosmo, animato dallo stesso pneuma che vivifica il corpo secondo un principio di necessità al quale bisogna conformarsi. Da qui l’etica dello stoicismo con la sua analisi delle azioni: quelle perfette del saggio e quelle guidate dal senso del dovere dell’uomo comune sprovvisto di saggezza. 

 

La sconcertante puntualità e stoica imperturbabilità con la quale Abramović conduce a termine le sue performance tradisce un’etica del fare assunta, nella sua estrema radicalità, in una dimensione artistica. “Una legge della performance è che, una volta che entri nello stato fisico e mentale che hai concepito, le regole sono quelle: punto e basta”, scrive nella sua autobiografia. Quanto l’ha indispettita il fatto di non aver potuto concludere all’ora esatta, anzi al secondo esatto la performance The Artist is Present eseguita al MoMa di New York nel 2010! A causa del curatore Klaus Biesenbach, che otto minuti prima della fine ufficiale della performance si alzò dalla sedia e la baciò, non le fu possibile star lì fino all’ultimo secondo come avrebbe dovuto. Stoica come sua madre e suo padre, intrepidi partigiani comunisti dotati di una determinazione “capace di farli passare attraverso i muri” (autobiografia, p. 22)? Sì, certo, Abramović è stoica, non è masochista, come invece sostengono coloro ai quali sfugge il senso filosofico del suo sopportare ad ogni costo.

 

Lecture di Marina Abramović con la proiezione di alcune fotografie scattate nel corso della performance The Artist is Present eseguita al MoMa di New York nel 2010.


Nella filosofia della Stoà, come si diceva, lo stesso pneuma che anima il mondo anima anche il corpo , un corpo perciò senza limiti e confini, ma già con Marco Aurelio Antonino, e prima ancora con Posidonio, il termine pneuma (soffio, respiro, spirito vitale) subisce una mutazione semantica. Nel medio stoicismo viene introdotto un dualismo tra la parte superiore dell’anima e quella inferiore, animale, sensuale e corporea. Al formarsi di questa diversa concezione del pneuma concorre anche lo sviluppo della medicina, in seno alla quale la pneumatologia era stata ulteriormente rielaborata: al soffio vitale era stata sottratta ogni funzione che non fosse puramente fisiologica. Nel suo bellissimo saggio, Tasinato analizza la deprecazione del respiro (pneuma), che si accompagna alla stigmatizzazione di quanto nell’esistenza vi è di transitorio. Da qui in avanti lo spirito si emanciperà dal corpo: “sangue guasto, ossicini, intrico sottile di nervi, venuzze, arterie”, animato da un “soffiuccio” destinato a disperdersi. 

 

Performance Balkan Baroque eseguita in occasione della Biennale di Venezia del 1997.


Per associazione con “nervi”, “ossicini” e “sangue guasto” balena nella mia mente l’immagine di una sanguinolenta opera di Abramović. Seduta su una montagna di ossa bovine, intenta a ripulirne la cartilagine nella performance Balkan Baroque eseguita in occasione della Biennale di Venezia del 1997, l’artista porta l’attenzione non solo sulla tragedia dei Balcani ma – mi permetto di pensare con la licenza ermeneutica che ogni opera d’arte rilascia d’ufficio – anche sulla fine di una concezione del mondo in cui la carne è spirito, energia nel flusso della quale l’artista s’immette durante le sue performance. Per la sua natura polisemica l’opera d’arte indica sempre una cosa e, insieme, anche un’altra, diversa se non contraria, in questo caso la difficile e dolorosa ricomposizione sociale dopo le stragi balcaniche e l’altrettanto dolorosa perdita del respiro nella nostra cultura.

 

A questo punto ho l’impressione di essermi spinto troppo in là con le congetture. Allora alzo una mano e chiedo: “ho l’impressione che il suo sforzo di sopportare la fatica e il dolore sia in relazione con lo stoicismo”. Abramović m’interrompe: “con che cosa?”. Preciso: “con l’antica filosofia fondata da Zenone di Cizio ad Atene”. Abramović fa cenno di aver compreso e proseguo: “se dovesse essere così, visto che in quella filosofia questa sopportazione ha una dimensione etica, è possibile dire che nella sua opera vi sia una componente etica?”. Dopo una breve pausa Abramović risponde: “L’opera d’arte deve avere diversi livelli: etici, morali, politici. Se si hanno tutti gli elementi necessari allora l’opera avrà lunga vita”. È un concetto chiave, espresso anche nella sua autobiografia: “Solo significati stratificati possono dare lunga vita all’arte: in questo modo, la società prende ogni volta dall’opera ciò che le serve”, in caso contrario l’opera si riduce ad essere “come un giornale. Può essere usata solo una volta, e il giorno dopo è come una notizia ormai priva di attualità” (autobiografia p. 97). 

 

Dal progetto The Kitchen, Homage to Saint Therese del 2009. 


Come non essere d’accordo con l’artista? A dispetto dell’attuale trend dell’arte giornalistica, illustrativa e didascalica, spesso concepita esclusivamente come denuncia e testimonianza sociale, destinata perciò ad eclissarsi insieme ai fatti ai quali di volta in volta si riferisce, quella di Abramović è insieme sociale, politica, spirituale, etica ed estetica; è contradditoria, dialettica, per nulla didascalica, come nel caso del progetto The Kitchen, Homage to Saint Therese (2009) nato dall’interesse di Abramović per i fenomeni di levitazione attribuiti a Santa Teresa d'Ávila. Si racconta che, mentre stava cuocendo una minestra nella cucina del convento, Santa Teresa ebbe una levitazione involontaria e rimase a mezz’aria sopra la pentola in ebollizione senza la possibilità di scendere, come avrebbe preferito perché aveva fame. “Era talmente incazzata…”, sottolinea l’artista a un certo punto della lecture. Abramović è affascinata dall’idea che la santa abbia potuto arrabbiarsi con la forza di Dio introducendo in una esperienza spirituale un elemento dialettico e in un certo senso anche politico. Nella sua opera, dunque, livelli diversi entrano in rapporto dialettico tra loro, compreso quello etico al quale continuo a pensare con insistenza mentre l’artista si alza portando la mano destra al cuore per salutare. 

 

La lecture si è conclusa e il pubblico sciama come una nuvola di cavallette verso il rinfresco. Alcuni se lo sono meritato (il rinfresco) perché nella stessa giornata hanno partecipato anche all’incontro con William Kentridge alle Officine Grandi Riparazioni di Torino. Io non sono tra questi meritevoli stacanovisti dell’arte contemporanea e inoltre non ho ancora visto l’opera video The Kitchen V, Carrying the Milk, della serie The Kitchen, Homage to Saint Therese di Abramović, esposta nel coro della chiesa di S. Maria Maddalena (fino al 12 novembre). Devo sbrigarmi perché è piuttosto tardi.

Mentre mi sposto a piedi dal teatro alla chiesa, rifletto sul fatto che la stratificazione dei significati nell’opera, come suggerito da Abramović, permette a chiunque di prendere dalla stessa quello che gli serve. Nel mio caso l’idea che la perdita del respiro, del pneuma che anima sia il corpo che il mondo, permeandoli entrambi secondo un principio di necessità al quale bisogna adeguarsi assumendosi la responsabilità delle proprie azioni, come fecero Danica e Vojin Abramović nella resistenza e poi nella Jugoslavia di Tito, sia stata dolorosa tanto quanto la ricomposizione sociale dopo le stragi balcaniche. Per consolarmi acquisto in un negozio lungo la via un pezzo di torrone piemontese (il migliore, senza dubbio) e proseguo sgranocchiandolo con piacere. 

Ecco la chiesa! 

 

Opera video The Kitchen V, Carrying the Milk, della serie The Kitchen, Homage to Saint Therese, esposta nel coro della chiesa di S. Maria Maddalena ad Alba.


Entro nel coro. Sotto un Crocifisso ligneo del XVI secolo è allestita l’opera video girata nella cucina di un ex convento certosino. Sullo sfondo di una finestra luminosa che incornicia la sua testa, come uno dei nimbi quadrangolari dei Beati, Abramović regge un contenitore colmo di latte. L’impianto compositivo richiama la luce e la geometria di Piero della Francesca. Il corpo dell’artista oscilla nello sforzo compiuto alla ricerca di un equilibrio. La tensione è molto forte. Ogni tanto il latte gocciola cadendo a terra. Verso la fine della performance il latte, cadendo, macchia di bianco la veste nera dell’artista. L’opera video è molto ricercata nella composizione così come nella scelta dell’allestimento, che dialoga con la geometria del coro e con quella della croce lignea sovrastante formando una video-installazione colta e raffinata. L’opera ha una bellezza rinascimentale tutta italiana. È molto bella, forse troppo: la tensione della performance dell’artista che regge il contenitore ricolmo di latte fino all’esaurimento delle sue forze si è estetizzata in una curatissima video-installazione lontana anni luce dal colpire velocemente gli spazi tra le dita di una mano con un coltello nella performance Rhythm 10 del 1973, dall’inspirare nei polmoni l’aria emessa da un ventilatore industriale fino a svenimento in Rhythm 4 del 1974, dallo strapparsi i cappelli con un pettine in Art Must Be Beautiful, Artist Must Be Beautiful del 1975. Dov’è finita la radicale etica del fare che caratterizzava l’arte di Abramović nelle performance degli anni Settanta? Dove sono finite le pistole cariche sul comodino? 

 

Opera video The Kitchen V, Carrying the Milk, della serie The Kitchen, Homage to Saint Therese, esposta nel coro della chiesa di S. Maria Maddalena ad Alba - Soffitto del coro con affreschi.


È finita l’epoca in cui Vojin Abramović, il padre di Marina aveva il coraggio di denunciare pubblicamente la borghesia rossa jugoslava buttando la sua tessera di partito in mezzo alla folla riunita in piazza Marx e Engels a Belgrado (autobiografia, p. 53), e inoltre siamo a corto di fiato, ci manca il respiro che unendo l’anima al corpo e alle cose del mondo dà vita, forza e coraggio, in breve ci anima.

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L’albero secco, la guerra, gli uccelli

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Torna nel Salento, dove nacque più di ottanta anni fa, Eugenio Barba, il regista inventore di mondi, esploratore di teatri vicini e lontani. Ha il fisico asciutto, dritto, scattante, l’intelligenza sottile, come un soldato dell’esercito guerrigliero di utopia. Ha portato in prima italiana ai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce L’albero, il nuovo spettacolo dell’Odin Teatret. Un albero secco che qualcuno vuole disperatamente far fiorire, perché possano tornare sui suoi rami gli uccelli fuggiti lontano e dispersi nel mondo; quei rami che qualcun altro vorrebbe segare e ridurre a legna da bruciare. È un Tannhäuser senza il senso del peccato individuale: dove la colpa è attribuibile a un’umanità feroce, che uccide, che distrugge, contro cui si schierano i semplici, i tenaci, i bambini che nel crescere non hanno dimenticato i sogni e gli insegnamenti dei padri poeti.

 

Questo spettacolo colpisce per l’asciutta distillazione dei segni, allontanando dal ricordo di un Odin prorompente, provocatorio, tutto fisico, corporeamente emozionale, in cerca dello shock dello spettatore. Conquista come una favola amara e ribadisce il credo del gruppo danese (ma innestato di presenze e di lingue teatrali di tutto il mondo) in una scena che contagia per magia, per risonanze profonde raggiunte andando a toccare le regioni più segrete con distillazione tecnica raffinatissima e immaginazione coinvolgente. Si dichiara la terza tappa della “Trilogia degli innocenti”, dopo La vita cronica e Le grandi città sotto la luna, sguardi di traverso al nostro mondo, con occhi che non si rassegnano al dolore, al conformismo, al consumismo, alla sofferenza, alla rinuncia. Che coltivano il sogno, anche nelle terre grigie dell’incubo.

 

The tree by Rina Skeel. 


Lo spettacolo è riservato a 104 spettatori, 57 per lato, in una tribuna che può essere contenuta in valigie ed essere trasportata in aereo. È disegnata da Luca Ruzza, lo stesso architetto che ha riadattato a teatro e luogo di incontri una vecchia fabbrica di mattoni creando gli spazi multipli di Koreja, dove Barba in questa occasione ha tenuto vari incontri e presentazioni di libri (il teatro come opificio, come luogo di cultura dinamica e non solo di rappresentazione: è proprio il modello che persegue da sempre l’Odin). Lo spazio scenico contrasta, con i suoi colori freddi, il grigio del tappeto, un arancio sbiadito, l’azzurro delle sedute, con i toni dei costumi e delle azioni degli attori. La tribuna circonda, come in un teatro anatomico, lo spazio della storia; è costituita, per ogni lato, da due anelli formati da grandi tubi di plastica gonfiabile disposti su due piani. Sembra di essere in un gommone di migranti, ma un gommone high-tech, che richiamerà la situazione delle carrette del mare con scosse, vibrazioni di terremoto o maremoti, in certi momenti dello spettacolo che all’improvviso ti smuovono, ti scuotono, ti scossano. Stiamo forse rivelando troppo, ma confidiamo nel fatto, purtroppo, che questa grande creazione non ha al momento altre date italiane oltre Lecce (un assurdo): quando qualche grande città o media o piccola si sveglierà e deciderà di metterla in cartellone, i lettori avranno già dimenticato questo resoconto.

 

Sul soffitto della struttura (un vero teatro portatile) teli bianchi bucati che sembrano paracadute. E un’aviatrice sarà il personaggio centrale, la figlia del poeta da vecchia, sdoppiata in se stessa da giovane. Per lei il padre piantò un pero, promettendole che da grande avrebbe volato come un uccello per vincere il Barone Rosso. E ora si aggira desolata tra i rami secchi, spezzati, ricordando la gioventù, vivendo quello che avviene nello spettacolo – lei, l’ingenua, l’innocente, la desiderante – come un sogno dalle tinte e dai clamori di incubo, con momenti meravigliosi di abbandono e altri in cui appaiono figure spiritate che dispensano morte e odio come signori della guerra e delle stragi, padroni di bambini-soldato, sacerdoti di sacrifici umani.

 

The tree by Rina Skeel. 


La scena o il sogno di Iben (è lei, Iben Ragen Rasmussen, l’attrice simbolo dell’Odin, la piccola principessa aviatrice) si popola di figuri sinistri dal naso rosso di clown, buffoni sanguinari che governano la guerra ed esigono tributi di vite umane alla loro grottesca, terribile sete di potere. Uno è la tigre Arkan, il macellaio di Srebenica, il profeta della pulizia etnica nell’ex Iugoslavia, con i capelli drizzati schizzati verso l’alto come un sinistro punk, con la fisarmonica e la tromba, con una dizione scandita, martellante, militaresca. “Avete il diritto di uccidermi, ma non avete il diritto di giudicarmi”, dirà. L’altro rappresenta un signore della guerra africano, Joshua Milton Blahyi, a capo di un esercito di bambini-soldato, che spinge alla ferocia con sacrifici umani, promettendo l’invulnerabilità. In scena appare, presenza costante, una donna igbo, del Biafra (ricordate: la secessione dalla Nigeria, la guerra tra il 1967 e il 1970, le foto dei bambini ridotti alle ossa, la morte per fame?). Lei, di bianco vestita, porta sempre un fagotto con sé: diventa ventre gravido, peso da portare in equilibrio sulla testa, cesto contenente la testa del figlio morto, da piangere, da cullare.

 

Si parla degli orrori della guerra e di tutto ciò che causano: lutti, fughe, dispersioni di popoli, frontiere passate come uccelli senza casa, senza patria, senza albero. Di esseri umani allo stato ferino. Ma ci sono anche due monaci del deserto siriano, zoroastriani perseguitati da tutte le fazioni in lotta, che vogliono far rifiorire l’albero, che non credono che il Male possa vincere sul Bene. E compiono piccoli, teneri, tenaci rituali. C’è un servo di scena e ci sono due cantastorie, una biondissima violinista uscita da qualche roco punk-movie e una antica cantrice indiana col tamburo e con uno strumento a corda dal suono metallico, stellare, le uniche due senza naso rosso, le voci sofferte, dolci, ironiche, smagate, che ricostruiscono, che tessono i fili, ricordano, insinuano. 

Tutto qui. Il signore della guerra africano è interpretato da un grande danzatore attore balinese: parla la sua lingua, a noi incomprensibile, come una litania che diventa canto, ruggito, rombo della terra, meditazione profonda, vertigine; avanza con un lungo coltellaccio o corta spada e affetta teste di pupazzi, mentre incita alla battaglia e mentre noi siamo – come i personaggi – coperti dal telo bianco caduto dal soffitto, con le teste spuntanti dai suoi buchi, decollati, con la tribuna che si scuote, si muove, ci smuove, ci terremota.

 

The tree by Rina Skeel. 


“Vola, Iben, vola” diceva il padre. E con i canti, con uova, con pietre macchiate di sangue, con umili sculture di cartapesta di case di uccelli, i monaci, con teli verdi, cercano di far rifiorire quell’albero, continuamente minacciato. Con bambole bionde Barbie e orsacchiotti annidati sui rami, ricordi di infanzie nella bambagia pronti a essere decapitati. 

 

Sono movimenti continui, paralleli, in contrasto mai risolto: il costruire, il distruggere, il patire le conseguenze della distruzione, il non arrendersi. Il volere, il fingere per rendere possibile, come appendere pere ai rami per far sembrare l’albero vivo e farvi tornare gli uccelli migratori.

Chi vincerà questa lotta continua? Chi lenirà il dolore tatuato con bianche mani di bambino sulle guance della madre igbo, che fa penzolare dall’abito bianco vuote maniche color del sangue? Chi ritroverà le lacrime disperse tra i rami torti, scavati; chi li raccoglierà, i rami, per ricostruire l’albero con finzione teatrale, infiggendoli in appositi sostegni? “Quando verrà l’anarchia tutto il mondo sarà trasformato”, canta la biondissima violinista, un po’ elfo, un po’ strega. “Per te, mio amato, ho lasciato la mia casa, ho rinunciato a tutto, ho vagato per i sette mari e non ho trovato nessun gioiello”, scandisce dolce danzante la cantatrice indiana dai lunghissimi, nerissimi, ricciutissimi capelli.

Non cambierà il mondo. L’albero forse non fiorirà. Ma ci indica una strada, la finzione, la tensione di questi attori che da più di 50 anni cercano un mondo diverso, provando a svelare le maschere del nostro vivere con la poesia, a volte barocca, a volte esplosiva, questa volta essenziale e fantastica, sempre “politica”. Un sentiero con il quale perderci; per ritrovarci. 

 

The tree by Rina Skeel. 


Nel libro programma dello spettacolo si legge una nota vergata da Barba a Bali, durante la composizione girovaga di questo spettacolo, oltre le frontiere, oltre gli stili, mescolando forme e sapienze teatrali e facendole dialogare tra loro, senza che nessun attore rinunci alla propria identità: 

 

“(…) Quest’isola è così bella, e vorrei tanto poter inserire una scheggia di questa Bellezza nello spettacolo. A volte è stato insopportabile leggere le notizie dei giornali e la cronaca del mio tempo per travasarle nello spettacolo. Scrivo su un argomento che non piace a nessuno (Li Po). Il mio conforto è stata la bambina che sogna di volare e di lottare contro il Barone Rosso. Anche i due monaci mi hanno aiutato con il loro eroismo ingenuo di piccole azioni”.

 

Uno spettacolo dell’Odin Teatret è un organismo complesso, che nasce per prove ed errori, cambi di direzione, scoperte non previste. All’inizio a due attrici era stato dato il compito di lavorare su Biancaneve e su Cenerentola. Lo spettacolo doveva intitolarsi Volare e la suggestione del Piccolo principeè evidente. Come l’orrore per i bambini violati dagli orchi delle guerre, dalle violenze. Tutto questo si è depositato in quello spirito della favola, una narrazione mitica con i caratteri più evidenti della semplicità, con profondità e stratificazioni abissali. Scrive Barba ancora nelle note allo spettacolo (la citazione è molto lunga, ma merita di essere riportata):

 

“Tu vedi lo spettacolo e lo spettacolo vede te. Questa doppia visione – relazione o consapevolezza appena intuita – illumina e disturba. Riconoscere, associare, intendere, organizzare i dati che i sensi registrano e la memoria ha già immagazzinato: il cervello umano non smette di operare in questo modo. È un riflesso naturale dello spettatore la necessità di afferrare l’idea generale dello spettacolo: di che si tratta, che racconta, chi è questo personaggio, perché dice o fa qualcosa. Questo processo cognitivo dà sicurezza e gratificazione. Ma quello che trascende questo processo e rende incomparabile lo spettacolo teatrale come esperienza di un’esperienza è la capacità animale degli attori. È la loro capacità di dare vita a una fitta trama di dettagli sensoriali che colpiscono la parte rettile e limbica del cervello e penetrano nella fisiologia arcaica e nel più profondo della biografia del singolo spettatore: gesti apparentemente incoerenti nel contesto di una data situazione; movimenti enigmatici o solo in parte riconoscibili; ritmi sfasati; forme e colori; orchestrazione di parole, suoni, assonanze e intonazioni; azioni-reazioni come una discontinua linea musicale; simultaneità e successione di immagini, concetti, avvenimenti, silenzi e immobilità; pluralità di scansioni contrastanti – un flusso che ostacola l’intendimento dello spettatore, che spinge a scrutare a lungo un dettaglio e risveglia il riflesso di stare in guardia. Questa giungla di dettagli genera la vera visione dello spettacolo, una visione sconnessa, che non si lascia addomesticare a spiegazioni concettuali. Questa visione appartiene al dialogo solitario dello spettatore con se stesso durante e dopo lo spettacolo. Lo spettatore, come un entomologo, dialoga con i colori e i disegni delle ali delle farfalle che la sua rete è riuscita a catturare”.

 

Colori delle ali delle farfalle, atlante della complessità dispiegata con policroma polifonia, per precipitare – per percezioni sconnesse – in semplicità risonante, che ti parla di notte dopo la visione, che ti ossessiona ancora nel sonno e al risveglio, con quel tremito, quel rombo d’aria sotto le gambe penetrato in te, con quelle voci guerresche, incalzanti, con le lamentazioni, gli scatti della madre, le carezze alla terra dei monaci, le canzoni infantili dell’aviatrice, le speranze, i racconti. In italiano, balinese, indiano, danese, in altri idiomi; tanti, come il nostro mondo esploso. Con mille gesti e microgesti, quanti quelli di vite che non si lasciano ridurre a troppo semplici sensi, e di una costruzione artistica che vuole gareggiare con le molteplicità di quella vita, farsi artefice di un’altra creazione assumendo come punto di vista quello della lotta a svelare e a formare, a smontare e a riformare, a dare ancora di nuovo una nuova forma: un’opera demiurgica continuamente esposta allo smacco e al desiderio. Come il fare rifiorire un albero secco, appendendoci pere con nastri di stoffa.

 

The tree by Rina Skeel. 


Vuoto intorno all’essenziale cerca di fare l’Odin, depistando, riempendo e svuotando continuamente. Intorno allo spettacolo a Lecce sono stati presentati un film e due libri, perché il teatro si nutre di deviazioni, di viaggi, di sguardi aperti: se è tecnica, è tecnica per stare nel mondo. Sono stati mostrati un film, Il paese dove gli alberi volano, di Davide Barletti e Jacopo Quadri. È stato presentato il libro di Vincenzo Santoro Odino nelle terre del rimorso. Eugenio Barba e l’Odin Teatret in Salento e Sardegna (1973-1975) (Squilibri Editore, 2017), sul viaggio dell’Odin nel Salento, a Carpignano e in Barbagia, a confronto con la cultura popolare, negli stessi anni in cui Giuliano Scabia con i suoi studenti e con il Gorilla Quadrumàno viaggiava tra l’Appennino e le periferie e Peter Brook con la sua compagnia multietnica e multinazionale scopriva col teatro i villaggi africani. 

 

L’altro libro è un diverso “ritorno a casa”, nella “terra del rimorso”, della ripetizione rituale e della complessità mai totalmente svelabile. Si intitola I cinque continenti del teatro. Fatti e leggende della cultura materiale dell’attore (Edizioni di Pagina, 2017) ed è stato scritto da Barba con Nicola Savarese: un uomo di teatro e uno studioso uniti dalla consapevolezza che il teatro si conosce interrogando e sviluppando le pratiche. È un altro atlante, un viaggio in tutto quello che rende possibile la presenza del teatro, gli spazi, le occasioni, le tecniche, gli spettatori, le vocazioni. 

Un ulteriore regesto della complessità di un’arte che solo apparentemente riguarda l’intrattenimento, la finzione, l’estroflessione: un’arte che va a scavare dentro, a fondo, verso gli strati e i sentimenti più nascosti dell’uomo che abita il mondo smarrito, nel deserto o nella distruzione; uccello senza rami, migrante per dannazione o per inquietudine, testa decapitata dal corpo (come nello spettacolo), testa e corpo, profondità archeologiche dell’umano che si inseguono per ricomporsi. In cerca di un pero, anche finto, anche solo colorato di stracci.

 

Di un albero secco da far fiorire con lo scavo algebrico, fantastico, emotivo. Con l’ascolto, la preghiera, l’attenzione, la rinuncia, la meditazione, l’azione, l’invenzione. 

Con la precisione degli attori, che rivela valli, cime crepacci: Iben Nagel Rasmussen prima di tutti, con i suoi cantanti molti anni e il volto capace di tornare bambino; Parvathy Baul, cantastorie dai capelli lunghissimi e dalla morbida magnetica presenza; I Wayan Bawa, sapienza scenica e rituale balinese trasposta in ritratto dell’orrore; Roberta Carrieri, la donna igbo cullante abbandono, disperazione, che fa sentire nella carne le offese fatte al mondo degli indifesi; Julia Varley e Donald Kitt, i monaci, la tenacia salmodiante della speranza; Elena Floris, l’altra narratrice, ambigua, seducente; Fausto Pro e Luis Alonzo, presenze funzionali e fantasmatiche; Kai Bredholt, la tigre Arkan, il clown feroce, che sembra reincarnare nella sua figura il compianto per lo scomparso Torgeir Wethal, come un’eredità creativamente rivendicata. E tutto il meraviglioso staff dell’Odin, che potete leggere nella locandina, qui.

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L’Odin Teatret ai Cantieri Koreja di Lecce
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Chi è il grande romanziere?

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Gli interrogativi sono sempre gli stessi: che cos'è la letteratura? Che cos'è lo scrivere ed il narrare? Perché la narrazione è sempre presente laddove abita quel particolare vivente che è l'essere umano? Perché l'uomo con insistenza narra e di continuo scrive racconti, novelle, romanzi? Nel suo saggio sull'arte del romanzo, Kundera cerca di rispondere al alcune di queste domande. Punto di partenza del suo tentativo è il concetto heideggeriano di «esistenza» (Existenz):

 

Heidegger ha descritto l'esistenza con una notissima formula: in-der-Welt-sein, essere nel mondo. L'uomo non si rapporta al mondo come un soggetto all'oggetto, come l'occhio al quadro; e neppure come l'attore al palcoscenico. L'uomo e il mondo sono legati come la lumaca e il suo guscio: il mondo fa parte dell'uomo, è la sua dimensione e, a mano a mano che il mondo cambia, cambia anche l'esistenza (in-der-Welt-sein). (L’arte del romanzo, Adelphi, pp. 58-9)

 

In effetti Heidegger ha insistito con forza sulla necessità di analizzare l'uomo con concetti e termini in grado di leggere e interpretare il suo esclusivo modo di essere: l'uomo (Dasein) non è l'ente intra-mondano (il tavolo, l'albero, il gatto, eccetera), il suo modo d'essere non coincide con nessun altro ente. È necessario pertanto distinguere la sussistenza (Vorhandenheit), propria dell'ente intra-mondano, dall'esistenza (Existenz), propria dell'uomo. La conclusione diviene così inevitabile: «L'essenza dell'Esserci consiste nella sua esistenza» (Essere e tempo, Longanesi, &9, p. 60); di conseguenza solo l'uomo propriamente esiste mentre tutti gli altri enti si limitano a sussistere.

 

 

La grande riflessione heideggeriana, soprattutto nel periodo relativo alla pubblicazione di Sein und Zeit (1927), è tutta concentrata su questo particolare concetto al fine di mostrare come l'esistenza, così intesa e in stretto rapporto con l'esclusivo modo d'essere dell'uomo, non possa mai essere interpretata come se fosse una semplice attualizzazione «nel tempo» di un'essenza definita da «proprietà a-temporali»: è infatti nell'esistenza, nel tempo dell'esistenza, è esistendo secondo il tempo dell'esistenza che l'uomo, più che esprimere o manifestare, in realtà istituisce e scrive la sua stessa essenza. L'uomo è l'unico «attore» che recita una parte ch'egli in qualche modo scrive nell'istante stesso in cui la recita e di cui è, per l'appunto, l'«autore»; di conseguenza il mondo e la natura cessano di essere il grande libro da leggere per trasformarsi nel grande libro da scrivere; o in termini più rigorosi, diventano il grande libro che l'uomo è chiamato a leggere solo a condizione e nell'istante stesso in cui anche lo scrive.

A partire da questa interpretazione heideggeriana dell'idea di «esistenza» Kundera afferma:

 

Il romanzo non indaga la realtà, ma l'esistenza. E l'esistenza non è ciò che è avvenuto, l'esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l'uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace. I romanzieri disegnano la carta dell'esistenza scoprendo questa o quella possibilità umana. Ma, ancora una volta, esistere vuol dire: "essere-nel-mondo". È necessario dunque intendere tanto il personaggio quanto il suo mondo come possibilità. (L’arte del romanzo, cit. 68)

 

Lo scrittore boemo propone a questo punto due definizioni: «Il romanziere non è né uno storico né un profeta: è un esploratore dell'esistenza»; «Il romanzo è una meditazione sull'esistenza vista attraverso personaggi immaginari».

A me sembra che questa interpretazione guardi nella direzione giusta; tuttavia, allontanandomi in parte da essa, propongo di sostituire il termine «esistenza» con il termine «esperienza». Come giustificare tale sostituzione? Scrive Cassirer: 

 

[Il mondo umano] è retto dalle stesse leggi biologiche in atto in tutti gli altri organismi. Eppure nel mondo umano troviamo anche qualcosa di caratteristico che lo distingue da quello di ogni altra forma di vita [...] esiste un'evidente differenza fra le reazioni organiche e le risposte umane. Nel primo caso lo stimolo esterno provoca una risposta diretta e immediata; nel secondo caso la risposta è differita: è arrestata e ritardata in seguito a un lento e complesso processo mentale [...] [L'uomo] Non vive più in un universo soltanto fisico ma in un universo simbolico. Il linguaggio, il mito, l'arte e la religione fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l'aggrovigliata trama della umana esperienza [...] Anche nel campo pratico l'uomo non vive in un mondo di puri fatti secondo i suoi bisogni e i suoi desideri più immediati. Vive, piuttosto, fra le emozioni suscitate dall'immaginazione, fra paure e speranze, fra illusioni e disillusioni, fra fantasie e sogni. (Saggio sull'uomo. Introduzione a una filosofia della cultura, Mimesis, Milano 2011, pp. 46-48.)

 

L'uomo, dunque, proprio in quanto uomo, non si limita mai a esistere e a vivere ma anche fa esperienza dell'esistenza e della vita, «uscendo» così dalla ferma staticità della prima e dall'inarrestabile dinamicità della seconda: l'uomo è capace di fermarsi senza bloccarsi, è capace di ri-tornare sulla prima e sulla seconda, è capace di ri-flettere ri-spondendo alla prima e alla seconda.

Detto questo, bisogna però riconoscere che il temine «esperienza» non gode oggi di una particolare fama soprattutto perché si tende a vedere in esso l'espressione di una sorta di presa, di dominio che l'uomo pretenderebbe esercitare sia sull'esistenza che sulla vita: l'esperienza, così intesa, sarebbe infatti, sempre e necessariamente, l'affaire di un soggetto supposto padrone. In verità, così almeno a me sembra, si tratta proprio del contrario; Heidegger ha colto con lucidità questo aspetto:  

 

Fare esperienza di qualcosa – si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio – significa che quel qualcosa per noi accade, che ci incontra, si sopraggiunge, ci sconvolge e trasforma. Parlandosi di «fare», non si intende affatto qui che siamo noi, per iniziativa e opera nostra, a mettere in atto l'esperienza: «fare» significa qui provare, soffrire, accogliere ciò che ci tocca adeguandoci ad esso. Qualcosa «si fa», avviene, accade. (In cammino verso il linguaggio, Mursia, p. 127)

 

In effetti l'esperienza non è mai qualcosa che il soggetto possa decidere e determinare. Nessuno può seriamente affermare: «oggi farò un'esperienza», mentre si può senz'altro affermare: «oggi farò un acquisto». L'esperienza è sempre qualcosa di inaspettato che sfugge alla decisione, è sempre il frutto di un novum che investe il soggetto facendolo uscire da un già saputo per aprirlo a un altro sapere. Ne latino ex-perior il termine -perior implica la nozione di pericolo, prova, qualcosa con cui ci si misura ma soprattutto attraversando il quale si viene messi alla prova: da un'autentica esperienza si esce in qualche modo sempre «provati». Nell'idea di esperienza è dunque presente il rinvio a un movimento d'uscita (il prefisso ex- sottolinea tale esternalizzazione) da un limite che tuttavia è anche una forma di garanzia, movimento d'uscita che in tal senso non rappresenta mai un semplice transitare da un qui ad un là, assumendo piuttosto l'aspetto di un travaglio abitato dal pericolo e dalla prova: «fare un'esperienza» significa trovarsi coinvolti in un cammino di cui non si riesce mai a prevedere il corso.

 

È per questa ragione che l'esperienza più che essere «fatta» dal soggetto è ciò che «fa» il soggetto (da intendere in senso passivo), è ciò all'interno della quale il soggetto emerge, «viene fatto», viene forgiato proprio in quanto soggetto; essa non è un uni-verso costituito da cose e da fatti, ma è un multi-verso abitato dal possibile (propositi, progetti, desideri, speranze, attese, eccetera) e dai fantasmi (timori, paure, sensi di colpa, eccetera) che si coagulano attorno alle cose e ai fatti, fantasmi che il soggetto stesso produce, spesso inconsapevolmente, nel suo quotidiano rispondere agli altri esistenti, agli altri viventi e a se stesso.  

 

In conclusione se, come vuole Heidegger, l'esperienza è «un essere in cammino», allora tale cammino è sempre travagliato, pericoloso, drammatico, per l'appunto non è mai un semplice trasferimento o un mero passaggio da un luogo ad un altro. È anche per questa ragione, per questo esplicito rinvio al pericolo e al dramma, che il termine «esperienza» mi sembra più adeguato del termine «esistenza» per indicare il particolare modo d'essere dell'uomo.

 

È di questo dramma che la letteratura, la grande o la vera letteratura, non si stanca di rendere testimonianza. In effetti se vi è qualcosa attorno alla quale gli uomini continuano a «raccontare storie» è proprio l'esperienza in cui si trovano coinvolti, e questo – ecco l'intreccio tra verità ed inganno che è impossibile dipanare – sia nel senso di renderle testimonianza, magari servendosi delle più elaborate finzioni, sia nel senso di ingannare ed ingannarsi, magari mettendo in scena «storie vere» che in realtà nascondono il lavoro del narcisismo e le macchinazioni del risentimento. In tal modo, dominati dalla paura e dai sensi di colpa, dall'invidia e dal rancore, mentre si racconta e si narra, spesso ci si giustifica, ci si difende, si aggredisce, ci si consola e infine ci si perde. Non per caso la narrazione, il raccontare storie, è un efficace strumento politico per ingannare il soggetto ma anche per l’ingannarsi del soggetto; come si usa dire, «gliela raccontano» ma anche «se la racconta», e in questo modo, proprio attraverso simili narrazioni, il soggetto riesce in una qualche maniera a consolarsi, evitando certi interrogativi e certe verità scomode che lo riguardano. 

 

Ma talvolta, più raramente, gli uomini, alcuni uomini, riescono anche, con serietà e sincerità, senza vergogna e senza censure, sebbene con fatica e duro lavoro (è la ricerca del mot juste di Flaubert), a parlare e a scrivere della propria esperienza, a raccontare storie, perfino inverosimili, che rivelano aspetti essenziali del loro esclusivo modo di essere. È l'ipotesi che propongo: forse la grande o la vera letteraturaè uno dei luoghi per eccellenza ove vengono salvaguardate alcune testimonianze, spesso scomode, relative ad aspetti essenziali del particolare modo di esistere dell'uomo. È per questa ragione che una simile letteratura è una vera fortuna: essa è il grande antidoto, la rivoluzione permanente contro la consolazione di quella «cultura» che non si stanca di diffondere stereotipi e luoghi comuni. 

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Quattro letture intorno alla Rivoluzione d'Ottobre

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Se ha ancora una storia di questo genere, vorremmo ascoltarla. Mi piacciono assai storie parallele. Una accenna all'altra e ne dichiara il senso meglio di molte aride parole. (J.W. Goethe, Conversazioni di emigrati tedeschi– 1795)

 

All'approssimarsi della scadenza del secolo quasi trascorso dalla Rivoluzione di Ottobre, vorrei condividere alcune letture sull'argomento che mi hanno accompagnato durante i primi mesi di questo centenario del 1917, non tanto per disegnare un quadro in termini di conoscenze storiche o letterarie da me acquisite nel corso delle suddette letture, quanto per porre sui piatti di una bilancia quel po' di libbre di eroismo e di tragedia, di utopia e di farsa che mi sembrano concernere il drammatico avvenimento storico e cercare in questo modo di mantenere in equilibrio un punto di vista originale rispetto ad esso.

Si tratta di un percorso di lettura sostanzialmente omogeneo, anche se il criterio da me adottato nella scelta dei testi può senza dubbio definirsi arbitrario; prima di prender nota delle mie mancanze nell'aver trascurato Lenin oppure Majakovskij, si tenga tuttavia presente che questo criterio è stato dettato per massima parte dal caso, la cui disposizione ha fatto emergere dalla mia libreria un provvidenziale trittico di testi che subito hanno preso a funzionare entro una cornice fatta di parole, impressioni e ricordi di vecchi studi; soltanto per l'ultimo libro si è trattato di una vera e propria ricerca, curiosamente successiva alla sua scoperta per la quale vorrei qui ringraziare Paolo Nori che da tempo si profonde, sul suo blog, nella propagazione del verbo ormai dimenticato di Viktor Šklovskij.

 

Boris Pasternak Il dottor Živago

 

Il lasso di tempo intercorso tra l'Ottobre del 1917 e la pubblicazione del famoso romanzo di Pasternak, avvenuta in circostanze rocambolesche una quarantina di anni più tardi, potrebbe indurre a considerare Il dottor Živago una sorta di libro della memoria, nel quale questa venga a dispiegarsi senza misura lungo il filo della narrazione: per certo esso può essere definito un libro di una vita, vuoi per gli innumerevoli anni che l'autore ha dedicato alla sua stesura, vuoi per l'emergere di una particolare visione del mondo che in esso prende forma per intero.

Risanare la frattura che l'Ottobre aveva voluto provocare con l'universo della tradizione russa sembra essere l'intento principale del romanzo, ed è curioso che una simile disposizione provenga proprio da un autore che negli anni a ridosso della Rivoluzione si era battuto con tanto entusiasmo per un rinnovamento radicale delle forme letterarie. Non ci si inganni però nel voler guardare a Il dottor Živago come alla testimonianza di uno sterile rimpianto rispetto agli errori della gioventù, poiché la matura visione di Pasternak di fronte al salto nel vuoto rappresentato dalla Rivoluzione non può ridursi a una semplice metafora della propria inadeguatezza di fronte ad essa; al contrario, attraverso un lento processo di saturazione poetica di incredibile potenza, Pasternak opera una rilettura del modello realistico tolstojano che lo proietta ben al di là dei risultati cui erano pervenute le sperimentazioni dell'avanguardia alla quale egli aveva aderito in gioventù: il suo romanzo fonda, oserei dire, un universo rinnovato, totalmente poetico, da contrapporre a quello, totalmente materialista, messo in piedi dalla Rivoluzione.

 

L'antitesi tolstojana per eccellenza tra mondo e vita trova così una soluzione nell'estasi sospesa del paesaggio della Russia invernale che scorre di fronte al finestrino di un treno, nella luce di una candela che si consuma al gelo della notte moscovita, nell'ululare dei lupi che, come forze primordiali, si avvicinano minacciosi alla casa di campagna nella quale Jurij e Lara cercano scampo da una realtà fuori controllo.

Il ritiro dal mondo esperito dal poeta, ridotto al silenzio dalla brutalità del regime staliniano, si trasforma in un'occasione di contemplazione, in un privilegio: è attraverso la forza della poesia che Pasternak trova il suo riscatto e con lui la Russia intera.

Per stare all'intreccio, Il dottor Živagoè un romanzo ferroviario (e qui Tolstoj viene incontro all'avanguardia); in esso le incongruenze relative ai canoni realisti sono tali da far sorridere; nei suoi resoconti di tremende sofferenze la fame e il gelo – terribili furie della Rivoluzione – non indulgono mai alla crudeltà fine a se stessa; non si presti troppo ascolto a chi si limita a vedervi un'idea, un'allegoria della Russia ferita: Larisa Fëdorovna (Lara) Guichard Antipov, la protagonista, sembra fatta di carne e sangue, e quanto alla profondità del carattere e alla grandezza della figura essa è uno dei personaggi meglio riusciti della letteratura di ogni tempo.

 

Andrej Platonov Čevengur

 

Se la visione utopica applicata alla realtà storica trasforma quest'ultima in un'utopia in negativo, cioè a dire in una parodia (Furio Jesi), Čevengur di Andrej Platonov sembra collocarsi esattamente nel mezzo di questi due termini del discorso e, a seconda del punto di vista dal quale lo si osservi, esso pare oscillare ora più verso l'uno, ora verso l'altro.

In effetti, quando ci si trovi a considerare lo spirito che anima questo strano romanzo – scritto tra il 1926 e il 1929, anni di transizione tra la NEP e la totale stalinizzazione dell'economia e della società russa – viene da domandarsi se Platonov facesse sul serio o piuttosto scherzasse, nel momento in cui decise di sottoporlo all'attenzione di Maksim Gor'kij per cercare in lui un aiuto contro la censura di regime. Le ragioni del rifiuto oppostogli dal decano dell'allora trionfante Realismo Socialista sono piuttosto semplici da capire: nella cittadina di Čevengur si contesta infatti l'utilità del lavoro, considerata come un retaggio dell'era borghese, e si spinge verso una proliferazione di forme produttive del tutto inutili, che servono soltanto ad assecondare un'idea del comunismo astratta e totalmente avulsa dalla realtà. A Čevengur si praticano l'amore e la fratellanza universali: i suoi abitanti, esonerati dalle fatiche quotidiane, trascorrono il loro tempo scambiandosi pubblici gesti di stima e recandosi in dono i prodotti di un'economia artigianale primitiva, basata su un pigro recupero delle rovine della vecchia Russia piuttosto che su un dinamico utilizzo delle sue nuove risorse rivoluzionarie.

Come se non bastasse, in questo luogo sperduto nell'immensità della steppa si è sparsa la voce della manifestazione spontanea di un comunismo cosmico, in grado di sovvertire in maniera sostanziale l'ordine naturale delle cose. La gente ha infatti smesso di produrre nella convinzione che il compagno-sole basterà da solo a nutrire i suoi compagni-figli facendo crescere in abbondanza le messi della terra. Alcuni si spingono persino a parlare di abolizione della morte: è la fede nel ritorno a un'età dell'oro che si concretizza sulle ceneri della Rivoluzione, a largo discapito degli ideali di progresso sui quali poggiava la retorica sovietica – e qui possiamo ben comprendere le ragioni di Gor'kij.

Per capire invece quelle del regime, che nel decennio successivo si impegnò a perseguitare Platonov sino a trasformare la sua vita in un inferno, bisogna considerare il momento storico nel quale egli aveva dato corpo alla sua utopia (che, per inciso, va a finire malissimo).

 

I bolscevichi avevano infatti, com'è noto, un annoso problema con le campagne che era culminato, proprio in quegli anni, nell'eliminazione fisica di un enorme numero dei suoi abitanti; la radice di questo problema allignava essenzialmente nell'inconciliabilità tra l'ideologia comunista e l'arretratezza sociale e culturale della classe contadina russa che, ricordiamolo, all'inizio del XX secolo non aveva fatto molti passi avanti rispetto ai tempi della storia di Marja Bolkonskaja che rischia di essere uccisa dai suoi mužiki nel momento in cui comunica loro la sua decisone di affrancarli dalla servitù.

Osservata attraverso la lente delle superstizioni millenariste e delle credenze messianiche all'epoca diffuse tra i ceti popolari russi, l'utopia di Platonov assume quindi un inquietante carattere realista a largo discapito, questa volta, dei nostri leciti sospetti relativi alle sue intenzioni parodistiche. Non si tratta, con questo, di suggerire un afflato metafisico nella sua visione del comunismo realizzato: solo parrebbe che egli, avendo a lungo militato nei progetti per la bonifica e lo sviluppo delle aree rurali, abbia conosciuto sin troppo bene il mondo del quale parla nel suo libro e che, di conseguenza, abbia semplicemente peccato per troppa sincerità.

 

Čevengurè senz'altro caratterizzato da una peculiare prolissità filosofica ma, al tempo stesso, esso intrattiene fortissimi legami con molti aspetti materiali e spirituali della cultura russa, in particolare in quei momenti dove pare volersi riallacciare alla  tradizione sapienziale della religione popolare: in esso si trovano infatti un gran numero di buone parole indirizzate al cuore del lettore relative a fenomeni quali, tra gli altri, il prendere sonno, il muoversi, il carattere peculiare dell'uomo russo, i sogni, il leggere la posta altrui, la compassione per i morti, le verità che decidono la vita, i libri noiosi, la cultura e l'ignoranza, l'uscire dal seminato, l'uguaglianza universale, gli uomini di partito, i volti delle persone che dormono, il cameratismo, il percorrere umilmente i bassifondi infernali del comunismo, il proprio odore, gli effetti dell'intelligenza e la natura del Tempo.

 

 

Isaak Babel' L'armata a cavallo

 

Di Babel' serbo il ricordo del bellissimo ritratto tracciato da Elias Canetti nella sua autobiografia, e mi stupisco nel confrontare quella figura posata, attenta e silenziosa con questa sua brutale opera d'esordio datata 1921. L'armata a cavalloè infatti un sanguinoso memoriale costruito sugli appunti che Babel' redasse durante la guerra russo-polacca alla quale partecipò, tra le file dei bolscevichi, nelle vesti di soldato e di abilissimo cronista.

Se da un lato l'andamento di questa raccolta di brevi novelle viene scandito sulle esigenze della cronaca storica e della propaganda rivoluzionaria, è pur vero che attraverso la lucidità dello sguardo con il quale l'autore contempla le rovine della guerra si può intuire una profonda propensione alla pietà che sembra rimandare alle memorie giovanili di Canetti.

Ma la pietà del giovane Babel' passa in secondo piano di fronte alla forza di una fede politica che ritiene nel suo nucleo più profondo i germi stessi della Rivoluzione e che considera la guerra come una tappa obbligata lungo il cammino che porta verso l'edificazione di una società più giusta.

 

Ne L'armata a cavallo la Rivoluzione è ancora in lotta per la sua sopravvivenza, ed è una lotta senza esclusione di colpi che non ammette ripensamenti o questioni morali di sorta. In quest'ottica il libro si fa portavoce di una prassi rivoluzionaria che contempla la violenza quale male necessario per il raggiungimento dei propri obiettivi, e proprio da questo duro realismo esso trae la sua forza: inconsapevole di tutto ciò che sarebbe seguito – l'allontanamento e poi il ritorno in patria, il silenzio degli anni '30 e le persecuzioni culminate nella deportazione e nell'assassinio – Babel' coi suoi racconti ci dimostra che nell'attimo in cui la fiamma della Rivoluzione sta brillando non c'è nulla che rivesta un'importanza maggiore del suo stesso brillare.

Il nodo politico sotteso a L'armata a cavallo non si può sciogliere però soltanto in virtù di questo atteggiamento fideistico sulla natura e sugli scopi della guerra, ma anzi si va ingarbugliando nel momento in cui l'autore, un intellettuale comunista, si confronta con la spinosa questione ideologica relativa ai soldati che combattono al suo fianco. Come suggerito dal titolo, l'armata in questione è in effetti costituita da cosacchi il cui atteggiamento nei confronti della Rivoluzione sarebbe un eufemismo definire pre-politico, ed è questa la ragione per la quale il ruolo di Babel' e dei commissari politici bolscevichi fa spesso pensare a una vera e propria opera di evangelizzazione tra i selvaggi.

 

Tre brevissime proposizioni tratte dal libro medesimo possono aiutarci a mettere a fuoco la questione: "Senza cavalli non c'è esercito"è una brevissima sentenza che dischiude con un giro di parole l'intero orizzonte culturale di questi indomiti cavalieri della steppa, e che fa riecheggiare una tradizione narrativa che prende le mosse dalle leggende su Genghis Khan e sul Khanato dell'Orda d'Oro sino a pervenire ai racconti di Puškin e di Gogol' su Pugačëv e Taras Bul'ba; "Io non posso fare a meno di fucilare, perché io sono la rivoluzione..."è l'asserzione minacciosa di un cosacco nella quale l'indottrinamento politico bolscevico si confonde con la caratteristica indole del suo popolo, che considera la guerra come una sorta di passatempo e l'annientamento dell'avversario come un imperativo morale; "Leggevo ed esultavo, e spiavo, esultando, la misteriosa curva della linea retta di Lenin"è una riflessione dello stesso Babel' sorta durante la lettura di un proclama all'indirizzo del battaglione, dalla quale si può intuire la ferrea volontà e la caparbia perizia dei bolscevichi nel piegare ai loro scopi, a qualsiasi costo, la caratteristica indole dei cosacchi di cui sopra.

Certo, non che al tempo degli zar le cose andassero diversamente, come ben saprà chiunque abbia frequentato i grandi classici della letteratura russa; se non altro L'armata a cavallo può essere considerato, oltre a tutto il resto, uno straordinario documento etnografico su questo popolo guerriero che tanta importanza ha ricoperto nella formazione dell'immaginario mitologico e letterario della (e sulla) Russia.

 

Viktor Šklovskij Viaggio sentimentale

 

Costruite sul ritmo secco e serrato di una scarica di mitragliatrice, le memorie della Rivoluzione di Viktor Šklovskij trovano la  loro espressione narrativa in questo Viaggio sentimentale, pubblicato nel 1923 ma composto a ridosso dei drammatici eventi di cui tratta. Opera a carattere digressivo per via della sua diretta filiazione da Sterne, questo libro rappresenta un ottimo punto di partenza per cogliere alcune questioni centrali in merito ai desideri e alle aspettative delle avanguardie artistiche russe di quegli anni. 

Il punto di vista di Angelo Maria Ripellino sul carattere peculiare delle suddette avanguardie permette di inquadrare il Viaggio sentimentale all'interno del contesto di riferimento più opportuno: nel suo saggio intitolato Il trucco e l'anima, egli rifletteva infatti sulle somiglianze tra la Biomeccanica di Mejerchòl'd – la tecnica attoriale che si basava sulla trasformazione dell'attore in una macchina – e il metodo di analisi del testo praticato dal circolo formalista di San Pietroburgo del quale Šklovskij era stato fondatore: la scomposizione geometrica del gesto messa in pratica da Mejerchòl'd riproduceva, secondo Ripellino, le "manovre stilistiche dei filologi dell'Opojaz ... che amavano mettere a nudo, smontandoli come orologi, la fattura dei testi poetici."

Smontando e rimontando i suoi ricordi dei frenetici mesi della Rivoluzione, Šklovskij riesce a trasformare una precoce autobiografia (all'epoca della stesura aveva circa ventisei anni) in un'impressionante testimonianza sulla tempesta che investì il suo paese dopo l'Ottobre 1917. Dai sobborghi di Pietroburgo ai vari fronti di guerra nei quali si trovò impegnato – dapprima come ufficiale nelle squadre di autoblinde, in seguito come artificiere e guastatore –  Šklovskij sembra perseguire una pratica eroica dell'arte che prevale nettamente sulle professioni di fede in un mondo migliore: se non fosse per una breve nota nella quale egli dichiara essere il romanticismo un concetto inesistente, si sarebbe quasi tentati dal guardare a Lermontov piuttosto che al solito Tolstoj o al real-socialista Gor'kij .

E sarà stata forse la dichiarazione di stima e di gratitudine che vi compare verso quest'ultimo, a salvare il Viaggio dall'oblio ed il suo autore dalla fucilazione? Se il libro si conclude infatti con un'amara lamentazione sulla durezza dell'esilio, Šklovskij trascorse il resto dei suoi giorni in Unione Sovietica pressoché indisturbato, e le ragioni del salvacondotto accordatogli dal regime appaiono quanto meno stupefacenti alla luce della feroce ironia con la quale egli volge al farsesco la maschera tragica della Rivoluzione: quando riferisce della sua decisione di unirsi all'insurrezione di febbraio, egli dichiara con candore che la scelta del fronte col quale schierarsi a quell'epoca non importava più di tanto purché fosse contro lo zar e, tanto per rincarare la dose, aggiunge che nei giorni a seguire la sensazione generale tra gli insorti fosse quella di una vacanza inaspettata; allo stesso modo, nel descrivere il caos dilagante tra le armate impegnate sul fronte polacco egli stenta a capire per quale parte si stia combattendo e perché; addirittura si trova coinvolto, nei primi mesi della guerra civile, in un complotto antibolscevico anche se, a sentir lui, questa presa di posizione sembra essere stata determinata da circostanze fortuite, per non dire casuali.

Nelle crude descrizioni delle atrocità della guerra l'ironia tutt'altro che leggera dell'autore sembra volgersi verso un disturbante sarcasmo dal sapore espressionista, in particolare nel riferirsi agli episodi di cannibalismo durante i terribili inverni del 1918/19 o alla tecnica di ricomposizione dei cadaveri dilaniati dall'esplosivo adottata in caso d'emergenza, vero e proprio esperimento di collage dadaista che suscita le risate impietose di un generale che sta passando in rassegna le truppe.

Il vago sentore di inumanità che traspare dall'ossessione per le macchine che percorre l'intero racconto fa tornare col pensiero a Ripellino e alle sue considerazioni sulla passione per il progresso tecnologico in un paese che ne era stato sostanzialmente tagliato fuori: in quest'ottica, le frequenti visite di Marinetti in Russia negli anni a ridosso della Rivoluzione chiarificano le tendenze cui soccombeva la generazione di intellettuali nella quale Šklovskij si era formato.

Ma bisogna fare attenzione: se infatti la dedica finale del Viaggio sentimentaleè rivolta ad un console americano il cui impegno sul fronte del Caucaso nel salvare quante più vite possibile aveva suscitato la viva ammirazione di Šklovskij, allo stesso tempo le sue memorie si chiudono con un'attestazione di stima nei confronti dello sconosciuto autiere che, nel mezzo del massacro generalizzato, si doleva per le autoblinde lasciate a marcire nelle rimesse. 

A un primo livello di lettura, questa strana equiparazione sembra spingere il sarcasmo di Šklovskij sino al punto di mettere sullo stesso piano il valore di una vita salvata con quello di una macchina rimessa in funzione; ma si consideri anche la possibilità di una lettura tra le righe. 

Nel rifarsi a Sterne e alle sue tecniche ironico/digressive contro il dilagare della morte, Šklovskij si colloca nella scia di una corrente di pensiero all'interno della quale il suo stesso cinico estremismo rappresenta un valore: è la tradizione filosofica del riso melancolico come unico antidoto da opporre ai veleni della storia e alla follia degli uomini; tradizione nobile, si badi bene, della quale Sterne è stato illustrissimo rappresentante, ma che trae la sua linfa dalla volontà del miglior umanesimo di scuotere ad ogni costo le coscienze; ma questa è un'altra storia.

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Jullien. Vivere di paesaggio

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Continua l’intervento di doppiozero a sostegno del Progetto Jazzi, un programma di valorizzazione e narrazione del patrimonio culturale e ambientale, materiale e immateriale, del Parco Nazionale del Cilento (SA).

 

La nostra prima dimora è stata un giardino. Così raccontano i testi fondativi delle religioni del libro e del deserto, la Bibbia ed il Corano, ed è tema che si ritrova nell’India antica. Quando, nel III secolo a.C., venne compiuta la traduzione del Pentateuco che diciamo dei Settanta, per il giardino dell’Eden si preferì ricorrere al termine paradeisos di origine iranica piuttosto che al greco kepos, in cui si conserva anche il senso di grembo materno. Paradeisos indica un luogo recintato, chiuso da mura, con significato analogo all’indoeuropeo ghorto, da cui deriva hortus. Nel luogo che Dio ha affidato ad Adamo perché desse un nome ad animali e piante e ne fosse custode e padrone, la natura è messa al riparo e perfezionata. Il confine che separa l’interno dell’abitare protegge dalla natura selvaggia, dalla foresta senza limiti, luogo delle tenebre e dei pericoli: il giardino rappresenta la serenità delle origini, l’infanzia colpevolmente perduta dall’umanità, ribelle alla legge del padre. Lo spazio chiuso del giardino è congruente all’esigenza greca di tracciare un limite per sfuggire al terrore dell’illimitato; horos, in origine la pietra che segna il confine, che assume poi significato di “definizione”. Il giardino, ancor più quando nella modernità si offre allo sguardo sovrano del soggetto, compiaciuto di avere imposto il suo ordine geometrico alla Natura, obbedisce ai canoni della razionalità dell’Occidente. 

 

Concepire anche il paesaggio a partire dall’orizzonte (horismos) che lo delimita significa già mancarne il tratto precipuo, l’apertura che sfuma verso un’indefinita lontananza. Non è allora casuale che, in ambito pittorico, il paesaggio sia rimasto relegato a genere minore; nei Fiamminghi o negli Italiani del tardo Quattrocento serve a colmare i vuoti del quadro, funge da sfondo e scenografia, prima di conoscere una breve fioritura a partire dal Romanticismo, col venir meno del culto del Bello e dell’esigenza della rassomiglianza. La pittura di paesaggio ha conquistato autonomia nel secolo che da Friedrich e Turner giunge fino al Cézanne in lotta contro la variabilità indomabile della montagna Sainte Victoire. Il termine “paesaggio” compare ai primi del ‘500 (forse è Tiziano il primo a utilizzarlo da noi in pittura), per derivazione da paese (pays, come landscape da land); e ancora oggi i dizionari lo definiscono come la parte di un paese che la natura presenta allo sguardo di un osservatore. La nozione resta così impigliata nella “piega” che il nostro pensiero ha assunto fin dai Greci: il rapporto parte-tutto rimanda alla logica compositiva per cui la realtà si forma assemblando elementi, sul modello della struttura alfabetica che compone parole a partire da atomi-lettere. 

 

 

Se oggi abbiamo riscoperto il pensiero del paesaggio soprattutto per le urgenze ecologiche, restiamo comunque eredi inconsapevoli di categorie che ci rendono difficile comprendere come si possa vivere di paesaggio, come suggerisce François Jullien, il filosofo e sinologo che da oltre trent’anni propone un faccia a faccia fra la cultura dell’Occidente e la tradizione cinese. Quest’ultima ha promosso mille anni prima di noi la pittura (e la poesia) di paesaggio, tralasciando quella delle figure umane e del nudo in cui la nostra classicità ha visto rifulgere il Bello ideale. Un passo di Su Dongpo (XI secolo), uno dei primi pittori di paesaggio, esprime con chiarezza l’emancipazione dall’obbligo infantile della rassomiglianza: “gli uomini, animali, case, mobili hanno una forma costante. Invece montagne e rocce, bambù e alberi, increspature dell’acqua, nebbie e nubi non hanno una forma costante, ma hanno una natura interiore costante”.

 

Non è nella riproduzione della forma umana che il pittore manifesta la sua abilità: “la grande immagine non ha forma”, dice Laozi, una formula da cui Jullien ha tratto il titolo di un altro libro dedicato all’estetica cinese (Colla editore, 2004). Forma (xing) in Cina non è altro che la pausa momentanea di un processo, non c’è forma se non in trasformazione. Del paesaggio non c’è rassomiglianza possibile, esso non si lascia mettere in posa né de-terminare, è inesauribile nelle sue variazioni di grana, di colorazione, di luminosità. L’arte dell’Occidente ha seguito la “piega” ontologica della filosofia, ha cercato, attraverso la consistenza della forma visibile (morphé), di dare espressione alla forma intelligibile (eidos) che costituisce l’essenza dell’oggetto rappresentato. In Cina, non si cerca la rappresentazione, non vi è idea da cogliere; il pittore non è chiamato a riprodurre l’involucro esterno delle cose ma a esprimerne la coerenza interna (chang li), in cui si manifesta la regolazione del processo del mondo. L’alternanza delle fasi yin-yang scandisce il respiro che anima l’universo intero, grazie al soffio-energia (qi) che si rinnova di continuo nelle sue variazioni. Il paesaggio non è una parte ritagliata dal tutto, ma è già il tutto perché in esso è attiva l’operazione del mondo nella sua interezza.

 

La lingua della Cina costruisce gli enunciati ponendo ogni cosa in relazione al suo opposto: pensare non equivale a comporre ma ad accoppiare. Già il termine “cosa” si dice “est/ovest”, non un che di unitario, ma il binomio, la dualità; e l’ideogramma che designa paesaggio è composto da montagna(e)-acqua(e) (shan-shui), o da rocce-nuvole (le rocce sono “radici di nuvole”), o ancora vento-luce. Come nel lascito di Eraclito, che la nostra filosofia ha ben presto smarrito in nome della logica, dell’Essere e della non-contraddizione, gli opposti, a imitazione dei due versanti della montagna, non si escludono ma si richiamano: il verticale della montagna e l’orizzontale delle acque, lo stabile e il continuo fluire, la forma definita e quel che si adatta alla forma delle cose, l’opaco e il trasparente, il solido e il fluido, quel che si ha davanti agli occhi e quel che si stende da diverse parti. Non è la raffigurazione di un volto (come la Gioconda di cui Vasari diceva che sembrava viva) a far apparire la tensione animante da cui ha origine la vita; nei contorni sinuosi della montagna, nelle svolte continue di rocce e nuvole, nelle linee di forza (il cinese utilizza il termine mo, lo stesso delle arterie che fanno battere il cuore umano) del rilievo si scorge l’energia che anima il corso del mondo. Picasso potrà dire, rivolgendosi al “cinese” Malraux, che proprio i Cinesi hanno compreso quel che conta davvero in pittura, non imitare la vita, ma lavorare come lei: dipingere rinnova il gesto con cui la natura genera le forme. 

 

 

Il paesaggio prediletto non è quello del Mezzogiorno, dai contorni definiti e dalle ombre nette; non è il paesaggio mediterraneo, la cui luminosa trasparenza consente alle cose di stagliarsi, facendo credere a un’identità di essenza, ad una fissità pietrificata dal sole. Il pittore cinese non raffigura stati distinti, determinati, ma coglie il mondo nella sua transizione essenziale, nel momento in cui vapori e nuvole rendono evanescenti le cose, cominciano a cancellarle. Il paesaggio rivelatore è quello in cui le cose sfumano progressivamente e le forme si fanno incerte. Occorre un lungo processo di addestramento per giungere a far sì che la natura stessa operi attraverso lo slancio del pennello, per dare ad ogni tocco respiro di vita. Nella pittura tonale, l’artista raffigura la profondità delle montagne in lontananza, stagliate su sfondi resi fluidi dall’inchiostro diluito in acqua; il pennello delinea i contorni, l’inchiostro rende le variazioni d’intensità della luce, vela e rivela, a seconda che la macchia sia diluita o concentrata.

 

“Le cose devono essere presenti e insieme assenti”, scrive Wang Wei (VIII sec.); col gioco di pieno-vuoto, tenendo scostati alcuni peli per lasciare all’interno zone bianche (la tecnica del bianco volante), si traduce in forma visibile il respiro della natura. Il pennello vola leggero come una folata di vento sulla superficie della carta, insuffla nell’inchiostro l’energia germinale che avvia il processo di generazione della forma. Il pittore cinese dipinge il mondo che emerge dalla confusione originale o ripiomba in essa, secondo la grande alternanza respiratoria che lo fa esistere; dipinge non secondo le categorie dell’Essere e del Nulla, ma secondo quelle di un processo continuo, dove le cose stanno per accadere o tendono a scomparire. 

A differenza del pittore occidentale, che si pone di fronte al paesaggio da un punto di vista unico e statico, esterno all’immagine che raffigura (ritagliato dalla finestra albertiana che seziona la piramide visiva), lo sguardo del pittore cinese è mobile, contempla dall’interno il paesaggio fino a perdersi in esso (lo racconta una delle Novelle orientali di Marguerite Yourcenar).

 

Si tratta di una “visione interiorizzata”, suggerisce il titolo di un capitolo di Nell’occhio del pittore di Giuseppe Di Napoli (Einaudi, 2017). Non è l’Io a imporre il suo punto di vista, non siamo più spettatori, vincolati alla posizione fissa della veduta prospettica; lo sguardo si lascia assorbire, passeggia nel paesaggio, lo scopre da diverse angolazioni, non è attivato dagli stimoli ottici ma dalle forze che agiscono all’interno della natura. E quanto viene percepito nel paesaggio si rivela portatore di una componente affettiva; il mondo non-umano non è più estraneo e indifferente, un paesaggio è come un archetto, diceva Stendhal, fa risuonare qualcosa nell’interiorità, non tanto un suono distinto quanto una vibrazione, una risonanza che fa ritrovare l’accordo, l’intesa di fondo fra l’io e il mondo. Nel respiro che anima il paesaggio, troviamo di che “nutrire la vita”; non è necessario ricorrere al cattivo lirismo, allo sfogo soggettivista con cui l’Occidente cerca di compensare la scissione fra mondo fisico e coscienza, siamo ricondotti a monte di quella frattura, nell’indistinto in cui non si è ancora instaurata la frontiera fra materia e spirito. 

 

Grazie alla correlazione fra il vento, che fa vibrare invisibile gli oggetti fisici, e la luce del sole che produce l’alternarsi di ombra e chiarore, il pittore cinese mira a cogliere lo spirito del paesaggio, la dolcezza-ambiente che da esso emana. Lo spirito, il qi, evoca la forma di una nuvola, poi il vapore che si innalza dal riso che cuoce, ed è in primo luogo quel che emana dai corpi, ma senza separarsene, nel senso che da noi sopravvive in “spirito del vino” o del sale. Lo spirituale è il sottile, la quintessenza che procede da una decantazione, non appartiene a un diverso piano della realtà, non è dell’ordine dell’Essere, ma del processuale; si sprigiona dal sensibile e si fa evasivo. Seguire placidamente, in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione – ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo”. Anche l’aura è l’esito di uno sprigionamento, termine anti-metafisico per eccellenza, che sfugge alla presa ontologica. È a questa nozione che Jullien ricorre per comprendere come dalla nostra prima vita possa emergerne una seconda, non dopo la morte, ma qui, nel quotidiano dell’esistenza (Una seconda vita, da poco edito da Feltrinelli). Prendendo distanza dai solchi in cui resta bloccata la vita ordinaria, possiamo imprimerle una nuova partenza; non si tratta di una vita nova, ma di una ripresa che, correggendo scelte precedenti, ci fornisce maggiore spazio di manovra. La “vita sprigionata” consente di “tenersi fuori” – ex-sistere, dice il latino – dai limiti e dai condizionamenti che prima la bloccavano; si apre nel momento in cui comincio a considerare la mia morte come una scadenza e a ritrovare un presente da vivere pienamente.

 

Quando Petrarca descrive la meraviglia del paesaggio colto dall’alto del Mont Ventoux, con gli occhi che vagano dalle nuvole sottostanti alle cime delle Alpi innevate, subito la lettura delle Confessioni di Agostino lo induce a un ripiegamento su di sé, nell’interiorità che comunica con Dio. Gli uomini vanno a contemplare le cime dei monti, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e non si accorgono che la sola cosa degna di ammirazione è dentro se stessi: “niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di più grande”. Nella poesia e nella pittura di paesaggio cinese resta invece ignoto, rileva Jullien, il varco fra la fisicità e l’interiorità: la materialità tende già da sé allo spirituale, per l’animazione che vi si rivela. I monti risplendono, le creste si stagliano nella luce, mentre nell’ombra dei loro fianchi resta la confusione originaria, traspare il fondo senza fondo da cui viene il mondo. I vapori che si levano dalle valli, che sfumano e fondono le forme del rilievo, sono l’immagine dell’aura che da noi si è trovata confinata nell’occulto e nell’irrazionale. Eredi dei Greci, abbiamo cercato nella lontananza evocata dal paesaggio un’apertura verso l’aldilà, l’altro mondo, platonico e cristiano, della salvezza e della verità. Abbiamo operato la scelta a favore del meta-, l’oltre della tradizione religiosa e meta-fisica, ignorando la lontananza che invita al tra, alla condizione indistinta fra essere e non-essere che induce alla rêverie, a vagare con il pensiero. La Cina pensa il lontano come svolgersi di un processo continuo che dalla prossimità si perde (ma senza abbandonare il sensibile) nel vago e nel nebuloso che il nostro pensiero delle distinzioni ha relegato nella poesia. “Il paesaggio se ne va dissipandosi”, scrive Guo Xi; il lontano è pensato come prolungamento senza fine, non ci avvicina al limite ultimo che apre il varco verso un altro mondo, ma ci immerge nella confusione originaria. 

L’esperienza del paesaggio, rileva Jullien, conta sul piano filosofico perché rompe il sigillo dell’opposizione classica fra ragione ed emozione e perché fa scoprire la nostra profonda implicazione con un mondo. Il pensiero cinese non ha edificato la frattura fra l’io e la natura, quella che la modernità ha ulteriormente scavato costruendo una fisica che rompe ogni legame con il vitale; quando alla fine del XIX ha cercato una traduzione per la coppia soggetto/oggetto, la lingua della Cina ha fatto ricorso ad accogliente/accolto, ad indicare il rapporto di ospitalità e non di indifferenza od ostilità. La nostra coscienza ecologica risveglia oggi il sogno di una comunione con la natura, ma in essa non possiamo non vedere anche l’espressione di un rimosso, se non di un senso di colpa. Il paesaggio chiama invece alla connivenza (connivere in latino, cioè intendersi con una strizzata d’occhio), ad un’altra relazione, ad una tacita intesa con le cose. La conoscenza è solo la faccia illuminata del suo inverso connivente, il sapere ombroso a cui resta addossata e a cui ci accostiamo grazie alla poesia e al paesaggio. 

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Wiseman. Ex Libris

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La New York Public Libraryè una delle biblioteche più famose del mondo. In 1997. Fuga da New York (1981), in una Manhattan fuori da ogni legge, la NYPL è il quartier generale del Duca, il perfido criminale che domina la città. Nella prima scena di Ghostbusters (1984), le ordinatissime schede del catalogo, spinte da una forza misteriosa, schizzano fuori dai cassetti e volano nello spazio, terrorizzando la bibliotecaria. 

 

Quello che l'immaginazione hollywoodiana non ha saputo prevedere è il presente della biblioteca, quello che racconta Frederick Wiseman in Ex Libris, il documentario presentato in concorso alla Biennale di Venezia nel 2017. Sono 3 ore e 17 minuti in cui i libri sembrano diventare fantasmi. Se ne vedono pochissimi, malgrado i 53 milioni di unità (volumi, opuscoli, mappe, video...) conservati nei suoi depositi. Per un attimo si intravede il primo libro stampato a caratteri mobili, la celeberrima Bibbia di Gutenberg (anche se all'inizio avevamo sentito dire che il volume non era al momento disponibile). I partecipanti a un gruppo di lettura discutono di sentimenti tenendo tra le mani le copie consunte di Amore ai tempi del colera di Gabriel García Marquez. Non sono molti di più i “physical books” - come vengono ormai definiti dallo staff - che incontriamo in questo viaggio alla scoperta di quel che nasce dai libri, che si muove attorno ai libri, che parte dai libri, ma sta fuori dai libri. Il titolo del film non allude al fatto che i volumi di cui si narra siano di proprietà della NYPL, ma all'infinita gamma di attività che quei volumi ispirano oggi. Questa rivoluzione l'hanno interpretata in maniera innovativa gli Idea Stores londinesi, reinventati da David Adaye, ma investe ormai tutte le biblioteche, anche in Italia. La trasformazione è inevitabile.

Qualcuno lo spiega all'inizio del film: ormai – ma forse da sempre - una biblioteca non è solo e tanto un deposito di libri. Il lucidissimo Wiseman (classe 1930) dev'essere rimasto sorpreso da questa osservazione e ha deciso di verificare come sono cambiate le biblioteche e come sta dunque  evolvendo la cultura. In Ex Libris non mostra quasi nessuno che se ne sta seduto al tavolo, chino sulla pagina, in silenzio. Si legge più spesso insieme, facendo rumore. 

 

Wiseman è documentarista straordinario, che dà il meglio di sé quando racconta la vita e l'attività di organismi complessi, dove al centro delle dinamiche ci sono gli esseri umani e le loro relazioni. Ha raccontato magistralmente, tra l'altro, la National Gallery (2014), l'università di Berkeley (2013), il Crazy Horse (2011), il corpo di ballo dell'Opéra di Parigi (2010), la Comédie Française (1996), il Metropolitan Hospital di New York (1984), un ospedale psichiatrico (1969)... Wiseman non fa domande, non sovrappone il commento della voce fuori campo, non mette sul sottopancia il nome e il cognome di chi parla. L'intera narrazione è affidata alle immagini e ai suoni in presa diretta: parlano i luoghi, gli oggetti, le persone, i loro volti, voci, gesti, sguardi... La cinepresa (o la videocamera) e la troupe scompaiono, come se non esistessero. Eppure questo occhio invisibile ci mostra il reale in tutta la sua ricchezza e complessità. Quegli individui democraticamente anonimi sono parte di una collettività, compongono una comunità che condivide lo stesso luogo e gli stessi obiettivi. La narrazione scaturisce dal montaggio, dal piacere della scoperta, dalla fittissima tessitura dei rimandi interni, intorno a temi che si rinforzano o si contrappuntano. E' una lunga fuga che strato dopo strato, personaggio dopo personaggio, aneddoto dopo aneddoto, si avvicina sempre di più alla verità: ma è una verità complessa, impossibile da riassumere in tutti i suoi chiaroscuri e le sue ironie. Wiseman non ha tesi da dimostrare. Non presuppone alcun giudizio, ma offre allo spettatore gli elementi necessari per giudicare. 

 

 

Per quasi tutto il film restiamo all'interno del maestoso Schwarzman Building, inaugurato il 23 maggio 1911, o in una delle 92 sedi distaccate tra Manhattan, il Bronx e Staten Island. A raccordare le varie sequenze, solo le brevi inquadrature della vita che scorre nelle strade della città. A Wiseman basta punteggiare questi spezzoni in esterni con le immagini dei carri dei pompieri che sfrecciano nella città: dentro quel rifugio la quiete e fuori la traccia del disordine, dentro i rumori ovattati e fuori l'urlo della sirena. Per poi scoprire che tra quei due mondi, tra l'interno e l'esterno, c'è una dialettica strettissima: lo studio, gli incontri, le discussioni sono l'unica possibilità di cercare un ordine nel caos, ma costituiscono un ordine in cui il caos, inevitabilmente, irrompe sovente.

 

Wiseman dimostra che una biblioteca – o meglio un sistema bibliotecario – è tantissime cose, e che  offre una varietà di attività e di servizi in continua espansione. Ci sono gli incontri con le star del sistema culturale: si riconoscono Richard Dawkins che promuove la sua fondazione, Elvis Costello che racconta il rapporto tra musica e rabbia, Patti Smith, Ta-Nehisi Coates. Parlano in tono confidenziale a platee affollate come quelle dei festival letterari. Ci sono autori meno noti, impegnati a riscrivere la storia contro i pregiudizi del passato. E' una pratica politica che diventa più esplicita in biblioteche come la Macomb’s Bridge ad Harlem: lì non si fanno discussioni accademiche ma si confrontano esperienze vissute sulla propria pelle, compresi i prezzi delle chicken wings nei supermercati dei diversi quartieri. Si registra l'attore che legge Nabokov, per chi ha disabilità visive. Nella stessa Andrew Heiskell Braille and Talking Book Library si insegna a muovere i polpastrelli sui caratteri in rilievo. I più piccoli, accompagnati dalla mamma, imparano ad innamorarsi dei libri e delle storie. Si aiutano gli anziani a compilare moduli online e si danno in prestito ai meno abbienti gli hot spot che consentono una connessione casalinga a banda larga, perché l'accesso alla cultura oggi significa anche google, videogame e serie tv. Poi si suona, si recitano poesie. Si imparano a leggere le immagini del formidabile archivio iconografico,  sedimentato nel corso di oltre un secolo. Si visitano mostre, si discute di storia e di politica. Si approfondisce. Il presente si stratifica sul passato. 

 

Lo sguardo di Wiseman si focalizza sui dirigenti e sul personale della biblioteca, impegnati nella gestione ordinaria e nelle scelte strategiche (la NYPL è gestita da una associazione senza scopo di lucro). Dove è meglio investire? Sui “libri fisici” o sugli ebook? (Ogni anno passano per la NYPL 18 milioni di utenti, il suo sito ha 32 milioni di visitatori). Puntare sui best seller, così richiesti ma effimeri, o sul catalogo e sui libri “che tra dieci anni avremo soltanto noi”? Comprare i testi necessari alla ricerca o oppure quelli destinati ai bambini, per crescere nuovi lettori? La tradizione si scontra con la modernità, anche se le stanze che ospitano le riunioni sono quiete e arredate con gusto, anche se gli interlocutori sono preparati, appassionati, entusiasti... C'è l'abitudine e la necessità di romperla.

 

Lo scontro con la realtà del “mondo di fuori” può farsi ancora più duro. Come comportarsi con gli homeless, i senzatetto che trovano nella biblioteca un luogo caldo e accogliente? Come convincere i ricchi sponsor e l'amministrazione pubblica a finanziare queste mille attività? Come spiegare a miliardari e sindaco che le biblioteche sono necessarie al benessere della comunità? La sopravvivenza di un'istituzione sta anche nel rapporto con la politica e con il capitale, nella convergenza di sostegno pubblico e privato. E' anche per questo che in quelle stanze si parla di Marx e di Lincoln, o dei pregiudizi – spesso inconsapevoli ma per questo ancora più devastanti - degli storici nei confronti delle minoranze.  

Wiseman si interessa al destino della biblioteca sfogliando una dopo l'altra le varie funzioni che può svolgere: archivio della memoria personale e collettiva, rifugio per lo studio e la ricerca, centro di riflessione ed elaborazione politica, ma anche di svago e divertimento, community hub, riparo dalla violenza del mondo, pretesto per ostentare la propria ricchezza (e i  propri gusti raffinati, come nelle cene riservate ai filantropi)... E' un luogo di accoglienza, di formazione, di scambio.    

Quello che Wiseman interroga è il senso e la necessità della cultura, oggi, nel suo rapporto con la tradizione e nel suo scontro dialettico con l'innovazione tecnologica e antropologica, ma anche con le tensioni sociali. Una biblioteca non è solo e tanto un contenitore di informazioni e di nozioni, è occasione di incontri A renderla viva sono i rapporti tra le persone, la cura per le cose e per gli altri, la capacità di condividere.

 

Emerge una visione della cultura diversa da quelle tradizionali. Una biblioteca non è solo la cultura “alta”, il museo della tradizione e delle università, un patrimonio da conservare e replicare. Non riflette nemmeno il concetto allargato di cultura proposto dagli antropologi, che investe tutti gli aspetti della vita materiale e sociale, anche se di tutto questo i libri permettono di tenere una traccia. 

La cultura è uno strumento dinamico. Evolve. Si adatta. Muove le persone, le cambia. E cambiando le singole persone, cambia l'intera società. Fare cultura oggi, mostra Wiseman, significa accrescere competenze, consapevolezza, coraggio. Significa attivare relazioni, ampliando l'accesso a categorie finora escluse dai consumi culturali. La cultura è strumento di emancipazione e di crescita individuale e collettiva. Per ottenere questi obiettivi, la solitudine dell'abitante della metropoli non basta. Non basta nemmeno l'autosufficienza narcisistica dell'internauta. 

 

La biblioteca è lo spazio fisico – ma sono soprattutto le persone preparate, appassionate, curiose – in cui la cultura può accadere. Nelle biblioteche si combatte una grande guerra, che viene però vinta soprattutto grazie alle piccole battaglie, a una guerriglia costante, giorno per giorno, quartiere per quartiere. Libro dopo libro, pagina dopo pagina. E questa guerra si vince anche e prima di tutto fuori dai libri, ma a partire dai libri, là dove un tempo sembrava che ci fossero soltanto libri.

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Al futuro non ci crede nessuno

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L’immaginazione nazional-popolare del bel paese è malata di passato e carente di futuro. Ladri di futuro lo hanno sottratto. Volete un esempio? Nella tarda primavera, al salone del libro di Torino, – e già mi sembra di andare troppo indietro – Giorgio Agamben si esprime in questi termini: “Il futuro, che non esiste, può essere inventato di sana pianta da qualsiasi ciarlatano. Diffidate, tanto nella vita privata quanto nella sfera pubblica, di chi vi offre un futuro”. L’autore prende spunto da un aforisma ancor più drastico di Flaiano, “Ho una tale sfiducia nel futuro, che faccio progetti solo per il passato”. Sono sentenze che esprimono la convinzione, assai diffusa nello stivale, secondo cui l’unica chiave che permette di comprendere la realtà sia il passato, “mentre uno sguardo rivolto unicamente al futuro ci espropria, col nostro passato, anche del presente”. 

 

Ma è un giudizio corretto? O piuttosto questa sfiducia verso il futuro è una malattia cronica che affligge il nostro sentimento nazional-popolare? Veramente il futuro è solo un inganno ordito per ingannare i molti? Un fuoco fatuo? Una sirena che porta i naviganti ad affondare scontrandosi contro le rocce della (dura e immutabile) realtà? O non è forse il contrario? Non sono piuttosto coloro che, disprezzando il futuro, impediscono alla fantasia di immaginare il futuro e quindi scoprire nuove vie?

Intendiamoci, non sto parlando del futuro reale dell’Italia che studenti, imprenditori, studiosi, creano ogni giorno! Voglio piuttosto riferirmi a una strana cecità, da parte dell’immaginario di formulare scenari futuri. Mi interrogo sui motivi che determinano, nella produzione letteraria e mediatica tricolore, una assenza così cospicua. Non mi interrogo sul valore estetico di un’opera in base alla sua collocazione temporale. Non equivocatemi. Il punto è un altro: come mai un’intera nazione non considera, se non in casi rarissimi, scenari futuri? Come mai l’immaginario italiano è prigioniero del passato remoto, prossimo, storico, individuale o esistenziale?

 

Intanto verifichiamo questa impressione. Cerchiamo qualche dato oggettivo pur senza la pretesa di un’analisi statistica. Prendiamo come punto di partenza un premio letterario famoso: il premio Strega. Su 44 opere premiate dalla sua fondazione, quante di esse erano ambientate in uno scenario futuro? La risposta è inequivocabile: nessuna. Ogni volume uscito dallo Strega è rivolto al passato. Analoghe statistiche “bulgare” emergono dall’analisi di altri premi letterari o, più semplicemente, dalle classifiche dei testi italiani di maggior successo. Quasi tutti gli autori si muovono in un passato prossimo esistenziale dove il confine del presente rimane invalicabile. Da Fabio Volo a Federico Moccia, da Giorgio Faletti a Giancarlo De Cataldo, lo sfondo temporale coincide con il passato più o meno prossimo, più o meno esistenziale, più o meno soggettivo.

 

Significativamente, Sebastiano Vassalli ha intitolato la sua opera di maggior successo Archeologia del presente, e di archeologia si tratta. Se, poi, allarghiamo lo sguardo e consideriamo gli ultimi cinquant’anni di letteratura italiana, il panorama non cambia. In fondo, questo amore per il passato, sentito come l’unico scenario accettabile per un’opera narrativa, non è una caratteristica recente; è qualcosa che ha radici antiche e diffuse. Umberto Eco ha fatto della ricostruzione erudita del passato un labirinto dal quale è impossibile uscire. Tomasi di Lampedusa ha elevato il passato della sua terra a dimensione esistenziale. Certo, ci sono state eccezioni, Italo Calvino per esempio. Ed esiste un filone molto interessante di scrittori di fantascienza italiana, Valerio Evangelisti o Tommaso Pincio. Ma questi casi, peraltro non popolarissimi, non sono altro che l’eccezione che conferma una zeitgeist passatista. Non ci hanno forse insegnato che la letteratura italiana nasce con il romanzo storico dei Promessi Sposi? Nasce guardando indietro. Il futuro non è nemmeno accennato. Lo strumento dell’immaginazione è uno specchio retrovisore. 

 

Lo stesso vale per gli altri settori della produzione dell’immaginario. Consideriamo il cinema: i nostri registi hanno l’obiettivo rivolto a un passato che non esiste più o, al massimo, a un presente già concluso. I registi “classici” hanno spremuto miele e suggestioni dal passato più o meno remoto dello stivale: Risorgimento, guerre mondiali, ricostruzione, boom economico, anni di piombo. Fellini ci riporta alla riviera romagnola della sua infanzia, Bertolucci descrive la bassa padana dei primi del novecento, Magni racconta la Roma risorgimentale, Leone rispolvera il passato della Grande Mela, Gabriele Salvatores torna all’Italia della guerra. Il capolavoro di Ettore Scola, “C’eravamo tanto amati”, ha nell’imperfetto la cifra della condizione esistenziale. E così fino ai giorni nostri. Paolo Sorrentino affoga nel buco nero di una capitale soffocata dal passato, dove i rifiuti urbani e i detriti esistenziali si mescolano per diventare un’unica sostanza. I racconti che gli italiani inventano, su pellicola o carta, guardano indietro a un passato storico o esistenziale: l’infanzia, i genitori, i progenitori, l’Italia che fu. 

Le produzioni televisive non sono diverse, popolate da oleografiche figure rassicuranti – vie del centro, vetrine, i Cesaroni, medici, preti e carabinieri. Ricostruiamo tutto, ma non passiamo il Rubicone del momento presente. 

 

Illustration Kirsten Beets.


Persino nel mondo dei fumetti, da sempre terreno ideale per esplorazioni fantastiche, la produzione italiana è per lo più rivolta al passato. Il nostro più grande artista, Pazienza, ha raccontato il suo presente, spesso buio e angosciato, ma non è andato oltre. Da Zanardi a Pompeo, il suo mondo non oltrepassa mai il segmento temporale delle sua esistenza personale. Altri maghi delle chine – da Toppi a Bonnelli, da Manara a Magnus – hanno scelto per le loro storie la riesumazione, spesso minuziosa, del passato nazionale o straniero. Il fumetto italiano, con qualche eccezione, non ha mai prodotto quella rutilante cornucopia di possibili che è esplosa nel fumetto internazionale: dal Moebius a Jodorowsky, da Moore a Gaiman. 

 

Anche la nostra lingua, tanto elogiata, risente di questo ripiegamento sul passato. Nell’italiano odierno, la maggior parte delle parole che si riferiscono al futuro – nuove professioni, tecnologie, modi di vivere – sono di origine estera e stanno sostituendo il nostro idioma locale. La nostra lingua sta diventando la voce del passato, dell’arte classica, della musica classica, dell’Opera e del ricordo. Siamo circonfusi dalla luce dorata del tramonto, più che dal chiarore debole ma promettente dell’alba. 

Se guardiamo oltre i confini nazionali, ci accorgiamo che questa ritrosia nell’immaginare il futuro non è una caratteristica delle culture mature (mi si perdoni il termine!). Il mondo non teme il futuro, non ha paura di immaginarlo. Gli autori non temono di essere tacciati di ingenuità. Il futuro immaginato non è visto come una bugia. Nell’immaginario internazionale, l’ucronia è un vero e proprio genere. L’elaborazione – più o meno critica, più o meno realistica, più o meno credibile – di mondi possibili è uno dei principali motori narrativi (Verne, Wells, Huxley, Gernsback). Méliès ci porta sulla Luna nel 1902; il primo numero di Amazing Stories è stampato nel 1926. Lang gira Metropolis nel 1927. Lo stesso vale per la televisione. Doctor Who nasce nel 1963; The Twilight Zone nel 1959; Star Trek nel 1966. È una tradizione destinata a continuare – Black Mirror, The ExpansionGalacticaThe Hundred, Life on Mars, Westworld. E non confondiamo l’immaginazione rivolta al futuro con la fantascienza che ne è soltanto una declinazione possibile.

 

Accertato il fatto, ovvero la diffusa mancanza del futuro come protagonista del nostro immaginario, non si può fare a meno di interrogarsi sulle cause di questo scotoma culturale. Io ne propongo alcune, pur senza alcuna pretesa di fornire un elenco esaustivo: l’educazione scolastica, la tradizione vasariana, il fallimento storico, la conservazione sociale.

Da un lato, l’impostazione culturale dei programmi scolastici continua ad avere nella storia la sua cifra di fondo. Troppo spesso gli studi umanistici sono declinati in senso storicistico. Non si studia arte, ma storia dell’arte. Non si studia letteratura ma storia della letteratura. Non si studia filosofia, ma storia della filosofia. E così via. L’influsso dello storicismo crociano rimane forte. Il museo viene proposto agli studenti come la rappresentazione iconica della cultura; ma in questo modo si propone qualcosa che è morto, congelato dietro una teca come una reliquia da adorare, legato a un presente che non è più e che si può solo contemplare e studiare. 

Si ripete spesso l’aforisma di Santayana secondo cui chi non conosce il proprio passato è destinato a ripeterlo. Ma proprio la storia ci mostra come questa massima sia spesso contraddetta dai fatti. La continua ripetizione della storia e il suo ricordo riducono lo spazio per la creazione fantastica, smorzano l’immaginazione, incoraggiano la rigidità. Se guardiamo agli esempi che proprio la storia ci mostra, sono gli stati che non hanno passato che spesso si spingono in avanti con maggiore decisione. I grandi re, spesso, sono rimasti orfani da piccoli. Un grande passato non è un problema perché vale poco, ma proprio perché valeva molto. Dopo il Vasari, gli Uffizi sono diventati l’obitorio della creatività artistica toscana. 

 

Certo, storicamente l’Italia è stata vittima di futuri sbagliati e imposti politicamente. Il futurismo è stato associato al fascismo. Troppo spesso futuri improbabili sono stati proposti da imbonitori demagogici. Frequentemente, la tecnologia e la scienza sono state, e sono ancora, vissute come elementi estranei alla nostra cultura. La scienza non è la cifra del nostro paese a prescindere da quanti scienziati abbiamo prodotto e produciamo. Molte volte le promesse non sono state mantenute. Eppure, non dobbiamo confondere l’uso strumentale del futuro dall’esercizio positivo della capacità di immaginare il possibile.

La devastazione sociale indotta dall’assenza di politiche ha fatto vivere a molti il cambiamento tecnologico del ventesimo secolo (da alcuni definito il secolo sbagliato) come una sciagura. Non è così! Oggi siamo migliori, come ha dimostrato Steve Pinker nel suo recente Il declino della violenza (2013). La fiumana del progresso non è quella forza negativa paventata da Giovanni Verga. Immaginare il futuro non evoca demoni. Gli italiani del Novecento hanno subito passivamente il progresso come una forza ingovernabile, proprio perché non lo avevano immaginato. Ma questa passività dell’immaginazione nasce, più che da una debolezza, da un scelta deliberata, da una volontà precisa che si manifesta in una diffusa supponenza da parte di autori e intellettuali nei confronti dell’immaginario in senso lato: i ladri di futuro. L’aderenza alla realtà non richiede la rinuncia a dare sfogo a quella ingenuità che sola permette di inventare mondi possibili. Molti intellettuali si sono formati su canoni che derivano dal nostro passato e che reiterano l’esistente. La cultura rivolta al passato si manifesta in forma di vincoli che guidano, ma rendono conformi e privi di originalità. Al contrario, il bambino crea il futuro perché non si pone limiti. A volte incespica e cade, ma prima o poi compie l’inaspettato, lascia il nido e spicca il volo.

 

Il fatto di immaginare il futuro ha importanti conseguenze. È rivoluzionario perché mette in discussione gli equilibri del presente e del passato. Si capisce così perché molte istituzioni e molte classi sociali vedano con sospetto il futuro, quando non lo disprezzano direttamente. Il futuro è la terra incognita dove chi ha posizioni da difendere potrebbe perdere tutto. Chi immagina il futuro potrebbe essere tentato dal trasformarlo in realtà. L’intellettuale è, per sua natura, conservatore; soffre della sindrome di Saturno; soffoca i propri discepoli o li sceglie in modo da non esserne oscurato. I maestri non vogliono essere superati, ma adorati e quindi sentono il futuro con paura, temendo che da esso fuoriescano quegli eroi capaci di quelle gesta che loro, da giovani, sognavano di compiere e, da vecchi, dichiarano inutili o impossibili.

Un radicato pregiudizio della cultura italiana consiste nel bollare con il marchio infamante dell’opera di evasione quei lavori che non contengono i contenuti, tradizionalmente attribuiti alla cultura: analisi esistenziali, esercizi eruditi, critiche sociali, percorsi di formazione, esplorazioni dell’ombelico. Come diceva Orazio, siamo laudatores temporis acti. La fantascienza, il genere fantasy, il racconto fantastico e utopico invece sarebbero, a causa del loro contenuto, racconti per immaturi. È il contrario! L’immaturo è colui che ha paura di sognare, di immaginare il nuovo.

 

In senso psicologico, la sfiducia verso il futuro è un segno di immaturità, perché è la declinazione culturale dell’incapacità di staccarsi dai genitori, dal passato che incarna un’autorità immeritata. L’ignoto deve essere immaginato, ma anche creato, sfidato, conquistato. Guardare verso il passato è consegnarsi all’autorità dei genitori; è la rinuncia di mettersi al livello dei nostri predecessori, uccidendo, almeno in effige, la sorgente dell’autorità che ci aveva accompagnato nei primi incerti passi. Immaginare il futuro mette in discussione l’autorità dei padri e lo status quo. Per crescere bisogna decapitare i propri padri. 

Il creatore di futuro è, sostanzialmente, colui che mette in discussione la legittimità del presente. Il visionario mette in discussione l’ordine costituito. Immaginare il futuro richiede umiltà, ma anche coraggio. Si deve osare di vedere più lontano dei propri predecessori, non importa quanto grandi siano i giganti o i nani su cui ci si appoggia. Il futuro è per sua natura democratico perché lascia a tutti la possibilità di costruire una realtà diversa dal presente. Per questo motivo l’immaginazione del futuro sfugge al potere perché, essendo immateriale, non può essere controllata. Può però essere smorzata, spenta, scoraggiata, resa poco rispettabile. Per esempio, togliendola dall’immaginario collettivo.

 

Baricco ha recentemente espresso una interessante metafora a difesa del pensiero fantastico e utopico. L’utopia, secondo Baricco, è quella camera iperbarica, isolata dalla realtà, dove è possibile sintetizzare sostanze chimiche altrimenti impossibili. Una volta create, queste sostanze possono poi essere liberate nel mondo reale per cambiarlo. Il pensiero utopico è fantastico, quindi, lungi dall’essere un’inutile fuga dalla realtà, è un grembo protetto dove i semi del futuro, ancora fragili e incerti, possono germogliare per poi propagarsi. Concepire ciò, che ancora non è, non rappresenta una fuga dalla realtà. Anzi! Il primo passo per far sì che ciò che non è sia è pensarlo in quello spazio libero che è l’immaginazione. Certo, è ancora forte l’eco rumoroso del fallimento dello slogan sessantottino di Marcuse, l’immaginazione al potere. Ma qui il ruolo dell’immaginazione non va inteso in senso politico, ma come spazio creativo libero che si proietta nella progettazione di futuri possibili.

 

Il futuro e la fantasia sono visti con sospetto da una cultura, come quella italiana, che ha fatto della conservazione e della adorazione del proprio passato, la cifra dominante. Gli italiani, per lo meno nel loro immaginario, sono come quel popolo peruviano, gli aymara, che è diventato celebre perché dice di avere il passato davanti a sé. Il passato, infatti, si vede, mentre il futuro è invisibile. Quindi il passato è davanti, mentre il futuro è alle spalle. Forse anche gli Italiani potrebbero essere oggetto di studio, anche noi vediamo solo il passato. Come diceva Flaiano, facciamo progetti solo per il passato.

La mancanza di immaginazione ci impedisce di gestire quello che sarà. La povertà del nostro immaginario, coltivata in nome di una presunta disonestà del futuro, è così grande da diventare una gigantesca macchia cieca. Non sorprendentemente, il futuro arriva da questo lato e così diventa sempre emergenza alla quale si reagisce con soluzioni vecchie. Per essere protagonisti del futuro bisogna esserne i creatori. Futuro e immaginazione sono due lati della stessa medaglia. Una nazione ha bisogno di giocare con le possibilità del reale se non vuole diventare una vittima passiva degli eventi. Chi non immagina il proprio futuro, subisce quello creato dagli altri. 

 

Gli italiani non immaginano il futuro; sono passatisti. Mentre in Italia si rispolvera la sfiducia di Flaiano, due psicologi americani, Martin E.P. Seligman e John Tierney, sulle pagine del New York Times, sostengono che l’uomo non è fatto per vivere nel momento presente (e meno che mai in quello passato). L’uomo, secondo loro, è fatto per vivere nel futuro, è un futurista. Noi saremmo Homo Prospectus perché “la principale funzione della nostra mente è immaginare il futuro”. Per farlo, però, si deve avere il coraggio di accettare di distruggere il passato e questo passato, troppo spesso, coincide con noi stessi. L’innovatore riesce a cambiare perché è capace, come il bruco, di divorare se stesso per rinascere farfalla. Il nuovo consuma il vecchio. La buona novella è che noi possiamo decidere: vogliamo essere futuro o vogliamo essere passato? A volte basta un po’ di esercizio. L’immaginario è la palestra dove la nostra capacità di essere futuro può nascere, crescere e diventare realtà.

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Gli occhi del capitale

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Blade Runner 2049

In occasione dell’uscita del film Blade Runner 2049, diretto da Denis Villeneuve, Vanni Codeluppi ha curato per l’editore FrancoAngeli il volume Blade Runner Reloaded, che contiene scritti di David Harvey, Antonio Caronia, Simone Arcagni, Mauro Ferraresi e altri. Doppiozero presenta in esclusiva l’introduzione del volume.

 

Il successo di Blade Runner è probabilmente dovuto all’estrema cura formale con la quale questo film è stato realizzato, ma anche al fascino di un’atmosfera in sintonia con un gusto estetico tipicamente postmoderno, con architetture, arredi, oggetti e segni che intrecciano in grande libertà epoche e stili espressivi differenti. Va considerato inoltre che Blade Runner non conteneva una rappresentazione realistica della città di Los Angeles, cioè, come è stato spiegato da Mike Davis, «la grande pianura senza soluzione di continuità fatta di bungalow in decadimento, e di bassi villini stile ranch» (Agonia di Los Angeles, pp. 43-44), ma, se pensiamo che Los Angeles rappresenta nel nostro immaginario la città della finzione per eccellenza (grazie soprattutto alla presenza di Hollywood e Disneyland), appare evidente che per questo film non poteva essere rintracciata un’ambientazione urbana più adeguata. Si spiega così perché Blade Runner abbia dato vita con grande successo al modello per eccellenza della metropoli postmoderna. Una metropoli dispersa sul territorio e priva di una storia, proprio come Los Angeles.

L’elevato interesse suscitato da Blade Runner deriva però soprattutto dal fatto che, come ha sottolineato David Harvey nel volume La crisi della modernità, al centro delle vicende raccontate dal film ci sono dei replicanti, ovvero degli esseri umani che vivono solo quattro anni ma in una maniera particolarmente intensa: «I replicanti esistono, insomma, in quella schizofrenica accelerazione del tempo che Jameson, Deleuze, Guattari e altri considerano fondamentale nella vita postmoderna.

 

 

Ed essi si muovono attraverso lo spazio con una fluidità che permette loro di acquistare un’immensa quantità di esperienza. Sotto molti aspetti questi personaggi corrispondono al tempo e allo spazio delle comunicazioni mondiali istantanee» (p. 377). I replicanti corrispondono cioè a quella compressione spazio-temporale che caratterizza l’odierna fase avanzata di evoluzione del capitalismo, dove la tecnica è andata sempre più ad imporsi sulla soggettività individuale. E dove il capitale si è fatto globale ed è pertanto diventato indifferente alle esigenze specifiche delle comunità e dei territori. Non a caso, i replicanti nel film in questione vengono costruiti mediante dei processi produttivi che sono tipicamente “postfordisti”, cioè basati sull’esternalizzazione e sulla divisione dei processi lavorativi tra diversi specialisti e differenti luoghi. I sofisticati occhi tecnologici dei replicanti, ad esempio, sono prodotti nello scantinato di un emigrato di origine orientale, dove sembra scarseggiare l’igiene. In un luogo, dunque, simile a quelli nei quali di solito nascono i prodotti tecnologicamente avanzati delle odierne marche globali.

 

A rendere però Blade Runner particolarmente sintonico con l’attuale fase evolutiva del capitalismo è soprattutto la rappresentazione buia e cupa che tale film fornisce della vita urbana. La metropoli del futuro vi viene infatti dipinta come un luogo estremamente pericoloso, un incubo inquietante che richiama l’atmosfera tipica di molti film noir del passato e in cui si può soltanto sperare di riuscire a sopravvivere. Manca dunque in Blade Runner la fiducia in un modello sociale positivo. Gli individui sono costretti a restare chiusi dentro la società in cui si trovano, la quale sta vivendo una situazione di profonda crisi, senza più una dinamica temporale in grado di connettere il presente con il passato e il futuro.

 

E anche qui, come nel film Alien anch’esso diretto nel 1979 dal regista Ridley Scott, il pericolo si nasconde nell’altro, si nasconde cioè nello straniero o nel diverso. Ma l’altro adesso è esattamente uguale a noi, è un replicante che ci assomiglia in tutto e per tutto. Non ci si può dunque più fidare dei propri simili. Anzi, sono questi i soggetti maggiormente pericolosi, perché sono indistinguibili da noi. Tutto ciò risulta ancora più evidente nella versione del film che è stata rimontata da Scott nel 1992, e cioè il Director’sCut, nella quale il protagonista del film, il cacciatore di replicanti Rick Deckard interpretato da Harrison Ford, viene considerato a sua volta come un replicante. Pertanto, non è più possibile definire con precisione chi è l’Altro – il nemico da combattere – e ciò rende impossibile esercitare un qualche controllo su di lui. Ne deriva una condizione di vita in cui il pericolo può nascondersi ovunque e si presenta pertanto come una minaccia generalizzata alla quale è difficile fare fronte.

 

Insomma, il film Blade Runner ha lucidamente registrato che aveva cominciato a disgregarsi quel tessuto sociale comune che aveva contraddistinto le società occidentali durante l’epoca d’intensa industrializzazione che si era sviluppata a partire dagli anni Cinquanta. Ciò spiega perché, al posto di quella che il filosofo Byung-Chul Han ha felicemente denominato nel volume La società della stanchezza«epoca immunologica», caratterizzata da una netta distinzione tra l’interno e l’esterno, tra il proprio e l’estraneo, negli ultimi anni sia emersa una fase sociale dove l’Altro diventa estremamente difficoltoso da identificare. Una fase sociale cioè nella quale «al posto dell’alterità abbiamo la differenza, che non provoca alcuna reazione immunitaria» (p. 10). L’estraneo lascia così il posto all’esotico, che non pone problemi e può pertanto essere affrontato con estrema facilità. Anche perché il processo di globalizzazione ha bisogno che le barriere vengano abbattute, ma anche, nel medesimo tempo, che il flusso delle relazioni sociali ed economiche non venga ostacolato.

 

Blade Runner ha mostrato perciò con chiarezza all’epoca che la ragione umana aveva cominciato a essere diventata impotente nei confronti dell’Altro. Ciò che questo film ha soprattutto evidenziato è la crisi del soggetto occidentale e della sua possibilità d’interpretare il mondo e plasmarlo secondo la sua volontà. In precedenza, infatti, l’atto di vedere dell’essere umano era considerato come un atto di conoscenza e dunque di dominio sulla realtà, ma adesso non ci si può più fidare di quello che l’occhio vede. Non a caso all’inizio di Blade Runner è presente la celebre inquadratura a tutto schermo di un occhio azzurro spalancato sul quale si riflettono i bagliori infuocati di una Los Angeles notturna e infernale. È una sorta di “occhio-specchio”, un occhio cioè che si limita a riflettere la realtà esterna, ma che non appartiene più a un soggetto dotato della capacità di agire su di essa.

 

Per questo non turba chi lo guarda. Per lo spettatore davanti al film, tale occhio non appartiene a qualcuno che lo sta vedendo, ma è uno specchio che si limita semplicemente a riflettere uno spazio urbano che egli non conosce e dal quale non viene perciò ad essere coinvolto. D’altronde, sembra che si tratti dell’occhio di uno dei tanti replicanti, i quali sono impiegati dagli esseri umani come strumenti per esplorare le zone dell’Extramondo considerate troppo rischiose. È cioè un “occhio-protesi” che consente all’umanità di vedere anche dove non può essere presente. Se la modernità è nata nel Rinascimento con l’invenzione della prospettiva, che ha consentito agli esseri umani di stabilire un punto di vista a partire dal quale potevano dominare il mondo, ora nel postmoderno tende a prevalere un’indistinzione tra l’occhio e la realtà che esso guarda, cioè tra il soggetto e l’oggetto della visione. L’occhio del replicante che viene mostrato all’inizio di Blade Runner costituisce dunque un’esplicita metafora dell’intensa crisi in atto per la soggettività umana.

 

Essendo l’occhio del replicante un occhio artificiale, la sua visione deumanizzata prefigura inoltre il predominio sociale successivo dell’immagine digitale. Cioè un’immagine di sintesi che può prescindere totalmente dall’atto di visione effettuato dall’occhio umano. Un’immagine generata da una macchina che, come succede di frequente in Blade Runner, può essere facilmente manipolata e falsificata. D’altronde, appare sempre più evidente oggi che, come è stato sostenuto da Silvio Alovisio nel volume di Bertetti e Scolari Lo sguardo degli angeli, «crescono le potenze dell’occhio, ma diminuiscono in proporzione le conoscenze effettivamente raccolte.

 

Lo spazio dell’immagine non può più dire nulla, o quasi nulla, sul mondo: è un’entità autonoma, con le sue leggi, le sue geometrie non euclidee» (p. 42). In precedenza, la fotografia era un documento, una prova che attestava la presenza del soggetto, mentre ora si conferma che il soggetto umano tende ad uscire di scena e con esso sparisce anche la sua immagine fotografica.

Un film come Blade Runner può dunque essere considerato il risultato di quella fase sociale d’intensi cambiamenti che ha caratterizzato gli anni Settanta in Occidente e che ha portato a una nuova tappa evolutiva del capitalismo: il «biocapitalismo» (Codeluppi). Certamente, infatti, nelle società occidentali si sono presentati durante il Novecento diversi periodi di forte trasformazione. Si pensi, ad esempio, agli anni Venti e Trenta oppure agli anni Cinquanta e Sessanta. Ma è probabilmente durante gli anni Settanta che sono avvenuti i mutamenti più radicali, destinati a plasmare la struttura economica e sociale del mondo occidentale contemporaneo.

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Malaria, zanzare e frontiere

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Era un mattino tranquillo e luminoso e il sole cominciava a riscaldare la piccola ma frequentatissima clinica di Ndoba Ndoba: quattro muri e un tetto, parliamoci chiaro, con un portico sotto al quale la gente si assiepava attendendo il proprio turno. Non ero lontano dalla Missione di St. Philip gestita dalle Suore Missionarie di Santa Teresa Cabrini che prestavano i loro servizi medici anche in queste cliniche dei poveri nel mezzo del “bush”. Quella fu la mia prima esperienza in Africa, un’Africa incantevole con i freschi monti del Drakensberg e le vallette verdeggianti del piccolo regno dello Swaziland dove lavorai per qualche tempo. Aprendo la porta che dava sul portico che fungeva da sala d’attesa, mi trovai improvvisamente di fronte a un ragazzo di circa quattrodici anni, alto e magro, esausto e incapace di reggersi in piedi. Entrò nell’ambulatorio in silenzio, barcollando e facendosi strada tra le tante donne che affollavano l’esterno sedendo in terra con i loro bambini schiamazzanti. Non parlava né inglese né siSwati e cercava di comunicare nella sua lingua.

 

Arrivò una donna che la conosceva e tradusse: era giunto a piedi dal Mozambico salendo nella notte sui monti Lebombo, che in questo tratto di paese segnano il confine con lo Swaziland, scendendo poi sino alla piccola clinica che non era distante dal confine tracciato nel “bush” per cercare qualcuno che si prendesse cura di lui. Sister Raphael, la sorella-infermiera che era con me, una santa donna scozzese che era entrata giovanissima nell’ordine per dedicare la vita ai poveri d’Africa, si ricordò di averlo già visto qualche giorno prima, quando si era presentato con febbre alta: la diagnosi era stata facile e lo avevano trattato per la malaria. In quegli anni, il fenomeno della resistenza ai farmaci era agli inizi e si presumeva che la clorochina, medicinale economico e poco tossico, funzionasse sempre. Ma così non era per il poveretto che evidentemente soffriva di una forma aggressiva e resistente al farmaco. Avevamo il chinino e lo trattammo in quel modo. Non so cosa fu di lui dopo la sua visita a Ndoba Ndoba, ma probabilmente guarì. I bambini africani, infatti, sono spesso a contatto con i vettori della malaria, le zanzare del gruppo delle anofele, e si infettano sin dai primi mesi di vita.

 

Ancora oggi, molti soccombono, ma la maggior parte supera gli episodi e acquisisce presto una certa immunità parziale che li rende capaci di resistere agli attacchi successivi senza troppe conseguenze. Ricordo una collega ugandese che ebbe un attacco di malaria mentre viaggiavamo in Kenia: mi disse che quel mattino non si sentive troppo bene e aveva una febbricola; allora prese dei farmaci e continuò il viaggio come se nulla fosse. Non così sarebbe per noi che viviamo nel “nord” del mondo avendo “dimenticato”, intendo immunologicamente, la malaria e quindi molto più suscettibili di ammalare di forme gravi che possono anche uccidere uno su cinque tra gli infettati.

 

 

La malaria è malattia antichissima che pare sia nella storia umana da decine di migliaia di anni. Era ben conosciuta da Ippocrate e anche dai romani. Il suo nome, “mal’aria”, è di origine medioevale e sta ad indicare la sua affinità per le arie malsane, e un suo sinonimo, “paludismo”, è usato nella lingua francese proprio a suggerire che le paludi avevano qualcosa a che fare con la malattia. In Italia, colpita storicamente da frequenti epidemie estive, a partire dal ’600 ci furono validissimi studiosi della malaria: dal romano del XVII secolo Giovanni Maria Lancisi che ipotizzò per primo una connessione con le zanzare, al grande Camillo Golgi, premio Nobel per la Medicina nel 1906, che collegò l’atteggiamento periodico – ogni tre oppure ogni quattro giorni – degli attacchi febbrili con diverse specie del parassita che causa la malattia, un protozoo – ovvero un organismo unicellulare – scoperto qualche anno prima da un altro Premio Nobel, il francese Alphonse Laveran. Furono anni di grande intensità, evidentemente, e portarono altri due italiani, Marchiafava e Celli, a dare il nome di plasmodio (Plasmodium) al protozoo di Laveran. Sappiamo oggi che esistono 5 specie di Plasmodium: P. falciparum, il più aggressivo e mortale, P. vivax, P. ovale, P. malariae e P. knowlesi.

 

Ma si trattava di capire chi trasmetteva il plasmodio. Le ipotesi in passato erano state molteplici, come d’altronde per molte altre malattie infettive nell’era precedente la microbiologia, e tra le più fantasiose: dalla collera divina ad animali “invisibili” che infestano le paludi. Ronald Ross, che a sua volta ricevette, non per caso, il Nobel nel 1902, scoprì che infatti si trattava di zanzare e il nostro Grassi riuscì a documentare che erano quelle del genere anofele. Questa scoperta avviò lo studio dei metodi per prevenire e controllare la malaria che il noto parassitologo brasiliano Chagas sperimentò con successo già ai primi del ‘900: si trattava di eradicare le zanzare dall’ambiente interrompendo la trasmissione e il tutto si sarebbe risolto. L’era della chemioterapia antimalarica, iniziata poi nei primi anni del 1900 con l’introduzione del chinino, una sostanza naturale proveniente dalla corteccia di una pianta sud-americana, permise di combattere la malaria conclamata con farmaci capaci di sterminare il plasmodio nel sangue del malato.

 

L’Italia addirittura varò una legge “del chinino di Stato” nel 1895, legge messa in atto a partire dai primi anni del nuovo secolo che permetteva a chiunque di accedervi attraverso la distribuzione di massa nelle tabaccherie e gratuitamente per i poveri. Il risultato fu eccellente con il dimezzamento delle morti da malaria da 16,000 nel 1895 a meno di 8000 nel 1905. Nel 1915, si era già scesi a 2000. Tutto ciò fu possibile grazie al chinino e alle intense campagne di eradicazione che prevedevano la bonifica delle aree palustri dove si annidava e viveva l’anofele. L’introduzione del DDT, nell’immediato dopoguerra, concluse il processo di eradicazione dal nostro paese con gli ultimi due casi registrati nel palermitano, uno nel 1962 e il secondo nel 1965.

 

Chi si cura di insetti, anche solo per liberarsene quando diventano insopportabili come le mosche e le temibili zanzare, sa che queste ultime appartengono a diverse specie. Tre gruppi di specie sono importanti sotto l’aspetto della salute umana: Culex, Aedes e Anopheles. Le terribili e comunissime Culex, ad esempio, sono quelle che ci svegliano di notte con il loro fastidioso ronzio alle orecchie e l’odioso e immancabile ponfo rosso e gonfio che prude fortemente. Queste zanzare non solo sono ovunque si vada in estate tormentando le nostri notti, ma possono trasmettere la malattia del West Nile, causata da un virus, che si manifesta come una seria influenza. C’è poi la zanzara tigre, cosiddetta per via delle striature che ne caratterizzano l’addome, di origini tropicali ma sospinta sempre più a nord dal riscaldamento globale. Queste zanzare sono tecnicamente chiamate Aedes e sono salite alla ribalta del grande pubblico poiché trasmettono malattie temibili e gravi: dalla febbre di Chikungunya alla famigerata Zika. La febbre di Chikungunya causò nel 2007 una epidemia nel ravennate e il vettore del virus fu la zanzara Aedes albopictus.

 

 

Anche il famigerato virus Zika e quello che causa la dengue sono trasmessi dalle zanzare Aedes, specialmente la specie A. aegypti. Ma veniamo alle nostre Anopheles. Sono numerose le specie che appartengono a questo genere e variano a seconda della parte del mondo in cui ci troviamo: in Africa, si incontrano A. gambiae e A. funestus; in Asia, A. culifacies ed altre specie; in America latina, A. darlingi; e in Italia esistono alcune specie quali A. maculipennis nelle zone paludose del nord, e A. labranchiae e A. superpictus, in quelle del centro e del sud. Queste due ultime erano le principali vettrici della malaria prima della eradicazione mezzo secolo fa. Queste tre specie, pur ancora presenti nelle zone paludose della penisola, fortunatamente non sono più adatte a trasmettere i plasmodi della malaria più severa, quella causata da Plasmodium falciparum di origine africana. Le abitudini delle anofele sono molto simili: si tratta di zanzare le cui femmine pungono solamente nottetempo a partire dal tramonto e sino all’alba. Lo fanno semplicemente perchè hanno bisogno di sangue umano per nutrirsi e permettere lo sviluppo completo delle uova.

 

Quando pungono una persona che è infettata dai plasmodi che causano la malaria, suggendone il sangue si infettano a loro volta. All’interno della zanzara, i plasmodi si riproducono rapidamente e, dopo 9-15 giorni, invadono le ghiandole salivari dell’insetto, quelle che secernono la sostanza che ha scopi anestetizzanti al momento della puntura di una persona per suggerne il sangue. Iniettando questo liquido infestato dai plasmodi, la zanzara trasmette la malattia. Appena giunti nel sangue, i plasmodi raggiungono il fegato e vi si annidano per un primo ciclo di riproduzione e poi, a migliaia, vengono espulsi nel sangue invadendo i globuli rossi – infine distruggendoli – e iniziando così la fase di incubazione della malattia che varia da 9-14 giorni per la malaria grave da P. falciparum sino a oltre tre settimane per quella più benigna causata da P. malariae, una forma che diventa spesso cronica e tollerata con recrudescenze regolari e febbri a ritmo quartano (ogni 72 ore) che cessano spontaneamente e ricompaiono a distanza di mesi. Esistono forme di gravità intermedia causate da altri plasmodi quali P. vivax e P. ovale.

 

Il ragazzo dello Swaziland a cui facevo riferimento sopra presentava tutti i sintomi tipici: febbre alta, dolori diffusi, mal di testa, e anche vomito e diarrea. Le forme più gravi poi degenerano in quella che si definisce “malaria cerebrale”, ovvero una gravissima encefalite con esiti spesso fatali. È questa la forma da temere soprattutto per chi abbia viaggiato dove esiste la malaria da Plasmodium falciparum, ovvero nei Paesi tropicali ed equatoriali dell’Africa, Asia e America del sud, e non si sia protetto con la profilassi a base di farmaci da assumere regolarmente nel periodo di permanenza e con gli spray antizanzare che prevengono la puntura. Una diagnosi mancata o in ritardo può, infatti, essere fatale, come avvenne per il “campionissimo” Fausto Coppi nel 1960. Infettatosi durante un viaggio in Burkina Faso, la malaria, non riconosciuta al rientro in Italia dai medici che lo seguivano, lo uccise in due settimane mentre il compagno di viaggio e noto ciclista francese Geminiani, anch’egli ammalatosi, ma diagnosticato in tempo grazie all’esperienza “coloniale” dei medici francesi, si salvò grazie al chinino. Infatti, per fare la diagnosi, occorre sospettare la malattia e esaminare il sangue al microscopio usando delle colorazioni e dei metodi particolari facili da eseguire.

 

Oggi esistono anche test sul sangue rapidi e attendibili, ma per ottenere una diagnosi è necessario, prima di tutto, sospettare la malaria in ogni persona che rientra da un viaggio ai tropici e che, dopo due o tre settimane, presenta febbre alta e altri sintomi che si potrebbero confondere con una banale influenza. Fatta velocemente la diagnosi, il trattamento con i medicinali anti-malarici varia a seconda del tipo di plasmodio e della origine della infezione in quanto esistono ormai diffusamente forme resistenti ai trattamenti comuni del passato. Tuttavia, dalla malaria si può quasi sempre guarire a patto di sospettarla e fare diagnosi rapidamente.

 

 

Malgrado la conoscenza scientifica sulla malaria sia avanzata molto e si sappia fare diagnosi e trattare pressoché tutti i casi di malaria, ogni anno si stimano ad oltre 200 milioni gli episodi di malattia e quasi mezzo milione i morti, il 90% di questi in Africa soprattutto tra i bambini. E in Italia? Attualmente si registrano, in media, circa 700 casi all’anno, l’80% dei quali tra persone straniere provenienti dai Paesi in cui la malattia è endemica. Quasi tutti i casi sono “importati” a seguito di un’infezione acquisita in paesi tropicali dove si trasmettono i due plasmodi più frequenti: il pericoloso falciparum e il meno virulento vivax. Oltre il 90% dei casi diagnosticati in Italia sono legati ad una provenienza africana, dove d’altronde si verificano il 90% dei casi nel mondo. La trasmissione non associata a viaggi in Africa o a i tropici è praticamente rarissima. Si parla spesso di zanzare che viaggiano clandestinamente all’interno delle valigie e delle borse del turista di turno o addirittura nella cabina dell’aereo: ma siamo nel campo della fantasia e si contano sulle dita di una mano i casi con una provata origine di questo genere. Altamente improbabili sono anche le trasmissioni del plasmodio negli ospedali e centri di cura attraverso trasfusioni di sangue infetto o siringhe contaminate in quanto esistono normalmente precauzioni per evitare questa via di trasmissione.

 

Naturalmente, tutto è possibile, ma possiamo dormire sonni tranquilli in quanto il rischio è bassissimo e le zanzare capaci di trasmettere i plasmodi della malaria, da noi, non sembrano per ora essere presenti. Tutt’altra è invece la situazione di chi viaggia in luoghi malarici. È qui che occorre davvero essere prudenti e munirsi di ogni strumento possibile per evitare il contagio: farmaci per la profilassi, spray per le zanzare soprattutto di sera e di notte, e, quando necessario, una rete antizanzara impregnata di insetticidi ad avvolgere accuratamente il nostro letto. Evidentemente, il ragazzo mozambicano ammalato in Swaziland che veniva dalla povertà più dura non aveva a disposizione spray e reti antizanzare. Questa è ancora oggi la situazione in numerosi Paesi al mondo presso le popolazioni più disagiate. Si tratta, ancora una volta, delle iniquità e ineguaglianze che esistono tutt’oggi, oltre un secolo dopo la scoperta della causa della malaria, del suo vettore, dei mezzi diagnostici e del chinino. E il fatto che ci si ammali anche in Italia, malgrado l’eradicazione della trasmissione autoctona, non è che l’espressione diretta dei fenomeni legati alla globalizzazione, dove i viaggi e i movimenti tra le popolazioni sono mille volte più frequenti del passato. Ciò rispecchia l’assioma che senza un approccio globale ai grandi problemi della salute dell’uomo e scioccamente cercando di bloccare le frontiere non si arriverà mai a una protezione completa di chi vive tranquillamente nel “nord” del mondo: la malaria, come molte altre malattie infettive, non rispetta i confini in quanto i plasmodi, semplicemente, non li riconoscono come tali e le zanzare, pensa un po’, volano più in alto di ogni reticolato.

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L’infosfera sta trasformando il mondo

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Descrivere le trasformazioni del presente è sempre un’attività particolarmente complessa. Lo è perché siamo immersi all’interno della mutazione, perché siamo parte di quell’evoluzione che caratterizzerà il nostro futuro. Ma lo è anche perché ci mancano spesso le parole per descrivere la trasformazione e quelle che usiamo si riferiscono a una semantica costruita sul tempo passato che tenta di afferrare “ciò che sarà” in tutta la sua inadeguatezza. E non si tratta di gettare la basi per la futurologia ma di avere gli strumenti per leggere e dire quello che ci sta attorno, per descrivere come le tecnologie della comunicazione e dell’informazione ci stanno cambiando, così in profondità da produrre un modo diverso di pensare a noi stessi.

 

Il libro di Luciano Floridi – filosofo all’Oxford Internet Institute – La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo (Raffaello Cortina Editore) rappresenta uno strumento di costruzione di una semantica nuova, di una vera e propria “ontologia della connessione”, una riflessione sistematica in cui ci si interroga sul senso delle ICT (Information and Communication Technologies) e i modi in cui sono diventate vere e proprie forze ambientali, antropologiche, sociali e interpretative. Si tratta, da una parte, del tentativo di costruire un lessico della civiltà iper-connessa attraverso concetti guida che sappiano orientare la forza rappresentativa e di significato che ha assunto l’evoluzione tecnologica con il digitale. Dall’altra della costruzione di idee utili ad un’antropologia filosofica che mostri la capacità dell’evoluzione tecnologica presente di produrre mondi di senso e utili a pensare ad una filosofia politica corrispondente.

La nostra è la prima generazione a sperimentare gli effetti dell’ondata di Big Data e della capacità delle tecnologie di conservare e trasmettere le informazioni attraverso soglie quantitative così rilevanti che si modulano, per opera delle ICT, in altrettanto rilevanti trasformazioni qualitative, secondo un riconoscimento digitale della logica hegeliana per la quale i mutamenti puramente quantitativi possono risolversi a un certo punto in distinzioni qualitative.

 

Tale distinzione qualitativa è caratterizzata da Floridi innanzitutto nell’ingresso nell’era – e qui troviamo la prima parola chiave che con la quale interpretare un accumulo di fenomeni come aspetti di un unico trend macroscopico – dell’iperstoria: “il progresso e il benessere dell’umanità hanno iniziato a essere, non soltanto collegati a, ma soprattutto dipendenti dall’efficace ed efficiente gestione del ciclo di vita dell’informazione”.  

Floridi fa dipendere quindi l’evoluzione dell’umanità – secondo un approccio mediologico – dalle infrastrutture di conservazione e trasmissione delle informazioni che traccia per sommi capi: da un primo salto evolutivo caratterizzato delle ICT della sumera Ur, fondate sulla scrittura in tavolette d’argilla, a un secondo salto evolutivo più di quattromila anni dopo rappresentato dalla stampa a caratteri mobili di Gutenberg a un aumento di capacità di processare, conservare e diffondere dati che l’ulteriore salto computazionale di Alan Turing ha prodotto. Se svuotiamo da una direttrice tecno-deterministica e da cesure nette tale evoluzione – sappiamo ad esempio come gradualismo e discontinuità nella storia della tecnologia rendano problematica tale prospettiva – l’era della iperstoria può essere descritta come l’ultimo stadio di un missile a tre stadi che caratterizza l’evoluzione umana: “la preistoria, in cui non ci sono ICT; la storia, in cui ci sono ICT che registrano e trasmettono informazioni ma le società umane dipendono principalmente da altre tipologie di tecnologie che riguardano le risorse primarie e l’energia; l’iperstoria, in cui ci sono ICT che registrano, trasmettono e soprattutto processano informazioni, in modo sempre più autonomo, e in cui le società umane dipendono in modo cruciale dalle ICT  e dall’informazione in quanto risorsa essenziale per la loro stessa crescita.” 

 

 

L’era dell’iperstoria è caratterizzata dall’affermarsi di “tecnologie di terzo ordine”, quelle in cui le tecnologie si connettono alle tecnologie attraverso altre tecnologie. È l’era della finanziarizzazione, in cui gli scambi di azioni vengono automatizzati e gestiti attraverso sofisticati algoritmi; di missili intelligenti capaci di colpire bersagli attraverso sistemi di puntamento automatizzati e feedback auto-regolativi; delle auto che si guidano da sole; della casa intelligente in cui la tecnologia domotica regola calore, luminosità, ecc.; in cui il nostro smartphone interagisce via wi-fi con il cloud.

 

Assieme al tempo è mutato anche lo spazio, strutturandosi in quell'infosfera che racchiude sia online che offline, sino a divenire un sinonimo della realtà stessa nel senso che, come sostiene Floridi, “ciò che è reale è informazionale e ciò che è informazionale è reale”. Il che comporta un processo di “datificazione” della realtà che ha forti o seguenti etiche e morali. Ad esempio diventa sempre più difficile l’atto di ignorare perché, da una parte, le stesse ICT consentono una raccolta straordinaria di dati che possono essere processati per produrre previsioni e, dall’altra, perché siamo continuamente esposti agli eventi che diventano comunicabili e visibili in tempo reale. E il fatto che possiamo sapere diventa sempre più evidente agli altri, in un modo tale che la conoscenza comune cresce all'interno di cerchie sociali sempre più trasparenti. Questo ha conseguenze circa la nostra responsabilità sociale, entro i confini paradossali creati tra un eccesso di trasparenza e una cura per la privacy, tra libertà e controllo:

“Quanto più ciascuna informazione è distante appena un click, tanto meno saremo scusati dal non averla ricercata. Le ICT stanno rendendo l’umanità sempre più responsabile, dal punto di vista morale, per il modo in cui il mondo è, sarà e dovrebbe essere. Ciò è in qualche misura paradossale, poiché le ICT sono anche parte di un fenomeno più ampio, per cui la chiara attribuzione di responsabilità a uno specifico agente individuale è diventata più difficile e controversa”. 

 

È la stessa esperienza di vita che si sta modellando in modo diverso attraverso una ormai da più parti analizzata continuità tra online e offline, attraverso un tracimare del mondo digitale in quello analogico, che avremo la possibilità di sperimentare sempre più nel celarsi delle interfacce, nell'ubiquitous computing, nella realtà aumentata, nell’Internet delle cose.

Floridi, nella costruzione di un suo lessico familiare all’epoca del digitale, descrive la nostra condizione come quella di una onlife. Le ICT – lungo i sentieri di Foucault – sono vere e proprie tecnologie del sé che modificano pratiche e contesti attraverso cui diamo forma a noi stessi. Il consistente numero di persone abituato a dare forma ai propri pensieri e gusti attraverso scambi continui nei siti di social network produce, secondo Floridi, “un’opportunità senza precedenti di essere responsabili dei propri sé sociali”, verso una direzione più consistente di consapevolezza individuale e collettiva.

 

Il tono usato da Floridi lungo il libro sembra collocarlo di diritto nella corrente dei tecno ottimisti – e lui stesso controbatte diverse tesi critiche trattandole come lamentele di “moderni Geremia”. Nel racconto pubblico dominante che descrive l’infosfera come un luogo di bolle informazionali, la vita connessa come caratterizzata da polarizzazioni online, di una rete che facilita la diffusione di fake news, la descrizione di Floridi può sembrare una narrazione consolatoria. Ma descrivere le trasformazioni del presente, come scrivevo all’inizio, è sempre un’attività particolarmente complessa e che richiede uno sguardo analitico allenato unitamente ad una vocazione antropologica che sappia andare al fondo dei mutamenti socio-culturali. Ed è questo il merito più evidente di questo lavoro – assieme all’estrema accessibilità delle argomentazioni: il libro vuole parlare al lettore non esperto, al cittadino dell’infosfera comune. Luciano Floridi mostra con lucidità e precisione come trasformazione tecno-comunicativa e trasformazione culturale risuonino e come sia necessario trovare una bussola descrittiva per le categorie diverse che la nuova filosofia dell’informazione propone, attraverso un lessico che deve essere rinnovato, per una condizione sempre più palpabile dell’era digitale in cui, per parafrasare McLuhan, noi tutti indossiamo la nostra umanità come una pelle, nel bene e nel male. 

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Neurostoria: un futuro del passato

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Un vascello attraversa il vasto oceano tra le colonne d'Ercole, visivamente figurate come colonne in stile classico. Al di sotto, in un riquadro, campeggia un passo del Libro di Daniele (XII, 4) divenuto molto celebre: Multi pertransibunt et augebitur scientia (Molti vi passeranno attraverso e la loro conoscenza sarà accresciuta).

Così appare il frontespizio dell'edizione del 1620 dell'Instauratio Magna di Sir Francis Bacon, un'opera che si proponeva come fondazione del Novum Organum di una scienza moderna, anti-dogmatica e anti-aristotelica, sperimentale – benché non ancora matematizzante come quella galileiano-newtoniana alla quale Kant un secolo e mezzo dopo assegnerà una fondazione trascendentale.

Questa la rappresentazione che la mia immaginazione ha associato al lavoro di Daniel Lord Smail, docente di storia ad Harvard. Cambiato ciò che deve essere cambiato, non credo sia fuori contesto e fuori misura. In Storia profonda. Il cervello e l'origine della storia (Bollati Boringhieri, 2017, ed. or. 2008), tradotto per la prima volta e curato con perizia da Leonardo Ambasciano, c'è un manifesto che ha qualcosa dell'ambizione di Lord Verulam, almeno per la portata di innovazione e le resistenze che, a causa di una certa «inerzia» e «indifferenza», incontra un simile progetto.

 

Libri come quelli di Jarred Diamond, in particolare il fortunato Armi, acciaio e malattie, o di Jonathan Gottschall, L'istinto di narrare, sono stati accolti con attenzione in Italia benché l'inserzione reale di un 'punto di vista bio' nella storia, in particolare nella ricerca, continui a essere difficile e rara, anche nell'antichistica. Smail ha scritto il libro che permette di comprendere il “nuovo” (almeno per l'Italia) paradigma per la ricerca storica, collocato in quell'«affascinante luogo dove la storia si interseca con la biologia e con la neurofisiologia». Una storiografia neuro-biologica, in qualche modo un modello aggiornato di storia naturale, incentrata sul retaggio neurofisiologico di Homo sapiens, i cui comportamenti sono profondamente radicati nei suoi ambienti, nella storia evolutiva e nella selezione naturale. 

Il progetto culturale – ogni libro è il precipitato di un programma di studi – prevede la convergenza di discipline umanistiche e scienze sociali con le scienze fisiche e naturali, chiama gli storici a interessarsi di scienze della vita e i biologi a pensare in chiave storica, con interessanti ragionamenti sui motivi che nella storia della cultura hanno visto le discipline istituzionalizzarsi, specializzarsi e condurre vite separate e non comunicanti. In questa convergenza, descritta con estrema chiarezza e con grande gusto narrativo, si compiono diverse notevoli operazioni culturali, in questa sede necessariamente stilizzate.

 

 

La storia profonda prevede una diversa cronologia, nel senso della lunghissima durata e in alternativa al consueto time frame vicino-orientale, giudaico-cristiano ed eliotropico, spingendosi a prendere in considerazione i tempi precedenti la scrittura che esulano dalla nozione di “storia” per definizione. Tale mappatura periodizzante include nel suo orizzonte la preistoria globale: «Una storia profonda è qualsiasi storia che congiunga [...] il Paleolitico e il Neolitico assieme al Postlitico […], tutto ciò che è accaduto a partire dalla comparsa della metallurgia, della scrittura e delle città circa 5500 anni fa»; una storia focalizzata «sulla biologia, sul cervello e sul comportamento» in cui trovano posto «clima ed ecologia, malattie, reti e scambi, morfologia umana, sesso e genere».

Se in questo senso lo studio della preistoria è cambiato in modo significativo nella seconda metà del Novecento e nei suoi ultimi vent'anni in particolare, grazie agli apporti sistematici della paleoantropologia, della geologia, dell'ecologia, la specificità del paradigma delineato da Smail – medievista e modernista che si occupa di antropologia delle civiltà mediterranee – è una nozione di storia capace di saldare la frattura tra i tempi, propria di un modello storiografico basato sulle sole  fonti scritte. 

C'è qualcosa di più che non la (giusta e necessaria) critica del “mito della stasi paleolitica”. Tale racconto ha inchiodato i gruppi umani del passato remoto a un ordine socio-economico senza mutamento, mediante descrizioni che Smail definisce “diorami verbali”, simili alle vetrine dedicate alle tribù primitive nei musei di storia naturale. In gioco vi è una più ampia nozione di documento e di archivio, che si rivolge alle tracce, intese come «qualunque cosa racchiuda qualche forma di informazione in merito al passato» nell'ambito di saperi come geologia, biologia evoluzionistica, etologia, archeologia, linguistica, cosmologia e ai loro depositi, «blocchi di rocce, fossili, DNA mitocondriale, isotopi, modelli comportamentali, modelli di vasellame, fonemi».

 

 

Scrive l'autore che «gli archeologi, gli antropologi, i biologi molecolari e i neuroscienziati che studiano il passato profondo sono anch'essi storici, indifferentemente dagli archivi che essi consultano»; così «osservare le piramidi che nascono in Egitto e nell'America centrale è come guardare la comparsa delle tigri dai denti a sciabola nelle linee filogenetiche dei marsupiali e dei placentati, separate com'erano dagli oceani e da centinaia di milioni di anni di evoluzione biologica». 

Si tratta di una riproposizione contemporanea della storia totale di Bloch e Febvre, capace di andare oltre l'ingenua formulazione positivista à la Ranke, post-annalesiana perché sincronizzata con i recenti sviluppi delle scienze neo-darwiniane e neo-lamarckiane, che valorizza, interroga e mette sotto torchio una vasta gamma di «informazioni preservatesi in modo non intenzionale». Tale impostazione fa saltare infatti la distinzione tra la conservazione consapevole e quella non volontaria di fonti/tracce sedimentate, per espandere la ricerca a ogni segno e correlarlo alla cultura. Modellata su una teoria dell'evoluzione «attraverso un processo di variazione cieca e di conservazione selettiva», tale prospettiva dà vita a esercizi di comparatismo diacronico e sincronico e alla formulazione di specifici modelli interpretativi neurostorici.

 

È bene sottolineare quanto il libro sia animato da una proposta di pluralità metodologica e di personale modellizzazione che include alternative o complementarietà, e non dalla polemica contro impostazioni anti-scientifiche, diffidenza verso gli archivi genetici, linguistici, paleontologici o i campi disciplinari dominanti: «le storie, come ogni prodotto di conoscenza disciplinare, vengono create nel contesto di ciò che le cornici permettono di fare. Sono queste cornici che occorre allargare e piegare».

In questo senso Smail – e questa mi sembra essere la sua proposta originale – si dota di una chiave ermeneutica per perseguire lo studio neuro-storico del cervello attraverso il suo percorso evolutivo, incrociando etologia, biologia e scienza cognitiva. Nella neurohistory il concetto di teletropia occupa un posto molto importante: viene sviluppata su base naturalistica l'idea di Clifford Geertz che la cultura sia costitutita da «serie di meccanismi di controllo – progetti, prescrizioni, regole, istruzioni […] per orientare il comportamento» e che l'essere umano sia l'«animale più disperatamente dipendente da simili meccanismi di controllo extragenetici ed extracorporei». Si tratta di programmi culturali di ordinamento sociale, reti di significato che i gruppi umani stessi hanno intessuto e a cui, dopo aver obliato il gesto della loro tessitura, delegano la metaconduzione delle proprie condotte.

 

Siamo lontanissimi dal rigido determinismo a cui una comunicazione semplificata e spettacolare ha associato la genetica, a partire dalla divulgazione della sociobiologia e dal suo endorsment neo-conservatore. I modelli teorici attuali considerano sapiens un animale culturale per natura e prevedono una plasticità delle sue sinapsi tale da connettere un'emozione universale a un oggetto o a uno stimolo particolare, permettendo alla cultura di radicarsi nella fisiologia (ad esempio il disgusto e suoi oggetti correlati): in questo senso gli «effetti sociali delle modificazioni neurochimiche sono particolari per ogni cultura e per ogni individuo». Il «cablaggio neurale fissato dalla cultura» costruisce lo scenario all'interno del quale le persone prendono decisioni e fanno cose, elaborando interpretazioni a partire da eventi e interagendo di conseguenza in mondi storici che sono contesti specifici: è di questa antropologia biologicamente aumentata che si può fare storia.

 

La capacità umana di modulare gli stati neurochimici, che quando si incrociano con la coscienza «producono sentimenti», è alla base della neurostoria come storia di come gli umani modificano il loro sistema nervoso. L'interazione sociale nelle sue complesse architetture e strategie culturali ha una correlazione fisica con la produzione di sostanze legate al sistema endocrino (ossitocina, dopamina, adrenalina etc.), capaci di dare «colore e consistenza» alle esperienze: sono dette psicotrope le «pratiche capace di alterare lo stato d'animo» e di amplificarlo, con un arco che include sostanze e comportamenti. Cibi e bevande, sostanze stimolanti ma anche canti, danze, rituali, processioni, competizioni, comportamenti ritualizzati collettivi; in sintesi la cultura umana e le sue pratiche istituzionali, che dalla raffigurazione parietale rupestre si sono espanse sempre di più in seguito alla svolta agricola neolitica.

Da allora si rendono sempre più disponibili le occasioni di modificazione dello psichismo, dalle esperienze estetiche alle pratiche festive e religiose, alle forme di spettacolo pubblico o monumentale del mondo antico e moderno, fino all'esplosione di consumo di generi voluttuari (caffè, tabacco, cioccolata etc), di letteratura d'evasione ed erotica, che crescono esponenzialmente nell''Ottocento dell'espansione demografica e delle società di massa. Tali inneschi neurologici nel Novecento accelerano e si potenziano ulteriormente con l'amplificazione tecnica legata alla sociabilità e ai mass media, a mezzi di rappresentazione, comunicazione e telecomunicazione sempre più pervasivi, sensibili e immersivi, fino ad arrivare alle attuali forme di dipendenze (addiction) più o meno moderate da droghe, social network, videogames, porno on line. Tutti ambiti di cui si conoscono i legami con neurotrasmettitori, circuiti della ricompensa e ricerca della gratificazione, ben oltre la categoria morale di edonismo.

 

 

Smail si concentra in particolare sui meccanismi teletropici, che definisce come «meccanismi utilizzati nelle società umane per creare cambiamenti di stati d'animo nelle altre persone attraverso lo spazio», in altri termini attività più o meno istituzionalizzate e controllate che influenzano la chimica corporea degli altri. Possono essere di tipo simbiotico, come l'eccitazione sessuale (sexual arousal) indotta da pratiche e reti discorsive di corteggiamento tali da generare ossitocina, i quali sono mutualmente vantaggiosi e piacevolmente consensuali; o di interesse collettivo come nei riti religiosi, che alleviano stress e ansia e generano senso di appartenenza e conforto comunitario, dai forti benefici in casi di stress con effetti di rafforzamento della coesione dal punto di vista sociale. 

 

Ma possono essere meccanismi teletropici di sfruttamento e sopraffazione, usati per il controllo o l'induzione morale e fisica di determinati comportamenti, e posti alla base di lotte per il controllo di chi dispone dell'autorità per gestire risorse piscotropiche: ne deriva anche una teoria del potere di tipo conflittualista, neurochimicamente legata anche in chiave etologica all'esercizio della violenza, alle logiche di dominanza e all'erogazione di risorse desiderate in società gerarchicamente ordinate.

Smail avanza dunque una nozione di civiltà come «economia e sistema politico organizzati sempre più attorno alla disponibilità e alla circolazione di pratiche, istituzioni e beni che alterano e sovvertono la chimica corporea umana». A partire da queste premesse si delinea una lettura di lungo periodo, secondo cui «le società europee, tra il XII e il XIX secolo [hanno] sperimentato un cambiamento epocale che vide un allontanamento dai meccanismi teletropi manipolati dalle élite dominanti verso un nuovo ordine in cui le teletropie di dominanza sono state rimpiazzate dalla scelte crescente di meccanismi autotropici disponibili su mercato largamente privo di regolamentazioni». Il che contribuisce a rileggere e ridefinire quelli che indichiamo come processi di “secolarizzazione”, razionalizzazione e soggettivazione moderna. In questo senso, l'ipotesi riguardo le grandi trasformazioni rivoluzionarie della modernità è che i «meccanismi psicotropi che gli europei hanno incontrato durante la loro fase coloniale [abbiano] agito come il solvente del vecchio regime sociopolitico». 

 

Secondo questa linea, mi pare non si possa escludere che anche la definizione dei regimi totalitari, in quanto “biopolitica”, possa avere una base neurochimica, e che le correnti psichiche siano qualcosa di più che una semplice metafora per identificare mentalità, ideologie di nazione, genere, razza e immaginari socialmente condivisi, amplificati dalla sociabilità e dalla comunicazione di massa e radicati in corpi e menti biologicamente soggetti a modificazioni e sollecitazione emotivamente potenti. In questo senso troverebbero ulteriore senso sia il potenziamento degli aspetti estetici della politica nella nazionalizzazione delle masse, sia la brutalizzazione della politica, l'estremizzazione della violenza e l'esercizio sistematico del terrore nei confronti dei civili durante la guerra europea dei Trent'anni del Novecento.

 

Smail scrive che «riconoscere il ruolo dei meccanismi psicotropi nello sviluppo delle società umane significa rendersi conto che ciò che viene identificato come progresso nella civilizzazione umana non è altro che un nuovo sviluppo nell'arte di modificare la chimica corporea». Il suo libro da un contributo importante per una storia globale ad alto tasso di complessità e per un decentramento dello sguardo storiografico dal mondo al cervello, in cui uno dei guadagni maggiori credo sia la consapevolezza che il senso dell'identità di soggetti e gruppi – se davvero deve essere qualcosa – consiste nel risultato di una serie di fattori storici sociali e dunque neurochimici.

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Laptop

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L’ombra che lo schermo del notebook proietta sulla sua tastiera è stata dipinta. Quella proiettata dalla matita invece è vera. L’incongruenza tra la direzione della luce simulata dall’ombra dipinta e quella della luce ambiente è spaesante, in modo sottile e insidioso. Il vero e il falso convivono in uno spazio apparentemente omogeneo

 

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Una matita per l'estate
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Che “icona”

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Che cosa trasforma un’immagine, per esempio un dipinto, in un’icona? 

La Gioconda di Leonardo da Vinci è un’icona, la Primavera di Botticelli, il Cristo di Mantegna. Insomma, un dipinto, un’opera che per scelta e tradizione viene indicato come esempio alto di un’arte e come tale è poi universalmente riconosciuto come icona di quell’arte.

Ma che succede con una fotografia?

Il vocabolario Devoto Oli per quanto riguarda il terreno che ci interessa recita: nel linguaggio dei semiologi, messaggio affidato all'immagine. E poi aggiunge, come esempio: figura emblematica o altamente rappresentativa: Mick Jagger è l'icona del rock anni Sessanta.

Insomma, anche un personaggio, collegato a un’immagine, che universalmente viene riconosciuto come un’icona del suo tempo nella sua vicenda personale e storica.

 

Nessuna fotografia nasce icona. Icona, un’immagine lo diventa. Per essere tale deve essere universalmente riconosciuta, e questo accade per le ragioni più disparate. 

Io penso che sia proprio questo il punto: non si conosce un’icona, la si riconosce.

La fotografia del miliziano di Robert Capa è diventata un’icona della guerra civile spagnola. La ragione sta ovviamente nel fatto che quell’immagine è stata vista, riconosciuta come emblematica, simbolica di quell’evento capitale della storia del ventesimo secolo. Ma io credo che questa spiegazione non basti. Sono convinto che se alle spalle di quella fotografia, assurdamente discussa e anche contestata per decenni, non ci fosse stato il grande dipinto di Goya che rappresenta una fucilazione, non avrebbe avuto la stessa forza di riconoscibilità. 

 

Icona a sua volta il dipinto di Goya. Stessa situazione, stesso gesto: le braccia spalancate nel momento della morte. Potente rappresentazione della violenza e tragedia della guerra, di tutte le guerre.

Insomma, una fotografia può diventare iconica anche per il suo retroterra iconografico.

Ma non soltanto. Può diventarlo per accumulo di fatti storici che si sedimentano nell’immagine. Il mio amico e bravissimo fotografo, Tony Gentile, autore di una grande icona fotografica italiana contemporanea, l’immagine di Falcone e Borsellino che parlano con complice confidenza e ironia, racconta che nel periodo in cui l’aveva scattata quella fotografia non colpì particolarmente, nessuno la voleva.

 

Poi Falcone fu assassinato dalla mafia. Ma non è bastato. Hanno dovuto ammazzare anche Borsellino perché quella immagine si trasformasse in icona delle vittime della giustizia e della lotta contro il male.

Un’icona italiana, comunque; non credo che negli Stati Uniti o in Inghilterra abbia la stessa forza evocativa che ha per noi.

In questo caso è la storia che trasforma l’immagine, anche se, a volere cercare un retroterra iconografico, il dettaglio del dipinto di Raffello dei due angiolotti che parlano complici, infinitamente riprodotto, potrebbe magari inconsciamente avere aiutato la sua riconoscibilità aggiungendovi il crisma dell’innocenza.

Famosissima icona è anche la fotografia in primo piano di Albert Einstein che tira fuori la lingua. In questo caso è l’alone di leggenda che precedeva lo scienziato, accompagnato dalla fama di uomo intelligentissimo, libero e non convenzionale, che ha fatto da retroterra per la trasformazione di quel ritratto impertinente in icona.

Ma veniamo a Che Guevara. 

 

Ph Alberto Korda.


Che Guevara, viene ripetuto, è nell’immaginario collettivo mondiale il Garibaldi del nostro tempo. 

Nel mondo intero, non solo in Italia, sono innumerevoli le piazze al cui centro campeggia una statua di Garibaldi, l’Eroe dei due mondi. Qualcuno ha scritto che la corporazione degli scultori dovrebbe consacrargli una chiesa. Lo stesso destino non hanno certo avuto Cavour o Mazzini.

Il combattente per la libertà che poi si ritira a Caprera e non diventa l’uomo di potere che le sue imprese avrebbero potuto consacrare.

Che Guevara è eroe emblematico anche per questo. Non è diventato Fidel Castro. Dopo aver vinto a Cuba è ripartito per la Bolivia per continuare a combattere per la giustizia e la libertà degli uomini, e ci è morto. 

È l’eroe perfetto.

 

Guardiamo l’immagine di Alberto Korda che è diventata una delle più potenti e universali icone del nostro tempo. Perché?

Le ragioni storiche ci sono tutte. Ma la faccenda è più complessa. 

Esistono centinaia di fotografie di Che Guevara, perché proprio quella?

La storia ce l’ha raccontata lo stesso Alberto Korda. 

Un giorno Giangiacomo Feltrinelli si trova a Cuba e va nello studio di Korda. Cerca una fotografia del Che. Alberto lo ha fotografato molte volte. Gli mostra molte fotografie. Feltrinelli sceglie proprio quella. 

Non è la fotografia che conosciamo. Alberto l’ha scattata il 5 marzo del 1960 durante un funerale. Guevara era sul palco, il fotografo in basso. È da questa posizione che vede la postura monumentale del personaggio, occhio fiero e malinconico, che guarda lontano. 

L’eroe, ce l’ha insegnato Barthes, deve guardare lontano, verso il futuro collettivo. 

Alberto scatta. Ma la sua fotografia è orizzontale, a sinistra c’è un personaggio di profilo, a destra una pianta ornamentale. Il Che è al centro. 

 

Feltrinelli si porta via la fotografia e dopo un po’ di tempo decide di usarla per un manifesto. Ma nel manifesto non vediamo la stessa fotografia. L’immagine è stata tagliata, il personaggio a sinistra e la pianta sono scomparsi. Adesso è un primo piano verticale. Di quel manifesto vengono stampati migliaia di esemplari. Ma il successo è tale che presto diventano centinaia di migliaia, forse milioni. Non c’è circolo rivoluzionario, non c’è giovane impegnato dell’universo mondo che non l’attacchi nella propria camera. In questa forma viene riprodotto e copiato innumerevoli volte, in cartoline, libri, riviste, opuscoli, magliette, difficile stabilire quante.

 

Che cosa è successo? Che cosa ha fatto scattare questo successo a valanga?

La faccenda è stata analizzata molte volte. Il riferimento iconografico è evidente. Guevara ha i capelli alla “nazarena”, è visto dal basso, monumentalizzato. È il santo, addirittura il Cristo, la cui missione è stata quella di redimere gli uomini. Ma anche, se non soprattutto, quel taglio riconduce l’immagine alla riconoscibilità del santino, una forma che nel mondo cattolico ha rappresentato e diffuso per tanto tempo, soprattutto nell’immaginario infantile, popolare, le immagini di Gesù e dei santi.

 Ma non solo nel mondo cattolico; basta guardare ai ritratti ufficiali dei dirigenti cinesi, qualche volta addirittura scontornati su fondo azzurro, e di moltissimi ritratti dei governanti del mondo.

Per Che Guevara si è poi aggiunta un’altra potente fotografia, quella che i militari boliviani hanno fatto fare a Camiri, dove il Che è stato ucciso. 

Se avessero avuto un po’ di cultura pittorica probabilmente non avrebbero fatto diffondere un’immagine così potentemente evocativa del dipinto del Cristo morto in forte visione prospettica di Mantegna che vediamo a Brera, per fortuna oggi restituito in una collocazione meno trivialmente consumistica.

Il cerchio è chiuso: due immagini entrambe cristiche, quella dell’eroe glorioso e pensoso e quello della sua “passione”.

 

A dimostrazione a posteriori della pertinenza di questa ricostruzione propongo il destino di un altro celebre ritratto di Che Guevara, fatto a Cuba da René Burri. Il Che in primo piano, con un grosso sigaro in bocca, lo sguardo trionfante, sarcastico. Il rivoluzionario che ha vinto. 

Fotografia giustamente celeberrima, ma che se pure è approdata anche lei alla gloria delle magliette non è mai assurta come l’altra al ruolo di icona universale.

Forse perché è una fotografia, un ritratto, incomparabilmente migliore di quello di Korda, ma troppo complesso, sia sul piano psicologico che formale. Troppo poco semplice e stereotipo per diventare una grande icona.

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Ernesto Guevara 1967-2017
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Invidia

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Mercoledì 18 ottobre alle ore 18 al Circolo dei Lettori di Torino, Nicole Janigro parlerà dell'invidia.

Qui una breve antologia con alcuni dei testi che verranno presentati durante l'incontro.

 

«In questo caso ci troviamo di fronte a un sistema fantastico evidente: si tratta della sottile questione sempre aperta se la leggendaria figura di Giuda sia stata o no dannata. In sé la leggenda di Giuda è un motivo tipico, quello cioè del perfido tradimento nei riguardi dell’eroe. Si pensi a Sigfrido e a Hagen, a Balder e a Loki. Sigfrido e Balder sono assassinati da un perfido traditore proveniente dalle file dei loro compagni più vicini... Questo mito è commovente e tragico per il fatto che il nobile eroe non cade in combattimento leale, ma a seguito di tradimento. Al tempo stesso si tratta di un evento che ricorre più volte nella storia, per esempio Cesare e Bruto. Il mito di un atto siffatto è antichissimo, ma è sempre materia di rifacimenti. Ciò è espressione del fatto che l’invidia toglie il sonno agli uomini. Questa regola può essere applicata alla tradizione mitica in generale: non sono i racconti di avvenimenti trascorsi ordinari a perpetuarsi, ma unicamente quelli che traducono idee umane universali e in perenne e continuo rinnovamento. Così ad esempio la vita e le gesta degli eroi di una data civiltà e dei fondatori di religioni sono le più pure condensazioni di motivi tipici del mito, dietro i quali si eclissa la figura individuale».

 

C.G. Jung, Le due forme del pensare

 

 

«Così l’І Ching dice di sé stesso: “Io contengo un cibo (spirituale).” Dato che il possesso di una cosa grande è sempre causa d’invidia, il coro degli invidiosi fa parte dell’immagine del grande possesso. Gli invidiosi vogliono portarglielo via, cioè rapire о danneggiare il suo significato. Ma la loro ostilità è vana; egli è sicuro della sua ricchezza di significato, cioè delle sue prestazioni positive che nessuno può togliergli.»

 

C.G. Jung, Prefazione a I Ching

 

 

«La maggioranza delle culture ha qualche usanza legata al malocchio, collegato tradizionalmente a uno sguardo malvagio, motivato dall’invidia, capace di avvelenare, maledire o portare sventura. In molti paesi arabi, per tradizione, non è bene fare un complimento esplicito a un bambino, lodando per esempio la sua bellezza e il suo talento: e se questo succede bisogna affrettarsi a dire Masha’ Allah  − “è il volere di Dio” – per proteggere il bambino dalla sfortuna che porta lo ayn al-hasūd. Nell’India settentrionale, gli autisti di camion appiccicano ai loro paraurti adesivi colorati con lo slogan buri nazar wale tera muh kala (ti possa diventare nera la faccia, creatura dall’occhio cattivo) a mo’ di scaramanzia. In Scozia, si crede che il Droch Shùil faccia seccare il latte alle donne e alle vacche. L’invidia è temuta non solo perché dà origine a quel desiderio avido di rubare l’oggetto tanto ammirato – i begli occhi, il gregge in salute, la splendida casa – ma perché è distruttiva. Quando l’invidioso non può avere un certo oggetto tutto per sé, non vuole che ce l’abbia nessun altro».

 

T. W. Smith, Atlante delle emozioni, 2017.

 

 

«Uno dei fattori per lo scatenarsi dell’invidia è l’impotenza, sia come impotenza di fatto che come sentimento d’impotenza. L’impotenza rende impossibile o comunque difficile il giusto rapporto tra bisogno d’espansione e insofferenza del limite. La forza non è soltanto conatus existendi, non è solo potenza d’esistere, ma è istanza di crescita e come tale è sforzo per oltrepassare ogni limite predeterminato. (…)

Se la meta è troppo alta per la propria forza vale la pena rinunciarci e la rinuncia non è sconfitta, bensì misura, atto di ragione. Ma l’equilibrio razionale che proporziona il bisogno di sviluppo al limite non è facile da attingere (…).

E ciò avviene perché gli uomini sono per lo più valutati per le mete che essi raggiungono e poco considerati per quello che in se stessi sono. A questo punto l’impotenza di fatto si tramuta in sentimento d’impotenza e di invidia dell’altro. L’invidia è quel sentimento che non sopporta il proprio limite naturale in forza di una ragione sociale, poiché è la società che decide del valore degli individui e assume come termine di valore proprio quegli individui che hanno successo. Questo accade prevalentemente nelle società contemporanee».

 

Salvatore Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano 1996.

 

 

«Che cos’è l’invidia? È dire: quello che hai tu è mio, è mio, è mio? Non proprio. È dire: ti odio perché tu hai ciò che io non ho e che desidero. Io voglio essere io, sì, ma nella tua posizione, con le tue opportunità, con il tuo fascino, la tua bellezza, le tue capacità e la tua ricchezza spirituale (p. 50)

Nina si rese conto che l’invida di Rowland era diventata ossessiva. Credeva fermamente che il marito avrebbe potuto scrivere un bel libro, se solo si fosse liberato di quella gelosia, invidia o rivalità che gli era entrata nel cervello al primo incontro col giovane Chris. Era una vera e propria malattia, e Rowland ne sarebbe rimasto paralizzato come scrittore e anche come insegnante, a meno che non l’avesse superata. (p. 57). La gelosia sessuale nei confronti di un uomo o di una donna le era perfettamente comprensibile, ma essere gelosi di un libro, di un’opera d’arte, di una pagina scritta… (p. 60). Si chiedeva spesso come sarebbe stato se Chris fosse morto. Non sarebbe servito. Nessuno avrebbe potuto cancellare il fatto che aveva vissuto, scritto un libro quando andava a scuola, e impedito a lui di scrivere il suo. (p. 69)».

 

Muriel Spark, Invidia, 2004.

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Il Barone Rampante duecentocinquant’anni dopo

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Nei giorni 18 e 19 ottobre si svolgerà a Milano il Convegno internazionale sul Barone rampante di Italo Calvino dal titolo Cosimo, duecentocinquant’anni dopo: la prima sessione all’Università Statale (18 ottobre, ore 14:30, via Festa del Perdono 3, aula 102), la seconda all’Università Bicocca (19 ottobre, ore 9:30, Auditorium Guido Martinotti U12, via Vizzola 5). Si tratta del terzo evento dedicato al romanzo, dopo l’esperimento di lettura condotto da Giuliano Scabia all’Università Bicocca (27 aprile) e il convegno che si è tenuto all’Università di Ginevra il 15 giugno («E io non scenderò più»: 250 anni fa Cosimo Piovasco di Rondò saliva su un albero); il ciclo si chiuderà il 14 dicembre alla Sapienza – Università di Roma con la Giornata internazionale di studi «Il barone rampante». Fortuna e diffusione, promossa dal «Fondo Calvino tradotto». Anticipiamo qui la relazione di Mario Barenghi.

 

Quando all’interno di un testo narrativo compare un nome proprio, succede qualcosa di particolare. Non proprio un miracolo, forse; ma di sicuro scatta un clic. Il nome – per evocare il Montale delle Occasioni– «agisce». Produce un effetto istantaneo nella mente del lettore: evoca una presenza umana, un’identità, e insieme un ventaglio di sviluppi possibili: suggerisce un abbozzo di fisionomia, i lineamenti di una condizione e i presagi d’un carattere. Occorrono esempi? «Chiamatemi Ishmael». «Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal». «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato». «Il martedì di giugno in cui fu assassinato, l’architetto Garrone guardò l’ora molte volte». Talvolta le figure umane che cominciano a prender forma dalla pronuncia del nome sono addirittura due: «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia». In ogni caso, l’evento della nominazione anima l’orizzonte d’attesa, popolandolo di ipotesi.

 

Un nome, collocato al posto giusto, è uno strumento formidabile per avviare il processo di immedesimazione che è il tratto distintivo della lettura letteraria. 

Qualcosa del genere accade anche quando in un racconto d’invenzione – di solito, all’esordio – si trova una data precisa. Chi non ricorda il capoverso del cap. I dei Promessi sposi che, chiudendo i preliminari, dà avvio la storia? «Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra…». […] Ma gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare, e per ogni caso bisognerebbe fare un discorso ad hoc. Balzac colloca l’inizio del Chef-d’œuvre inconnu in una fredda mattina di dicembre dell’anno 1612, una sferzata di gelo, la trepidazione per un incontro destinato a caricarsi di un inatteso enigma. […] L’incipit di 1984 di George Orwell parla invece di una giornata di aprile luminosa, ancorché fredda; ma la distensione è subito smentita dalla straniante indicazione dell’ora, tredici rintocchi anziché uno. Perfino una data storica oggettiva come il 15 maggio 1796 – ingresso di Napoleone a Milano – acquista, all’inizio della Chartreuse de Parme, una coloritura speciale: non è più solo un fatto, è un’esperienza collettiva. 

Questo effetto non è stato inventato dai romanzieri. Il componimento CCXI del Canzoniere petrarchesco (Voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge) si chiude con una terzina che esplicita giorno, mese, anno, anzi, il giorno, il mese, l’anno, la stagione, il tempo, l’ora e il punto già benedetti nel sonetto LXI e ora designati come l’ingresso in un intrico emotivo insolubile («Mille trecento ventisette, a punto/ su l’ora prima, il dí sesto d’aprile,/ nel laberinto intrai, né veggio ond’esca»): a conferma, per inciso, della parentela che lega l’esatta indicazione cronologica alla dimensione del movimento. Certo, solo all’interno d’una matura civiltà romanzesca la narrazione si può intrecciare alla nota auto-esegetica: «In una giornata dal cielo coperto ma luminosa, qualche minuto prima delle 4 pomeridiane del 1° aprile 192… (un critico straniero ha fatto rilevare che molti romanzi, per esempio tutti quelli tedeschi, iniziano con una data, ma solo gli autori russi, in virtù dell’originale onestà della nostra letteratura, tacciono l’ultima cifra)» (Vladimir Nabokov, Il dono). Per tutte queste ragioni, crediamo, vale la pena di soffermarsi sulle date delle storie inventate dai romanzieri. E anche (perché no?) di celebrarle. 

 

Nel 2017 cade il 250° anniversario dell’evento che segna la svolta nella vita d’uno dei più famosi personaggi della letteratura italiana del Novecento. «Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come se fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del prato. Era mezzogiorno e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora…». In verità il 2017 è un doppio anniversario. Duecentocinquant’anni dalla repentina, fatale decisione di Cosimo; sessanta dalla pubblicazione del Barone rampante, libro di svolta per Calvino, ormai prossimo a liberarsi dal «mal di romanzo» e ad assumere con piena convinzione il ruolo di scrittore non direttamente, non prevalentemente realista. Sessant’anni: la medesima distanza temporale inalberata dal prototipo del romanzo storico, Waverley, or ’Tis Sixty Years Since. Walter Scott scriverà poi di epoche più remote, il secolo XVII, l’età elisabettiana, il Medioevo. Ma l’intuizione iniziale – da cui discende, com’è noto, tutta la serie di romanzi scozzesi ambientati nel Settecento – è che la qualità degli eventi storici conta più della mera cronologia: e certo, un discrimine epocale era intercorso fra il 1744 (o il 1745) e il 1814.

 

Sul rapporto fra l’Italia degli anni Cinquanta e il mondo attuale dovremo più avanti interrogarci. Atteniamoci per ora all’incipit del Barone: «Fu il 15 di giugno del 1767…». Innanzi tutto, colpisce il divario rispetto al Visconte dimezzato, che comincia così: «C’era una guerra contro i turchi. Il visconte Medardo di Terralba, mio zio, cavalcava per la pianura di Boemia diretto all’accampamento dei cristiani».  Una enunciazione secca, senza riferimenti temporali: ma il generico «i turchi» evoca senz’altro i secoli dell’Impero ottomano, fra le scorrerie dei pirati saraceni e le turqueries che affascinarono la società di Antico Regime. Subito dopo, il termine «visconte» basta a dissipare qualunque dubbio (quando mai ci fosse stato): Kemal Atatürk non c’entra, siamo in un passato di maniera, la data precisa non importa nulla, il racconto dà di sprone (letteralmente!) fin dalla prima riga. Nel Barone, invece, l’accuratezza del calendario chiama in causa anche un rapporto con il tempo rievocato. E infatti, leggendo, si pone subito un problema di tono. Come va pronunciata la frase iniziale? Probabilmente non me lo sarei chiesto se, in occasione dell’incontro che si è svolto il 27 aprile all’Università Bicocca di Milano, Giuliano Scabia non l’avesse fatta leggere più volte, ad alta voce, a diversi studenti, commentando e correggendo. 

[…]

 

Illustrazione di Roger Olmos.


Come può essere letto, dunque, l’attacco del Barone rampante? A mio avviso andrebbe scandito lentamente, con una lieve enfasi, magari accompagnata dal gesto di unire la punta del pollice con quella dell’indice, come si fa evocando l’atto di cogliere qualcosa di minuto o sottile. «Fu il 15 di giugno del 1767…». Chi prende la parola all’inizio del romanzo è un uomo ormai anziano – uno dei vecchi d’Ombrosa, come dirà nel finale – che ricorda con precisione un evento accaduto decine di anni addietro («Ricordo come fosse oggi», «Tirava vento dal mare, ricordo»), un evento dal quale aveva preso avvio una vicenda molto remota dallo spirito del presente, e che del resto si era svolta sullo sfondo di un ambiente diverso: il paesaggio si è così profondamente trasformato da apparire quasi irriconoscibile. Scomparso Cosimo, gli uomini sono stati presi dalla «furia della scure»; la vegetazione è cambiata; ci si può perfino chiedere se Ombrosa sia davvero esistita, tant’è che l’explicit del romanzo sovrappone al frastaglio di foglie e di rami la linea nervosa dell’inchiostro della scrittura. Il 15 di giugno dell’anno 1767 è una data che occorre mettere in evidenza proprio perché esposta al rischio dell’oblio (verosimilmente, il solo Biagio ormai se la ricorda): e con essa, la memoria di un’avventura umana insieme eccezionale ed esemplare. 

 

Una piccola digressione filologica. Nelle carte di Calvino, la cartella che raccoglie il materiale autografo del romanzo (cfr. Romanzi e racconti, vol. I, pp. 1332-1335) c’è un foglio che contiene quattro versioni diverse della cronologia della trama; l’ultima è preceduta dalla dicitura in stampatello «definitivo». Il dato interessante è che, nella progressiva sistemazione, le date si spostano in avanti. Costante è l’età del protagonista all’avvio della storia, 12 anni; ma la sua data di nascita slitta da un iniziale 1740 (preceduto dal 1731 delle nozze dei genitori) al 1744 (inizio storia 1756), quindi al 1750 (inizio storia 1762), e infine al 1755  (inizio storia 1767). Parallelamente, la durata della vita di Cosimo si accorcia: nelle quattro versioni, scompare a 75 anni nel 1815, a 70 nel 1814, a 60 nel 1810, a 60 nel 1815. Un dettaglio minore è l’oscillazione della distanza della nascita di Cosimo dalle nozze dei genitori, tra i 9 e gli 11 anni. Solo nell’ultimo elenco compaiono le date di nascita della sorella Battista (1747) e del fratello Biagio (1759). Solo nel primo si registra l’età di Cosimo nel 1789, 49 anni. 

Un altro foglio, di formato 22x16, che reca in alto a destra la dicitura «nota del 1965» – e quindi risale all’allestimento della versione abbreviata e commentata apparsa nella collana «Letture per la scuola media» – presenta 3 colonne, che indicano rispettivamente la data, l’età di Cosimo, l’età di Biagio; sul margine sinistro, alcune postille ricordano particolari eventi della storia. La cronologia corrisponde a quella che già conosciamo, salvo l’ultima, che allunga di almeno 5 anni la vita del protagonista (1820, 65 anni) (nell’ultimo capitolo del romanzo si dice che Cosimo ha «sessantacinque anni passati», p. 244). […] Dunque, secondo la cronologia definitiva nel 1789 Cosimo ha 34 anni: e 34 anni è esattamente l’età di Calvino ha nel 1957. 

 

Difficile credere a una coincidenza casuale.  Come tutti sanno, la genesi del Barone s’incrocia con la decisione di Calvino di uscire dal PCI, abbandonando la militanza politica. [..] Alla fine del 1956, dopo un anno travagliatissimo, tra l’8 e il 14 dicembre si svolge a Roma, al Palazzo dell’EUR, l’VIII Congresso del PCI. Calvino decide di non partecipare; il 9 dicembre l’«Unità» pubblica il testo della relazione del segretario Palmiro Togliatti. Il giorno dopo, 10 dicembre (è stato Domenico Scarpa a notarlo), Calvino comincia a scrivere Il barone rampante. È chiaro che sarebbe del tutto improprio leggere il Barone come un romanzo a chiave, o appiattirlo su una lettura unilaterale. Ma non v’ha dubbio che dietro l’impulsiva, estemporanea e plateale decisione del dodicenne Cosimo di salire sull’elce di Ombrosa ci sia anche la discreta, sofferta, meditatissima scelta del trentaquattrenne Calvino di non rinnovare la tessera del PCI (la polemica con Togliatti esplose più tardi, con la ripresa da parte dell’«Espresso» del racconto La gran bonaccia delle Antille). Secondo il meccanismo illustrato a meraviglia nella prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, a funzionare non è una proiezione autobiografica diretta, ma un più complesso sistema di trasposizioni, imperniato sulla figura di un protagonista ingenuo e inesperto, tutt’altro che privo di qualità, ma condizionato dall’età immatura: benché abbia qualche anno più di Pin, Cosimo non ha ancora varcato la soglia della pubertà. Del resto, al cospetto degli urti e delle fratture della Storia, siamo quasi tutti irrimediabilmente minorenni.  

 

Illustrazione di Roger Olmos.


Romanzo storico sui generis quant’altri mai, germinato da un’invenzione fantastica, con aperture utopiche di formidabile attualità (Cosimo pubblica un Progetto di Costituzione per Città Repubblicana con Dichiarazione dei Diritti degli Uomini, delle Donne, dei Bambini, degli Animali Domestici e Selvatici, compresi Uccelli Pesci e Insetti, e delle Piante sia d’Alto Fusto sia Ortaggi ed Erbe), Il barone rampanteè anche un’allegoria dell’impegno camuffata da allegoria del disimpegno: dalla quale, date alla mano, si può desumere una rivendicazione orgogliosa. Di fronte all’emergenza storica, tra i più pronti a rispondere, tra i più reattivi e consapevoli, ci sarà proprio chi a suo tempo avrà saputo sottrarsi all’opaca vischiosità dell’esistente – la «bonaccia» che paralizza la flotta dell’ammiraglio Drake –: chi avrà opposto a un’inerte, avvilente stagnazione la volontà di fare attrito. Così il rampante Cosimo, giunto all’età di Calvino, suonerà dall’alto di un fico la carica contro gli sbirri venuti a riscuotere le imposte, e i vendemmiatori insorgeranno al grido di Ça ira!

 

Il solo appartarsi, peraltro, ha un’importanza relativa. Se un certo grado di isolamento può aiutare, decisive sono le ragioni della scelta di isolarsi e i principî secondo cui l’isolamento è vissuto. Torniamo all’idea alla trovata fondamentale del romanzo. Dato un dissidio con la famiglia, e in particolare con il padre, che cosa non fa il protagonista? Non fugge di casa. Non sparisce; si allontana, ma di poco, restando ben visibile. Non reitera la ribellione, cioè non ripudia altri aspetti della propria condizione (che ovviamente dipende da consolidate abitudini, tradizioni, scelte altrui): si attiene al primo gesto. Non muta nemmeno appartenenza sociale: non sceglie un altro ambiente di riferimento, anche se allarga il campo delle proprie frequentazioni. Che cosa fa, dunque? S’impegna a qualificare il gesto compiuto, cercando di trarne tutte le conseguenze possibili, cioè caricandolo di senso. Trasforma il capriccio «E io non scenderò più!» in un imperativo.

 

Quindi, essenzialmente, impone a sé stesso una regola. Una regola bizzarra, scomoda per più versi, arbitraria, strampalata perfino, ma categorica, che fa di una decisione improvvisa una strategia esistenziale. Il rifiuto di un vincolo tutto sommato banale – mangiare quello che ci viene messo nel piatto – sfocia nell’auto-imposizione di un vincolo assai più impegnativo, non metter mai più piede a terra. Un esercizio di coerenza e di tenacia che intende legittimarsi da sé, in quanto prova di fermezza ed autodisciplina. Tre anni dopo il Barone, nel decennale della scomparsa di Cesare Pavese (un altro anniversario!), Calvino parlerà di una lezione pavesiana che poggia sulla «ostinazione nell’autodefinirsi» (p. 76). Non troppo diversa è la lezione di Cosimo («ostinazione» è una parola-chiave nel romanzo): per reagire a un sopruso, non importa quanto grave, o per insorgere contro uno stato di cose sentito come disgustoso e inaccettabile, occorre investire sulla costruzione di sé. Un simbolismo altimetrico-sensoriale esalta il contrasto: il protagonista rifiuta di cibarsi di lumache, animali che strisciano al suolo (dopo tutto, l’uomo è ciò che mangia), e va a condividere l’habitat delle creature che volano. Il pullulare di riferimenti ornitologici, diretti o indiretti (spesso incantevoli, non di rado incantati), a fronte delle rare e generiche e soprattutto mai positive evocazioni dell’universo scimmiesco, non lascia dubbi. Il tratto distintivo di Cosimo è l’essere salito sugli alberi, molto più del fatto di esserci vissuto.  

 

Rivelatore mi pare il confronto con quanto era avvenuto all’epoca della guerra partigiana. La Resistenza era stata soprattutto un’esperienza di adesione a una realtà duramente, spietatamente concreta, che esigeva la messa fra parentesi della propria identità soggettiva. In una fase storica diversa, la possibilità di una presenza attiva nella storia richiede un’operazione differente: uno sforzo intransigente di autonomia, di auto-costruzione e di auto-definizione, che interiorizza l’istanza del rigore: alla costrizione esterna, alla quale occorre adattarsi, subentra la norma interiore, che esige ostinazione e forza d’animo. […]

Ma l’istanza per dir così pavesiana è compensata da un altro elemento, più leggero e aereo. Cosimo è un personaggio intimamente contraddittorio: un solitario che rifiuta l’anacoretismo, un asceta che non si nega i piaceri della vita, un eccentrico che si apparta per coltivare la socialità con rinnovata consapevolezza, un battitore libero che ha cara sopra ogni altra cosa la propria indipendenza eppure entra in una quantità di associazioni di mestiere e di confraternite («quella di San Crispino o dei Calzolai, o quella dei Virtuosi Bottai, dei Giusti Armaiuoli e dei Cappellai Coscienziosi», p. 216): soprattutto, è un anticonformista che all’occorrenza – diversamente dall’ingegnoso solipsista Enea Silvio Carrega – è capace di promuovere la cooperazione, di  organizzare e dirigere, come nell’esemplare episodio dell’estate degli incendi. Anche l’agire di Cosimo è però insidiato dal rischio dell’inconcludenza. Altro è far fronte a una necessità o a un pericolo, altro è ridisegnare a freddo, in astratto, le coordinate della comunità.

 

Come dice Claudio Milanini, «ogni progetto di ingegneria sociale si rivela inane, anzi, contraddittorio» (L’utopia discontinua, p. 52); e man mano che passano gli anni, il divario fra propositi e realizzazioni tende ad ampliarsi.

[…]

Oltre a tutte queste cose, Cosimo è però anche un narratore: un cultore della libertà inventiva, che sperimenta il fecondarsi reciproco della fantasia e del senso della realtà (come aveva scritto poco prima l’autore delle Fiabe italiane, «le fiabe sono vere»). Il passaggio più eloquente si trova nel cap. XVI:

 

Insomma, gli era presa quella smania di chi racconta storie e non sa mai se sono più belle quelle che gli sono veramente accadute e che a rievocarle riportano con sé tutto un mare d’ore passate, di sentimenti minuti, tedii, felicità, incertezze, vanaglorie, nausee di sé, oppure quelle che ci s’inventa, in cui si taglia giù di grosso, e tutto appare facile, ma poi più si svaria e più ci si accorge che si torna a parlare delle cose che s’è avuto o capito in realtà vivendo.

Cosimo era ancora nell’età in cui la voglia di raccontare dà voglia di vivere, e si crede di non averne vissute abbastanza da raccontarne, e così partiva a caccia, stava via settimane, poi tornava sugli alberi della piazza reggendo per la coda faine, tassi e volpi, e raccontava agli Ombrosotti nuove storie che da vere, raccontandole, diventavano inventate, e da inventate, vere (cap. XVI, p. 142) 

 

D’altro canto (come ha scritto Francesca Serra), «incalzando la senilità e crescendo intorno a lui il suo mito, il racconto autobiografico di Cosimo si fa sempre meno attendibile, più contraddittorio e lacunoso; e quello di Biagio sempre più incerto e metanarrativo».

Mi avvio alla conclusione. Salire sugli alberi, prendere le distanze dal consueto assetto della vita, vuol dire dunque anche mettersi nelle condizioni di esercitare l’immaginazione: e, usando l’immaginazione come una sorta di sponda cognitiva, cogliere (scovare, rinvenire) aspetti e potenzialità del reale che altrimenti sfuggirebbero. […]

 

Il barone rampanteè anche una riflessione sul significato e sul valore dell’invenzione letteraria, destinata ad alimentare la produzione calviniana degli anni Sessanta e Settanta. Arrampicandosi sull’elce di Ombrosa, quel memorabile 15 di giugno dell’anno 1767, Cosimo realizza due fondamentali principî di poetica, che troviamo espressi con la massima chiarezza in altrettanti scritti del 1960. Il primo si legge in una lettera a François Wahl (1° dicembre), su cui ha già richiamato l’attenzione Marco Belpoliti, sottolineando la coscienza che Calvino ha della valenza visiva della propria opera (Un occhio sui rami, in L’occhio di Calvino, p. 262). Scrive dunque Calvino a Wahl: «l’unica cosa che vorrei insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro» (I libri degli altri, pp. 350-351).  Il secondo è contenuto nel già citato saggio Pavese: essere e fare, e racchiude in nuce la ragione profonda per cui si scrivono e si leggono storie, e per cui ci si può divertire a segnare sul calendario le date di eventi accaduti solo nella fantasia: «Quel che la letteratura ci può insegnare non sono i metodi pratici, i risultati da raggiungere, ma solo gli atteggiamenti. Il resto non è lezione da trarre dalla letteratura: è la vita che deve insegnarlo». 

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Cosimo a Milano: 18 e 19 ottobre
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La fine della memoria

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Nel 1968 Andy Warhol pronunciò la celebre frase: “In futuro tutti saranno famosi per 15 minuti”. Era una profezia, e come tale non bisognava prenderla alla lettera. Non è vero che tutti sono diventati famosi; ma è evidente che la sostanza e le motivazioni della fama sono cambiate radicalmente, nella seconda metà del ‘900. Prima di allora si diventava famosi per azioni meritorie o malvagie; oggi i media confezionano celebrità il più delle volte immotivate e dalla consistenza esilissima. Spesso si gode di popolarità mondiale senza una ragione, come suggerisce una folgorante battuta che gira sul web: “Paris Hilton è famosa perché è famosa”.

Warhol non conosceva ancora internet e la sua bulimia comunicativa. Viveva in un mondo in cui le comunicazioni di massa erano un sistema gerarchico e verticale, lontano dall’orizzontalità (democratica o populista, a seconda delle opinioni) della rete. Perciò credo che oggi Warhol completerebbe la sua frase più o meno così: “Tutti saranno famosi per 15 minuti; ma nessuno, dopo, si ricorderà di loro”. 


Io sono un autore e il tema della memoria mi angustia. Mi chiedo, per esempio, se altri registi, scrittori, artisti, compositori si fanno la domanda che io mi pongo da tempo: per chi stiamo lavorando? La risposta è sempre stata naturale. Si scrive, si dipinge, si fanno film per esprimersi testimoniando il proprio tempo. Se si è fortunati, saranno gli stessi contemporanei a riconoscere il nostro talento. In caso contrario, possiamo sempre contare sui posteri. Il tempo dell’arte può non corrispondere al tempo della vita: la storia è piena di autori incompresi che hanno avuto riconoscimento e onore postumi. Un processo sintetizzato dal consolante detto: “Il tempo è galantuomo”. Ma è ancora così? Possiamo ancora credere che, sotto ogni forma, l’arte, nell’era digitale, abbia una seconda chance?

 


Pensiamo a cosa ha consentito nei secoli la selezione “darwiniana” che ci ha portato al corpus di opere e di autori che oggi celebriamo. Si è trattato di un processo quantitativo e qualitativo insieme. Innanzitutto, il numero delle opere e degli autori. In un’era pre-digitale (e ancora in quella che Benjamin definiva l’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte), gli artisti, in tutti i campi, erano una nicchia e competevano in un mercato in cui le condizioni materiali avevano un’importanza determinante. Non si trattava solo di essere bravi (o quantomeno ritenuti tali): c’era un “costo”, nel lavoro dell’arte, che definiva la possibilità di circolazione di un’opera. Anche l’attività più economica – scrivere – non poteva prescindere dai costi di pubblicazione. La selezione naturale si applicava in modo diretto: andava avanti innanzitutto chi aveva la possibilità materiale di farlo (anche immeritatamente, talvolta).


Questo, però non garantiva automaticamente la fama. Che è sempre stata di due tipi: di pubblico e/o di “critica”, dove con questo termine si definisce un sistema di addetti ai lavori (e ai valori) che non erano costretti a misurare l’importanza di un’opera sulla sua attualità. Studiosi, insegnanti o – come si dice oggi – trend setters che, molto spesso, facevano di questa attività la loro professione. Imprescindibile, in questo ruolo, era possedere – da un Giorgio Vasari nel Cinquecento a un Gianfranco Contini nel Novecento – qualche forma di autorevolezza morale e intellettuale. Poteva succedere che i due tipi di successo coincidessero, oppure no. L’importante è che l’effetto combinato di tutto questo ha prodotto la memoria dell’arte in ogni forma di espressione, il senso generale di una storia a cui facciamo riferimento nei libri, nelle scuole o semplicemente nella quotidianità.
Quel che si è ricordato ha avuto una ragione per essere ricordato. 

 

Provate adesso a seguire cos’è successo rispetto a questo schema, solo negli ultimi vent’anni, nel mio campo creativo: il cinema. Dal punto di vista del corpus siamo di fronte a una specie di big bang cosmico. Più o meno fino all’inizio del secolo scorso, il formato dell’opera cinematografica era uno: il film. Poteva essere lungo, medio, corto, di fiction o documentario, ma era facilmente riconoscibile. La digitalizzazione ha allargato il campo in modo illimitato. Intanto, da un punto di vista pratico. Fare cinema costava, e molto. C’era una forma di “selezione naturale” già lì, tra chi arrivava a fare un film e chi no. Ma fare cinema è cominciato a costare, grazie all’elettronica, molto meno, con un processo ben noto a chi è passato da una macchina fotografica a pellicola a uno smartphone. Per dirla con Warhol, tutti hanno potuto essere registi per 15 minuti.


Ma la digitalizzazione ha avuto una ricaduta ancora più importante: una volta che ogni immagine è stata riducibile a bit, questo processo ha ibridato tutto l’audiovisivo. Il film ha smesso di essere l’archetipo dell’opus cinematografico: oggi le sovrapposizioni con televisione, rete, arte, reality show, serialità sono tali da mettere in questione la natura stessa del cinema: come infatti riflettono i programmi dei festival più importanti, che ormai propongono film che non sono film, o film che nemmeno usciranno in sala. Dal punto di vista dei registi, che solo negli anni sessanta erano stati sdoganati come autori, il fenomeno è inverso: tendono a confondersi dentro meccanismi nuovi. Chi è l’“autore” di Fargo, la serie tv? I fratelli Coen che l’ispirano? Noah Hawley, che l’ha concepita? I registi che girano gli episodi che – come quasi tutti i registi tv – sono sconosciuti al pubblico?


In poche parole: non c’è più né un sistema univoco di opere né di autori. Certo, ci sono registi che sono famosi in quanto tali: ma la loro popolarità assomiglia più a quella di un brand (i film alla Tarantino, alla Almodovar…) che a quella tradizionale, costruita sulla qualità.
Ma la cosa più sorprendente è la rivoluzione, in soli vent’anni, del ruolo della critica cinematografica. Ancora una generazione fa esprimeva intellettuali che non erano solo recensori, ma alfieri di un’idea di cinema (dal nostro Tullio Kezich a Vincent Canby del New York Times, per fare un esempio). Da giovane cineasta io sono cresciuto dentro una dialettica che non significava solo parlar bene o male di un film: dietro un certo modo di concepire il cinema – e di scriverne – c’era un certo modo di concepire la vita e la società. Tutto questo è scomparso. Certo, sui grandi quotidiani scrivono ancora firme serie e riconoscibili: ma con sempre meno influenza. Come sanno bene gli addetti stampa, oggi conta più l’intervista in esclusiva o il reportage dal set che non la recensione vera e propria. Che invece continua a essere praticata in rete da una miriade di “critici” – autonominatisi tali – che non esprimono nient’altro che se stessi; per non parlare della totale mancanza di autorevolezza morale di siti e blog. Forse, mettendo tutto insieme, si raggiunge un sentiment: ma certo non l’organica comprensione di un fenomeno, che da sempre è stato il tentativo degli intellettuali. È un fenomeno non dissimile dal meccanismo delle fake news. Non importa chi lo dice, basta che un’opinione esista.


Ricapitolando: il campo da studiare è sterminato e troppo intricato; gli strumenti tradizionali inadeguati; e non c’è nessuno in grado di dominare anche solo la pura estensione fisica del corpus delle opere. In questo contesto sperare oggi che un film “incompreso” alla sua uscita possa essere prima o poi rivalutato è del tutto improbabile. Ci sarà sempre talmente tanta roba, e tutta insieme, da non lasciare spazio al passato; e per converso non ci sarà nessuno con una motivazione abbastanza forte (culturale o anche solo professionale) che ritenga utile voltarsi indietro piuttosto che stare al passo coi tempi.

Il conflitto che sta alla base di questo processo è chiaro: la memoria umana è selettiva, quella digitale no. Più ci troviamo di fronte ad archivi globali che non dimenticano nulla, più ci troviamo spiazzati nella nostra capacità di dominare certi processi mentali, di trasformare in narrazione quello che ci succede intorno, di intervenire in modo personale sui processi culturali.


La selezione effettuata dalla memoria non è casuale, è basata sull’esperienza esistenziale collegata in noi a quel ricordo. Ti resta in testa un libro per le emozioni che hai avuto leggendolo, o per il contesto in cui l’hai fatto. Crei una gerarchia, intellettuale o anche solo emotiva. Ma per un database, uno vale uno: La Divina Commediaè uguale a Cinquanta sfumature di grigio. Qualche settimana fa è comparso su La Lettura un affascinante contributo di Claudio Tuniz e Patrizia Tiberi Vipraio a proposito delle domesticazioni: la prima delle quali fu quella degli animali da parte dell’uomo; l’ultima, attualmente in corso, quella dell’uomo da parte delle macchine digitali. Fornisco anch’io una piccola testimonianza personale in proposito.

 

Da ragazzo, negli anni settanta, quando uscirono i primi combo che accoppiavano giradischi e registratore a cassette, presi – come tanti – non solo a copiare i dischi per ragioni economiche, ma anche a produrre compilation personali. Era una maniera di “impossessarsi” della musica che ascoltavi, per farla più tua. Un’attività che si raffinò negli anni novanta, con la comparsa dei computer e dei CD.

La chiave di questa pratica stava nel limite di capacità: prima delle audiocassette, poi dei CD. Oltre un certo numero di canzoni o pezzi (che azzarderei a definire “umano”), non si poteva andare. Quando con gli I-pod comparvero le prime memorie digitali ad alta capacità il processo si ribaltò. All’improvviso si poteva disporre di centinaia, migliaia di pezzi su un oggetto fisico dall’ingombro minimale. Il problema è che quando un archivio è troppo grande, smetti di gestirlo tu ed è lui a gestire te. La fatica (il piacere) di scegliere, di costruire un percorso è sostituita dal relax di affidare le scelte di ascolto alla macchina: attraverso i comandi random, o attraverso la profilazione dei tuoi gusti. Io resto sempre sorpreso quando vedo come Spotify gratifica la mia compagna di una sua “radio” personale, costruita da un algoritmo che si basa sulle sue scelte precedenti. Non è lei che sceglie cosa ascoltare, è Spotify che pensa che lei voglia ascoltare quello. 

 

Per tornare al punto di partenza: date queste condizioni oggettive, è veramente difficile pensare che qualcuno (inteso come essere umano) possa un giorno trovare il tempo e la motivazione di interrogarsi su un’opera del passato. Non potendo selezionare nulla sotto forma di ricordo, che implica esperienza, ci sarà sempre più informazione da gestire e per di più tutta insieme. Memoria, tempo, esperienza: senza queste coordinate ogni forma espressiva sarà condannata a vivere in un eterno presente che durerà i 15 minuti preconizzati da Warhol, o forse meno. E poi, il sipario. Certo, un caso come quello di Vivian Maier, la street photographer“scoperta” dopo la sua morte, ci induce a sperare che una seconda chance, per un artista, sia ancora possibile. Ma non perché il tempo è galantuomo, bensì come puro fatto casuale. Anzi, randomico.

 

Questo articolo è stato pubblicato si La Lettura del Corriere della Sera (24/9/2017) che ringraziamo.

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Il liberalismo ha fallito?

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Si diffondono libri e saggi in cui si brinda al fallimento del neoliberalismo. Per neoliberalismo si intendono sia le politiche thatcheriano-reaganiane adottate in molti paesi, sia certe dottrine liberali del secolo scorso, come l’ordoliberalismo tedesco o il liberalismo austriaco (L. von Mises, F.A. von Hayek) o quello americano (scuola di Chicago). Si intende insomma sia una certa governance politica affermatasi dagli anni ‘80 in poi, sia teorie economiche, filosofiche in senso lato, che starebbero alla base di questa governance

Uno degli ultimi interventi in questo senso è opera di un filosofo, Massimo de Carolis, Il rovescio della libertà, che ha per sottotitolo Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà (Quodlibet). De Carolis intende dimostrare che il neoliberalismo è fallito non con argomenti economici o sociologici, ma piuttosto filosofici speculativi. Anche se de Carolis evoca dati di fatto economici e sociali. 

 

Ma in che senso il neoliberalismo è fallito? Non venderei la pelle dell’orso prima di averlo ucciso.

Credo intanto che non ci si debba limitare a criticare il neoliberalismo, ma il liberalismo nel suo complesso (come ho cercato di fare qui). Si diagnostica il fallimento del liberalismo – o solo quello della variante neoliberale – di solito evocando le grandi crisi economiche, come quella del 2008, peraltro affrontata dai governi con misure lontane dalle ricette liberali. Quella del 2008 è la quarta grande crisi del capitalismo, dopo quella del 1873-1896, quella dal 1929 al 1940, e quella degli anni 1970. In effetti, le teorie liberali si basano su un presupposto: che se lo stato non interviene troppo, il mercato porterà spontaneamente alla massima ricchezza. Il mercato lasciato alle proprie dinamiche è quel che F.A. von Hayek chiamò catallassi: l’interazione spontanea di agenti economici che seguono ciascuno proprie finalità. Il liberale è un anarchico che però si rassegna al governo come a un male necessario, e che intende comunque limitarne asintoticamente il dominio; punta a un “governo frugale”. Ora, però, la crisi a partire dal 2008 ha dimostrato, come del resto già dimostrarono le crisi precedenti, che un sistema liberale può portare alla prosperità ma anche al disastro. 

 

Di solito il liberale schiva le critiche dicendo che le crisi accadono perché le società capitaliste oggi non sono abbastanza liberali, non sono – come dice di solito – mercati perfetti. Mesi fa assistetti a un dibattito televisivo con un eminente esponente del pensiero liberale. A chi gli ricordava la crisi del 2008, rispose: “È lo stato americano, non il mercato, la causa della crisi. Lo stato americano ha fatto leggi secondo cui ognuno doveva avere una casa di proprietà”. Ma lo stato americano non ha mai emanato leggi del genere. Questo liberale confondeva un sentimento diffuso nella società civile, l’aspirazione a dare una casa anche ai poveri, con immaginarie leggi specifiche. Prova, anche in questo caso, che non bastano le smentite fattuali a cambiare la propria visione del mondo.

De Carolis, però, non critica il liberalismo tanto per le crisi economiche, quanto piuttosto perché porterebbe a una ri-feudalizzazione della società. Accusa grave, perché il liberalismo si vuole radicalmente anti-feudale. Per feudalesimo il liberalismo non intende il tipo di società prevalente in Europa nel Medio Evo, ma in generale una società fondata su vincoli di potere precostituiti, su obbligazioni e sottomissioni del tutto svincolate dal mercato. Per il liberalismo è solo nel mercato che i soggetti operano – comprano e vendono – liberamente.

 

Ma il punto è: quale grande dottrina politica in fondo nonè fallita? Tutte, portate nella realtà, hanno in qualche modo fallito. E aggiungo: quale società non tende, in modi diversi, a feudalizzarsi?

In Occidente abbiamo fondamentalmente cinque grandi filosofie politiche: il liberalismo, il socialismo, il solidarismo cristiano, il democratismo e il fascismo. Credo che tutte e cinque siano fallite. (Secondo me tutte queste filosofie, eccetto il fascismo, hanno aspetti positivi.)

Tutte le varianti di socialismo, in modo diverso, sono fallite: la sovietica, la cinese, la cubana, la jugoslava, la nicaraguense, la nord-coreana… L’ultimo fallimento in corso è quello del petro-socialismo venezuelano. Eppure non sono tanto ingenuo da concluderne che per questo le filosofie socialiste cesseranno: esse sono così allettanti, che troveranno sempre qualcuno per farle proprie. È vero che ogni “socialismo reale” delude, ma si pensa che il prossimo sarà finalmente il vero socialismo.

Anche la democrazia è in crisi. Si allarga l’area di chi non vota, perché non si sente rappresentato da alcun partito. Con Berlusconi, Trump e Thaksin Shinawatra in Tailandia abbiamo visto che il potere sui media può far vincere le elezioni a un tycoon che così accumula troppo potere. Molte democrazie si sono suicidate democraticamente, come in Germania nel 1933. E ci sono vaste aree sottratte al controllo democratico: per esempio la magistratura (che non viene eletta) e i direttori delle banche centrali. 

Quanto al fascismo e alle dottrine politiche cristiane, mi sembra superfluo portare esempi. Per molti secoli le società cristiane hanno prodotto regimi orribili molto lontani dai dettati evangelici. 

Il punto è che, pur avendo fallito tutte le filosofie politiche dell’Occidente, non ne abbiamo altre chiaramente migliori. A meno di non considerare il rousseauismo della democrazia diretta, dato che questo finora non è mai stato applicato. Ed è su questa verginità che punta tutte le sue carte Beppe Grillo.

 

Si può ripetere che il liberalismo ha fallito perché si dà per scontato che dagli anni 80 in poi le ricette neoliberali siano state applicate nelle nostre società iperindustriali in modo sistematico e capillare. Ma non è questo il caso, grazie a Dio. 

Il neoliberalismo è una teoria, ma la realtà è altra cosa. Le nostre società occidentali sono in realtà liberal-social-democratiche, mescolano elementi liberali socialisti e democratici.

Reaganismo e thatcherismo hanno scalfito il welfare state, ma non lo hanno veramente smantellato; per molti versi le nostre società sono rimaste keynesiane. Lo si vede bene quando, in Italia, i governi, peraltro di sinistra, cercano di liberalizzare cose come la vendita di farmaci e di giornali, i taxi e cose simili: succede il finimondo e ci devono rinunciare. E l’enorme debito pubblico di paesi come Giappone, Grecia, Italia e Portogallo mostra che di fatto questi paesi hanno perseguito politiche keynesiane.

 

Direi che le società reali sono dei bricolage, come quelli che faceva Picasso combinando oggetti disparati. Le nostre società mescolano opportunisticamente elementi di democrazia e di socialismo sullo sfondo di una società di mercato. Del resto ci sono paesi social-liberali ma non democratici, come la Cina o Singapore. E ci sono paesi socialisti che non sono né liberali né democratici, come Cuba e la Corea del Nord. È notevole però che non esistano società socialiste-democratiche che non siano anche liberali. Penso che sia il socialismo che l’ideologia puramente democratica siano falliti non meno del liberalismo, ma proprio per questo le nostre società combinano i tre paradigmi, i quali si correggono a vicenda. 

Nessuna società umana è solo qualche cosa. Una società schiavista non è solo schiavista, una società feudale non è solo feudale, e una società capitalista non è solo liberale. Una società esprime anche altre forme di vita rispetto a quella dominante, e queste altre finiscono poi col cambiare una società e producono storia. È questa la critica che bisogna rivolgere al liberalismo: che considera una sola forma di vita, quella dello scambio economico, e ignora le altre. Così, nelle società liberali si è innestato il welfare state e un certo controllo politico sull’economia (per esempio, attraverso la tassazione, la partecipazione pubblica alle imprese). Insomma, le società nelle quali prospera il liberalismo tendono anche a correggere e modificare i puri processi di mercato, quando essi danneggiano alcuni o tutti. Inoltre, nelle società democratiche si sono innestati centri di potere che in parte controllano la democrazia, come le lobbies che condizionano i politici. Le grandi aziende hanno i “loro” deputati al Parlamento.

 

 

È vero che possiamo considerare la democrazia pluralista una versione politica della società di mercato. I partiti possono essere assimilati a “ditte” in competizione che tendono a conquistare non quote di mercato ma quote di elettori. La lotta tra partiti è una forma di catallassi, ma non coincidente con quella economica. Ovvero, la catallassi politica può modificare la catallassi del mercato.

Ora, quando diciamo che il liberalismo come dottrina è fallito, questo non implica affatto che sia fallito, di fatto, il capitalismo, di cui il liberalismo è, direi, l’idealizzazione. Anche perché ci sono società liberali riuscite e altre meno. Non si può generalizzare.

 

Possiamo considerare riuscite certe società capitaliste come quelle del Nord Europa (in particolare i paesi scandinavi, l’Olanda, la Germania), il Canada, l’Australia. Gli indicatori di questi paesi sono quelli che tutti noi consideriamo positivi: sono le società più ricche (PIL pro capite più alto), più egualitarie (coefficiente Gini più basso), con maggiore eguaglianza di genere, con più alti livelli di istruzione, con la più bassa corruzione, maggiore libertà dei media, ecc. Queste società sono ottimali a dispetto del loro essere liberali o proprio perché, almeno in parte, lo sono? Penso che siano riuscite a prendere il meglio del modello liberale ma dando spazio anche ad altri paradigmi, in particolare il democratico e il socialista. Sono liberali perché il lavoro là è molto flessibile, il Jobs Act ce l’hanno da molto tempo, ovvero è facile sia assumere che licenziare. Ma hanno un buon welfare state, lo stato si prende cura dell’istruzione, ecc. Insomma, possiamo identificare la teoria liberale al funzionamento concreto delle società, che non sono mai solo di mercato? 

Altre società capitaliste e più o meno liberali invece non vanno molto bene, anche all’interno dell’Europa, come i PIGS: alta disoccupazione, PIL pro capite più basso, meno egualitarismo economico, minore eguaglianza di genere, livelli di istruzione più bassi, alta corruzione, ecc. Anche in questo caso, le loro magagne derivano dal fatto di essere società liberali, o di non esserlo abbastanza?

 

I vari liberalismi si fondano essenzialmente su quel che già Adam Smith aveva chiamato Mano invisibile, ribattezzata poi catallassi. Questa Mano catallattica non è descritta mai come diabolica e sempre come provvidenziale. Ma la Mano catallattica può produrre sia il boom che le vacche magre. Quindi, se la catallassi non funziona a vantaggio di tutti, lo stato è costretto a intervenire, e non giusto come arbitro. In effetti, secondo il paradigma liberale lo stato deve essere solo un arbitro, come nelle gare sportive. Eppure sappiamo che gli arbitri fanno parte a loro volta di una catallassi, per cui abbiamo anche dei Byron Moreno. Lo stato non è mai semplicemente arbitro perché – come mostra bene de Carolis – esso è a sua volta investito da lotte di potere catallattiche. La società è sempre una catallassi di catallassi. 

 

Il liberalismo si basa sul paradigma kantiano dell’insocievole socievolezza: ovvero, la società di mercato funziona bene perché ognuno pensa solo al proprio tornaconto. La società migliore si baserebbe sulla generalizzazione del do ut des. Ma il liberalismo rimuove così una dimensione importante, la volontà di potenza. E i conflitti di potere, che non sono riducibili a fattori concorrenziali nel mercato, hanno la loro catallassi. Il potere difatti non è qualcosa che si scambia nel mercato, è qualcosa che si esercita.

Secondo la teoria dei sistemi, un sistema – un mercato lo è – è immerso sempre in un ambiente, dal quale provengono elementi che penetrano il sistema. Ora, per il liberalismo non ci dovrebbe essere questo ambiente esterno al sistema, ovvero il mercato dovrebbe essere un sistema del tutto chiuso in se stesso, idealmente chiuso anche alla politica. Ma questo è impossibile. Sul sistema del mercato fanno pressione ogni sorta di istanze ambientali, ovvero forme di vita diverse da quelle dello scambio economico: politiche, estetiche, religiose, etiche… Gli esseri umani non sono semplicemente homines oeconomici. In una democrazia anche i poveri votano, così ci sarà una forte pressione da parte dei più poveri a garantire un salario minimo, ad esempio. E così via.

 

La società è un’interazione di catallassi diverse. Da qui la tentazione anti-democratica del liberalismo puro: per mantenere il mercato isolato dal contesto sociale in cui è immerso, meglio una dittatura. Così von Mises approvò il colpo di stato di Pinochet in Cile nel 1973: perché la libertà di mercato possa funzionare perfettamente, si possono eliminare le libertà democratiche.

 

L’homooeconomicusè l’uomo dedito allo scambio. Il valore economico è sempre e solo valore di scambio, il valore d’uso è sullo sfondo ma non entra nel calcolo economico. È ricchezza economica solo ciò che è scambiabile; è ricco chi può scambiare più del meno ricco. Ma nella vita umana non c’è solo scambio di beni. Claude Lévi-Strauss ricordava che ogni società umana si basa sì sullo scambio, ma non solo di merci: di doni, di parole e di donne. E poi ci sono altri valori importanti: il prestigio, il potere, il successo sessuale, la simpatia. Queste dimensioni si intersecano sempre, è vero, ma sono catallassi distinte. La teoria liberale compie un diniego delle forme di vita che non rientrano nello scambio. Ma queste diverse forme di vita premono sulla catallassi economica, e la deformano continuamente.

Il liberalismo stesso è una teoria che nasce all’interno di un ambiente – di un ecosistema – che non è specificamente liberale, ma che rende possibile questa governance e può sostenerla. Il liberalismo ignora questo ambiente di cui esso stesso è il prodotto. Ma l’ambiente comprende anche le teorie anti-liberali, che entrano in competizione con il liberalismo nel mercatodelle idee per così dire.

 

Come ogni concezione politica che assolutizza una sola forma di vita, anche il liberalismo nella pratica tende a rovesciarsi nel proprio contrario. Anche de Carolis, come molti altri prima di lui, fa notare che quella liberale è una visione idealizzata del mercato, mentre di fatto nelle società capitaliste vengono a crearsi centri di potere – trusts, monopoli, rendite di posizione, ecc. – che la teoria liberale non prevede, e che di fatto vanificano quella libertà individuale che il liberalismo vorrebbe esaltare. Ma questa tendenza di un progetto politico a rovesciarsi nel proprio contrario è un tratto tipico di ogni progetto assoluto che neghi la pluralità delle forme di vita. 

 

Il liberalismo americano ha elaborato il concetto di “capitale umano”, un’espressione che è entrata pienamente nel discorso comune. È stato il liberalismo americano a estendere il criterio economico a tutti gli aspetti della vita umana, facendo sostanzialmente coincidere l’essere umano con l’homooeconomicus. Ad esempio, anche le cure genitoriali sono viste come parte di un processo economico: allevando e istruendo un figlio, un genitore edifica capitale umano, che un giorno darà i suoi frutti in termini monetari. Ma cosa motiva un genitore a formare un capitale umano? La propria soddisfazione. Nella misura in cui l’essere umano persegue sempre una soddisfazione, è sempre oeconomicus.

Ma il sistema mercantile implica un ambiente a esso esterno, e questo ambiente esterno non è esso stesso mercantile. Ad esempio, quel che rende difficile lo sviluppo capitalistico di certe aree è la corruzione dei funzionari dello stato; il capitalismo ha bisogno, invece, di una certa diffusa onestà.

 

Occorrono funzionari kantiani, impiegati ligi al puro dovere anche se potrebbero trarre facili guadagni dalle loro posizioni. Insomma, il capitalismo ha bisogno di uno stato forte, quindi esattamente il contrario di quel che predica il liberalismo. L’ordoliberalismo tedesco aveva visto che il mercato non è laissez-faire ma implica un’azione continua da parte dello stato, proprio per rendere possibile il libero gioco del mercato. Il mercato implica non solo uno stato forte, ma anche un ambiente spirituale forte, una cultura diffusa della disciplina e dell’onestà, oltre che del rischio. Mi chiedo, per esempio, se il successo dei paesi nord-europei non sia in qualche modo connesso alla severa morale luterana che ha plasmato quelle nazioni. E mi chiedo se il declino economico dell’Italia da una ventina d’anni non sia connesso a un degrado della vita spirituale dell’intero paese, al diffondersi capillare di una mentalità corrotta da una parte, e dal rifiuto del rischio dall’altra. 

Insomma, il liberalismo vede la società di mercato come un tutto, mentre essa è solo una parte. Ma le parti che non vede sono proprio quelle che rendono possibile il governo liberale, ovvero sono le condizioni ambientali per lo sviluppo sia del mercato che della sua teoria. Il liberalismo ha bisogno di queste parti che non vede come la terra su cui poggiare i piedi. 

In effetti, come diceva Foucault nel suo Seminario sul liberalismo: 

 

...Si instaura, nel cuore stesso di questa pratica liberale, un rapporto problematico, sempre diverso, sempre mobile tra la produzione della libertà e quello che, producendola, rischia di limitarla e distruggerla.

 

Quindi, si accusa il liberalismo di ri-feudalizzare il mondo, anche se esso pretende il contrario. Si insiste sulle lobbies, ovvero sulle posizioni di potere politico che assumono le grandi imprese. La libertà di mercato svanisce in pratica, dato che certi attori nel mercato lo condizionano imponendo le proprie scelte e interessi. Ma il punto è: questo è un effetto prodotto dalla teoria neoliberale applicata, anche se questa teoria non vuol vedere questo effetto? O è un effetto che viene dal fatto che l’essere umano non è semplicemente homo oeconomicus, ma è anche homo in lotta per il potere, per il prestigio, e per altre cose ancora?

 

Ovvero, certi tratti della nostra mentalità moderna sono effetti diretti del neoliberalismo, oppure essi avrebbero prevalso comunque in una società secolarizzata come la nostra? Ad esempio, quel che conta oggi nella vita sociale è essere un winner e non un loser, in qualsiasi campo. Anche tra filosofi, devi essere vincente e non perdente. L’intera vita sociale è assimilata a competizioni sportive. Ma il neoliberalismo non raccomanda di essere vincenti, dopo tutto esso offre un’immagine consolatoria implicita nel termine catallassi, che in greco significava “diventare amici”. Il liberalismo si basa sul presupposto che, in una società libera, ognuno, anche se è povero, ha ciò che merita. La visione competitiva dei rapporti sociali che si sta imponendo deriva forse dal liberalismo, ma va ben oltre esso.

Direi quindi che una società tende a sviluppare sempre aspetti feudali, nella misura in cui alcuni esseri umani, per doti naturali o per eredità sociale, sono molto bravi nell’accumulare potere (o prestigio, o amore, o simpatia, o tutto questo assieme). Ci sono anche i Mozart del potere. La teoria liberale non vede che si vengono a creare rapporti feudali anche in una società liberale. Potrebbe avvenire oggi quel che accadde nel Medio Evo, quando i liberi comuni italiani diventarono poco a poco, spontaneamente, delle signorie, ovvero si ri-feudalizzarono. 

 

E in effetti, anche il socialismo crea il potere feudale della Nomenklatura: chi ha potere politico decide per la massa che non ne ha. Persino la democrazia crea potere feudale: lo si chiama oggi casta politica, una vera e propria industria per produrre voti.

La lotta contro la feudalizzazione è quindi un processo infinito, che si impone in qualsiasi tipo di società. Se vogliamo lottare contro di esso, perché non tutti odiano il feudalesimo.

Insomma, il liberalismo è un’Utopia parallela al socialismo. Quest’ultimo pensa di eliminare la volontà di potenza degli umani costruendo una società in cui tutti siano fratelli e sorelle, mentre il primo pensa di eliminare la volontà di potenza dando corso a una società in cui ciascuno persegua solo i propri interessi. Entrambe le teorie denegano la realtà, permeata dalla volontà di potenza. 

Eppure, anche se il neoliberalismo come teoria ha fallito – proprio perché è una teoria – non direi che andiamo verso una società non liberale. Perché, fino a ora, non si è trovato un sistema che crei più ricchezza di quello capitalista e mercantile, di cui il liberalismo è la teorizzazione. E se non si crea abbastanza ricchezza, si redistribuirà sempre solo della povertà.

 

Oggi assistiamo a un esodo di milioni di esseri umani dall’Africa e da certi paesi asiatici, una migrazione smisurata verso i paesi europei e nordamericani. Questi paesi non sono solo liberali – abbiamo visto che sono società composite – ma sono stati profondamente marcati dal liberalismo. Tutta questa gente rischia la pelle per vivere in paesi dominati da un sistema fallito? Forse vale la pena ricordare che l’Unione Europea, col 7% della popolazione mondiale, contribuisce per il 25% al PIL globale e per il 50% del welfare. E che da oltre 70 anni vive sostanzialmente in pace, a parte alcune guerre coloniali e i conflitti balcanici. Fino a quando i paesi più ricchi e potenti saranno capitalismi liberali – e non solo liberali – i paesi più poveri e deboli non cesseranno di prenderli a modello. E masse di migranti di affluirvi. La teoria liberale sarà anche fallita, il capitalismo no.

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Anche le statue muoiono

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Parte seconda

Tre risposte

 

Il destino delle statue dei Confederati è al centro di un dibattito complesso e stratificato che coinvolge cittadini, militanti, politici ma anche quanti lavorano sul visivo, che siano storici dell’arte, teorici degli studi visuali, curatori dei musei o addetti alla conservazione del patrimonio artistico. Le loro posizioni si sono espresse pubblicamente su giornali nazionali, blog e forum più confidenziali. Mi sembra siano tre le posizioni principali.

 

1) Images, malgré tout, o “anche queste sono opere di artisti” (Hollis Robbins, professore di Humanities al John Hopkins Peabody Institute). Le sculture dei Confederati sono artefatti con un intrinseco valore, se non estetico, perlomeno storico-culturale, in cui traspare lo stile di un’epoca. È improbabile che distruggerle risolverà i problemi della società americana, è certo che, così facendo, si comprometterà il patrimonio americano.

Chi studia la vita degli oggetti vuole comprendere perché sono stati creati, dove sono stati collocati, chi era supposto vederli, come funzionavano e come sono stati interpretati in diverse fasi storiche. Vuole documentare, analizzare e preservare le espressioni visive dei valori al cuore dell’identità nazionale. I monumenti ai soldati fanno parte di un sistema articolato, come ogni manufatto artistico, composto dagli artisti che li hanno progettati, dagli individui e le organizzazioni che li hanno finanziati, dai governi che li hanno appoggiati e così via.

 

Non manca tuttavia chi osserva che in sé le statue dei Confederati non hanno valore artistico, trattandosi di forme standardizzate realizzate a partire da illustrazioni e fotografie, prodotte in serie e su scala industriale da compagnie del New England, che vendevano le stesse statue alle fazioni opposte della Guerra civile e passarono, senza soluzione di continuità, dai monumenti nei cimiteri ai memoriali di guerra. Insomma l’unica ideologia era quella del “business as usual”.

Ad ogni modo, il gesto iconoclasta non apre un dialogo ma lo tronca, non si accompagna a una comprensione del ruolo delle immagini ma le annienta. Come si può gioire della devastazione della nostra cultura materiale? Al contrario, i monumenti dei Confederati vanno tenuti in piedi perché c’insegnano qualcosa sul nostro passato, su come questo ha anticipato e configurato il presente. Tale è la voce di molte comunità afroamericane: togliere dalla faccia della terra le statue in quanto appartenenti a un passato ormai trascorso raggira l’essenziale, ovvero il fatto che la società americana è tuttora fondata sulla diseguaglianza razziale. Quei monumenti non ricordano il nostro passato razzista ma il razzismo del nostro presente. Le statue contengono storie, le incorporano – “embedded” secondo il bel termine inglese – al loro interno, e la loro caduta comporterebbe un oblio di quanto custodiscono.

 

Lawrence A. Kuznar, professore di antropologia all’Indiana University, Purdue University Fort Wayne, evoca la distruzione dei monumenti dello Stato Islamico in uno dei rari riferimenti nella stampa americana a questa scomoda controparte. Il gesto iconoclasta, indipendentemente dalle intenzioni, è guidato dallo stesso intento e dallo stesso protocollo: esorcizzare il potere delle immagini. “Ma questi pezzi di metallo e di pietra hanno solo il significato che gli assegniamo, e questo significato può assumere qualsiasi forma che vogliamo. Possono essere venerati o vituperati, onorati o ridicolizzati, oppure cooptati per una nuova causa” (I detest our Confederate monuments. But they should remain, in “The Washington Post”).

Lasciate le statue dove sono, questo il messaggio, perché dicono cosa siamo e cosa non siamo, mostrano il prezzo pagato per ottenere i diritti civili. E se qualcuno fa di queste reliquie storiche degli eroi e degli altari, apriamo il dibattito nel cuore della società civile, senza eliminare l’oscuro oggetto del desiderio.

 


2) Museo-mausoleo. La rimozione delle statue dei Confederati ha senso solo se accompagnata da una collettiva presa di coscienza. Come proposto dall’artista di Los Angeles Mark Bradford: “Se questa conversazione riguarda, nel suo insieme, la storia del nostro paese, allora devi parlare della storia di questo paese. Non limitarti a lasciare questi spazi vuoti. Piuttosto contestualizza l’azione. Non mi sembra che ci sia ragione di precipitarsi”. La rimozione delle statue deve essere più deliberativa di quanto sta accadendo: “Siamo dell’opinione che in casi in cui ci può essere un’ulteriore discussione sull’arte pubblica, sulla sua rimozione o mediazione, questa deve aver luogo. Il discorso pubblico è molto importante”, secondo Simeon Bankoff, direttore esecutivo dell’Historical Districts Council a New York. “Sono restio a cancellare la storia. Per me il nocciolo della questione è meno se vengono giù o meno, che quello che il dibattito suscita”, afferma Lonnie G. Bunch III, direttore del National Museum of African American History and Culture dello Smithsonian.

 

Rimuoviamo le statue dal centro città, trasportiamole nei cimiteri al pari delle altre statue che piangono i cari estinti, o nei parchi di sculture all’aperto, come il Museon di Mosca, con le statue dell’epoca sovietica. O, ancora meglio, nei musei, contesto ideale per disinnescare il loro carico simbolico legato all’oppressione razziale. “Si tratta di statue su un piedistallo, e quando metti qualcosa su un piedistallo, è pronto a essere osannato. Crea una sorta di adorazione eroica attorno alla Confederazione, a sostegno di uno stato che sancisce la supremazia bianca. Per questo è opportuno riesaminarle e cambiare il loro contesto”, secondo Joshua David, presidente e amministratore delegato del World Monuments Fund.

Portare le statue in un museo sembra a molti un compromesso accettabile, ma si tratta di un processo pacifico? In realtà l’operazione poggia su alcuni presupposti impliciti, a partire dall’idea che il museo sia un deposito senza fondo. Molte statue sono di grandi dimensioni e pesanti, ciò che pone problemi strutturali per molti musei, inadatti a ospitare persino monumenti in bronzo. Sulla quantità poi non è ancora chiaro quante potrebbero essere rimosse, probabilmente più di quanto pensiamo e, di certo, più di quanto i musei possono accoglierne. Questo vale soprattutto per i musei d’arte, non a caso meno ricettivi dei musei di storia ad aprire le porte. A meno che non si vogliano accatastare in deposito, e in tal caso, anziché rivolgersi a un museo, qualsiasi storage facility sarà più adeguato.

 

Secondo presupposto: che il museo sia un luogo neutro, un santuario in cui i conflitti si placano, in cui cultura e politica si rappacificano. La capacità di “digestione” dei musei sembra non conoscere limiti: qui trovano dimora le rappresentazioni di personaggi abominevoli, suscitando pertanto poco scalpore. Ora, se le statue in questione celebrano lo schiavismo, non lo fanno fuori come dentro il museo-mausoleo? Quale salvacondotto è in grado di fornire tale istituzione? Pensate alle opere rimosse dai musei in quanto considerate offensive verso la religione: la rana crocifissa di Martin Kipperberger al Museion o, per restare agli Stati Uniti e al crocifisso, il video di David Wojnarowicz, A Fire in My Belly, rimosso da Hide/Seek: Difference and Desire in American Portraiture alla National Portrait Gallery di Washington nel 2010.

Chi lavora nei musei americani è consapevole della loro pretesa neutralità ideologica: “I nostri musei enciclopedici, come il Met, sono immensi magazzini pieni di oggetti globali progettati per funzionare esattamente come le immagini dei Confederati: come strumenti di persuasione ideologica, con messaggi etici che troveremmo ripugnanti se potessimo leggere i loro simboli visivi, la loro lingua al di là del linguaggio” (Holland Cotter, “We Need to Move, Not Destroy, Confederate Monuments”, in New York Times, 20 agosto 2017).

 

Ken Gonzales-Day, Erased Lynchings.


Terzo presupposto: che il museo risolva la questione offrendo un’adeguata contestualizzazione. Se non fosse che la messinscena delle statue non è qualcosa che si aggiunge da fuori una volta fabbricate ma le è consustanziale. Sono state concepite per essere esposte all’aperto e dialogare col contesto urbano. Strappate da questo tessuto, i monumenti non diventano più comprensibili ma muti (cfr. Michele H. Bogart, Sculpture in Gotham. Art and Urban Renewal in New York, Reaktion Books 2018). “Il senso e la storia che siamo in grado di trarre dalle statue in un sito diverso, in particolare una sorta di luogo sterilizzato come un museo, non è lo stesso. Questo comporta una perdita storica” (Michele H. Bogart, Stony Brook University).

 

3) Distruzione senza appello. Le statue mostrano il volto della città, l’immagine dei valori condivisi dalla comunità. Per essere collocate sul terreno pubblico sono state sottoposte a una votazione e finanziate dalle tasse comunali. Tenerle in piedi vuol dire accettare, seppur passivamente, il loro indecente messaggio. Non dimentichiamo, tra le tante, la dedica di una statua all’Università del North Carolina, in cui si ricorda che il soldato confederato, che ha “salvato la vita della razza anglosassone nel Sud”, ha adempito al “piacevole onere” di frustrare una donna nera davanti agli altri soldati. Chi vive nei dintorni si chiede come tollerare la vista di questi idoli neonazisti quando porta a scuola i bambini. 

Nelle parole dell’artista Adam Pendleton: “Queste non sono opere d’arte, sono propaganda. Equipararle a un’opera d’arte e al mondo in cui funziona è falso. Sono strumenti di un’agenda politica e sarebbe del tutto folle suggerire che resta un filo di ambiguità. Il loro merito artistico è irrilevante perché non ha alcuna pertinenza. Non pensiamo a chi ha creato la statua di Robert E. Lee e alle sue intenzioni.

 

Ken Gonzales-Day, Erased Lynchings.

 

Pensiamo a chi è Robert E. Lee e a cosa significa”; “Parte della discussione riguarda quello che queste statue rappresentano. E quello che le statue rappresentano è molto chiaro: commemorano un periodo molto buio nella storia americana. Stiamo parlando di un momento storico in cui la gente era schiavizzata. È l’opposto di tutto ciò per cui l’America si batte. Buttate giù quelle statue!”.

Al riguardo, la posizione più estremista è quella di Nicolas Mirzoeff che non si presenta più come professore di Media, Culture e Communication (come in Come vedere il mondo recentemente tradotto da Johan & Levi) ma come “visual activist”. In questa direzione va il suo ultimo libro, scaricabile gratuitamente, The Appearance of Black Lives Matter: In un post virulento apparso sul suo blog (“All The Monuments Must Fall”, 14 agosto) incita a buttare giù tutti i monumenti. Non è chiaro cosa includa esattamente quest’insieme. L’autore cita le parole di una militante nera di Charlottesville che si sente guardata dalla statua di Lee a Monticello, ma allora cosa fare? distruggere la bellissima Monticello, residenza italianeggiante di Thomas Jefferson? Di certo vanno detronizzate tutte le statue classiche del mondo Atlantico che naturalizzano la supremazia bianca, legittimano l’istituzione e il mantenimento della white supremacy. Infrastruttura della whiteness, “forma visibile dell’ordine stabilito della gerarchia razziale”, parte di quella “estetica del rispetto per l’ordine stabilito” ricordata da Frantz Fanon: cosa aspettiamo a buttarle giù? a smantellare una volta per tutte l’immaginazione e l’immaginario colonialisti?

 

In sintesi, due posizioni si fronteggiano: chi le statue vuole tenerle seppur con vari distinguo, e chi le statue vuole distruggerle. Da una parte, semplifico, gli storici dell’arte e i conservatori dei musei, per cui il patrimonio va protetto; dall’altra parte, militanti e studiosi del visivo, attenti principalmente al ruolo e agli effetti culturali di questi artefatti. Entrambi concordano sulla potenza delle immagini: per i primi hanno un ruolo decisivo nell’educazione e nell’apprendimento della storia; per i secondi sono simboli che influenzato i nostri comportamenti. Si dividono però sul ruolo culturale del museo, che i secondi guardano con sospetto: che l’altare di Pergamo sia conservato, con tutti i crismi della museologia, a Berlino non ha facilitato la sua restituzione ad Atene, al contrario.

 

Non solo America

 

Il dibattito sui Confederati non è rimasto limitato nei confini degli Stati Uniti. Prendiamo due casi, a partire dal Witte de With Center for Contemporary Art di Rotterdam che, è notizia recente, verrà ribattezzato il prossimo anno. Questo al fine di rimuovere il passato coloniale dell’ammiraglio olandese Witte Corneliszoon de With, che guidò spedizioni in India e Indonesia per la Compagnia dell’India dell’Est, assaltò territori spagnoli in Sud America e stabilì la compagnia olandese dell’India orientale nel 1618 a Jakarta. Una carriera che stride con quanto viene esposto all’interno dell’istituzione.

Il secondo caso viene dalla Francia che, a seguito agli eventi di Charlottesville, ha condannando il razzismo e la xenofobia in nome dei loro valori repubblicani. Se non fosse che la Francia – sempre pronta a impartire la lezione agli altri – finge di non vedere la trave nei suoi occhi (Vos héros sont parfois nos bourreaux, in “Libération”, 29 agosto). Se Pétain è bandito dalla toponomastica francese, non mancano strade dedicate a negrieri: Pierre Balguerie-Stuttenberg Balguerie, David Gradis, Paul Broca a Bordeaux; Guillaume Grou e Leroy a Nantes; Masurier e Lecouvreur a Havre. Casi simili sono stati rilevati a La Rochelle, Saint-Malo, Marsiglia e, ovviamente, Parigi, la ville lumière. Qui troviamo una panoplia di quei militari che hanno organizzato e mantenuto questo sistema economico e politico. Se rue du Général-Richepanse è stata sbattezzata nel 2002, restano il maresciallo Jean-Baptiste Donatien de Vimeur de Rochambeau. Dietro questo nome pomposo da armata Brancaleone si nasconde l’uomo che proponeva, in una lettera nel 1803, di dare i negri ribelli in pasto ai bulldog: “Vous devez leur donner des nègres à manger”.

 

Ken Gonzales-Day, Erased Lynchings.

 

Per non citare il caso più controverso, quello di Colbert. A lui sono dedicati una statua e una sala all’Assemblée nationale; un’ala al Ministero dell’economia; licei, strade e persino un software per favorire il rientro delle imprese in Francia, chiamato Colbert 2.0. Colbert – quello vero – il colonialista autore del Codice nero che considerava gli schiavi beni mobili, fondatore della Compagnia delle Indie occidentali, è commemorato come grande economista francese del XVII secolo. Simile il caso di Jules Ferry che, se istituisce l’educazione laica, gratuita e obbligatoria per tutti, difende al contempo la colonizzazione. Diciassette porti in Francia parteciparono alla tratta dei neri, 1.3 milioni tra il XVII secolo e l’abolizione del 1848, senza contare il numero incalcolabile di quanti furono uccisi durante la cattura. Per non citare la guerra in Algeria, una ferita ancora aperta: il generale Dugommier, schiavista e proprietario di una piantagione in Guadeloupe, che ristabilisce l’ordine in Martinica contro i coloni recalcitranti alla Rivoluzione, ha una strada, una stazione della metro e una targa al Panthéon di Parigi. O il generale Gallieni, legato ai massacri in Indocina.

 

Anche qui due posizioni opposte si confrontano: da una parte un lavoro pedagogico con commissioni composte da storici e discendenti degli armatori, accompagnate da un dibattito sui nomi della strade più controversi. Dall’altra chi considera questi sforzi meritori opera di libri e film, laddove le strade devono celebrare gli eroi. Insomma, la Francia è lontana dall’aver decolonizzato gli spazi e le coscienze. Pensiamo solo allo storico Marcel Dorigny, autore di un Atlante dello schiavitù, dall’Antichità ai nostri giorni che, come confessa in un’intervista apparsa su “Libération” il 22 agosto, non riesce a trovare un editore pronto a pubblicare una guida sulla Parigi più nascosta e sconosciuta, quella coloniale.

 

Imparare da New Orleans

 

In una fase di estrema fragilità politica gli Stati Uniti sono in guerra non solo col loro presente ma anche col loro passato. Per comprendere meglio la posta in gioco, potremmo fare un salto indietro, ripercorrendo la distruzione delle immagini – rappresentata e agita –, dal dipinto di Thomas Cole, The Course of Empire: Destruction (1836) alla distruzione di Tilted Arc (1981) di Richard Serra (cfr. James Simpson, Under the Hammer. Iconoclasm in the Anglo-American Tradition, Oxford University Press 2010). Senza andare così lontano, preferisco evocare, in conclusione, un evento recente ma indipendente dalle emozioni suscitate dai fatti di Charlottesville. 

Mitch Landrieu è il sindaco bianco di New Orleans, una città che ha storicamente inventato il jazz ma è stato anche il più grande mercato di schiavi, venduti, comprati e spediti sul Mississippi, dove li aspettava un’esistenza miserabile di lavori forzati. A fine maggio scorso il sindaco ha tenuto un discorso pubblico di grande lucidità e sensibilità (riportato sul “New York Times” del 23 maggio) in occasione della rimozione dell’ultimo monumento dei Confederati della città. 

 

Ken Gonzales-Day, Erased Lynchings. 


Vale la pena di riportarne degli stralci: “Queste statue non sono solo pietra e metallo. Non sono giusto ricordi innocenti di una storia benigna. Questi monumenti celebrano intenzionalmente una Confederazione falsa e sterilizzata, nella piena ignoranza della morte, della schiavitù e del terrore che rappresentano”. I monumenti sono stati eretti lì non per adornare le piazze ma per incutere timore ai cittadini neri: “Questi monumenti festeggiano intenzionalmente una Confederazione immaginaria e sterilizzata. Dopo la Guerra civile, queste statue erano parte di quel terrorismo quanto una croce in fiamme nel giardino di qualcuno; sono stati eretti intenzionalmente per inviare un messaggio forte a chiunque cammini al loro cospetto per ribadire chi comandava ancora in questa città”. Allo stesso tempo, “la storia non può essere cambiata. Non può essere rimossa come una statua. Ciò che è fatto è fatto”. “Per questo oggi reclamiamo questi spazi per gli Stati Uniti d’America. Perché siamo una nazione, non due; indivisibile con libertà e giustizia per tutti (…) e non per qualcuno”. 

In modo simile il rettore della Duke University Vincent Price: “Abbiamo la responsabilità di unirci come comunità per determinare come poter rispondere a questo malcontento, in un modo che dimostri il nostro impegno fermo verso la giustizia, non la discriminazione; verso la protesta civile, non la violenza; verso il dialogo autentico, non la retorica; e verso l’empatia, non l’odio”.

 

Il cammino è lungo. Negli Stati Uniti ci sono monumenti a streghe giustiziate, a vittime del terrorismo, ad astronauti scomparsi, a donatori di organi, a seguito della memorial mania degli ultimi decenni (Erika Doss, Memorial Mania. Public Feeling in America, Chicago Press 2010). Eppure mancano memoriali sulla schiavitù o sul linciaggio, quanto incoraggia l’amnesia bianca. E taggare i monumenti con un “Black Lives Matter” non è sufficiente. La riconciliazione è lontana, offuscata dall’attuale presidenza, culturalmente impreparata ad affrontare temi del genere, a discutere non solo il ruolo dell’arte pubblica nella società americana ma anche, in ultimi analisi, i miti fondatori della nazione.

Eppure l’alternativa è la spaccatura, ovvero l’opposto di quello che gli Stati Uniti, negli intenti più alti dei suoi fondatori, hanno cercato di essere. Come recita il loro motto nazionale “E pluribus unum”, tradotto come “Out of many, one”. La moltiplicazione incontrollata delle rivendicazioni comunitarie mette ora in pericolo quell’unità, la faticosa costruzione di una storia condivisa collettivamente, quell’“us” (noi), pronome di prima persona plurale che, in inglese, suona anche come US, gli United States.

 

Qui la prima parte.

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L'America e la sua memoria (2)
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Non voglio smettere di pensare

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Le nostre contraddizioni non ci appaiono mai tali. In seguito agli attacchi omofobi apparsi sui social network contro l’ultimo film di Robin Campillo, 120 Battiti Al Minuto, ho deciso di andare a una proiezione del film in un cinema del florido Nord-Est. So bene che i social rappresentano la negazione della complessità – e difatti non ne faccio parte – ma non mi sono ancora rassegnato al fatto che le persone e le loro opere siano riducibili a definizioni, offese, acronimi, spesso senza cognizione di causa.

 

Lo scorso 2 ottobre, a Roma, il regista Sebastiano Riso è stato aggredito e insultato sotto casa da due uomini in merito al suo ultimo film, Una famiglia, dove una coppia vende illegalmente i propri figli a coniugi benestanti, etero e omosessuali. “I froci non devono avere figli” gli hanno urlato mentre lo colpivano al volto, allo stomaco e al costato. Dieci giorni di prognosi. Se i due aggressori avessero visto il film, si sarebbero accorti che Una famiglia non racconta affatto il tentativo di una coppia omosessuale di avere un figlio, ma si focalizza sul tormento identitario di una donna, Maria (Micaela Ramazzotti), che non accetta più che il suo utero sia una fonte di guadagno e decide di ribellarsi al compagno per accogliere il proprio desiderio di maternità. Un equivoco in cui, in questi giorni, si è imbattuto anche il film di Campillo.

 

120 Battiti Al Minuto non rappresenta una patologia, ma si focalizza sulla militanza e la solidarietà degli attivisti di Act Up-Paris: associazione nata nel 1989 sul modello di Act Up-New York per difendere i diritti dei malati di Aids. All’interno del gruppo – in cui lo stesso regista ha militato – ci sono diverse commissioni che si occupano di temi specifici come tossicodipendenza, carceri, immigrati. All’inizio degli anni Novanta, nell’indifferenza dei media e del governo di François Mitterrand, gli attivisti cercano di trovare spazio nell’opinione pubblica ricorrendo ai mezzi disponibili a quel tempo: l’affissione di manifesti, il boicottaggio di libri dai contenuti omofobi, i fax e le catene telefoniche, e soprattutto manifestazioni pacifiche. “Siamo malati e non violenti” precisano a ogni azione. Le loro richieste vanno dalla distribuzione di siringhe sterili per chi fa uso di droghe alla somministrazione assistita di eroina, fino ad accusare la multinazionale Melton Pharm di non rivelare i risultati sulle prove di tossicità di una nuova molecola utile a creare un farmaco in grado di contrastare la proliferazione del virus Hiv.

 

Non è il tema a dare valore a un’opera – infatti nutro non poche riserve sul film di Riso – ma il punto di vista, il linguaggio adottato dall’autore. Campillo dedica gran parte del film alle riunioni serali a cadenza settimanale ricavate dagli impegni e le esigenze di ognuno. Le storie private dei militanti – gli affetti, il lavoro, le passioni – rimangono fuori dallo schermo, a eccezione dei due protagonisti: Nathan (Arnaud Valois), neofita dell’associazione, e Sean (Nahuel Pérez Biscayart), attivista in prima linea, le cui vicende acquistano rilevanza nella seconda parte del film. Le omissioni rivelano quanto o più di ciò che viene mostrato. I membri di Act Up-Paris sono indaffarati, frementi, senza tempo né voglia di rimandare questioni che ritengono necessarie, a costo di sacrificare parte del loro privato. Lanciano sacche di sangue finto nella sede parigina di Melton Pharm, chiedono, accusano e danzano al ritmo della house music– i “120 Bpm” del titolo originale – per non arrendersi a quel virus che, citando Nicola Gardini e il suo La vita non vissuta (Feltrinelli, 2015), “ti entra nel sangue e banchetta con la tua vita”.

 

 

Una sequenza del film mostra l’irruzione di alcuni attivisti in un santuario per distribuire agli studenti preservativi e materiale informativo su come evitare le malattie sessualmente trasmissibili. “No, non mi interessa” dice una ragazza. “Non sono omosessuale. Io non rischio di prendere l’Aids, come voi”. È una frase che si potrebbe udire in molte delle nostre scuole. E qui veniamo al divieto – tutto italico – di visione del film ai minori di quattordici anni che, di fatto, impedisce di organizzare le necessarie matinée rivolte agli studenti. Non ci si può stupire se poi sempre più giovani, in un sistema scolastico dove non esiste un’educazione sessuale e con famiglie spesso reticenti ad affrontare l’argomento, costruiscano il loro immaginario erotico unicamente davanti a YouPorn. 

 

Vorrei qui fare un raffronto con un’altra patologia, a suo tempo indicibile, che gode ora di nuovo e nutrito interesse editoriale: il cancro. Non passano giorni senza che in libreria escano libri su come prevenire l’insorgenza di tumori mangiando in maniera sana, talvolta soffermandosi sulla scoperta di nuove terapie o sulle testimonianze di persone – e soprattutto personaggi – che hanno affrontato la malattia. Tutto legittimo e in certi casi utile a fare chiarezza perché, come diceva Susan Sontag, “le idee sul cancro sono come tante idre – tagli una testa e ne spunta un’altra”. Ma non si muore di solo – meglio: non si convive solo con il – cancro. Di Aids si continua a non parlare ed è per questo che il film di Campillo ci interroga.

 

Una ragazza o un ragazzo che non ha mai letto o ascoltato nulla di rilevante e affidabile sull’Aids e l’Hiv, rischia di associare questi termini a morte sicura – sebbene ora i farmaci siano disponibili, abbiano meno effetti collaterali di un tempo e le aspettative di vita siano aumentate – o peggio ancora di ritenere, nel 2017, che la sieropositività riguardi esclusivamente un certo mondo sociale composto da omosessuali, drogati, carcerati e prostitute. Emarginati a cui destinare giudizi, finta pietà o una comoda indifferenza. Non voglio crederlo, non posso. Si tratta di un discorso che va affrontato attuando un serio programma di informazione e prevenzione che non può certo esaurirsi con frasi di circostanza e immagini di drappi rossi condivise sui social durante la Giornata Mondiale contro l’Aids, il primo dicembre.

 

 

Credevo ingenuamente che un’opera premiata da Pedro Almodóvar con il Grand Prix all’ultimo Festival di Cannes venisse acquistata per l’Italia da Andrea Occhipinti e la sua potente Lucky Red, da tempo sensibile a queste tematiche, e distribuita in almeno centoventi sale, per riprendere il numero del titolo. Invece no. I distributori italiani sono Vieri Razzini e Cesare Petrillo di Teodora Film – che, rispetto a Occhipinti, godono di minore forza economica – e le sale sono quaranta, esattamente un terzo, ora già diminuite visti gli scarsi incassi registrati nel primo fine settimana di programmazione. In questi giorni si è creato un certo brusio sui social network, prontamente riportato dai quotidiani come “bufera”, in merito all’accusa, mossa da Teodora Film alla comunità LGBTQ, di aver disertato il film per mancato senso di appartenenza. “Ve lo meritate Adinolfi” concludeva la società. Battuta politica e travisata dai più – che Teodora ha poi esplicitato in un comunicato– a cui, come spettatore, vorrei tentare di rispondere con due personali esperienze di visione cinematografica.

 

Nell’ultima parte di 120 Battiti Al Minuto troviamo Sean sul letto d’ospedale: il progressivo peggioramento di salute non ha spento la sua protesta che continua seguendo un breve notiziario televisivo dedicato all’ennesima azione di Act Up e, soprattutto, sognando la Senna tinta di rosso: immagine che diventa sia atto politico che visione privata – di quelle visioni che accompagnano il malato nella sua ricerca di significato. Al suo fianco c’è Nathan che, come lui, crede nei valori e nelle battaglie che persegue, a costo di passare agli occhi del mondo come un condannato a morte. Già, perché Nathan è sieronegativo e, seguendo le dovute precauzioni, non teme di contrarre il virus. D’altronde, si sa: l’attrazione non ha nulla di razionale. “Ho male dappertutto. Non so più se è la febbre o la paura. O tutt’e due. Ho paura. Ho una paura terribile, sempre” dice Sean. “E tu mi manchi”. Nathan si avvicina in silenzio, lo bacia e gli offre un dono. Il volto di Sean diventa estatico: si sente desiderato, accettato, di nuovo vivo. “Mi dispiace tanto che sia capitato a te” gli dice alla fine. Nathan sorride. È una scena intima che racconta l’importanza di essere accolti, amati, felici nonostante, prima che l’amore si indurisca nella perdita.

 

Ben diverso, per fare un raffronto con la situazione italiana, è il dono elargito da Antonio (Francesco Arca) a Elena (Kasia Smutniak) in Allacciate le cinture di Ferzan Özpetek. In primo luogo, non di dono si tratta ma di una richiesta di scuse a seguito di vari tradimenti: Antonio è andato a trovare Elena in ospedale e, preso dall’impulso ormonale, comincia a spogliarsi ansimante. Elena tenta di respingerlo, dice di essere sporca, lo sfida mostrandogli la propria magrezza, il cranio ormai glabro dai cicli di chemioterapia. Ma agli occhi di lui resta pur sempre Kasia Smutniak. Mentre i loro corpi si assolvono, nel letto accanto la degente terminale Egle (Paola Minaccioni) finge di dormire spiando quell’emozione a lei negata. Il tutto si svolge in un tripudio sonoro di archi e affettazioni da cineromanzo che ne evidenziano la totale programmaticità.

 

Sono entrambe scene di finzione, ma se la prima riesce a trasmettere il carico emotivo dei due protagonisti senza aggiungere nulla, la seconda esibisce fieramente una costruzione che plastifica ogni buon intento. Veniamo dunque alle reazioni in sala. I pochi spettatori della scena di 120 Battiti Al Minuto presenti alla proiezione hanno reagito con sbadigli e sghignazzi. Gli spettatori seduti nella mia fila durante Allacciate le cinture, tre anni fa, stentavano a trattenere lacrime e singhiozzi. Commentando la scena del film di Campillo su “Il Giornale”, il critico Maurizio Acerbi si è sconcertato al punto da supporre che il pubblico si sarebbe alzato per uscire. Pur non condividendo, durante la proiezione ho dovuto ammettere che aveva ragione. Due spettatori si sono alzati senza più tornare. Mi chiedo: respingiamo a tal punto la realtà da prendere per verosimili le costruzioni che si presentano come tali? O, se preferite, tornando alla battuta su Adinolfi: ci meritiamo davvero solo Özpetek?

 

 

Il cinema, come la letteratura, non è un luogo dove nascondersi, ma dove è possibile ritrovarsi. 120 Battiti Al Minuto permette di leggere dentro noi stessi, indipendentemente dal nostro orientamento sessuale, ci fa dubitare, ci allontana da aspettative e dettami esterni, ci rende consapevoli. E la consapevolezza è il primo passo per una libertà interiore. “Tutto quello che posso fare è tentare di tenermi lontano dall’imbecillità – quantomeno la mia, perché quella degli altri…” dice un personaggio de La conoscenza di sé di Luca Doninelli (La nave di Teseo, 2017). Dire: “Questo film non mi riguarda” equivale a pensare, per esempio, che le donne siano le uniche depositarie dei sentimenti. È un atteggiamento sciocco, e vile. Le categorie sessuali e le polarizzazioni come maschio/femmina, giovane/vecchio, sano/malato, che invadono le nostre esistenze, non andrebbero applicate neppure all’arte, al cinema e alla letteratura – come purtroppo già accade. Non esiste una scrittura femminile. Non esistono storie per froci, storie per anziani o storie per famiglie: sono divisioni oppressive e come tali vanno respinte. Esistono solo storie per le persone. Il nostro interesse per l’arte è l’interesse che abbiamo per noi stessi.

 

A qualcuno tutto questo potrà sembrare apodittico, superfluo o ridondante. Vorrei che lo fosse. Sarei contento di rileggere queste frasi tra venti giorni, un mese o due, e trovarle ridicole, superate. Vorrebbe dire che non ho smesso di pensare. Tutto ciò che mi accade mi induce a riflettere. Nel vedere al termine di 120 Battiti Al Minuto la piccola sala del cinema interamente vuota, ho provato vergogna per tutti noi. Ho scritto con urgenza, in prima persona e senza un’argomentazione lineare perché, come Sontag, “odio sentirmi una vittima” e voglio essere responsabile. Non possiamo ridurre il mondo a come vorremmo che fosse. Nel finale del film, gli attivisti reduci insistono a danzare nel buio finché la musica lascia spazio a corpi ansanti, gesti sincopati, scarpe che stridono sul pavimento. La perseveranza di chi non vuole confrontarsi solo con la morte. Quando la vita diventa volontà di vita. La sieropositività non è una maledizione, una condanna o un’ingiuria. È una condizione, in primis della coscienza, e come tale va conosciuta e rispettata anche da chi, come me, non la vive. L’azione è vita, il silenzio è morte. E io, proprio come Nathan, non voglio essere l’ennesimo veicolo di luoghi comuni.

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La performance, 40 anni dopo

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In questi ultimi anni si è assistito in campo artistico a un vero e proprio ritorno di attenzione, diffuso e massiccio, per la performance, di cui il Leone d'Oro della Biennale Arte 2017 (alla Germania, rappresentata da un lavoro di Anne Imhof) e i public program dell'ultima edizione di Documenta, quest'estate, rappresentano solo la punta più luminosa dell'iceberg. Un processo che da diverso tempo si è fatto avvertire anche in Italia: dal premio Live Works, creato da Centrale Fies e Viafarini, ormai alla sua quinta edizione, ai tre anni della sezione Per4m curata da Simone Menegoi ad Artissima, all'ultima ArteFiera, la prima della nuova direzione di Angela Vettese, che ha ospitato una serie di artist lectures a cura di Chiara Vecchiarelli, fino alla scelta di molti artisti nazionali di lavorare in questo campo. Ultimo in ordine di tempo, 40° sopra La performance, il 13 e 14 ottobre negli spazi della bolognese Quadreria di Palazzo Magnani. Questo progetto, però, curato da Fabiola Naldi e Maura Pozzati, non rimanda solo alla nouvelle vague performativa che sembra aver travolto l'arte contemporanea negli ultimi anni ma, con uno sguardo lucido e inquieto al passato, richiama direttamente un precedente quanto mai significativo: la celebre Settimana internazionale della performance, realizzata alla Gam di Bologna nel giugno 1977, di cui ricorre quest'anno il quarantennale. 

 

Christian Chironi, Eco.

 

Bologna, '77. La settimana della performance

 

La settimana, organizzata da un comitato guidato da Renato Barilli, si componeva di 49 performance, strutturate in 7 sezioni tematiche. Corpo, sensi, iperestesia, musica, parola, identità, sociale – il testo in apertura del catalogo a firma del critico e curatore attraversa questo “campionario abbastanza esauriente” dei generi, come lo definisce nella sua introduzione. Lì, oltre che passare in rassegna, area per area, i diversi lavori programmati – relative schede e immagini occupano la seconda parte del volume –, Barilli tenta una prima analisi dell'esperienza, che si rifrange su qualche linea di ipotesi sull'intero fenomeno che stava cambiando irreversibilmente gli scenari dell'arte visiva. Barilli parla di “esserci dentro per intero”, artista e fruitore, in un'epoca sempre più votata alla smaterializzazione dell'esperienza; in più legge la “presenza del corpo” – comprese le sue “funzioni più scopertamente fisiche” – anche rispetto a una “guerra” dichiarata al tempo da parte delle arti all’“illusorietà” che sembrava pervadere sempre più la vita e il lavoro; una lotta che se la prendeva secondo il critico in realtà con l'intera tradizione e mentalità occidentali rispetto al dogma della conservazione (e, verrebbe da dire poi, anche quello più contingente del consumo). 

 

Questo progetto, come quelli recenti citati in apertura, non è da solo sul crinale fra anni Settanta e Ottanta, non è un caso unico: dopo le aperture performative di Fluxus e Noveau Realisme, con gli estremi della body art appena emersi all'orizzonte e – per fare un esempio italiano – il precedente della grande mostra Contemporanea di Achille Bonito Oliva nel parcheggio sotterraneo di Villa Borghese (che nel '73 aveva visto fra l'altro il debutto di Marina Abramović), anche la Settimana della performance bolognese è – ieri come oggi – momento di raccolta e riepilogo di una tendenza che stava già scuotendo l'intero sistema delle arti. E non solo. 

Il direttore della Galleria, Franco Solmi, nel testo di presentazione del catalogo parla chiaro: l'esperienza ha travolto l'istituzione come un “uragano”; ma non solo per la “diffidenza quasi biologica” suscitata da creazioni che “riconducono a una legittimità estetica ciò che è 'legittimamente' inconcepibile” (punto caldo della riflessione in materia all'epoca), ma – molto più materialmente – per esempio per “l'assoluta impossibilità per un museo italiano di ospitare simili manifestazioni senza violare l'intera legislazione vigente”. Un'immagine rimasta nella memoria è quella di Imponderabilia, che vedeva Marina Abramovic e Ulay, nudi sullo stipite di una porta stretta, con gli spettatori che dovevano passare a pochi centimetri da loro. 

 

Francesca Grilli, Gold, ph. Centrale Fies.


Anni Settanta, il “desiderio” fra performance e politica

 

Ampliando per un attimo lo sguardo, occorre richiamare qualche elemento di contesto. Che vuol dire il Settantasette, quello che è stato il Settantasette a Bologna. La settimana della performance si svolge dall'1 al 6 giugno. Sono solo tre mesi dai fatti di marzo, altrettanti dal definitivo “Convegno nazionale contro la repressione” di settembre. In mezzo, facoltà occupate e assemblee permanenti, interventi mao-dadaisti, fanzine ciclostilate che dilagano e radio che diventano punti di riferimento, manifestazioni, autoblindo per strada, arresti.

Più ancora del Sessantotto, che come testimoniano in molti ha forse gettato le basi, ma non esaurito le potenzialità della rivolta, in Italia è il Settantasette – anche se come hanno detto in tanti è difficile considerarlo omogeneamente come un movimento – a segnare una cesura, un punto di non ritorno. Arriva dopo lo sconfinato – e soltanto apparente – boom degli anni Cinquanta-Sessanta, a segnare un passaggio di crisi economica e non soltanto: sono gli anni del compromesso storico, del fallimento della rivolta, della sfiducia nelle istituzioni, nei dispositivi di rappresentanza e di potere tradizionali. Sono gli anni – la parola deleuze-guattariana si diffonde presto ovunque – del desiderio: di qualcosa di diverso, di altro, di meglio. E sono ancora i giovani, le esperienze spontanee, i piccoli gruppi a condurre il gioco. Il movimento “molecolare” del Settantasette, rispetto alle stagioni precedenti della contestazione, non esprime però alcuna intenzione di prendere il potere o di dialogare con esso, di imporre nuove regole e tendenze: alla crisi delle forme tradizionali non risponde con delle alternative ideali, ma con una presa di distanza micidiale e concreta, un senso di estraneità senza precedenti.

 

Alla base, c'è l'emersione di una nuova vera e propria classe sociale sia come soggetto produttivo ma anche come target di mercato: i giovani, in gran parte studenti, spesso fuori sede, che, una volta lontani dal proprio nucleo familiare per frequentare l'università nelle grandi metropoli si aggregano in micro-comunità e sperimentano forme (di vita, di socialità, di produzione) alternative. Per esempio, fra le altre cose, con l'organizzazione di performance e happening urbani che accompagnano i movimenti di protesta e però ne prendono anche – in senso “mao-dadaista”, si diceva – le distanze. Emerge così forte il senso e il modo di una performativizzazione a tutto tondo che invade l'arte come la vita, il lavoro come lo svago, la produzione come la fruizione in risposta a una spettacolarizzazione dei consumi che vira – complice il boom tecnologico – verso una sempre più invasiva smaterializzazione dell'esperienza, dei rapporti e della collettività. 

 

È questo il paesaggio – intorno, sotto, a fianco – della Settimana della performance. E se qualcuno, anche a distanza di tempo, ha constatato come i fatti di marzo e più in generale la questione politica, caldissima in quei mesi, non rientrasse quasi per nulla nei lavori in rassegna, Barilli dalle pagine del catalogo rilancia: “Basterebbe rispondere con la formula, oggi finalmente abbastanza diffusa, che il personale è politico; e non c'è operazione che più della performance si adoperi per un riscatto radicale del privato-personale”.

 

JacopoMiliani, Body oh boy nobody!, ph. Ivan Grianti


Bologna, 2017. 40° sopra la performance

 

Tanti di questi elementi si ritrovano ovviamente nei lavori presentati nel contesto di 40° gradi sopra la performance, ma, appunto – lo rivendica il riferimento al secondo manifesto nouveau realiste di Pierre Restany, che nel 1961 situava il movimento a 40 gradi, cioè 40 anni dopo il dadaismo – tramite una visione che si colloca un bel po' di tempo (o spazio) più in là. E lo scarto che consente da un lato di rintracciare almeno in parte l'eredità della tradizione performativa del secolo scorso e dall'altro di guardare ad alcuni degli orientamenti attuali in questo campo delle arti. 

Per esempio il mixed media ha ormai fatto il suo corso, insieme allo strutturalismo, e le opere prima di tutto sono molto difficilmente suddivisibili e categorizzabili per tipologie o generi: il suono e la scrittura, anche la lettura, il corpo e il movimento, perfino il disegno e il canto, sono strumenti e livelli che si mescolano nelle diverse performance in programma. Ma si tratta, ancora – com'è visibile anche nelle foto della Gam nel '77 – di lavori che hanno a che fare innanzitutto con una maniera di abitare lo spazio, di riappropriazione umana – a maggior ragione in un luogo storico come la Quadreria – e di viverlo innanzitutto su un piano concreto, materiale, con il corpo (del performer e dello spettatore): su questi fronti insiste soprattutto la minuziosa esplorazione di Jacopo Jenna, in Body oh boy nobody! di Jacopo Miliani, che si snoda a pavimento nelle stanze attigue alla Sala dei Carracci, fra tele, parquet, soffitti a cassettoni intarsiati.

 

Rimane centrale, naturalmente, anche la questione del trattamento del tempo, forse elemento che più di altri ha rifondato il discorso delle arti dal vivo tramite la performance. Dalle durate delle azioni che travalicano la norma alla loro inesausta ripetizione, fra loop che sembrano non finire mai, tornando – apparentemente – sempre uguali, e situazioni che accadono senza preavviso alcuno: è una stratificazione del primo tipo ad alimentare la struttura di Body oh boy nobody!, ma anche in Gold (Gioia e Rivoluzione) di Francesca Grilli; mentre Circonvolare di Sissi si può fruire per alcuni minuti e il richiamo dell'installazione audio di Cristian Chironi (Eco) arriva all'improvviso, a interferire e sospendere il fluire della dimensione – performativa o meno – in cui si è calati in quel momento; a metà, Don’t shoot at the storm di Davide Savorani, costruita su un loop di disegno live sulla vetrata che dà sul cortile del palazzo in cui ogni tanto intervengono una lettura ad alta voce (Episodi, con Laura Bagarella) e un pezzo di movimento parlato (Basta, con Massimo Simonetto). 

 

Sissi, Diario di un ventre scavato.


L'approccio alla questione dello spazio e al piano della temporalità conducono a un terzo elemento centrale, ieri come oggi, nel campo della performance: il rapporto, radicalmente diverso, con i modi di fruizione. Anche Barilli, nel catalogo del '77, insisteva sull'importanza che – a differenza del teatro – la performance si fondasse su un accadimento reale, che succede qui e ora, insieme all'artista e allo spettatore. Vari lavori “40 gradi dopo” sembrano lavorare su questa possibilità in maniera precisa e esplicita: è necessario inseguire Jacopo Jenna – e al contrario talvolta spostarsi, incalzati dal performer – per fruire del suo movimento nello spazio; il canto nel lavoro della Grilli, nella penombra della Sala dell'Ercole, cela il volo libero di alcuni falchi fra il pubblico; la pattinatrice voluta da Sissi fa voltare e poi accerchia il gruppo di visitatori a centro stanza.

 

Disagio, timore, senso di minaccia, quasi paura: quella che qualcosa accada per davvero – e il senso di differenza profondo della performance, tradizionalmente, risiede proprio appunto nel suo potere trasformativo, capace di travalicare i confini fra arte e realtà. Dall'altro lato questo rimanda alla possibilità che l'esperienza della fruizione non sia predeterminata, ma – in grado maggiore o minore – libera, sia dal punto di vista della visione che dell'interpretazione: cioè che sia costruita live, da ogni singolo spettatore, insieme allo snodarsi della performance stessa. 

È singolare che in un'epoca – oggi, di nuovo, come sembrava accadere a metà degli anni Settanta – di presunta smaterializzazione della realtà, dell'esperienza, delle relazioni, un linguaggio concreto, anche faticoso, come la performance torni al centro dell'attenzione. In realtà lo diceva anche Barilli, 40 anni (o gradi) prima di noi: era proprio il fatto di trovarsi in quella situazione, sulla soglia di quella che sarà poi la “società dello spettacolo” a fare sembrare la performance un'occasione ultima per rovesciarne la logica. Perché la partecipazione a lavori di questo tipo implica la possibilità di modificare – seppure per poco o non del tutto – chi è coinvolto, artisti e spettatori. E forse, oggi come allora, attraverso di essi, provare a cambiare qualcosa anche all'esterno, nel campo dell'arte o anche in quello della vita. 

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Rievocazione della Settimana internazionale del ’77
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