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Vasco Pratolini e Cronache di poveri amanti

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Sulla prima edizione di Cronache di poveri amanti, uscita per l’editore fiorentino Vallecchi nel 1947, si trova scritto: «Napoli, 3 febbraio 1946 – Firenze, 14 settembre 1946». Chi si fosse imbattuto in quella copia avrebbe pensato che Pratolini avesse le idee piuttosto chiare, se in un così breve lasso di tempo era riuscito a comporre l’intero romanzo. Ma naturalmente non era così: «Anche se questa trascrizione è avvenuta in sei mesi, ho impiegato dieci anni a decifrare i documenti». Dieci anni. Sì, perché secondo alcune dichiarazioni dello stesso autore, le prime idee delle Cronache gli erano balenate alla mente già nel 1937, prima ancora del suo esordio con Il tappeto verde. Anzi, Pratolini proclamava nel 1953 di essersi «portato dietro le Cronache per vent’anni». Occorre dunque fare un passo indietro e legare la vicenda biografica a quella del romanzo.

 

 

Nel 1927, il quattordicenne Vasco si trasferisce con la nonna materna in via del Corno, a Firenze, in mezzo a «gente con cui noi non abbiamo nulla da spartire – sosteneva la nonna – che vive sulla strada, fa cento mestieri, e di che genere [...] è la sventura che ci porta in mezzo a loro, ma per poco, un mese al massimo [...] e troveremo di meglio, tra gente per bene».

La sventura è una vicenda famigliare di morte e abbandoni. Nell’estate del 1918 Nella Casati, madre di Vasco Pratolini, spira poche settimane dopo aver dato alla luce il secondogenito, Dante. Vasco resta con i nonni materni, dai quali sarà cresciuto, mentre il secondo sarà affidato a una famiglia benestante che gli cambierà nome in Ferruccio e lo alleverà. La fine del conflitto mondiale non segna un ricongiungimento con il padre, che convolerà a seconde nozze, e la morte del nonno materno, avvenuta nel 1925, costringerà Vasco a trasferirsi nella popolare via del Corno con la nonna.

Vi rimasero sino al 1930, e furono gli anni dell’adolescenza: «Gli anni che mi innamorai per la prima volta, in cui cominciai a portare a casa un salario, e potei disporre di due o tre lire, la domenica. Uno di quei momenti che resistono a lungo nella memoria». Non è quindi un caso se Pratolini considerava Cronache di poveri amanti come il suo ultimo romanzo autobiografico.

 

Il libro racconta la vita in una strada popolare della Firenze tra le due guerre e via del Corno, dove tutto è ambientato, si presenta come fosse circondata da quinte teatrali. Ne conosciamo le dimensioni con esattezza: lunga «cinquanta metri e larga cinque; è senza marciapiedi»; è una strada che diventa «un Politeama». E, proprio come in teatro, dei personaggi che si allontanano dal palcoscenico quasi si perdono le tracce, poiché, nella composizione di questo affresco, il singolo è funzionale al tutto. Pratolini scrive molti anni dopo aver vissuto in quelle case; egli è stato un cornacchiaio, ma non è più partecipe di quelle esperienze, non svolge più mestieri umili e manuali, non frequenta i bar lungo la via: egli siede a tavolino e lavora di intelletto. Coerente dunque la scelta della terza persona, con un narratore che si fa regista e tenta di raccontare non più solo le singole vicende ma, attraverso quelle, le sorti di tutta la comunità, che coincidono poi con quelle dell’intero quartiere, alla città, alla nazione. Via del Corno è dunque emblema di vicende italiane (la consacrazione del potere fascista, la clandestinità delle opposizioni) e di sentimenti universali: l’amore, la solidarietà, le rivalità tra uomini. Un tentativo di interpretazione della storia tutta, dunque, sebbene attraversato da una troppo netta distinzione tra chi sta dalla parte del bene e chi da quella del male; una specie di manicheismo che l’autore sfumerà poi in Lo scialo, altro testo ambientato a Firenze tra la Prima e la Seconda guerra mondiale.

 

Per centrare l’obiettivo di coralità, Pratolini trova ispirazione in Flaubert: «Dicendo che non bisogna scrivere col proprio cuore mi sono espresso male, volevo dire: non bisogna mettere in scena la propria persona. Il primo venuto è più interessante del signor Flaubert, siccome è più generale, più tipico». Sono le parole appuntate sulle prime pagine del dattiloscritto, che lo scrittore toscano rileggeva a ogni seduta di lavoro.

Un lavoro lungo dieci anni, si diceva. E tutto quanto Pratolini avesse elaborato sino ad allora era da lui considerato come preparatorio alle Cronache, «anche i raccontini che vado scrivendo, – si legge in una lettera al poeta Piero Bigongiari del 1942 – molto sotto l’urgenza dell’elzeviro per il giornale e il relativo compenso, se ti capitano devi prenderli come esercitazione, appunti, prospettive per le Cronache». Stessa considerazione per Il quartiere, come rivela una lettera degli anni Cinquanta a Giorgio Pullini: «È una specie di “cartone” per le Cronache, ma è anche un libro che mi ha dato fiducia nelle mie possibilità, che mi ha, se posso dir così, “svezzato” da molte cose» e principalmente, continua l’autore, da quella prosa d’arte, da quel tono per lunghi tratti elegiaco che aveva caratterizzato la sua prima produzione.

 

 

Per comprendere la gestazione dell’opera sono fondamentali le lettere inviate al poeta e amico Alessandro Parronchi, a cui già nel 1940 rivelava di aver «mandato per “Incontro” un racconto abortito e nemmeno scritto; dovevano essere le ultime pagine delle Cronache che così mi mancano ancora». Già in quell’anno, dunque, le difficoltà di realizzazione erano conclamate e già Vallecchi chiedeva conto dell’opera se Pratolini si sentì costretto a scrivergli – dopo aver avuto conferma che l’editore avrebbe stampato Il tappeto verde–: «Io vorrò restare fedele al credito che tu mi apri, e le Cronache dovranno testimoniarti che, forse anche sbagliando, non ti avrò deluso».

A guerra in corso, Pratolini si trovava impiegato presso il Ministero dell’educazione nazionale, lavoro questo che lo distraeva dal portare avanti la stesura: troppe le energie nervose che l’ufficio richiede e troppo brevi le licenze per pensare di impegnarsi seriamente al libro. Da Firenze, intanto la casa editrice voleva ancora notizie, ma la risposta a Enrico Vallecchi è senza appello: «Ci impiegherò chissà quanto tempo [...]. È per Vallecchi, ma Vallecchi mi deve dare il tempo, rispettare la mia necessità di lavoro».

Intanto esce Via de’ Magazzini, che ancora una volta è solo un allenamento per via del Corno («ne è venuto fuori quello che ne è venuto, per me resterà come una parentesi “magica” nel mio travaglio di un linguaggio da poter prestare alle Cronache») e Le amiche, all’interno del quale l’editore annuncia come in corso di stampa Cronache di poveri amanti. Ma siamo nel 1943, Mussolini cade e Pratolini si unisce alla Resistenza: di nuovo ci si deve fermare.

 

C’è poi un fatto tutto personale che lo sorprende e ne devia gli intenti: suo fratello, quel Ferruccio allevato da una famiglia benestante, quel lattante a cui il Vasco bambino dava la colpa della scomparsa della madre, muore nel 1945. 

La guerra è finita: occorre fare i conti con la memoria del fratello. Nasce così Cronaca familiare, un libro, si legge nell’avvertenza delle prime pagine, che «non è un’opera di fantasia. È un colloquio dell’autore con suo fratello morto. L’autore, scrivendo, cercava consolazione, non altro. Egli ha il rimorso di aver appena intuita la spiritualità del fratello, e troppo tardi. Queste parole si offrono quindi come una sterile espiazione». 

 

Ma è l’ultimo ostacolo, l’ultimo passo prima di quei sette mesi di lavoro puntuale e preciso che hanno condotto alla stesura delle Cronache. Al termine del conflitto, Pratolini si trova a Napoli e collabora con Roberto Rossellini alla sceneggiatura di Paisà. La città portuale lo ispira: è «un modo indiretto e violento insieme di tornare con la memoria fra le strade della mia città, a riassaporare l’aria, il colore delle pietre, in calore della gente» e, una notte dei primi di febbraio del 1946, lo folgora: «Risalii i vicoli della Speranzella, deserti, oscuri, pieni di rifiuti, tutti soli con la loro miseria secolare, brusii di tanto in tanto, pianti di neonati, voci inquiete dentro i “bassi” sprangati [...]. Era Napoli, ed era la mia città, Firenze, le viuzze stesse della mia adolescenza. [...] Tornai a casa e scrissi le prime pagine del romanzo che da tanti anni mi accompagnava. Lo finii relativamente presto, il tempo di scriverlo, potrei dire». E lo fa incenerendo tutto quanto scritto precedentemente: Firenze gli offre il ricordo, Napoli gli dà una voce.

 

Cronache di poveri amantiè un titolo che Pratolini si porta addosso da troppi anni per potervi rinunciare, solo perché Giorgio Bassani aveva pubblicato un paio di anni prima Storie dei poveri amanti; Vallecchi è d’accordo e si procede alla stampa. È un successo immediato: nel 1953 Carlo Lizzani lo adatta per il cinema offrendo a Marcello Mastroianni uno dei suoi primi ruoli drammatici. Il romanzo viene continuamente ristampato e, dal 1960, quando Pratolini passa a Mondadori, le Cronache percorrono largamente il catalogo dell’editore milanese, uscendo nella “Biblioteca moderna Mondadori”, poi nella collana “Narratori italiani” e approdando negli “Oscar” nel 1971. L’edizione più comunemente in commercio oggi è quella della BUR, accompagnata in copertina da Subway Lovers, un’immagine scattata nel 1949 dal fotografo newyorkese Arthur Leipzig. Quella foto è un inganno e un ponte allo stesso tempo: i due ragazzi possono essere davvero quelli pratoliniani o quelli scelti da Lizzani per il film, e invece sono due giovani immortalati nella metropolitana newyorkese nel 1949. Una cima, quasi, lanciata verso la modernità.

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Dieci anni di attesa
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Vecchi cattivi

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I vecchi cattivi a volte sono anche simpatici, specie quando hanno la faccia tosta di fare certe spettacolari piazzate nelle quali, esprimendo quello che tutti di solito per pudore teniamo dentro, osano affrontare impiegati e commessi maleducati o medici antipatici, e lo fanno con la totale mancanza di senso del pericolo di un bambino che si mette sulle rotaie a fermare il treno. Ce ne sono tanti e li trovi per lo più là dove si assembrano le persone, abitano nelle code in cui la gente aspetta il suo turno per un qualche motivo, insomma stanno nei contesti sociali dove possono, diciamo così, esercitare la loro “arte”. “Prova tu a vivere con un gatto impazzito nello stomaco!” mi ha detto un vecchio ancora stravolto, fresco reduce da una litigata memorabile alla coda dell’ufficio postale. Non ho mai ben capito che cosa intendesse, ma ho sempre interpretato quel suo “gatto impazzito” come la perfetta descrizione del suo stato di alterazione psicologica che, davanti alla prima anche minima difficoltà, scatena il demone della cattiveria.

 

“Sono vecchio, posso permettermi di dire tutto quello che voglio”, dicono, ed è anche in questo modo che possono rimanere in connessione con la realtà in cui si trovano a vivere. In effetti, una certa furia gratuita, un po’ di sfrontatezza caratteriale, insomma una venuzza di sana follia, ti danno il coraggio di arrampicarti ancora. L’aggressività, dopotutto, è energia e, se tenuta entro i confini delle regole di convivenza, diventa un prezioso stimolo vitale. Un capitolo a parte meriterebbe il tema delle cattiverie sui vecchi in ambito sociale o famigliare, una realtà ancora troppo trascurata a sua volta, causa di tante cattiverie senili, a cui il geriatra francese Robert Hugonot anni fa dedicò La vieillesse maltraitée, Dunod 1998, uno studio essenziale per capire la portata del fenomeno.

 

La dimensione della cattiveria è in qualche modo consustanziale alla vecchiaia. Un filo di cattiveria, credo, ce l’hanno quasi tutti i vecchi, per varie ragioni molto diverse tra loro. Dagli Scrooge dickensiani, cattivi non si sa perché, così, per il gusto di rovinare il “Racconto di Natale” degli altri, che sono tutti colpevoli soprattutto di essere giovani, alla cattiveria nascosta e subdola del vecchio “captivus” – la tipologia più diffusa - prigioniero di se stesso che non vuole muoversi verso l’altro, verso il mondo, perché ne ha paura, perché non lo riconosce, e lo nega e lo detesta rifiutandosi di praticarlo. Vivere “con cattiveria” o “in cattività” sono evidentemente prospettive molto diverse, e per capirle fino in fondo servirebbe un carotaggio psicanalitico. 

 

Ma da vecchi, in realtà, poco importa da dove viene la cattiveria, se da una vita di frustrazioni o da uno squilibrio affettivo vissuto nell’infanzia (vedi qui). A chi è vecchio oggi serve innanzitutto sapere come affrontare il suo presente disarmonico, come aggredire il tarlo che cerca di svuotare il benessere della vita nella sua fase più fragile. C’è poco da smontare e rimontare la macchina, quando comunque bisogna “avanzare”, ad ogni costo. 

 

Ph Vivian Maier.


Se, vista l’età, si pensa di avere conosciuto ogni esperienza possibile, ogni emozione, se, conseguentemente, tutto l’orizzonte prevalente della vita si riduce alle piccole incombenze quotidiane, come fare la spesa, il rischio di un calo delle soglie di tolleranza verso gli altri è molto forte. Il vecchio captivo, pensando di averle viste tutte, si trincera dietro al suo muro dove si accontenta di aspettare, magari filosofeggiando con l’omino di Altan dai colori pastello azzurro-verdino che, accennando a un passo di danza, dice: “Quello che mi spinge, nella vita, è che finisce.” (“Espresso”, 5 aprile 2017). In questa asfissia esistenziale, tremenda, ogni desiderio viene ucciso e la “cattività” prende il sopravvento sulla “cattiveria”. Succede quando si “uccide” la curiosità, quella che Massimo Ammaniti descrive come uno zoom che mette a fuoco persone, esperienze e stimoli, facilitandone il ricordo; un antidoto proprio della vecchiaia che può rendere più piacevole l’ultima stagione della vita. (La curiosità non invecchia, Mondadori 2017, p.108)

 

Mentre il tipo Scrooge, in fondo, sia pure a modo suo, accetta di interloquire con il prossimo, il vecchio captivo non si sposta, non azzarda variazioni, è come imprigionato in una sorta di esoscheletro che lo muove in una meccanica stabilita e inesorabile, che gli impedisce di sottrarsi a una passività arresa e di ricostituirsi di volta in volta, lasciandosi andare al flusso delle continue novità, e mantenere il tono muscolare dell’Io. 

 

Molte delle tensioni psico-emotive riguardo alla vecchiaia discendono dalla modalità di percezione che abbiamo della morte. E forse anche la cattiveria è una reazione, più o meno inconsulta, all’idea della morte che ci attanaglia per tutta l’esistenza e che in vecchiaia si incarna. I nostri equilibri consueti si scompensano, si va fuori dalle righe tracciate nel tempo, perché monta un’angoscia globale, il “rumore bianco” del grande romanzo di Don DeLillo, che ci opprime ci stuzzica e ci provoca, sempre più, e noi, in modi più o meno scomposti, reagiamo e quando sentiamo avvicinarsi la fine tiriamo fuori un’ulteriore forza, che sino a quel momento era rimasta sommersa, e con il colpo di reni (reattivo o remissivo) della cattiveria proviamo a fare i conti con la morte che sta per arrivare, magari con le sembianze di “un gatto triste che si strofina il culo lurido contro il mio polpaccio, mi lecca le mani, mi graffia la faccia, mi chiede da mangiare; e io glielo do.” (così uno dei Volti nella folla di Valeria Luiselli, La nuova frontiera 2015, p.92)

 

“Un po’ di possibile, altrimenti soffoco” diceva Gilles Deleuze parlando della potenza creativa del desiderio. Ma che cosa è possibile per chi chiude la porta al mondo e se la apre è solo per produrre aggressività impulsiva? Il vecchio captivoè certamente la dimensione più pesante della vecchiaia, quella in cui la sconfitta è autoinflitta e ce la si prende con quell’elemosina di pensioncina con cui “cosa vuoi mai ‘desiderare’?”.

 

In montagna può capitare di trovarsi in stallo aggrappati alla roccia, mani e piedi, con la paura, mai conosciuta prima, di muoversi, di andare su o giù. E devi andare, perché lì non puoi stare, o sali o scendi, da lì ti devi schiodare, se no puoi farti molto male. E da giù ti gridano di scendere, con le buone per non farti agitare o con le cattive per scuoterti. Ci si può sentire così da vecchi ed è per questo che la socialità rimane la via maestra, una socialità anche minima, pur che ci sia. Solo mescolandosi agli altri nello scambio umano l’individuo con-divide la sua sorte e può sopportarla. Con gli altri riesci ad accettare la tua imperfezione e puoi fare i conti degnamente con la “perfezione” della morte.

 

Certo, in una società tremebonda come la nostra, la socialità non è un frutto che basta staccare dall’albero. È qualcosa che va costruito ogni giorno sfidando i fattori disgregativi che lavorano di concerto a pieno ritmo: disuguaglianze economiche, instabilità della governance mondiale, collasso dell’ambiente, mass media orientati dal profitto; tutte cose da cui viene il nostro star male e tanta parte della microconflittualità quotidiana. Qui dentro, in questo quadro angoscioso di disagio, il crescente disagio di una civiltà ormai molto provata, gli individui più vecchi, sempre più numerosi, con le loro risorse economico-culturali troppo spesso flebili e incerte, dovrebbero creare il tessuto di relazioni sociali dove vivere il più possibile in equilibrio e serenità. Diciamo che è una bella scommessa. Viene da incattivirsi.

 

Non basta, c’è anche chi ravvisa un incattivirsi generalizzato come effetto della contemporaneità malata, del mondo dominato da un atteggiamento di “solidarietà negativa”. Lo sostiene, citando Hannah Arendt (“Repubblica-D”, 9 settembre 2017), lo studioso anglo-indiano Pankaj Mishra,  autore, piuttosto allarmato, di Age of Anger. A History of the Present, (prossimamente da Mondadori).

 

Nell’odierno “mercato” dell’invecchiamento c’è più domanda che offerta, ci sono molte più nuove esigenze degli individui che la società, impreparata, non riesce ancora a soddisfare. A ognuno tocca trovare da sé la giusta via. Il pericolo è di cadere nel “mondo degli anziani” dove la vecchiaia viene ridotta a una prevalente questione di salute; la sanità, per fortuna, non è l’aspetto principale che interessa la grande massa dei vecchi italiani per il semplice fatto che più del 60% di loro dichiara di essere in buona salute (Annuario Istat del dicembre 2016).  Ma il cuore laico che mi ritrovo mi impedisce anche di considerare la “via spirituale” come un esercizio facilmente praticabile di fronte alla vecchiaia concreta e immediata. Sono ambedue prospettive fuorvianti nella misura in cui i vecchi non sono osservati come degli esseri umani a tutto tondo, ma come persone “bisognose di”. 

 

Ah, poter dire in vecchiaia, con Oliver Sacks: “Più di tutto, sono stato un essere senziente, un animale pensante, su questo pianeta bellissimo, il che ha rappresentato di per sé un immenso privilegio e una grandissima avventura.” (Gratitudine, Adelphi 2016, p.29) Diciamo che sarebbe una bella meta. Ma la cattiveria a volte si frappone, ti lega le mani. Andarsene, staccarsi da quella morsa e affidarsi al viaggio, la vera condizione in cui fisicamente si può vivere nella continuità del cambiamento. Antonella Anedda, in un suo pezzo bellissimo (Il mondo fluttuante), ricordava questa riflessione di Montaigne e quella analoga di Basho: “Chi accoglie la propria vecchiaia con in mano le briglie del cavallo, ogni giorno fa del viaggio la propria casa”. Ecco: viaggiare, nel mondo e con la mente, per rimettere in gioco il proprio Io, via dalle catene della cattiveria.

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La socialità rimane la via maestra
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Cosa cercano gli adulti nei bambini?

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L’edizione Torino Spiritualità 2017 appena conclusasi ha avuto come titolo Piccolo me. Restare o diventare bambini. Quest’estate mi sono trovata a riflettere spesso sul tema del cosiddetto ‘bambino interiore’, e dunque tale scelta è stata per me una conferma: come mi capita di notare da qualche tempo, mai come oggi questa figura è diventata, oltre che oggetto di studio, una presenza che ricorre nel linguaggio comune, offrendosi come certezza, dato acquisito. Proprio su questo aspetto si è fissata la mia attenzione.

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Per fare l’arte ci vuole l’artista

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Leggo il programma del Festival della Mente di Sarzana che aveva come sottotitolo Come e perché nascono le idee. Interventi sulla creatività, spettacoli, incontri con scienziati, artisti, letterati, storici e filosofi. Salta subito all’occhio l’assenza di artisti visivi. Tra gli invitati non c'è nessun artista visivo. Singolare, perché un festival della mente dovrebbe occuparsi anche dell’arte di oggi, del resto, l'arte contemporanea non è concettuale da parecchio tempo? Scriveva Joseph Kosuth nel 1987: L’opinione prevalente è che l’artista, se ha qualcosa da dire, lo debba esprimere attraverso la propria opera. E naturalmente, alcuni dei miti ereditati … richiedono all’artista più un ruolo da stregone che da intellettuale… (L’arte dopo la filosofia, Costa & Nolan, 1987). 

 

Anche al Festival Filosofia di Modena di quest’anno il tema era “le arti” (!), ma nessun artista visivo è stato invitato nel programma filosofico; lo spazio per gli artisti era confinato nel programma (recinto) creativo delle mostre e installazioni in gallerie e musei, oppure è rimasto negli studi. Un’idea della considerazione che si ha degli artisti è forse la presenza, nel programma filosofico del festival, di Brunello Cucinelli, l’imprenditore che ha come riferimento il Medioevo, il Rinascimento e le cui le pubblicità per vendere vestiti fanno riferimento al nostro Passato perduto: Amiamo i Codici. Messaggeri antichi di Arte e Cultura oppure La Natura è piena d’infinite ragioni (sentenza di Leonardo da Vinci). Pur di non invitare gli artisti si invita un imprenditore che si distinse, anni fa, insieme a Vittorio Sgarbi, nel volere abbattere la chiesa di Massimiliano Fuksas a Foligno. Ma anche al festival “La Repubblica delle Idee” del giugno scorso, a Bologna, non è stato invitato nessun artista visivo. A “rappresentare” l'arte c'era solo una discussione fra i critici Achille Bonito Oliva e Francesco Bonami, oltre a un programma al museo MAST con una serie di incontri insieme a professionisti del settore artistico, con varia creatività, graffiti, fumetto (si è parlato anche di fare foto col cellulare).

 

Nel paese dell’arte il più importante giornale di progresso fa un festival e ignora gli artisti. E non può passare inosservato, sempre a giugno, che al Festival di RAI Radio3 a Forlì, dal titolo Arte, Cultura, Lavoro, nessun artista visivo era presente nel programma. Anche se spesso la classe dirigente e politica nomina l’arte come la propria stella polare, anche se centinaia di città sono annunciate da cartelli stradali come “città d’arte” e anche se tutti sono convinti che solo la bellezza e l’arte salveranno il mondo, gli artisti, che l’arte la fanno, non sono contemplati. Credo, in fondo, che ci sia un misto di imbarazzo e disagio a parlare di arte contemporanea, per molti motivi, e così è meglio evitare di invitare gli artisti. Imbarazzo e disagio perché l’arte di oggi, al di là della Biennale di Venezia e del mainstream, che fanno sempre notizia, è complicata, indigesta e soprattutto impopolare. Forse perché l’arte è pensare in modo sofisticato per mezzo delle immagini, delle forme e dei concetti?

 

È forse il sofisticato che crea problemi? Oppure l’arte di oggi è troppo difficile? Quante persone nella vita mi hanno subito avvertito: ah artista? Mi spiace, l'arte contemporanea proprio non la capisco! E molti sono professionisti, classe dirigente, non gente del popolo o italiani medi. Oppure perché l'arte di oggi è vista come banale – lo sapevo fare anch’io – e ci si ricorda dell'artista visivo o solo quando è maturo (il maestro!) o da defunto (anche perché i prezzi delle opere salgono e allora gli eredi e i collezionisti riscoprono l'artista) oppure quando ha un grande successo e diventa un evento da notizia, da giornale quotidiano? (Mi torna in mente mia nonna Tosca, bolognese, che visse sempre in via San Vitale e conosceva le sorelle di Giorgio Morandi. Non le non prese mai sul serio, tranne quando sentì al TG1 che qualcuno aveva acquistato a un'asta una tela di Morandi, pagandola più di mezzo miliardo di lire…). Nei quotidiani l’arte contemporanea viene presa in considerazione solo quando fa “scandalo”, oppure quando i redattori decidono che è arte commestibile per il grande pubblico.

 

Questo generale sospetto ed esclusione appartiene comunque solo all'arte visiva, non è così per la letteratura contemporanea, per il cinema contemporaneo, per il teatro, la musica, la danza contemporanea. Si può allora azzardare un’ipotesi: il Belpaese, il paese dell’Arte Bella (l’unica cosa che mette d’accordo tutti è la grande bellezza della nostra arte – anche i camorristi e i mafiosi appena possono si circondano di bei quadri ‘classici’) è arrivata a una tale bellezza che quell’apice non può più essere raggiunto. Siamo nati e cresciuti nei centri storici più belli del mondo che hanno rilasciato una specie di imprinting-incantesimo impermeabile ad ogni cambiamento e differenza. L’idea di arte si intende così solo come classica, ideale, virtuosa e irraggiungibile, di un passato lontano, di un paradiso e di una bellezza perdute. L’arte di oggi è ancora vista come difficile, noiosa, portatrice solo di scocciature e conflitti.

 

Se il moderno Van Gogh è oramai entrato nell’Olimpo insieme a Giotto e Michelangelo, è solo perché fa fiori e paesaggi: nei cipressi e negli iris si vedono le belle pennellate (il lavoro!), c’è materia, c’è colore, soprattutto è arte che emoziona. È interessante notare che il gusto comune intende l’arte sempre legata in qualche modo all’emozione mentre tale termine è assolutamente bandito nell’arte contemporanea. L’arte del passato in Italia è un moloch, è un padre non permissivo che tiene ancora i figli per i capelli. Sono grandissime, ad esempio, le difficoltà che si trovano a fare arte contemporanea in Toscana, dove il popolo sente di avere nelle vene lo stesso sangue di Giotto. “Icastica”, una rassegna d’arte contemporanea che si è tenuta per pochi anni ad Arezzo, è stata chiusa a furor di popolo.

 

Vincent van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, 1890

 

Sembrerebbe poi che a Firenze ormai chiamino a realizzare mostre solo artisti contemporanei super famosi (Damien Hirst, Jeff Koons, Ai Weiwei, Jan Fabre, Bill Viola), quasi per sbertucciarli. Li si espongono in piazza o nei grandi palazzi, loro confessano che sono solo debitori al Rinascimento Italiano proponendo opere che si relazionano alla capitale del Granducato (“Rinascimento Elettronico” è il titolo della mostra di Bill Viola, Koons si ispira a Bernini, Fabre dialoga col Giambologna) e li si rimandano a casa. Un altro aspetto di imbarazzo e disagio è l’abitudine a non riconoscere l’artista visivo contemporaneo come autore: un caso emblematico è il riuscito progetto di Alessandra Andrini del 2005, il monumento al ciclista Marco Pantani, una grande biglia di plastica collocata davanti alla sede dell’azienda Mercatone Uno (che sponsorizzava il ciclista), visibile dall’autostrada A14.

 

Il giorno dell’inaugurazione la “Gazzetta dello Sport” diede ampio riscontro all’evento in prima pagina, non citando l’artista, l’autrice dell’opera (Alessandra Andrini mi ha confermato l’incredibile fatto). Il quotidiano (sportivo) più letto d’Italia non fece altro che assecondare un sentire diffuso, per cui l’arte è cosa del passato, quindi non reale e se si inaugura un monumento al Pirata a nessuno interessa sapere chi l’ha fatto. Ricordo ancora bene, dopo tanti anni, l’esultanza da curva del pubblico romano – romanesco e romanista – all’Auditorium della Musica durante una interpretazione dell’opera di Ennio Flaiano di Roberto Herlitzka (Il minore ovvero preferirei di no. Una lettura in tre atti dall’opera di Ennio Flaiano, con Roberto Herlitzka a cura di Luca Sossella, regia di Jacopo Gassmann). L’attore, mentre recitava un passo dello scrittore di Pescara sull’arte odierna (… se avete in cantina … avanzi di gru metalliche, motorette inservibili, non gettate via niente, tingete tutto di vernice rossa antiruggine e mandate a Venezia…) fu inondato da uno scrosciante applauso liberatorio. L’arte della Biennale rimane in fondo quella del film di Alberto Sordi e della moglie Augusta in Le vacanze intelligenti e spesso fa rima con mondezza. La società diventa però meno distante quando servono soldi: ogni anno agli artisti visivi vengono richieste continue donazioni di opere per aste di varia beneficenza.

 

Ma mai qualcuno che chieda il parere agli artisti sulla città, o inviti gli artisti agli incontri, ai dibattiti, ai festival della “cultura”. L’arte fa comodo solo come investimento (sembra che oggi l’unica preoccupazione, quando si acquista un’opera, sia quella di avere il certificato di autenticità, la sola garanzia per rivendere l’arte senza intoppi, un giorno…). Se da una parte l’arte contemporanea è diventata quasi di moda (trent’anni fa l’artista americano Vito Acconci già diceva che oramai era diventata un affare solo da ricchi), con banche che prendono il loro stand alle fiere di arte contemporanea per orientare gli acquisti in vista di interessanti investimenti, dall’altra c’è grandissima ignoranza e superficialità: nei media generalisti l’arte appare solo se provocatoria, o utile a qualche causa (asili, immigrati, ecologia, sguardo al Passato), oppure si vira sulla Street Art, grande mattatrice degli ultimi anni, che ha invaso le città (costa poco ed è di grande effetto), che forse incarna la vera rivincita del gusto del popolo sull’arte “difficile” degli intellettuali.

 

Due anni fa ho telefonato a Enel (ma non è socio del Museo MAXXI di Roma?) per il contratto del mio nuovo studio a Savigno. La gentile signorina mi chiese che attività svolgessi. Scultura e pittura, sono un artista risposi. L'addetta di Enel disse subito che non esisteva la voce artista e mi pose subito davanti ad una scelta: la metto fra gli artigiani o i liberi professionisti? Per Enel, come in generale per il Belpaese, l’artista è una persona non reale, che non esiste e che comunque è meglio che rimanga al buio.

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Il corpo, Sant'Agostino e Marilyn Monroe

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Via Broccaindosso è un’antica via di Bologna. Che dà a chi la percorre l’idea di infilarsi in un cunicolo stretto e lungo, una sorta di ventre scuro che conduce chissà dove.

Qui abita Piero Camporesi, docente di letteratura italiana all’Università di Bologna, nonché autore di una decina tra saggi e volumi tutti dedicati all’immaginario premoderno, al corpo, al cibo e alla fame. Il luogo – questa via che mima l’ingresso di un ventre e la casa dall’indubbia impronta seicentesca – è il più adatto per incontrare il professor Camporesi.

 

Negli ultimi mesi sono usciti pressso Garzanti e il Mulino due volumi di questo studioso: Le officine dei sensi (Garzanti), dedicato all’anti cucina dei Padri del Deserto, al latte e alla mela come alimenti simbolici, all’anatomia, e Il paese della fame (Il Mulino), un saggio sul ventre e la fame, che attraversa il paese di Cuccagna, il Carnevale e l’Inferno dantesco.

La scrittura di Camporesi è dotata di grandi capacità immaginative che trasformano questi libri di saggistica in appetitosi viaggi nel passato, attraverso ragioni umane oggi scomparse o eclissate, che tuttavia continuano ad abitare il sottosuolo della nostra immaginazione sociale.

 

Professore, vogliamo parlare delle diverse concezioni del corpo. Dai suoi libri traspare una drammaticità del corpo in secoli come il ‘500 e il ‘600, secoli che costituiscono un tassello centrale nella formazione della concezione occidentale del corpo. Perché questa drammaticità? 

 

La partita umana si giocava sul corpo e attraverso il corpo. Esso era lo strumento attraverso cui passava la salvezza. Vi era una esasperazione del senso religioso e per questo il corpo divenne il luogo di questa drammaticità.

 

Ma è solo col ‘600 che inizia questa drammatizzazione?

 

No, già Agostino e i Padri della Chiesa avevano posto le basi per questa concezione. È il cristianesimo a condizionare il nostro modo di concepire il corpo. Se dovessi consigliare un libro sconvolgente sul corpo consiglierei di leggere Le confessioni di Sant’Agostino. Il ‘500 e il ‘600 non inventano il corpo, anche se è in questi secoli che si struttura la nostra sensibilità.

 

Il corpo levigato, il corpo patinato di oggi è il rovesciamento della immagine seicentesca?

 

Il ‘600 è un secolo ambiguo, ha una doppia faccia. Il corpo può essere oggetto di seduzione, ma anche un oggetto di perdizione. In quel secolo si sente l’esigenza di scavare dentro il corpo, per vedere cosa c’è dietro la superficie del corpo. L’ideale della bellezza barocca presuppone anche l’idea di un godimento, è un ideale tentacolare, pieno di trabocchetti, ad esempio olfattivi e auditivi. La voce umana è stata analizzata in quel secolo con un’attenzione che noi abbiamo perduto. Gli uomini barocchi avevano un forte senso del demoniaco. Noi ci godiamo un oggetto, il corpo, senza goderlo però pienamente. Se si toglie il brivido del peccato, la conoscenza della bellezza che cosa diviene? Probabilmente un inerte disegno industriale. Un bel ferro da stiro non può equivalere alla tentazione di un bel corpo. Non le pare?

 

Probabilmente cambiano gli immaginari sociali.

 

Provi a innamorarsi di un bell’oggetto. Il feticismo dell’oggetto è sempre esistito, ma rapportato al corpo umano però. L’oggetto possiede analogie e poteri suggestivi che rimandano al corpo. Ma un disegno industriale può essere tanto conturbante? Quali tentazioni può stimolare?

 

Potrebbe essere subentrato uno spostamento del desiderio umano dal corpo agli oggetti. Questo spiegherebbe perché il corpo è ridotto ad oggetto, a essere una superficie di cui godere e non una interiorità da esplorare, come nel Seicento, che è l’età dell’anatomia per eccellenza, come lei ha mostrato inLe officine dei sensi.

 

Possibile, ma sono le età di decadenza che inducono questi spostamenti.

 

Ma nell’età greca, come ha scritto Michel Foucault, il corpo era collegato all’etica. Esistevano statuti del corpo, tabelle del godimento eticamente accettabili. La sessualità era subordinata a un controllo di sé. Non c’era il senso cristiano del peccato, e dunque non erano possibili le “perversioni del corpo”, i godimenti proibiti, la fruizione corpo–oggetto, che è la premessa per il feticismo degli oggetti.

 

Si trattava di una fisiologia etica del corpo, di un controllo delle forze, di una ergonometria del corpo. Questo è precristiano. E noi non possiamo non dirci cristiani.

 

Il senso del peccato permane anche oggi?

 

Restano forti aree nell’uomo moderno. Non credo che la civiltà moderna sia una civiltà che pensa solo al corpo come a un oggetto che va tutelato nei suoi valori intrinseci, nella sua fisicità pura e assoluta. I secoli non sono passati invano. Tuttavia l’eclissi dell’aldilà porta anche alla diminuzione dell’aldiquà. Il corpo diviene un feticcio assoluto quando c’è la possibilità che la partita per l’eternità dell’anima si giochi dentro questo corpo. Quando declinano le speranze e le paure sui destini soprannaturali dell’uomo, c’è una diminuzione dell’attenzione e del fascino di quella corporale macchina che potrebbe essere lo strumento per la ricostruzione di un’altra vita. Nel ‘600 il corpo è una metafora dell’esistenza. Oggi il corpo non è più una metafora.

 

 

Può farmi un esempio della scomparsa di questo senso metaforico del corpo?

 

Provi a pensare a Marilyn Monroe. Le pare che Marilyn sia una metafora drammatica del corpo, che sia una presenza che si risolve tutta in se stessa? Le pare forse che dietro il corpo di Marilyn Monroe ci siano le tentazioni, le fiamme dell’inferno? Il suo corpo è un prodotto di consumo. Si tratta di un corpo simbolo. C’è una bella differenza tra un corpo metaforico e un corpo simbolico anche se un corpo metaforico può avere significati simbolici allusivi.

 

Lei intende metafora in senso linguistico. La metafora intesa come allacciamento con un altro sistema di idee?

 

Marilyn è il simbolo che gioca con altri simboli, senza rimandare ad altro che a se stessa. Si resta dentro il sistema delle idee. Non si fuoriesce dal sistema corporale che prevede l’apoteosi dell’oggetto, senza la possibilità di vedere l’oggetto in altra dimensione, che apra prospettive di fruizione non immediata. Si tratta di un corpo fine a se stesso.

 

È un corpo “usa e getta”?

 

Non conosco la durata del simbolo Marilyn. Probabilmente essa è più lunga di quella di altri simboli. Tuttavia non induce a viaggi ed esplorazioni verso l’ignoto.

 

Si è forse perso il senso dell’“ignoto”? Il corpo è tutto conosciuto?

 

Il discorso va sempre storicizzato. Il Medioevo non conosceva le anatomie e dunque il corpo era un oggetto misterioso. Oggi sappiamo quasi tutto del corpo e la curiosità nei suoi confronti non è più un fatto di massa, un gioco intellettuale di società come in quei secoli.

 

Oggi la fiaccola della conoscenza è passata alla biologia e alla fisica, alle “scienze dell’invisibile”?

 

Certo, alla microbiologia, alla fisica delle particelle, in definitiva al mondo del microscopico. È la miniaturizzazione delle conoscenze. Resta l’attenzione all’aspetto superficiale del corpo. Il segreto della fabbrica del mondo non è racchiuso dal corpo ma dalla materia. Il discorso sull’uomo non passa attraverso l’uomo stesso: è un discorso che viene dalla sua periferia, dalle cose, dalla materia. Ma non già dalla materia organizzata e strutturata in un simulacro, che è in fondo l’immagine di Dio. Oggi non si pensa più che il corpo sia l’immagine di Dio.

 

Che ne pensa della curiosità che si nutre oggi nei confronti del cervello, della mente e dei suoi processi? Non è avvenuto forse un passaggio nei processi sociali e conoscitivi dalla prevalenza del “materiale” – il corpo e i suoi prolungamenti –, a quella dell’“immateriale” – l’intelligenza? 

 

Un tempo c’era la fisiologia del cervello. Attualmente non se ne parla più. Il cervello è un’astrazione. Il discorso sull’intelligenza è un discorso sull’“astratto”. Interessano i meccanismi dell’intelligenza, non quella massa grigia contenuta nella scatola cranica. Non c’è più il portatore del cervello, l’intelligenza è anonima. Vede, il discorso sul corpo è un discorso al tramonto. Si scoprono gli oggetti quando essi non esistono più. Il corpo, inteso come entità concreta, sta morendo. Il puntare sulla non–perdita di energia nella produzione, la creazione di oggetti secondo una logica di funzionalità, la caduta del mestiere pesante e della manualità, il portare l’intelligenza sotto il segno dell’astrazione: tutto questo è la dimostrazione che il corpo individuale scompare.

 

Allora come spiegare il ritorno del fantasma del corpo malato, come nel caso della psicosi dell’Aids?

 

Direi che si tratta di un ritorno a stati collettivi magici. Quello che una volta si chiamava il mistero della malattia, del male anonimo, appartenente ad una sfera del divino. Si tratta di una paura antica. La ricaduta è ovviamente sul corpo.

 

È come se avesse parlato il corpo–così–come–era–e–non–è–più?

 

Già. Ma anche la paura del nemico misterioso, in un mondo che noi siamo abituati baconianamente a controllare e a progettare, appare “lo sconosciuto”. Inoltre i portatori sono uomini eticamente riprovevoli. La sfera sessuale parla direttamente alla fantasia degli uomini. È proprio una malattia fatta per i sociologi e per i sacerdoti.

 

In “Reporter”, 12 dicembre 1985. Poi in Piero Camporesi, «Riga», Marcos y Marcos.

 

Oggi e domani convegno di studio in onore di Piero Camporesi in occasione del ventennale dalla scomparsa: Il “gusto” della ricerca (Bologna, 20 ottobre - Forlì, 21 ottobre 2017).

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Blade Runner 2049

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La memoria e l’apocalisse sintetica

In una landa desolata, quasi postapocalittica, l’agente K (diminutivo di KD6.3-7, replicante della polizia di Los Angeles interpretato da un Ryan Gosling perfetto nella sua inespressività) deve “ritirare” (eufemismo per uccidere) un modello vecchio e quindi meno disciplinato di Nexus (breve ma strepitosa apparizione di Dave Bautista), umani sintetici creati dalla Tyrrell Corporation. Nebbia, un albero scheletrico, una serra in cui vengono coltivati vermi, uniche proteine che sfuggono alla rovina del mondo: Blade Runner 2049 (da qui in avanti BR2049) inizia così, in uno scenario distopico classico ma per certi aspetti molto diverso da quelli che avevano caratterizzato il primo film (Blade Runner, Ridley Scott, 1982, da qui in avanti BR) e che hanno segnato per decenni l’immaginario di tonnellate di visual artists. Una sola scena, quella iniziale, con l’uccisione dell’esemplare obsoleto e il successivo ritrovamento sotterraneo di una misteriosa urna contenente ossa, basta per suggerire qualche considerazione sull’attesissimo sequel firmato da Denis Villeneuve.

 

Distopie Ucroniche

 

John Stuart Mill, filosofo positivista, conia nel 1868 il termine “distopia” (dis-tópos), contrario di “utopia” (u-tópos). Distopia sarebbe, in altre parole, la descrizione di una società futura ipotizzata come la più spiacevole e indesiderabile tra quelle che si potrebbero realizzare. Proprio perché possibili, le narrazioni distopiche immaginano un futuro che mantiene un legame polemico e problematico con alcuni mali del presente, portandoli a conseguenze (ipotetiche) estreme. 

 

BR2049è però una distopia atipica: non può infatti immaginare il 2049 partendo dal nostro 2017, bensì deve farlo ucronicamente partendo dal 2019 del cult movie di Ridley Scott, che nel 1982, intercettando anche le inquietudini dell’inizio dell’era reaganiana, ipotizzava un futuro nerissimo ma assai diverso dal pur allarmante scenario che stiamo vivendo. Dal momento che la direzione artistica di questo sequel è passata nelle mani di Denis Villeneuve, regista che - analogamente a Christopher Nolan, sebbene con modalità diverse - concepisce il genere come strumento per intavolare “altri” discorsi e per stimolare domande, il progetto estetico di BR2049 si pone esplicitamente due ambiziosi obiettivi, potenzialmente in contrasto tra loro: da un lato non tradire il titolo che porta, senza finire schiacciato dal peso della sua storia; dall’altro, però, ripensare l’immaginario cyberpunk del film di Scott per rendere la sua natura distopica più efficacemente legata al nostro presente. 

 

Il meta-blockbuster

 

La ripresa, ad anni di distanza, di vecchie saghe sta diventando abituale nell’industria cinematografica americana. Negli ultimi tempi è riscontrabile una tendenza che, qualche tempo fa, in occasione dell’uscita di Episodio VII - Il risveglio della forza, mi è capitato di definire metablockbuster. Si tratta di narrazioni all’interno delle quali si muove un personaggio che è, di fatto, un’estensione dello spettatore-fan, alle prese con i feticci e i gadget dei/del film originale. In Episodio VII (Star Wars: The Force Awakens, J. J. Abrams, 2015), Rey va a caccia sul pianeta Jakku di reliquie della trilogia fondativa, esattamente come i fan della saga vanno a caccia di gadget e oggetti, con la stessa idolatrica affezione.

 

È il cinema che si appropria e mette in scena la devozione feticistica del pubblico, cosa che fa, ad esempio, anche il film Creed (Creed, Ryan Coogler, 2015) con la saga di Rocky, in cui Adonis, figlio di Apollo Creed, è un ammiratore dei combattimenti tra il padre e Balboa tanto quanto lo siamo noi spettatori. Il rapporto che BR2049 istituisce con BR si configura secondo una modalità più o meno simile, evitando però il rischio di ridursi a una sorta di cripto-remake (rischio che Episodio VII non riusciva a evitare). Nel film di Villeneuve, il cacciatore d’androidi K, detective sintetico irresistibilmente noir, che come Sam Spade tira a campare in un condominio caotico dividendo l’esistenza con un ologramma con cui si confida (bellissima Ana de Armas), scopre progressivamente il mondo della prima saga e il mito di Rick Deckard, al punto che nella sua indagine si ritrova perfino a guardare e ascoltare (e noi con lui) scene cult del primo film.

Esplicitando questa forma di culto per BR, Villeneuve risolve quasi del tutto il “problema” di doverci fare i conti: saldato il “debito”, su alcuni aspetti il regista canadese può distaccarsene senza tradire lo spirito del predecessore e può condurre il suo (grande) film altrove.

 

 

Il mondo alla fine del mondo

 

La distanza estetica con il primo film è - fin dalla prima scena - notevole: là c’era una città devastata da inquinamento, industrializzazione e sovrappopolamento e tutto era buio e pioggia, qui tutto è virato verso il seppia e il grigio dalla strepitosa fotografia di Roger Deakins. Alle megalopoli immaginate nel 1982 da Syd Mead ora si affiancano spazi immensi, desertici, chiari. Sul piano narrativo la discontinuità è segnata da un blackout, un evento drammatico cui i personaggi fanno spesso riferimento, che è accaduto nel tempo che separa le timeline dei due film e che permette a Villeneuve di raccontare un mondo che sembra molto più una diretta conseguenza delle nefaste scelte che segnano il “nostro” che una continuazione della catastrofica civiltà del primo episodio: riscaldamento globale, degrado ambientale e fine degli idrocarburi, accompagnate da una decimazione della popolazione terrestre - probabilmente dovuta, oltre che alle migrazioni verso i pianeti-colonia, a una carestia, alla sparizione delle piante e alla costante assenza del sole - che ha svuotato le strade iper affollate in cui Deckard si trascinava nel primo episodio e rende tutto imprevedibilmente ordinato e asettico.

 

Il concept architettonico, sviluppato dal set designer Dennis Gassner, inoltre, rispetta le straordinarie idee di Syd Mead che avevano segnato l’originale, ma le porta nella direzione di uno scenario in cui tutto ormai sembra finto e innaturale, in altre parole finto e sintetico.

 

Umano, troppo umano, post umano

 

Ciò che rende BR2049 un grande film è - a partire da questo distacco con il predecessore - la sua capacità di sollevare domande resistendo alla tentazione di dare presuntuosamente risposte. Anche il film di Scott aveva questa natura felicemente problematica, ma Villeneuve - e qui so di diventare bersaglio degli strali dei fan più genuini - è un autore più introverso e raffinato: paga qualcosa in termini di potenza immaginifica, ma alza la posta intellettuale del discorso. Al centro, rimane ovviamente la domanda chiave: che cosa significa “essere umani”? Entrambi i film sostengono con chiarezza che questa domanda ha risposte molto meno scontate di quanto si pensi. 

I replicanti di Scott tornavano sulla terra, guidati da Roy Batty (Rutger Hauer) per chiedere a Mr. Tyrell “più vita”. Il test a cui venivano sottoposti, il test di Voight-Kampff, misurava il loro grado di empatia; test che si scontrava con una cruda verità, cioè che gli umani “veri” a volte ne sono totalmente privi, mentre quelli sintetici possono averne molta di più.

 

In BR2049 il confine tra umani e replicanti si snoda inizialmente lungo un discorso “biologico”. In un mondo che ha appiattito ogni differenza razziale perché ha annullato ogni sfumatura culturale, i nuovi bersagli sono i “lavori in pelle”, come vengono dispregiativamente chiamati i replicanti. «Ogni civiltà è stata fondata su una manodopera sacrificabile», dice il nuovo guru della Tyrrell (pessimo Jared Leto), cieco magnate indovino. La manodopera sacrificabile è quella non “nata”, ma “creata” in laboratorio. È tutta qui l’essenza dell’umano, la differenza tra ciò che è naturale e ciò che è sintetico, tra il vero e la copia?

 

Radici

 

L’uomo sembra aver creato un mondo inanimato che lo ha soffocato e stritolato. È una civiltà di frammenti assemblati, di copia-incolla prodigiosi: non c’è (quasi) più nulla di nuovo, ci sono solo pezzi impunturati appartenenti un tempo a un tutto che non si riesce più cogliere nel suo insieme. L’ossessione del controllo ha eliminato tutto ciò che contiene un qualsiasi elemento di imprevedibilità. Tra umani disumanizzati e replicanti umanizzandi il confine biologico sembra l’unica barriera di imprevedibilità rimasta. I replicanti chiamano la nascita “miracolo”, proprio perché impedisce di prevedere realmente che tipo di individuo sarà generato: ciò che separa la nascita dalla creazione è appunto l’ingrediente magico, governato dal fato, che è ciò che distingue la natura dalla scienza.

 

Quando K pensa di essere nato e non di essere stato creato, si sente in qualche modo speciale, nonostante il capo della LAPD (Robin Wright) gli ricordi: «tu sei una copia, non hai un’anima». I replicanti, qui come nel primo film, sono dotati di ricordi impiantati artificialmente, anch’essi frammenti, hanno cioè memoria di un passato che non hanno mai vissuto. All’inizio del film, K sa bene che le sue memorie d’infanzia sono false, ma il suo inconscio vi attinge come se fossero vere per modellare la sua personalità. Mentre la narrativa ci ha abituati a personaggi sconvolti perché scoprono che ciò che credevano vero del loro passato in realtà non lo è, K è sconvolto perché suppone che ciò che credeva falso – non solo i ricordi, ma se stesso - sia in realtà vero, comincia a sperare di avere un passato, una radice nel terreno, un collegamento con la terra che unisca quel poco che è rimasto di naturale e reale. Ciò che renderebbe K reale non è se effettivamente sia nato o stato creato, ma è il bisogno di appartenenza a un tutt’uno che sembra essersi spento in quel black-out cui si fa continuo riferimento.

 

È su questo punto che il film, anche in maniera un po’ disordinata, solleva le domande più interessanti. Forse quindi non è solo l’imprevedibilità biologica della natura a marcare la distanza tra umano e sintetico. Forse sono la coscienza della propria storia, la percezione delle tracce che essa lascia nell’inconscio e delle proprie radici - quelle dell’albero simbolicamente avvolgono l’urna che contiene le spoglie di Rachel - gli elementi costitutivi dell’essere umano, gli strumenti che permettono all’uomo di pensarsi e percepirsi, di immaginare un futuro senza limitarsi ad assemblare pezzi di passato. Nella bellissima sequenza che segna il ritorno in scena di Deckard, in una Las Vegas abbandonata, nel casinò semi distrutto in cui vive il vecchio cacciatore di replicanti, si accende una specie di diorama con Marilyn Monroe ed Elvis Presley. Deckard, come le immagini di Elvis, come la città abbandonata, sono la storia, il grande passato che K cerca per sé, come un figlio cerca il padre.

 

Non c’è pubblico, ma le immagini scorrono e da un lato ribadiscono che il vero incubo che il film paventa è quello di un futuro in cui la storia è ridotta a brandelli, dall’altro si fanno apologia della testimonianza, della storia e - perché no - anche del cinema e di tutto ciò che della memoria può farsi custode, proponendo una via d’uscita a questa umanità spezzata.

Come il suo predecessore, quindi, BR2049 si chiude senza risposte ma con una nota di speranza: nell’ultima scena la neve sembra portare un po’ di innocenza e segna il finale di un film straordinario, lento e ipnotico, attuale e avvincente, austero e rigoroso, un neo-noir formalmente impeccabile ma mai lezioso, a volte maestoso e abbagliante, che regge il confronto con il predecessore e tocca temi ultimi con la potenza di una nuova mitologia.

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Il Festival della Gioventù

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Il 28 luglio 1957 a Mosca ebbero inizio le due settimane più intense, inaspettate, innovative che la storia culturale dell’Unione Sovietica avesse mai conosciuto. Per il VI Festival mondiale della gioventù e degli studenti confluirono nella capitale 34.000 persone da 131 paesi stranieri. Rappresentanti di tanti popoli e razze che, sulle ali del colombo della pace, simbolo dell’evento disegnato da Picasso, sarebbero volati a Mosca con fiori e chitarre in mano, molto prima della summer of love sanfranciscana, e con principi e intenti un po’ diversi ma neppure troppo.

 

Manifesto. Andiamo al Festival mondiale della gioventù e degli studenti.


Stalin era morto da quattro anni, il disgelo chruščëviano imperversava, con le altalenanti vicende che ne avrebbero caratterizzato la natura fino all’apogeo del 1961: aperture improvvise, che illudevano e facevano sperare, seguite da altrettanto repentine e punitive marce indietro. Segnali dell’insicurezza e dell’impreparazione del leader, ma anche di una sua caparbia quanto stravagante volontà di innovazione. In parallelo al rapporto segreto anti staliniano, ufficializzato nel corso del XX Congresso del Partito nel febbraio del 1956, che denunciava crimini e misfatti dell’idolo del popolo connotato da Chruščëv come spietato tiranno e responsabile del pericoloso culto della personalità, era seguita, a fine ottobre, la sanguinaria repressione della rivolta ungherese contro la vecchia guardia stalinista. Sorpresa, attesa, stupore, diffidenza, indignazione. Tutte queste categorie coesistevano e si alternavano nei sentimenti della popolazione. I più anziani, dopo l’estenuante quanto coinvolgente epopea bellica, condotta nel nome di Stalin, dai più ancora considerato come unico artefice della vittoria, guardavano alle denunce chruščëviane con sospetto e addirittura rabbia.

 

Comprensibile atteggiamento di fronte all’ennesimo blitz che avrebbe cambiato radicalmente e brutalmente il corso di una storia, quella russa-sovietica, che non riusciva a procedere con equilibrio e armonia ma presentava continui scarti e fulminee variazioni di percorso. I più giovani, invece, non contaminati dal mito staliniano e meno direttamente coinvolti nelle sofferenze della guerra, mostravano di apprezzare le aperture socio-politico-culturali, compresi gli inviti del leader a unirsi alle spedizioni che avevano come scopo il dissodamento delle terre vergini. In altre parole per loro, possibilità di lasciare genitori e sovraffollati appartamenti in coabitazione per vivere una stagione in compagnia di coetanei, campeggiando nel bosco, scoprendo in mezzo alla natura amore, sesso, amicizia e, non ultima, vodka; il tutto accompagnato dalle nascenti melodie dei cantautori e dall’immancabile chitarra. Pratiche e atteggiamenti che sarebbero passati alla storia come “romanticismo sovietico” e “spirito degli anni Sessanta”.

 

V. Seleznev, Andiamo insieme a dissodare le terre vergini! 1954.


Il festival del 1957 fu la risolutiva rampa di lancio per tutto ciò. Un ricco programma di manifestazioni, dagli incontri-dibattito politici a una nutrita rassegna di cinema, dalla poesia alla musica nel nome di “amicizia e pace”, come recitava lo slogan del festival riprodotto su decine di migliaia di manifesti, distintivi, striscioni. Retorica a piene mani, senza dubbio, ma così diversa da quella dei decenni precedenti, meno roboante e, soprattutto, più agile e passibile di essere interpretata e fatta performare. Basta con le parate di eletti sulla piazza Rossa organizzate fino all’ultimo dettaglio in asfissiante perfezionismo, basta con l’estetica tripudiante e autoreferenziale che portava decine di simulacri staliniani a essere portati in trionfo davanti a lui, immobile e compiaciuto nella sua postazione di osservatore al riparo da ogni rischio sulla tribuna del mausoleo di Lenin. Oggi a sfilare, in formazioni colorate e spontanee, a bordo di ruspanti autocarri, erano i giovani stranieri con i quali i cittadini moscoviti potevano finalmente relazionarsi senza temere denunce o inibizioni. Il pubblico, liberamente confluito e costituito da chiunque avesse avuto il desiderio di unirsi alla festa, inneggiava lungo le quotidiane vie della città non già all’immagine di un dittatore ma a ragazzi e ragazze allegri e scanzonati. Così distanti dal grigiore delle delegazioni ufficiali, dei diplomatici, dei pochi giornalisti o uomini d’affari che per anni avevano costituito l’unico “turismo” straniero in Unione Sovietica.

 

Il Festival della gioventù per le strade di Mosca, 1957.


Le piramidi umane di cittadini che, alla ricerca di un punto d’osservazione privilegiato, si formavano a ridosso dei monumenti nulla più avevano in comune con le artificiose formazioni di atleti ibernati, per gli occhi di Stalin, in posizioni rigide e assurde. 

 

Il Festival della gioventù a Mosca, 1957.


L’entusiasmo era sincero, partecipato, la soddisfazione istintiva e liberatoria, l’orgoglio grandioso: la propria città, il proprio Paese diventavano il centro di una manifestazione galvanizzante, mondiale, libera, in cui principi fondamentali come solidarietà, condanna del razzismo, volontà di dialogo sembravano essere fondamentali e destinati a durare.

Assieme ai giovani di mezzo mondo scendevano in piazza il desiderio di relazioni non controllate, di emancipata opinione pubblica, di scambio di idee aperto e leale, di formativi dubbi al posto di vincolanti certezze. Rock around the Clock risuonava magicamente a fianco di più domestiche ma sincopate melodie come Esli by parni vsej zemli (Se tutti i ragazzi del mondo potessero radunarsi insieme). Incipit utopistico, a non nascondere la consapevolezza che quanto animava le vie e le notti moscovite ancora non era realtà a tutto tondo, ma che ci si poteva sperare e che le basi erano state poste. Alla pace fu intitolata la sequenza di una serie di vie nel nord-est di Mosca, a formare la lunghissima arteria che ancora oggi porta il nome di Prospekt Mira (corso della Pace). Jeans e scarpe da ginnastica fecero il loro trionfale ingresso in URSS e i giovani stiljagi (azzimati e improbabili fashion victims dei primi anni Cinquanta), protagonisti di una pionieristica ma indiscutibilmente preziosa contro-cultura giovanile, compresero che l’occidente vero era cosa altra da quanto loro avessero immaginato e scomparvero assieme alla propria fissazione per lo stile.

 

Gli anni immediatamente successivi avrebbero testimoniato momenti importanti sul fronte culturale (la pubblicazione dell’Ivan Denisovič di Solženitsin, per esempio), l’immenso successo dei cosiddetti “giovani poeti”, rock star ante litteram (Evtušenko, Achmadulina, Voznesenskij). Sul fronte politico: la riabilitazione di migliaia di cittadini ingiustamente condannati durate il terrore staliniano e la rimozione del corpo dello stesso Stalin dal mausoleo di Lenin. Sul fronte scientifico-tecnologico, il lancio dei primi sputnik, i satelliti artificiali che avrebbero aperto la strada alla conquista umana dello spazio con il volo di Gagarin del 1961. Ma anche eventi di portata contraria, quell’altalena a cui facevo riferimento in precedenza: il violento attacco da parte dello stesso Chruščëv ai pittori astrattisti alla mostra del Maneggio moscovita e la conseguente feroce condanna che questi subirono, la persistenza di “eredi di Stalin” al potere, la repressione del jazz e il ritorno forzato alla musica popolare russa. Il 1964 avrebbe assistito alla defenestrazione di Chruščëv, responsabile di troppi errori, circondato da troppi “cattivi” consiglieri. La bella illusione sarebbe sfumata, i ragazzi del Festival sarebbero precocemente invecchiati e tempi di nuovo cupi sarebbero arrivati con Brežnev, sotto la superficie del cui stagno sovietico (stagnazione fu il termine scelto per caratterizzarne l’immobilità governativa) i fermenti non sarebbero comunque mancati. Intanto però il giaccio era stato rotto. L’URSS non era più soltanto lager e terrore. L’Europa, Italia compresa, sull’onda della canzone che aveva chiuso le manifestazioni del Festival l’11 agosto 1957, sognava la sua romantica e oleografica “Mezzanotte a Mosca”.

 

https://www.youtube.com/watch?v=R5xRAkhaX4s

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Il disgelo
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Lo slapstick ne “La Pantera Rosa”

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Vi è mai capitato di sbattere contro un palo per strada perché troppo presi dal vostro smartphone? E di fare poker con gli spigoli del tavolo della cucina? O ancora di cadere dal tapis roulant in palestra mentre cercavate di darvi un tono con gli astanti in perfetta forma fisica? Se la risposta è sì, mi dispiace per l’imbarazzo che avete provato al momento – ne so qualcosa – ma potete consolarvi perché fate ufficialmente parte del roboante mondo dello slapstick, dove il tasso di dolore corrisponde al grado di clamore delle risa.

 

Il genere slapstick si assimila alla farsa poiché si basa su un humour incarnato, corporeizzato, caratterizzato da situazioni assurde dove il comico-buffone deve cimentarsi in prove fisiche, addirittura acrobatiche, azioni sfrenate, dimostrando di saper padroneggiare perfettamente il tempo e lo spazio. 

La denominazione slapstick pone le sue radici proprio nell’innesco della risata, vale a dire nell’oggetto adibito a creare gli effetti sonori delle gag fisiche, durante cui gli attori si azzuffano mimando dolore, paure e panico. La parola slapstick si compone del suono onomatopeico di un bel ceffone (slap), di quelli che al cinema fanno ridere, e che non comportano indignazione per la violenza del gesto, e del riferimento diretto al manufatto in questione, ovvero due legnetti, collegati da una molla e connessi a un manico, che entrando in contatto simulano il rumore di un colpo. La tempistica, come già segnalato, deve essere sorprendentemente precisa: un paio di secondi di ritardo potrebbero comportare il fallimento della gag e la sua decodifica aberrante.

 

Lo slapstick-oggetto ha una storia assai antica, risalente alla commedia dell'arte, e alla spatola con cui Arlecchino, la maschera che più di tutte è associata alla mancanza di serietà, vessa il malcapitato di turno, durante le gag fisiche di cui è protagonista. Già, perché il vero discrimine sta proprio nel protagonismo assoluto del corpo, un corpo sofferente, deformato dal travestimento, grottesco e dinamico, i cui movimenti, talvolta, sono ulteriormente esasperati dagli effetti cinematografici di rallentamento e velocizzazione. È il corpo a rendere lo slapstick una commedia “bassa” in quanto si basa sugli effetti di senso prodotti dal fisico piuttosto che da arguti motti di spirito, allusivi per natura, che non innescano la risata immediata. 

 

Le gag fisiche dello slapstick sono uno dei maggiori esempi di auto-ironia finzionale, convogliati al pubblico con performance immersive dei comici, che assurgono a figure da considerare, seguendo l’antropologo Masao Yamaguchi, come il riflesso di un meccanismo attraverso cui noi ristabiliamo la potenziale relazione col mondo reale e facciamo ripartire la nostra vita attraverso le immagini da loro convocate. In questo modo facciamo pace con il nostro lato ridicolo e goffo, esorcizzando l’imbarazzo. Yamaguchi, inoltre, afferma che gli attori dello slapstick fungono da intermediari tra gli elementi sovversivi e i pattern esistenti della narrazione trasformando la struttura in modo da farle incorporare la realtà non normativa. Insomma, in parole povere ciò che è normale e comune, come cadere, inciampare, causarsi un bernoccolo contro uno spigolo, o, più in generale, alcuni impeti di ira, viene “straniato”, reso nuovo e sorprendente, in modo da poter patteggiare con i tabù culturali, tratteggiando i limiti del socialmente accettabile, gettando nella vergogna il capro espiatorio di turno, nel nostro caso uno dei tanti personaggi della commedia slapstick. 

 

 

Pensiamo a “The Pink Panther” (1963), il primo film dell’omonima saga diretta da Blake Edwards, dove il povero ispettore Jacques Clouseau, interpretato da Peter Sellers – l’unico degno di questo ruolo – a causa della sua indiscutibile ottusità, viene, nel giro di sole 11 ore, tradito dalla moglie con il ladro colpevole del furto del diamante da cui proviene il nome del film, incastrato come colpevole, e arrestato. Sembra la cronistoria di una tragedia capitata a un uomo molto sfortunato, a un capro espiatorio dal destino crudele, e pertanto sembra lecito chiederci, come suggerisce Sam Wasson nel suo libro A Splurch in the Kisser: The Movies of Blake Edwards, perché ridiamo a crepapelle dinnanzi a una situazione così triste. E la risposta giunge mediante le parole dello stesso Blake Edwards: «Nel caso dell'ispettore Clouseau, lo slapstick, come ogni altro genere di commedia, è frutto del personaggio... se il personaggio incarna un certo tipo di autorità di cui tu o io potremmo ridere, e se possiamo inserire azioni violente, fisiche, come scivolare su una buccia di banana o cadere dentro un tombino, meglio è definito il personaggio, più sarà divertente». 

 

Dunque, da un lato abbiamo il non plus ultra del socialmente indesiderabile come le corna e l’onta di un reato non commesso, mentre da un altro la nostra attenzione si focalizza sulla fallibilità dell'autorità, dove l’eccessiva fiducia in sé di Clouseau viene punita con umiliazioni corporali, oltre che morali. In questo caso il regista non si limita soltanto a gettare nella vergogna il topos del poliziotto stupido e presuntuoso, ma mette sotto i riflettori la piaga sociale degli incompetenti al potere e degli abusi sui più deboli. Edwards e Sellers, tra una risata e un’altra, portano lo spettatore a riflettere sui limiti dell’ideale di giustizia, che, come fa notare Wasson, nella saga de “La Pantera Rosa”, viene perseguita grazie alla formula ricorrente “vanagloria + gag violente = autenticità”, finalizzata a svelare la vera natura dei personaggi della narrazione, e, di conseguenza, dell’intero genere umano.

 

 

Edwards considera la sua commedia come un placcaggio a sorpresa, per scuotere il pubblico e indurlo a pensare, a rivedere i tabù della sua cultura, ragionamento che si conduce più facilmente mentre si ride.

Ogni gag viene coinvolta in un processo di drammatizzazione in quanto portatrice di una determinata ideologia mirata a riconsiderare ogni volta un aspetto diverso della giustizia sociale, facendo assumere alla saga una certa responsabilità narrativa. 

 

Se nella pellicola del 1963 Clouseau, personaggio metà Sherlock Holmes e metà Buster Keaton, ha la peggio, in quella successiva, “A Shot in the Dark” (1964), sovverte la sua situazione risolvendo il caso senza alcuna logica, grazie a un totale ribaltamento della sua fortuna, ma almeno la sua innocenza e diligenza vengono premiate. Clouseau commette solo errori grossolani, senza riuscire ad ammetterli, ristagnando nella sua presunzione, e pertanto si rivela essere la nemesi dell'ispettore capo Dreyfus, l’incarnazione della razionalità investigativa, perché la sua idiozia fa vergognare l'uomo così tanto da portarlo alla follia, soprattutto perché non riesce a spiegarsi i suoi successi.

Possiamo categorizzare la vergogna di Dreyfus adoperando la classificazione proposta da Marco Belpoliti, vale a dire quella “di non avere successo, di non essere notati, [...] la terribile vergogna d’essere nessuno”. Clouseau alla fine dei conti attrae tutti i meriti su di sé, giungendo a occupare il posto di Dreyfus, la cui indignazione e imbarazzo si concretizzano nell'autolesionismo e nei ripetuti tentativi di uccidere lo sprovveduto nemico, causati dall'invalidamento delle basi sui l’ispettore capo cui ha fondato la sua etica professionale e individuale. Clouseau è una minaccia poiché portatore di caos e distruzione, proprio ciò che la cultura dovrebbe irregimentare e trasformare in ordine. Con la pazzia di Dreyfus, però, i ruoli si invertono e Clouseau gli passa il testimone di capro espiatorio: l’ormai ex ispettore capo viene espulso dalla società e rinchiuso in manicomio.

 

Ecco che la mente, quella alla base della comicità “alta”, intellettuale, ha la peggio sull’ingombrante corporeità dello slapstick, sancendo l’antropomorfizzazione della rivalità con la commedia sofisticata, anche se quest’ultima viene in qualche modo arricchita da una figurativizzazione più ampia di tutte le dimensioni simboliche dell’attività umana. Di certo la commedia slapstick è cruda e violenta, e spesso la consideriamo come una forma di riso infantile, ma Blake Edwards compie un passo in avanti, raffinandola ulteriormente: per Clouseau le bucce di banana non rappresentano una minaccia, perché la sua straripante idiozia lo sottopone a prove ancora più pericolose, come precipitare da una finestra o subire gli improvvisi assalti del maggiordomo Cato, esperto di arti marziali. 

 

I combattimenti tra Clouseau e Cato sono un'assurda accozzaglia di tecniche provenienti da karate, judo, kobudo, la disciplina incentrata sull’uso delle armi tradizionali. Generalmente l'ispettore finge di essere colto di sorpresa perché il patto con Cato prevede un allenamento costante, soprattutto durante i tempi morti, quelli della quiete domestica. Nella maggior parte dei casi vediamo Clouseau attendere l'attacco in abiti di foggia orientale, come lo yukata, il kimono estivo, o addirittura il karategi con tanto di cintura nera, dato che, come ogni buon praticante di arti marziali, deve limitarsi a difendersi. 

Le folli acrobazie dei due sono sottolineate o dalla slow-motion, che distorce visi e vocalizzazioni mettendo in rilievo sia la goffaggine nell'esecuzione delle tecniche sia i rovinosi capitomboli, oppure, come accade in “The Pink Panther Strikes Again” (1976), i movimenti di Clouseau, intento a ostentare la sua padronanza dei nunchaku, vengono velocizzati per citare la scena di “Enter the Dragon” (1973), in cui Bruce Lee, colui che ha reso popolare questo tipo di arma, si difende da un opponente armato di bastone, il cui ruolo è ricoperto da Cato, munito di bō tradizionale. 

 

 

In effetti l’ispettore e il maggiordomo orientale risparmiano le urla nel fronteggiarsi, esasperando anche il kiai, cioè la potente emissione di voce, derivante da una forte espirazione, corrispondente agli attacchi più efficaci, dove si è al culmine della potenza. L'urlo è una sorta di climax della gag, che viene discorsivizzata in termini di durata e di aspettualizzazione spazio-temporale dando senso ai movimenti rallentati e velocizzati in relazione al grado di potenza dell’effetto di senso comico da indurre nello spettatore, vale a dire in continuum che va dal sorriso a fior di labbra alla risata a crepapelle. 

Ogni sessione di combattimento è puntualmente interrotta dal trillo del telefono che riporta alla routine casalinga e lavorativa, ma, nonostante Clouseau in tutte le altre cose della vita sia diligente e onesto, non può ammettere di perdere con Cato, che, convinto di aver terminato l’allenamento, ogni volta viene sconfitto con uno stupido stratagemma, come mostrato nel film “The Return of the Pink Panther” (1975), in cui l’ispettore pronuncia la storica battuta «But, Cato, your fly is undone», “Cato hai la patta dei pantaloni aperta”, con lo scopo di far abbassare lo sguardo dell’uomo e metterlo al tappeto con un calcio diretto al volto.

 

Clouseau considera gli assalti a sorpresa come parte del ricco spettacolo della vita, giocando appunto sul suo essere l’anti-Bruce Lee, in quanto non esattamente dotato del physique du rôle, estendendo l’aura di autenticità dello slapstick alla rappresentazione cinematografica delle arti marziali, proiettate al di fuori della sfera dell’eroismo, sino a ricadere nel vortice della quotidianità più grottesca.

Nella saga de “La Pantera Rosa” la ripetizione delle stesse gag fisiche, come quella del combattimento, assume la funzione di dispositivo stereotipante che acquisisce senso nella sua formularità, in modo da strutturare il mondo a partire dal riso. 

 

Come sottolinea Claudio Paolucci “il Riso è una delle nozioni più importanti all’interno dell’opera di Umberto Eco” perché “è legato a un divenire-basso di ciò che è alto” e mette “in discussione l'Ordine esistente col suo sistema di valori”. Lo stesso Eco ci avverte che “l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, osi finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme, o si è Rabelais o si è Cartesio”. 

Il riso è dunque dotato di un potere sovversivo, fa sì che questioni serissime, di rilevanza sociale, come l’autorità e la giustizia ne “La Pantera Rosa”, possa essere presentata al grande pubblico in modo diretto, senza fronzoli e troppi giri di parole, in quell’attimo esilarante in cui si consuma il colpo al viso, autentico quanto il rumore del suo “slap”.

 

Nota bibliografica: 

 

Gli studi di Masao Yamaguchi sulla cultura e l'ambiguità del buffone nel folklore e nel cinema sono magistralmente riassunti nel saggio di Ryuta Imafuku dal titolo “Masao Yamaguchi: A Hermes-Harlequin in the Field of Semiotics”, contenuto nel volume The Semiotic Web 1987, a cura di Thomas A. Sebeok, Jean Umiker-Sebeok (Walter de Gruyter 1988, pp. 93-108).

Per approfondire l'intera opera di Blake Edwards, rimandiamo al citato A Splurch in the Kisser: The Movies of Blake Edwards di Sam Wesson (Wesleyan University Press 2010), disponibile online in formato e-book. L'articolo “Ci hanno portato via anche la vergogna” di Marco Belpoliti, pubblicato su La Stampa il 28 aprile 2010, è consultabile qui

È di recentissima uscita per Feltrinelli (marzo 2017) l'omaggio di Claudio Paolucci a Umberto Eco dal titolo Umberto Eco. Tra Ordine e Avventura, mentre la citazione di Eco è tratta dal Diario Minimo, alla cui prima edizione del 1963, ripubblicata innumerevoli volte a stampa, si è aggiunto il formato digitale (Bompiani 2017).

 

Scena tratta da “The Pink Panther Strikes Again”.

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L'mmaginario videomusicale contemporaneo

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Violenza, ribellione e mercato

Attraverso una sapiente costruzione “a scatola”, il videoclip Out of Control che il videomaker Wiz realizza nel 1999 per i Chemical Brothers evidenzia come la narrazione della guerriglia urbana e dell’opposizione all’autorità sia stata assorbita e fagocitata dal linguaggio pubblicitario, dimensione al quale l’ambito della videomusica appartiene per sua stessa natura. 

 

 

 

 

Il continuo capovolgimento narrativo a cui assistiamo evidenzia un paradosso irrisolvibile connaturato all’attuale orizzonte massmediale; come afferma Bruno Di Marino, «I massmedia – dunque anche il videoclip stesso – non fanno altro che confondere vero e falso, politica e consumismo, rendendo qualsiasi messaggio ambiguo […] La contraddizione di una forma espressiva che da un lato vende qualcosa, dall’altro critica ciò che vende, da una parte persuade e dall’altra ci mette in guardia dagli imbonitori». Tale paradosso è restituito su più piani anche dalla dimensione formale: la fotografia adottata nella varie fasi dell’impianto narrativo conferma la spirale dialettica, dal momento che nel finale «tutto il livido gelo di riprese freddissime e concitate […] creano un formidabile contrasto col calore della pellicola usata per la prima parte bellica del clip» (D. Liggeri): la saturazione cinematografica ed espressionista della prima parte del video, iper-estetizzata e retorica, caratterizzata persino dall’accenno a una storia sentimentale tra i protagonisti interpretati da due icone del cinema americano come Isabel Rosario Dawson e Michel Brown, si compie definitivamente nell’irruzione del brand e nella rivelazione che si trattasse di uno spot trasmesso da un televisore in una vetrina. 

 

Dopo pochi secondi la vetrina viene sfasciata, il verde acido delle riprese a infrarossi e uno stile registico con camera a spalla più spontaneo e crudo, più “reale”, ci conducono in scene di violenza urbana ispirate al movimento zapatista, dove vengono distrutti i distributori pubblici della Viva Cola; tutto questo all’interno dell’ulteriore circuito dialettico, quello complessivo, rappresentato dal videoclip in sé. Non c’è da stupirsi che la Pepsi si sia fatta ispirare dal video dei Chemical Brothers per una campagna promozionale per il 2017, dove la modella Kendall Jenner evita possibili tensioni durante un corteo di manifestanti, offrendo una lattina a uno dei poliziotti che accetta e beve con piacere. 

 

 

 

 

Lo spot è stato ritirato per via delle polemiche ricevute da più fronti. Lo stesso Wiz, in una nota uscita ad aprile sulla webzine “The Fader”, ha preso posizione sullo spot specificando come ciò che era stato mostrato 18 anni fa nel suo videoclip si fosse cinicamente inverato; ma d’altronde, come mostra il finale dell’acclamata serie tv Mad Men, si tratta di una dinamica ideologica, quella tra mercato e ribellione, che la Coca Cola ha sfruttato a suo favore fin dagli anni ’70, col celebre spot degli hippies (rappresentanti di quel movimento contro-culturale sorto in opposizione alla società consumista, della quale proprio la Coca Cola era ed è il principale simbolo) che cantano di pace, amore e fratellanza con una bottiglia di Coca Cola in mano; non a caso uno dei sostenitori dell’EZLN nella parte finale di Out of Control ha sulla maglietta la scritta «It's the real thing», slogan della celebre campagna della Coca Cola. 

 

 

 

 

La forza del mercato sta nel fatto che esso contempla, fin da subito, la sua stessa negazione nonché la ribellione nei suoi confronti, che viene tradotta in immagine e assorbita come cinica ed efficace strategia di fascinazione. Come d’altronde affermava già Guy Debord, «non si possono opporre astrattamente lo spettacolo e l’attività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. […] la realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è reale. Questa reciproca alienazione è l’essenza e il sostegno della società esistente. Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso».

 

Per Kanye West e Jay-Z, il regista Romain Gavras dirige nel 2012 No church in the wild, pseudo-documentazione distopica di uno scorcio di guerra civile ambientato a Praga, città ferita storicamente da reali conflitti civili. Il rallenti, le luci laser e le inquadrature che accentuano l’effetto estetizzante, come le ombre dei monumenti del realismo socialista, negano un chiaro contenuto ideologico e politico: Gavras mette in scena «un happening sanguinoso orchestrabile all’infinito» (L. Pacilio), non provocatorio e catarticamente “bello da vedere”. Tale giudizio sull’estetizzazione della violenza e della guerriglia urbana, e soprattutto l’interrogativo che lo spettatore pone a se stesso sulla legittimità di tale giudizio, rappresentano la dimensione metatestuale che riscatta lo stile manierista di Gavras, rivelandosi (lui e il suo video) ben meno ingenui di quanto si potrebbe pensare.

 

 

D’altronde Gavras è il videomaker che più di tutti negli ultimi anni ha lavorato sull’esibizione della violenza; un videoclip perseguitato dalla censura e che Chris Marker ha difeso con passione, è Stress realizzato per i Justice nel 2008. Nel video il vandalismo della gang della banlieue parigina è documentata in maniera fredda da un occhio interno; come per ogni mockumentary, il video attesta un’attrazione per il reale tipica della popular culture degli ultimi anni, confermata dall’audio del video, un mix di canzone e suoni ambientali. La violenza affascina innanzitutto perché si mostra come violenza reale, non posticcia o teatralizzata, o estetizzata stilisticamente come nel caso di No church in the wild. Diversi elementi metatestuali però interrompono l’affabulazione documentaria rivelandone la “falsità” e legittimando moralmente la nostra attrazione, anche perché qui la violenza non è “oppositiva” o rivoluzionaria: le vittime sono persone qualsiasi, donne che aspettano la metropolitana, anziane indifese per la strada, addirittura clochard terrorizzati dalla furia distruttiva della banda. 

 

 

Fin dall’apertura, il video insiste molto sulle riprese della schiena dei membri del manipolo di giovani, e il fatto che i membri della gang indossino un giubbotto di pelle dove è presente la grande croce nera che è il logo della band dei Justice, è da subito una messa in evidenza della dimensione finzionale delle immagini. In diverse occasioni, alcuni dei protagonisti e delle comparse guardano in macchina, creando un corto-circuito difficilmente districabile; afferma Pacilio che «i frequenti sguardi in macchina […] si risolvono in altrettante interpellazioni allo spettatore». Lo sguardo in macchina sembra confermare la veridicità del documentario, perché rende bene l’atteggiamento tipico di chi si ritrova ripreso da una macchina da presa suo malgrado; infatti, il video vuole sembrare un’autentica manifestazione della violenza urbana, ripresa dal vivo da un documentarista, perciò la macchina da presa deve necessariamente denunciare la sua presenza. Tale presenza raggiunge l’apice nella chiusura del video, quando il presunto documentarista viene aggredito e picchiato dal gruppo di giovani coi quali sembrava simpatizzare: l’occhio della mdp finisce a terra, tra le urla e gli schiamazzi dei vandali, ma l’esistenza stessa del video attesta l’ “irrealtà” dell’intero prodotto. Qui la violenza è esibita ma anche interrogativa: essa è disturbante ma anche masochistica, perché si rivolge contro l’immagine stessa, contro lo strumento disposto a documentarla. 

 

Diverso il discorso di Gavras per Born free, video girato per M.I.A nel 2010 e terzo momento della trilogia della violenza del regista di origini greche; si tratta di una narrazione distopica dove la violenza estrema è quella dell’esercito che irrompe in un quartiere popolare per prelevare una serie di giovani dai capelli rossi e condurli nel mezzo di un campo minato, costringendoli a correre tra le mine. Le scene sono particolarmente aggressive e forti, ma qui sono trasfigurate nel discorso narrativo classico dell’opposizione binaria autorità/vittime: rispetto a Out of control, la dimensione distopica impedisce l’inquadramento al contesto specifico della ribellione, restando astratto (sappiamo solo che l’esercito è quello statunitense), seducente perché onnicomprensivo nella sua obliquità.

 

 

 

 

 D’altronde la popstar M.I.A incarna perfettamente il paradosso caratteristico della cultura di massa contemporanea: cantante di origini singalesi e trapiantata a Londra, M.I.A non ha mai fatto segreto del suo sostegno convinto alle Tigri del Tamil, movimento paramilitare comunista sconfitto dall’esercito dello Sri Lanka nel 2009 dopo decenni di controllo di ampissime aree della nazione. Molti suoi testi inneggiano alla lotta armata e al terrorismo, e in quei casi domina lo stile musicale “grime” (forma di urban rap con arrangiamenti drum and bass, jungle e dub-step); tuttavia, nella maggior parte della sua discografia M.I.A si rivela perfettamente integrata nell’orizzonte della produzione pop-dance americana: collabora tra le altre con Madonna e Christina Aguilera in più occasioni, e oggi è tra le popstar più seguite, vendute e commercializzate dal mercato culturale globalizzato.

 

La violenza esibita è anche al centro di uno straordinario lavoro del collettivo Megaforce: si tratta di The greeks degli Is tropical del 2011, music-video che coniuga con mestiere riprese reali ad animazioni digitali, traducendo un innocuo gioco tra bambini in una cinica carneficina con tanto di terroristi, mafiosi, esecuzioni, esplosioni… 

 

 

 

 

La connessione tra violenza e universo infantile torna spesso nell’immaginario videomusicale (pensiamo anche a Sixteen Saltines, di AG Rojas per Jack White del 2012); qui nello specifico si tratta di una trasfigurazione palesemente immaginifica, dal momento che la violenza diventa reale perché si traduce in immagine, invece di restare nell’immaginazione dei ragazzini che giocano. Tale traduzione è concessa dalla stilizzazione digitale del cartoon, modalità espressiva solitamente legata alla spensieratezza favolistica dei bambini, che diventa rappresentazione visionaria di un massacro agghiacciante smarcandosi dalla sua tradizionale adozione massmediale. Ora, se il cartoon capovolge il proprio segno, diventando spietato e ultraviolento, è pur vero che proprio l’innesto dell’animazione fumettistica “irrealizza” le atrocità del racconto, facendosi strumento metatestuale in grado di portare a coscienza i problemi relativi al rapporto tra immaginario infantile e gioco da un lato, violenza, terrorismo e guerra dall’altro. 

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Orhan Pamuk. Città come autobiografia

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Siamo tutti esuli dalla nostra infanzia, quel luogo mitico, leggendario, magico, perso per sempre, quel luogo in cui le parole assunsero un senso per la prima volta, i gusti presero il loro spessore, quella concretezza fatta di rumori, odori, quel terreno sicuro – anche se non sempre felice – a cui la nostra intera esistenza è ancorata come un naufrago a un relitto. È sempre con una certa tristezza che ci volgiamo alla nostra infanzia, una tristezza lieve e densa insieme che accompagna il libro autobiografico di Orhan Pamuk, Istanbul.

 

Un capitolo intero del libro, il decimo capitolo, è interamente dedicato alla tristezza, alla sua dimensione fisica, diversa da una pura condizione dell’anima come la malinconia. Una tristezza più spessa e più diffusa, una sensazione che emana da certe immagini, una specie di filtro tra noi e le cose. Pamuk descrive la tristezza dell’infanzia come il vapore sui vetri della finestra della cucina di casa o sul finestrino dell’automobile durante i lunghi viaggi d’inverno. Quei vetri opachi sui quali si disegna un cuore o un sorriso per distrarsi dalla noia sono la metafora perfetta della tristezza infantile o della tristezza che accompagna la rievocazione dell’infanzia. È un mondo che è là, intatto, eppure lontano, circondato da una sorta di nebbia di fumo, lo stesso che filtrava le nostre esperienze infantili inevitabilmente deformate dai sensi non ancora maturi, fatti per assorbire il mondo intorno a noi e non ancora per osservarlo o comprenderlo. Il vapore sul vetro è anche la tristezza del nostro sguardo di oggi sull’infanzia, la distanza impossibile da colmare tra i nostri ego adulti e le piccole abitudini, le gioie minuscole che fanno la geografia dei primi anni della nostra vita. 

 

Nel 2006 usciva l’edizione italiana di Istanbul in Italia, da Einaudi, proprio mentre stavo terminando la mia autobiografia dedicata a Milano, la città in cui sono nata e cresciuta, che uscì da Nottetempo due anni dopo, nel 2008 con il titolo: La figlia della gallina nera. Scritta sotto forma di un dizionario delle parole della mia infanzia, una sorta di lessico familiare che ogni famiglia possiede e che cristallizza in qualche espressione le atmosfere, i pregiudizi, le ambizioni e le delusioni di un’epoca, di una città e un ambiente sociale, quel libro era stato per me un modo di sottopormi a un’autoterapia attraverso le parole. Il gioco dell’ “idioletto milanese” era cominciato su un blog che avevo creato per raccogliere le espressioni che a lungo mi erano sembrate appartenere alla lingua italiana per rendermi conto, dopo tanti anni passati all’estero e l’inevitabile distanza che avevo accumulato con la mia lingua madre, che appartenevano solo al mio italiano, a quello di mia sorella, di mia nonna e, soprattutto, di mia madre, figura tutelare della mia educazione di ragazza per bene milanese, uccisa da un cancro quando avevo diciotto anni. Ricostruire tutto ciò attraverso questa specie di dizionario mi aveva permesso un accesso al mio passato nuovo, filtrato dalla lingua italiana dalla quale lentamente e inesorabilmente mi allontanavo.

 

La distanza linguistica che sentivo aumentare tra me e l’italiano cominciava a manifestarsi in piccole incertezze, esitazioni sulle parole, una mancanza di spontaneità che gli ormai tanti anni all’estero facevano pesare sulle mie frasi. Le parole dell’italiano non erano più al “primo ordine”, naturali, spontanee, com’erano sempre state: diventavano come quelle del francese, dell’inglese, o delle altre lingue che studio, parole al secondo ordine, le sentivo nella testa come se fossero tra virgolette e avessero bisogno di essere interpretate. Questo distacco semantico si era compiuto dopo un lungo soggiorno a New York nel 2005, durante il quale avevo migliorato molto il mio inglese, una lingua con la quale avevo da tanto tempo una relazione intellettuale molto profonda, più del francese sotto molti aspetti. Il ritorno d’estate in Italia, passando per la Francia, dove abito da più di vent’anni, era stato brusco: il mio italiano non si accordava più con quello degli altri, la lingua era evoluta in tanti anni, mentre la mia era rimasta immobile, sempre la stessa, come il mondo della mia infanzia che mi voltavo a guardare per la prima volta.

 

 

Proprio in quel momento lessi Istanbul. Pamuk non ha mai lasciato Istanbul, ha vissuto fino a trent’anni nella stessa casa. Il libro emana un’intimità con la città che certo io non posso più pretendere di avere dopo tanti anni di assenza. Così la sua autobiografia si confonde con quella della città, la sua tristezza di bambino si dipinge sugli angoli delle strette viuzze di certi quartieri di Istanbul o sui gabbiani immobili sotto la pioggia, sulle barche incrostate di alghe e di cozze nel golfo del Bosforo. La sua storia e la geografia della città diventano un tutt’uno come se ogni dettaglio architettonico, ogni muro, ogni piccolo negozio nella via del palazzo di famiglia, parlassero la lingua della sua infanzia. Un’esperienza molto diversa da quella di un’emigrata come me, per la quale l’intimità con la città natale non è che un’utopia, la consolazione di un luogo intatto al quale tornare un giorno e che ci accoglierà come il figliol prodigo. 

Era dunque ancora più sorprendente ritrovarmi nel libro di Pamuk, ritrovare la mia infanzia nei dettagli della sua. La mia unica visita a Instanbul risale ormai a quasi quarant’anni fa, in crociera con mia nonna. E ora mi ritrovavo comodamente nell’intimità dell’infanzia di Orhan Pamuk, come se conoscessi i suoi genitori, la casa di famiglia, come se li avessi accompagnati anche io nelle loro passeggiate sul Bosforo.

 

Il sovrapporsi di corrispondenze tra le nostre infanzie era quasi inquietante: la vestaglia della madre a fiori cremisi l’immaginavo identica a quella che indossava mia nonna all’ospedale gli ultimi giorni della sua vita. Mi ricordo che mi chiese di andare a cercarle un’altra vestaglia a casa, di seta chiara, perché non le sembrava decoroso morire indossando una vestaglia a fiori rossi: non si addiceva all’occasione.

L’antagonismo con il fratello maggiore, le continue liti, le lotte furibonde mi ricordavano le zuffe e i battibecchi tra me e mia sorella, i combattimenti selvaggi per terra nella sua camera, i morsi, i graffi e i capelli tirati. Pamuk descrive un dettaglio delle litigate tra fratelli che mi colpisce per la precisione: benché estremamente violente e fisicamente estenuanti, quelle lotte fratricide potevano fermarsi in un istante all’apparire di un adulto, o se qualcuno suonava alla porta, come se quel rituale feroce non fosse in fondo nient’altro che un gioco di complicità. Era la stessa cosa tra me e mia sorella: eravamo capaci di interrompere i combattimenti all’istante per aprire educatamente la porta a un ospite e ricominciare di lì a poco a picchiarci con la stessa selvaggeria.

 

Le gite in macchina sulle rive del Bosforo – madre e padre davanti e i due fratelli dietro – le litigate tra i genitori come se i figli, seduti dietro ammutoliti, non esistessero, mi ricordavano i nostri viaggi ogni week-end in campagna nella piccola Cinquecento di mia madre. I miei genitori si bisticciavano mentre io e mia sorella guardavamo attraverso il vetro posteriore dell’auto le targhe delle altre macchine cercando di imparare a memoria i numeri di targa.

Le “scenate” della madre al padre, le minacce di “buttarsi dalla finestra” – un’espressione che fa parte del lessico familiare della mia famiglia e che utilizziamo ancora oggi ironicamente – la scomparsa ogni tanto della madre o del padre, le dichiarazioni dei nonni, o delle domestiche: “Vostro padre è in viaggio d’affari” oppure “Vostra madre è ammalata”, questo modo di gestire le crisi familiari era identico a casa mia e lasciava me e mia sorella nell’inquietudine di quei misteri familiari, in parte rivelati nelle scenate tra i nostri genitori e in parte nascosti.

 

L’anno del divorzio dei miei genitori, mia madre scomparve tutta l’estate e noi restammo in vacanza in Versilia con la nonna – dove passavamo tutte le nostre estati – con l’ansia di sapere se la mamma sarebbe tornata un giorno. Nostro padre non era invece mai “ammalato”: era in viaggio d’affari. Fu lui alla fine che ebbe il coraggio di dirci la verità sulla loro separazione. Ci invitò una sera dell’autunno che seguì l’estate delle sparizioni alternate di mamma e papà nel suo nuovo appartamento a Milano, dove due grandi fotografie, quelle di una donna e di una bambina dell’età di mia sorella, ci presentavano senza bisogno di troppe spiegazioni ciò che sarebbe diventata la nostra nuova famiglia.

L’atmosfera di una famiglia di Istanbul negli Anni Cinquanta e quella di una famiglia milanese degli Anni Settanta stranamente si assomigliano. Come Pamuk, la frase che ho sentito più spesso nella mia infanzia è: “Spegnete la luce!”.

 

Anche la mia famiglia era benestante, borghese nei modi, con una vera e propria venerazione per la cultura, i buoni libri e il buon gusto e un disprezzo per la religione e tutte le forme di folklore culturale, considerate appannaggio della povera gente e degli ignoranti. Adolescente, mia madre mi aveva pregato di non farmi forare i lobi delle orecchie per non assomigliare alle “contadine cattoliche”. La religione non era criticata in sé: non mi ricordo di dibattiti accesi da piccola sull’esistenza di Dio. Era lo stile religioso, il mondo retrogrado e ignorante dei cattolici, il loro modo di vestire, le loro letture viete, i giudizi da “benpensanti” che i miei genitori non potevano sopportare. Così come i Pamuk erano occidentalizzati, noi eravamo “moderni”, il che voleva dire più o meno la stessa cosa. Mio padre ascoltava musica jazz (facendo finta di suonare il sassofono, un po’ come il padre di Orhan che ascoltava i dischi di musica classica occidentale facendo finta di dirigere l’orchestra), noi ragazze potevamo bere all’aperitivo il Ginger Ale, bevanda alla moda all’epoca che faceva sognare l’Inghilterra. Mio padre si faceva fare camicie su misura in tessuto Oxford, e giacche di tweed per il week-end, durante il quale si andava tutti a giocare a golf. La nostra sicurezza sociale non veniva tanto dal denaro, benché la mia infanzia fu sicuramente agiata, ma dalla “modernità” dei nostri costumi.

 

Eravamo laici, una famiglia di divorziati, ascoltavamo musica moderna, andavamo a teatro a vedere Giorgio Gaber e Dario Fo, leggevamo tre o quattro quotidiani… si trattava insomma di un ambiente di élite culturale più che economica: i nostri privilegi provenivano più dal capitale simbolico della famiglia che da quello economico. I nuovi ricchi che invasero Milano negli Anni Ottanta non fecero infatti grande impressione ai miei genitori. Non erano “come noi” secondo mia madre: non si vestivano bene, parlavano male l’italiano, non utilizzavano i congiuntivi e guardavano gli spettacoli di varietà alla televisione, quelli che mio padre ci vietava categoricamente di guardare.

Il viavai di zie, zii, domestiche, governanti, era caratteristico della casa di mia nonna così come di Palazzo Pamuk, dove la famiglia abitava durante l’infanzia di Orhan. La noia dell’infanzia, i pomeriggi interminabili, i giochi inventati con mia sorella che finivano sempre in lite, tutto questo, scoprivo leggendo Istanbul, era identico a casa Pamuk.

 

L’atmosfera di due città così distanti, così differenti, filtrata dalla tristezza infantile, diventava simile: come per incanto, una città del Nord Italia, senza fiume né mare, e Costantinopoli, capitale dell’Impero d’Oriente, punto d’incontro tra Oriente e Occidente, città magica, sognata, esotica, potevano somigliarsi nel rumore dei tram che le attraversano, nella nebbia mattutina e i colori scuri dei muri, nella tristezza così tipica delle città del Mediterraneo, che crollano sotto il peso del loro passato, che non possono andare avanti se non al prezzo di perdere se stesse.

La tensione tra modernità e tradizione che schiaccia le città italiane è presente anche nell’urbanismo di Istanbul. Tutto è perdita: le case e i palazzi in legno bruciati, le nuove costruzioni che cambiano il paesaggio. La geografia di queste città non può andare avanti senza perdere qualcosa, come la nostra vita, che va avanti al prezzo di perdere la nostra infanzia.

 

Architetto e disegnatore, Pamuk è un osservatore minuzioso della sua città, che ci dipinge anche grazie allo sguardo che le hanno rivolto altri scrittori. È secondo lui più facile scrivere di una città quando non la si abita, quando si è di passaggio. In effetti pochi sono i libri sulle città scritti dai loro abitanti: le descrizioni delle città italiane di Stendhal, il viaggio in Sicilia di Maupassant, quello a Costantinopoli di De Amicis, o l’Egitto di Flaubert, sono a volte più eloquenti dei racconti degli abitanti. La città si “presenta” al viaggiatore che la scruta, l’interpreta, la decodifica, mentre si “rappresenta” ai suoi abitanti che la vivono tutti i giorni, l’attraversano, l’assorbono nelle proprie emozioni, ne sono parte. Eppure, questo sguardo osmotico sulla propria città ne fa un teatro dell’anima. 

C’è molto da scrivere su Istanbul-Bisanzio-Costantinopoli, c’è poco da dire su Milano, ma entrambe trasfigurate in teatri dell’anima dei loro abitanti esse diventano simili, accompagnano un’infanzia, un’educazione, sono il luogo delle nostre prime esperienze che porteranno in sé per sempre i loro colori e i loro odori.

 

Come la nostra vita, i luoghi della nostra infanzia ci sono familiari ed estranei al tempo stesso. Assomigliamo a noi stessi ma non siamo più la stessa persona che eravamo a venti o a dieci anni. È un sentimento di familiarità che si confonde con l’amarezza della perdita, un po’ come quando incontriamo un vecchio amante con il quale abbiamo vissuto una grande intimità e che non conta più nulla nella nostra vita. Questi luoghi familiari sono sempre là, le prime passeggiate, i giardini, i muretti dei primi baci, ma non ci appartengono più veramente. Ci accompagnano, ci guardano, si confondono con noi, ma non ci possono più proteggere dal distacco fondamentale che ogni vita porta con sé. Quel luogo magico dell’infanzia è così vicino, intimo, dentro di noi e tuttavia perso per sempre.

 

Il testo originale francese è apparso nel recentissimo Cahier de l’Herne Pamuk, éditions de l’Herne, Paris 2017.

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Peter Sloterdijk. Che cos’è successo nel ventesimo secolo?

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“Che cos’è successo nel ventesimo secolo?” non è solo il titolo dell’ultimo libro uscito in italiano per i tipi Bollati Boringhieri a firma Peter Sloterdijk, ma è pure un manifesto della (sua) filosofia. Della filosofia di Sloterdijk e della filosofia tout court

Della filosofia tout court perché la domanda che pone fin dal titolo è una domanda semplice ma radicale, che mette in gioco lo statuto stesso del pensiero: la filosofia – sembra dirci Sloterdijk con quel titolo – è un’interrogazione, posta sempre di nuovo, sulla posizione dell’uomo nella storia, nel mondo, e tra gli altri uomini. 

La filosofia è (per Sloterdijk) quella scienza che si chiede “che cosa è successo?”, che cerca di isolare gli eventi concettualmente decisivi, le segnature storiche di un’epoca, e di darne un’interpretazione. La filosofia, quindi, non è più – come nel mondo antico e medievale, e in qualche sua rimanenza contemporanea – la ricerca delle essenze, di ciò che è reale, né – come è stata per gran parte del ‘900 – l’argomentazione, la critica, e la decostruzione degli altri filosofi. 

 

La filosofia è scienza della cultura: un tentativo razionale di comprendere i mutamenti delle civilizzazioni, che vengono reciprocamente poste a confronto, in una dimensione storica. Se nel libro Sloterdijk parla anche di altri filosofi, dedicandosi all’esercizio ermeneutico classico con cui i pensatori del canone filosofico continentale hanno esercitato storicamente il loro “mestiere” (impossibile), lo fa perché questo esercizio è parte necessaria, integrante, della comprensione concettuale del proprio tempo storico.

Andando ad analizzare il testo nel dettaglio, si potrebbe addirittura arrivare a dire che esso rappresenta la migliore introduzione possibile al pensiero di Peter Sloterdijk, scritta da Sloterdijk stesso in maniera saggistica: una sorta di autobiografia filosofica non dichiarata (cosa che non deve stupire, visto che Sloterdijk, proprio all’autobiografia dedicò la sua tesi di dottorato a metà degli anni ’70, e che – più recentemente, nel 2012 –  ha dato alle stampe un poderoso volume di riflessioni tratte dai suoi diari), scritta sotto forma di volume di saggi.

 

Il testo, infatti, composto da 12 contributi (originali e frutto di elaborazione di scritti d’occasione), ripercorre tutti i maggiori temi di interesse sloterdijkiani: dalla storia della civilizzazione in una prospettiva macrostorica (saggi 1 e 2) alla storia della globalizzazione (saggi 3, 4, 5 e 7), passando per tre saggi classicamente filosofici (su Heidegger, Derrida e i sofisti), e tre studi filosofico-letterari (uno su Ulisse, uno sul Decameron e uno sulla Costituzione tedesca).

Il primo saggio viene dedicato dall’autore al tema – estremamente dibattuto sia nelle scienze naturali (in particolare tra geologi e climatologi) che in quelle umane – dell’Antropocene, vale a dire alla caratterizzazione dell’epoca contemporanea come epoca geologica in cui i cambiamenti naturali del pianeta Terra sono dovuti in maniera maggioritaria non alle forze geologiche, ma all’impatto dell’azione umana. Da quando il premio Nobel per la chimica atmosferica Paul Crutzen ha reso celebre il termine, l’Antropocene è diventato un tema estremamente “di moda” nei dibattiti filosofici. Il merito di Sloterdijk, qui, è quello di esercitare uno sguardo perspicuo sul fenomeno, di offrire un “taglio” per comprendere la questione nella sua portata storica: secondo Sloterdijk, infatti, l’aver compreso che l’essere umano è diventato ormai un agente di cambiamento “atmosferico” globale mette in crisi l’idea di natura che abbiamo sviluppato nel corso dei millenni. 

 

Questa è, fondamentalmente, duplice: da un lato, la natura sarebbe solo lo scenario del dramma storico i cui attori sono gli uomini, dall’altro, essa sarebbe colei che dispensa i beni di cui gli uomini hanno bisogno (e che – in generoso contraccambio – immagazzina le loro scorie). Se questo duplice ruolo della natura per l’uomo si è stabilizzato nelle coscienze transindividuali nel corso dei millenni, col mutuo rafforzamento degli elementi scatenanti della modernità (il Rinascimento e la sua onda lunga, la nascita dell’economia moderna, il fiorire del capitalismo, l’affermarsi dello statalismo come forma di governo predominante, il virtuoso circolo autorafforzantesi della ricerca scientifica e l’ampliamento della sfera della giustizia, che ha portato gli uomini a rivendicare sempre più per se stessi in quanto individui) non è più possibile che esso continui a lungo a restare immutato.

 

Gli stessi elementi che hanno causato a livello globale – per Sloterdijk – lo stato di benessere generalizzato che caratterizza il mondo contemporaneo, sono quelli che stanno portando al collasso la biosfera. Considerare la natura come uno sfondo disponibile allo sfruttamento (in quest’idea si vede quanto sia stato importante Heidegger per Sloterdijk) ha causato i processi storici che hanno avuto come sbocco la nostra modernità. Da allora per l’uomo la libertà coincide con la libertà di sfruttare il pianeta e le sue risorse. Ora, però, la Terra è di fronte alla prospettiva del collasso. La civiltà futura sarà disposta a iniziare un’etica ascetica, fondata sulla rinuncia in virtù del bene comune? Sloterdijk chiude il primo saggio del suo libro con questa domanda, che in realtà trova una trattazione, e una risposta parziale, nel secondo della raccolta, dedicato al concetto di “domesticazione”. Qui Sloterdijk riprende alcuni temi già presenti in suoi testi precedenti, come La domesticazione dell’essere, contenuto nella raccolta Non siamo ancora stati salvati, del 2001, e li sviluppa ulteriormente. Fondamentalmente Sloterdijk pensa alla domesticazione come alla gestione dei rapporti di forza tra singoli e collettivi che porta a mutamenti concreti nel modo di vita, nelle organizzazioni sociali, ma anche nella vera e propria costituzione fisico-psichica dell’individuo. Per quanto – anche per difendersi da attacchi subiti in passato da eminenti avversari filosofici (Habermas) – Sloterdijk citi sempre antecedenti “autorità” filosofiche che si sono occupate del problema della domesticazione umana (Platone, Darwin e Nietzsche, qui) in realtà è il filosofo e sociologo Heiner Mühlmann il suo referente teorico principale. Questi, nel suo semisconosciuto capolavoro, Die Natur der Kulturern (“La natura delle culture”), del 1996, descrive le società umane come dei semplici conglomerati di mammiferi tenuti insieme da ondate di stress collettivo, che aumenta in situazioni di guerra, funzionando da collante sociale. Questo meccanismo di creazione dei collettivi viene descritto da Mühlmann come MSC (Maximal Stress Cooperation, “cooperazione sotto stress massimale”).

 

Le società non sarebbero altro, dunque, che conglomerati di esseri che si sentono uniti in quanto possibili co-militanti in una guerra comune. Le situazioni non-belliche sarebbero situazioni di disgregazione sociale, in cui la dinamica MSC deve essere sempre tenuta alta da surrogati come la creazione di nemici interni o le divisioni politiche immaginarie amplificate dai media, se i collettivi che chiamiamo società vogliono sopravvivere. Sloterdijk riprende la teoria di Mühlmann, e ne fa una sorta di controcanto: se è vero che le società per lo più nascono per dinamiche di MSC, è altrettanto vero che le più importanti correnti filosofiche e religiose dell’antichità (Sloterdijk cita a livello esemplare lo stoicismo, il cristianesimo e il buddhismo) rappresentano delle vere e proprie “metafisiche della diserzione” (p. 45): esse miravano alla disattivazione del potenziale polemogeno delle culture. La questione che queste considerazioni di fondo pongono è quella, allora, che si collega – come detto – in maniera diretta alla questione posta dall’Antropocene: possono le culture autoaddomesticarsi? Può una civilizzazione sussistere in maniera indipendente dalla MSC? Secondo Sloterdijk la risposta è si. La creazione di reciproche interdipendenze è il fattore che disinnesca il potenziale polemogeno delle culture. Più le culture sono in reciproco contatto, scambio economico, sociale, migratorio, meno interesse (e possibilità) hanno di farsi la guerra.

 

Ph Stephanie von Becker.


Il problema, che fa vedere a Sloterdijk il futuro prossimo dipinto a tinte fosche, è che siamo ancora in un’epoca in cui l’interdipendenza è labile e il potenziale MSC delle culture ancora il maggiore fattore di aggregazione. Viviamo in culture locali in via di disgregazione in direzione di una società dalle pareti permeabili. Queste culture stanno però reagendo, creando fenomeni di resistenza violenti, che per Sloterdijk sono destinati a determinare il futuro prossimo in maniera tendenzialmente catastrofica. Questa è anche la risposta implicita alla domanda posta nel saggio sull’Antropocene: gli esseri umani non rinunceranno in tempi brevi alla propria idea di libertà coincidente con il benessere, anche se esso non è sostenibile a livello globale. La speranza, in entrambi i casi, viene dalle prospettive a lungo termine: un’etica della decrescita, basata sull’interdipendenza culturale e la responsabilità ambientale può essere preparata, insegnata e appresa, fino a diventare, nel lungo periodo, un habitus umano condiviso. La domanda aperta, che permane, è se la specie-sapiens, e la configurazione della biosfera che ha permesso la nascita delle forme di vita che conosciamo, saranno in grado di attendere tanto a lungo.

 

Il terzo, il quarto, il quinto e il settimo saggio della raccolta possono essere letti assieme come un esercizio “archeologico” rispetto ai due che aprono il libro, più legati a temi di attualità: essi, infatti, si occupano della nascita delle precondizioni dell’Antropocene, e in generale della nostra contemporaneità. In particolare il tema centrale è quello dei movimenti che hanno portato alla cosiddetta “globalizzazione”. Anche in questo libro – come nei precedenti L’ultima sfera, Il mondo dentro il capitale e Sfere II– Sloterdijk presta molta attenzione nel retrodatare la globalizzazione all’epoca delle grandi scoperte geografiche dell’età moderna. Non sarebbe, quindi, con il commercio globale, il capitalismo e internet che la globalizzazione come processo avrebbe avuto il proprio massimo dispiegamento, ma con le scoperte di Colombo, la circumnavigazione del globo terrestre della ciurma di Magellano e il commercio delle spezie. Qui, per la prima volta, si sarebbe sviluppata la consapevolezza – che poi diverrà un’evidenza per coloro che, grazie ai viaggi spaziali, hanno potuto osservare la Terra dall’esterno, come una totalità da cui è possibile prendere distanza – che siamo su una sorta di grande (astro-)nave, rispetto a cui un “fuori” (fatta eccezione per le élites di astronauti) non è possibile. Per questo il portato della globalizzazione deve essere la riconsiderazione di quella “grandezza trascurata” (p. 57) che è sempre stato l’ambiente, nei calcoli che l’umanità deve fare per assicurare la propria sopravvivenza futura: torna qui il discorso ecologista, dominante nei saggi di apertura. Così come ritorna la riflessione sulla necessità di aprire le culture a processi di domesticazione che le rendano progressivamente sempre più aperte e interdipendenti. 

 

Questo appare particolarmente evidente nel saggio Il mondo sincronizzato (pp. 64-75), che merita una contestualizzazione, se si vuole comprendere anche la posizione di Sloterdijk nel panorama filosofico-politico contemporaneo. Il pensatore di Karlsruhe, infatti, viene posizionato, nella madrepatria Germania, sulla destra dello spettro politico, soprattutto dopo aver preso posizione in maniera netta contro le politiche di immigrazione e di accoglienza del governo Merkel, in una famigerata intervista dell’Ottobre 2016 per il magazine culturale Cicero, e dopo che il suo collaboratore storico alla Hochschüle für Gestaltung, Marc Jongen, è diventato un esponente di spicco del partito antieuropeista Alternative für Deutschland

In particolare la posizione critica nei confronti della politica delle “frontiere aperte” nei confronti dei profughi gli ha fruttato una forte resistenza da parte dei circoli accademici e intellettuali, entro i quali, addirittura, viene ormai spesso considerato “persona non grata”. 

 

Il saggio in questione, però, rende più complessa la posizione di Sloterdijk, in quanto, qui, viene sostenuta la tesi per cui gli Europei, dopo aver per quasi 400 anni esercitato una sorta di “privilegio nella globalizzazione”, ne stanno subendo una da parte loro, rispetto a cui sarebbe ingiusto, impossibile e ipocrita tirarsi indietro. Sloterdijk parla addirittura di un compito urgente per la pedagogia del futuro, vale a dire quello di creare individui che non soffrano della perdita delle “pareti immunitarie” che fino ad oggi hanno caratterizzato le nostre strutture statuali. Combinare lo Sloterdijk che sostiene che l’Europa deve capire che “non esiste alcun dovere di autodistruggersi”, come viene detto in chiusura dell’intervista a Cicero, in relazione a una politica di apertura indiscriminata delle frontiere, con lo Sloterdijk che – a pagina 72 del libro che stiamo commentando – afferma che “se si considera il processo di globalizzazione su un ampio scenario, si evidenzia una situazione in cui non solo per motivi economici, ma anche in considerazione della responsabilità morale complessiva per il processo mondiale, dovremo lasciarci coinvolgere [nei processi di accoglienza dei migranti, NdA] in modo ancor più deciso di quanto non abbiamo fatto finora”, sarà il compito di chi vorrà occuparsi in futuro maniera tematica del pensatore tedesco, della sua politica, e delle sue aporie. 

 

Anche il saggio che dà il titolo alla raccolta si pone entro la scia delle descrizioni macrostoriche che abbiamo finora riportato. Per Sloterdijk, la domanda “che cosa ha caratterizzato il ventesimo secolo?” ha come risposta “la passione per il reale”. Si tratta qui, però, di un “reale” diverso sia da quello di Lacan, che da quello di Alain Badiou, da cui Sloterdijk riprende l’espressione “passione per il reale”. 

Il “reale” di Sloterdijk è il reale del capitalismo, vale a dire la costruzione del sistema occidentale di sgravio (e relativo miglioramento) delle condizioni di vita basato su un progressivo sfruttamento della natura. Questo ha portato all’idea contemporanea di libertà, intesa (come visto anche nei saggi precedenti) come assoluta mobilità e possibilità di impiego e dispendio delle risorse naturali. 

La parte centrale del libro sloterdijkiano è costituita da due saggi di tema filosofico, uno dedicato a Derrida e l’altro ad Heidegger.

 

Nel primo Sloterdijk gioca, in un sistema di specchi costruito ad arte, con Derrida, “decostruendolo” a suo modo. Il filosofo francese viene interpretato – prima – in discontinuità con il mondo filosofico antico, in cui la filosofia era un’arsmoriendi, mentre il francese per Sloterdijk si sarebbe fatto portavoce, invece, di una filosofia della sopravvivenza. Sloterdijk, poi, cerca di piegare in maniera duplice il filosofo di El Biar alla propria interpretazione: prima, ponendolo in correlazione con Freud e Bloch, descrivendo la decostruzione come una terza forma di “interpretazione dei sogni”, atta a smascherare le fragili imposture delle costruzioni metafisiche che hanno da sempre tentato di segnare il discrimine tra morte e vita, poi, sostenendo che Derrida – nell’ultima fase della sua vita – abbia abbandonato la decostruzione per un pensiero “dell’affermazione” (p. 138). Quanto l’interpretazione sloterdijkiana sia ermeneuticamente vicina alla lettera di Derrida – o meglio, quanto essa sia legittima – è difficile da dirsi. Quello che è però non si può negare è che il filosofo tedesco si veda in una relazione di continuità, di vicinanza estrema a Derrida, che lo pone addirittura nella condizione di fare del francese un pensatore dell’“imperativo immunitario” (p. 136).

 

La vicinanza che Sloterdijk sente nei confronti di Derrida appare chiara quando si leggono le ultime righe del testo come un appello che egli rivolge ai filosofi, e quindi anche a se stesso: “Derrida […] aveva riconosciuto la necessità di nuove alleanze della filosofia con la non-filosofia. A me pare che oggi dobbiamo proseguire in questa direzione. […] Dobbiamo tornare nelle strade e nelle piazze, riapparire sulle pages littéraires e sugli schermi televisivi, nelle scuole e nei festival popolari per restituire al nostro mestiere, il più lieto e il più malinconico del mondo, quell’importanza che, se meritata, gli spetta anche negli ambiti della vita extraccademica. Tantissima gente chiede, con un’urgenza che non s’era più vista da tempo, che cosa sia vivere bene e in modo consapevole. Chi crede di conoscere una risposta, o chi vuole rispondere ponendo una domanda alternativa, adesso deve farsi avanti e prendere la parola” (pp. 141-142). 

 

Il saggio su Heidegger politico fa da controcanto a quest’ultima citazione che chiude quello su Derrida. Heidegger, per Sloterdijk, è proprio quel pensatore che non è riuscito né a rispondere a questa domanda, né a porne una alternativa. Il motivo sarebbe che Heidegger è stato un pensatore politico da parte a parte, la cui politicità, però, è tragica, in quanto naufragata nel nazismo. Secondo Sloterdijk la politica di Heidegger andrebbe interpretata dal punto di vista della temporalità: da un lato, quella esistenziale, dall’altro quella storico-fattuale. La questione politica heideggeriana consisterebbe, dunque, nel tentativo di applicare ai collettivi la temporalità esistenziale che il filosofo di Meßkirch aveva tracciato per i singoli. D’altro canto essa sarebbe la fiera risposta di un pensatore vittima e (al contempo) alfiere del “pathos estremistico” (p. 175) proprio del suo tempo, che lo poneva in contrapposizione con l’idea che la storia fosse alle battute finali, come hanno sostenuto invece autori come Dostoevskij o Alexandre Kojève. Per Sloterdijk Heidegger fu nazista perché vide nel nazismo un modo, per una comunità, di contrapporsi alla fine della storia capitalistica, al regno del benessere massificato che renderebbe l’uomo un animale bolso e privo di passioni “costruttrici di storia”, incarnando così a livello sovraindividuale la temporalità esistenziale.

 

Quanto questo tentativo fu tragico è la storia a dirlo, e Sloterdijk ne sottolinea la pericolosità – e l’attualità – con la chiusura del suo pezzo: “Gli Europei dovrebbero sapere che non è più possibile parlare con persone che intendono fare la Storia. Se così stanno le cose, noi dovremmo cercare di spiegare ai nostri amici americani ancora ricettivi nei confronti delle argomentazioni, che non sono stati né Dio né l’Essere ad aver dettato a Bush i suoi discorsi e le sue guerre, ma autori che, alla luce della nostra esperienza, invitiamo a esprimere con chiarezza ciò che intendono dire” (p. 203). 

Il riferimento a Bush va da contestualizzare con il testo, che risale al 2005, ma ovviamente è oggi più che mai attuale.

 

I saggi Il Rinascimento permanente (pp. 149-167), Quasi una sacra scrittura (233-242), e Odisseo il sofista (204-232) testimoniano la passione tutta sloterdijkiana per la letteratura, da un lato, e l’acume e l’acribia dello storico della cultura nell’utilizzare tutti i documenti prodotti da una civilizzazione, nel tentativo di dare un quadro coerente del funzionamento di quella stessa civiltà, dall’altro. In questo caso l’operazione di Boccaccio nel Decameron, la figura poliedrica e pluridotata di Odisseo e la Costituzione tedesca sono solo tre aspetti della costruzione del singolo e dei collettivi in quello che noi siamo abituati a chiamare “il mondo occidentale”, quello che va dalla grecità a oggi: un mondo basato sull’ideale di un individuo che è in grado di diventare sempre qualcosa di più di quello che è (Odisseo), su un modello di società che sa creare sempre di nuovo gli strumenti per rinnovarsi nei periodi di crisi (sul modello del Rinascimento nei confronti del Medioevo, di cui il Decameronè espressione seminale), o che è in grado addirittura di rigenerarsi completamente dopo gli eccessi polemogeni che la hanno rasa al suolo (ad esempio attraverso la redazione di quel particolare tipo di testi sacri che sono le costituzioni degli stati moderni, in generale, e quella dello stato tedesco, in particolare, che aveva come scopo propugnare un’altra idea di politica e di umanità dopo il nazismo e la seconda guerra mondiale).

 

Chiude il libro un saggio dedicato alla rivalutazione del ruolo del sofista nel pensiero occidentale. Sloterdijk pone la figura del sofista in diretta continuità con Odisseo (che, non a caso, viene definito “sofista” già nel titolo del saggio a lui dedicato): vale a dire un uomo che non si arrende al proprio destino (sia esso quello di essere nato in una precisa posizione sociale, località geografica, disponibilità economica o altro), ma che fa di tutto per creare gli strumenti per cambiare, prendere in mano, modificare, influenzare la propria vita. 

Contro le metafisiche della rassegnazione di Platone, degli stoici e di Agostino, Sloterdijk vede nei sofisti, in Odisseo, e nei moderni che ne sono gli eredi, gli uomini che hanno “fatto”, e continuano a fare, l’Occidente come lo conosciamo: quelli a cui si rivolge l’imperativo rilkiano caro al pensatore di Karlsruhe, “Devi cambiare la tua vita”.

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Che Guevara guarda anche da morto

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Qualche tempo fa, guardando il Cristo deposto realizzato da Francesco di Giorgio nella seconda metà del Quattrocento mi è venuta in mente un’immagine drammatica di Ernesto Guevara, una fotografia in particolare, che documenta il volto con gli occhi e la bocca semiaperti, scattata poco dopo la sua morte. Pur avendo veduto numerosi Compianti e Deposizioni durante gli studi iconologici, mi sembrò curioso non aver pensato a un collegamento con altre opere d’arte o a confronti storico-artistici, ma che invece avessi pescato dalla mia memoria l’immagine del rivoluzionario argentino. Pensai che Mnemosyne a volte innesca qualche nesso che non si comprende all’istante ma più in là nel tempo. Qualche giorno dopo, tornato da Siena, cercai nella mia biblioteca un libro con le fotografie scattate da Freddy Alborta e da Marc Hutten al corpo morto di Guevara. Mentre sfogliavo le pagine con le foto dello pseudo-compianto dei militari boliviani, invece paragonai il corpo morto del Che con quello di Ettore sdraiato sotto il letto di Achille, come appare in alcune coppe attiche del V secolo a.C. (si veda: Achille con il corpo morto di Ettore, Tondo da una figura rossa attica, 490-480 a.C., Parigi, Museo del Louvre). Lo sfregio del cadavere mi aveva condotto al racconto omerico. A che cosa si deve questa persistenza dei gesti, questo ricorrente ritorno di un comportamento spontaneo che attraverso l’odio pensa che "i cadaveri dei nemici non sono in nulla diversi da quelli dei cinghiali” (F. Fortini)? Lo strazio del cadavere si esegue scientificamente per terrorizzare e dissuadere il nemico?

 

 

Freddy Alborta, Che Guevara morto, Vallegrande, 1967.


Il “Che” viene assassinato a sangue freddo o l’8 o il 9 ottobre 1967, il giorno dopo la sua cattura a La Higuera, in Bolivia. Il cadavere viene trasferito poi a Vallegrande, dove il maggiore Roberto Quintanilla mette in scena l’ostensione del nemico ucciso, sopra un lavatoio pubblico rurale. Il regime boliviano esibisce il corpo come un macabro trofeo. Lo espongono come un animale appena catturato e ucciso. I militari sembrano cacciatori che si mettono in posa attorno alla preda per esaltare la loro impresa. I generali René Barrientos Ortuño e Alfredo Ovando Candía – che hanno preso il potere nel 1964 con un colpo di stato – forse per accondiscendere al volere dei governanti degli Stati Uniti o dei vertici della CIA ordinano l’esecuzione sommaria del Che, avvenuta materialmente per mano del sergente Mario Terán. Secondo un’inchiesta pubblicata una decina di anni fa dal quotidiano argentino “Clarín”, è il presidente Lindon Baines Johnson a dare l’ordine di uccidere Ernesto Guevara, perché «si è ormai trasformato nel principale nemico comunista nella Guerra Fredda con l'Urss». Il dittatore Barrientos spera, allestendo un vero e proprio spettacolo, che il riconoscimento pubblico e ufficiale del nemico sconfitto lo legittimi politicamente.

 

Volto di Che Guevara morto.

 

Francesco di Giorgio, Cristo Deposto, seconda metà del XV secolo, Siena, Basilica dei Servi.

 

Ma il corpo esposto al pubblico gli si ritorce contro e fa accrescere il mito dell’eroe rivoluzionario in tutto il mondo. Barrientos aveva pensato di tagliare la testa di Guevara e di spedirla a Cuba, ma gli americani si erano opposti. Le mani vengono amputate per controllare le impronte digitali dopo la sua sepoltura. E le impronte sono confrontate da tre periti della polizia scientifica argentina, Nicolas Pellicari, Juan Carlos Delgado ed Esteban Holzhauer, inviati a Santa Cruz de la Sierra in missione segreta dal dittatore argentino Juan Carlos Onganía, su richiesta di Barrientos stesso, affinché possano provare al di là di ogni dubbio che il guerrigliero ucciso sia davvero Che Guevara.

 

Marc Hutten, Il cadavere di Ernesto Guevara in una fotografia scattata il 10 ottobre 1967 a Vallegrande in Bolivia.

 

 

I tre funzionari portano dall’Argentina l’impronta digitale di Guevara stampata vent' anni prima sulla sua carta d'identità. All'alba del 12 ottobre 1967, i tre periti confrontano l’impronta con quelle delle dita delle mani conservate in un vaso pieno di formalina e la calligrafia nel diario del Che. Grazie a questa missione segreta anche Fidel Castro si convince della veridicità della morte del suo compagno d’armi. In un primo momento, dopo la cattura e l’uccisione del rivoluzionario, l'esercito e il governo boliviano diffondono notizie false: dicono che è stato ucciso in combattimento, e che il suo corpo non esiste più. Barrientos è terrorizzato dall'idea di dover dare spiegazioni e che si presenti la possibilità di una richiesta di autopsia pubblica del Che o la richiesta ufficiale di ricomporre il cadavere del guerrigliero in un cimitero, per poterlo onorare. Però, dopo aver fatto sparire il cadavere, il governo boliviano si trova nella difficoltà di provare al resto del mondo che l'uomo deceduto in battaglia sia effettivamente il Che. 

 

Raffaello Deposizione borghese, 1507, particolare del volto di Cristo, Roma, Galleria Borghese.


Dopo l’ostensione, il maggiore Quintanilla farà tagliare le mani di Guevara, per portare il macabro trofeo ai suoi superiori. Quintanilla è colui che il 9 settembre 1969, a La Paz, guida il gruppo di poliziotti che uccide Inti Peredo. E anche in quell’occasione lo spietato ufficiale della sicurezza boliviana si fa fotografare con il cadavere di Peredo. I due rivoluzionari saranno poi vendicati da Monika Ertl – una giovane bavarese cresciuta in Bolivia, figlia di Hans Ertl, tedesco emigrato compromesso con il nazismo, un cameramen della regista Leni Riefenstahl – che il 1 aprile 1971 riesce ad uccidere Quintanilla, in un attentato nel consolato boliviano in Germania, ad Amburgo.

 

Lorenzo Lotto, Deposizione, 1509 ca., Jesi, Pinacoteca Civica e Galleria di arte contemporanea.


L’angela vendicatrice spara con una pistola procuratagli da Giangiacomo Feltrinelli attraverso la rete internazionale dell'ultrasinistra. A Vallegrande, Che Guevara viene esposto nella lavanderia dalle pareti azzurre, una sorta di sfondo che sarebbe piaciuto pure a Giotto per rappresentare pittoricamente una scena di compianto. Nessuno gli ha abbassato le palpebre, e in tutte le fotografie e nelle riprese appare con gli occhi aperti. Sarebbe stato un atto di pietà, ma questo gesto il regime boliviano non vuole farlo passare all’opinione pubblica e ai media. E poi il volto del Che deve essere riconosciuto chiaramente per non scatenare ombre di dubbi.

 

Gli occhi aperti forniscono un dato in più per coloro che devono analizzare le fotografie e le videoriprese in tutto il mondo. Interessa soprattutto che i giornalisti, i fotografi e i cameramen testimonino che l’uomo della Rivoluzione cubana è stato eliminato. Anche la bocca è leggermente aperta e lascia intravvedere i denti, proprio come nei visi di Cristo dipinti da Raffaello e da Lorenzo Lotto nelle scene delle deposizioni, o come nel volto di Gesù sdraiato nel sepolcro realizzato da Holbein il Giovane nel 1521. D’acchito tornano alla mente innumerevoli versioni dei volti e dei corpi di Cristo nei Compianti: i capelli lunghi e la barba, gli occhi e la bocca semiaperti, i piedi scalzi, il petto e le braccia scoperte per mostrare le ferite mortali legano le fotografie scattate il 10 ottobre del 1967 con innumerevoli opere pittoriche e scultoree della tradizione cattolica.

 

Crocifisso di Petrognano o di San Donnino, 1240-1245, particolare del volto con gli occhi aperti.

 

Crocifisso di Petrognano o di San Donnino,

 

Il collegamento Che Guevara-Cristo è stato fatto anche dalle infermiere di Vallegrande, che vennero chiamate per pulire il corpo dell’eroe argentino prima dell’ostensione pubblica: “Quando ci hanno portato il corpo non sapevamo chi fosse. L’hanno portato fra le 10 e le 11 del mattino. Ci dissero che sarebbe arrivato il Che Guevara. Non sapevamo chi fosse. Lo ricevemmo come qualsiasi altro cadavere. Quello che a noi infermiere e medici impressionò di più fu lo sguardo. Perché sembrava Gesù Cristo, coi capelli lunghi, la barba incolta e gli occhi. Ci spostavamo là, e lui ci seguiva… dall’altra parte… ci seguiva… il suo sguardo ci seguiva ovunque andassimo” (intervista a un’infermiera, tratta dal documentario Le ultime ore del Che, di Romano Scavolini, 2003-2004).

 

Freddy Alborta, Che Guevara morto, Vallegrande, 1967.

 

Sarcofago romano con scene della vita di Achille, 160 d.C. ca., Ostia, Museo archeologico ostiense.


Anche chi non ha studiato la storia dell’arte e non conosce le innumerevoli opere dedicate alla deposizione di Cristo coglie i fili misteriosi che collegano archetipi e immagini a distanza di secoli. Ma ancora prima di Cristo scene di compianti sul corpo di Ettore, di Achille e di altri eroi erano già presenti nell’arte greca e nei sarcofagi romani. Anche le fotografie di Freddy Alborta e di Marc Hutten, con il taglio e le scelte delle inquadrature, testimoniano una parentela iconografica con le scene relative al Cristo morto e ai compianti pagani, con la conseguenza di far scorrere piani diversi di associazioni che sono entrati nell’immaginario collettivo. A Vallegrande, i militari boliviani che si sono fatti fotografare con le armi e con le uniformi attorno al rivoluzionario defunto hanno involontariamente messo in scena un elemento teatrale-liturgico moderno, così che il cadavere sia ben visibile agli abitanti del paese, ai media e agli spettatori in tutto il mondo, per indurre una sorta di agnizione obbligatoria. 

 

Hans Holbein, Il giovane cristo morto nel sepolcro 1521, Basilea Kunstmuseum.


L’intento è compiangere il nemico irridendolo ritualmente. Le fotografie rimandano le immagini di un inedito Compianto beffardo degli ufficiali e dei militari sul Che morto. I militari boliviani non sapevano però che gli occhi aperti di Guevara rimandano alla tipologia del Christus triumphans (trionfatore sulla morte), che nel XII e nel XIII secolo è descritto in croce con la testa eretta, con gli occhi spalancati, rivolti ad attirare l’attenzione dei fedeli. L’uomo divino non pare patire il suo martirio, indifferente alla situazione drammatica.


Ha l'apparenza umana, resa con attenzione realistica, ma in realtà simboleggia l’immagine del sacro in sé. Come Gesù, Che Guevara guarda anche da morto, e rivolge il suo sguardo rivoluzionario verso le coscienze del futuro. Post mortem vede la resurrezione del suo mito. Trenta anni dopo la sua morte, nel giugno del 1997, i resti del Che vengono trovati e identificati da specialisti cubani e argentini. Portati a Cuba, sono collocati nel mausoleo di Santa Clara. Ma le mani non sono state più ritrovate. 

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Cinquant'anni dopo
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Matita

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Sfiato di ripensamenti – mente testa (punta?) 

o solo punto, lì dove si incrocicchiano le rette tra passaggi slargati mobili sopra la superficie: 

come una banderuola che si issa, puntata torre 

fissa per non cadere 

nello scivolìo sdrucioloso del punto, 

per non cedere all’orizzonte rotolante della retta.

 

 

Infine il vento ne ha spazzato la testa contro un muro gonfio di bianco

e poi grigio e tortora: 

 

spezzata 

 

dice di aver lasciato e di non ricordare… 

che voleva ferire con la punta… umile difesa

… d’asparago… sbuffante trafrittura…

 

e inganno lesto dirsi in mano d’altri, fingersi vento – “Presto!”, “Presto!” – distesa 

per esser sollevata senza frangersi – non corrotta o ridotta, 

immobile rincantucciata 

in sé sigillo, 

di una crescita che è solo alla rovescia e tende al niente.

 

 

Ma ogni punto-punta in fondo uguale, se accarezzasse l’idea di un infinito che sta nella sua coda 

e di un presente che incide superfici di cui non sa e rincalza 

col correre sperdendosi, 

così che anche “Qui, già” 

(e dov’è?!) 

si è fatto inganno. 

 

L’età bambina mossa in uno slancio fiero di lucida scorza apprettata e scintillante; morsa 

poi al lento scuotersi di dosso di smalti e metri; 

poi il tempo di cadute accidentali frattura dentro – e ben nascosto – 

finché scorzata non ne ridesti i mancamenti.

 

Pinocchiesca sì, se intendi: afferrata per la punta,

e un risolino che tintinna al ritrarsi della buccia dura.

 


 

“L’ho presa… l’ho presa!”... “L’ho persa...”

 

Così che a non ferirsi perdura, a non consumare, 

che a consumarsi restringe, vita già data al limite della sua lunghezza; 

e qui che sforzo e premo a scriver nomi e cose che disegno, e lei che forse preme a non far nulla: 

campa nella sua scorza, s’impunta, dura trattiene, 

si stancherà, esploderà dall’ozio...

 

E invece niente.

 

Sulla linea del prima lunga lunga 

il dopo lo attraverseremo insieme, pena del bianco che ammattito digrigna i denti 

al cono che striscia linee e che scalfisce col cratere molle del legno.

 

 

Effluvi di segni, bizzarrie, torsioni 

come a dover racimolare la propria inesattezza d’anima 

che si sperde.

 

Punta – ape-punta – che per difenderti vai morendo

e ti rigirano, ti sfogliano in spire di legno ballerine, tegumenti incoronati, regalità da gettare: 

come nastri rilasciati ritorte bucce.

 

 

Anima minata già in partenza

poi minata, per il troppo cascare, di fratture

 

e il maestro Vocegrossa: “NON SI PUO’, NON SI DEVE!” che recide il gambo intero,

spezza il legno, il cannello,

la cannula dura “VIA!” getta – non consumata – con l’anima trattenuta che cadendo e ricadendo 

ha franto il nerbo delicato – il cuoricino – che serba silenzioso le fatali spezzature 

in fondo al bozzolo chiuso di nessuna trasparenza.

 

 

Acquieta le paure, clessidra senza tempo: 

imprevedibile vuole solo passare, perdersi senza mente, dilungarsi sui campi e correre 

– lasciare lasciare – sibillino andare, sibillina traccia spensierata che ti specchi 

nello specchio opaco della superficie. 

Mi dici il niente lì dentro, lo scrivi con tracce di lumaca, 

lo sussurri 

con la linea che tutto sospende, un divagare che non si quieta.

 

Un tra che srotola se stesso nel mozzicone adamantino di un passaggio.

  

Mondo al contrario, contrario, tutto assopito nel cavo di un cilindro: 

un albero che si rotola e ridesta 

e per la testa spunta radici mobili e vaganti.

 

 

Punto che incalzi senza mai arrivare, ma qui già messo al bando da un quesito funesto: 

che arranchi nell’ozio astratto di un’attesa bellissima infinita

– punto invaghito di se stesso 

che nessuna grafite può fantasticare – 

o che imponga traccia a un corpo che dentro si consuma

e allora erra la fantasia di un punto-sbaglio fatto luogo, 

anche il più piccolo: 

un niente per il sogno eppure

vertigine di sguardo, 

messo davanti, straniero, consistente, bambino, 

così insensato scioglie le redini al suo apparire 

– nessuna mano consapevole nessuna punta –

ma eccolo nato, estraneo irraggiungibile (impossibile che da solo resti in piedi – scellerato!)

 

... estraneo, e non estraneo... 

 

Punto:

se mai lo riconosco, che riconosca me e che l’animi una matita pellegrina – 

anima-animamina – così che a riguardarlo ci si riconforti. 

Ma fitto nella punta, già discosta, e senza riconoscerci affoghiamo – il suo laccio un istante 

nel mare bianco

e nella sua risata ci sperdiamo.

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Una matita per l'estate
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Luciano Berio nel tempo e nello spazio sonoro

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Arriva in libreria Interviste e colloqui (Einaudi), il terzo e conclusivo volume degli scritti di Luciano Berio, figura fondamentale nella musica del Ventesimo secolo e non solo. 

Dopo i libri dedicati alle Norton Lectures e agli scritti musicali ecco riunito un gran numero di conversazioni rilasciate in Italia e all'estero dal compositore ligure tra il 1962 e il 2002. 

Questo quarantennio lo ha visto tra i protagonisti assoluti del rinnovamento musicale, un processo lungo e faticoso non esente da contraddizioni, che risaltano benissimo negli atteggiamenti di Berio rispetto ai fenomeni musicali sempre mutevoli attraverso gli anni. 

 

Certe dichiarazioni apodittiche che si leggono nei colloqui degli anni Sessanta sono del resto tipiche di tutta la generazione di Darmstadt e non dissimili dai coevi diktat di Boulez e Stockhausen su cosa dovesse essere considerato artisticamente valido e cosa no: fortunatamente la disposizione cronologica del libro (curato mirabilmente da Vincenzina Caterina Ottomani) ci permette di seguire fedelmente l'evoluzione del pensiero di Berio e la sua capacità di liberarsi dagli schematismi giovanili per abbracciare una visione dell'esperienza musicale assai più articolata e complessa, osservando con interesse le proposte che arrivano anche dal mondo della musica popolare e di consumo (non dimentichiamo che Berio, oltre ad aver composto Folk Songs, fu il primo ad analizzare le canzoni dei Beatles in un memorabile scritto pubblicato sulla Nuova rivista musicale italiana nel 1966, rifuggendo qualsiasi snobismo culturale). 

 

Un esempio tipico di questa flessibilità mentale è quello del giudizio di Berio nei confronti dell'opera di Steve Reich, suo allievo in California negli anni Sessanta e tra i fondatori della minimal music: nella celebre Intervista sulla Musica realizzata assieme a Rossana Dalmonte e pubblicata da Laterza nel 1981, il giudizio sul musicista americano è di totale e sprezzante rifiuto, mentre nella conversazione con Lorenzo Ferrero rilasciata nel 2000 per Il Giornale della Musica viene espresso un parere totalmente opposto su Reich, dove il rigore della sua scrittura viene apprezzato appieno. 

La capacità di tornare sui propri passi rivedendo il metro di giudizio non è comune tra i compositori e musicologi della sua generazione e dimostra una volontà di porsi in sintonia con il mondo che poche figure della sua statura intellettuale hanno avuto.

 

 

Per Berio l'ingrediente principale del pensiero è la curiosità: non solo la propria, davvero insaziabile e aperta a qualsiasi tipo d'ascolto, ma anche quella degli ascoltatori cui la musica si rivolge. Fondamentale per lui è la partecipazione “attiva” del pubblico, il fatto che un artista si debba relazionare con persone che rifiutano un ruolo passivo o semplicemente consumistico dell'esperienza musicale. 

La complessità di linguaggio non va intesa come un feticismo fine a se stesso bensì come chiave di lettura indispensabile per non soccombere a dei modelli culturali appiattiti sulle posizioni dettate dal mercato. 

 

I continui richiami a una musica che abbia diversi livelli di lettura sono una costante di tutto il pensiero di Berio, che attraverso i decenni vede mutare attorno a sé in maniera drammatica il mondo musicale. 

La sua passione per riunire i fili comuni di esperienze musicali apparentemente antitetiche o comunque molto diverse tra loro lo pone al centro di questo fondamentale momento storico in cui crollano le ideologie politiche ed estetiche che avevano dominato il mondo culturale per oltre mezzo secolo: l'esperienza musicale si scioglie in mille rivoli diversi, ognuno dei quali ha una propria direzione che va compresa e scandagliata senza cedere al rischio di semplificazioni. 

 

L'interesse sempre maggiore del pubblico per musiche altre, dal rock al jazz al pop, la nascita dell'estetica postmoderna (sempre rifiutata da Berio ma comunque da lui osservata con curiosità), la nascita di una generazione di compositori giovani che rifiutano il mondo delle avanguardie per cercare un tipo di diversa comunicazione con gli ascoltatori, tutto questo ridisegna a gran velocità la mappa del pianeta musicale internazionale e Berio è sempre in prima fila a registrare questi cambiamenti e a dialogare con essi, anche in modo polemico ma sempre evitando l'atteggiamento da struzzo che molti illustri protagonisti della musica hanno avuto nei confronti di tutto questo. 

 

Il continuo confronto con posizioni diverse dalle sue e la consapevolezza del momento storico presente lo stimola ad affrontare sfide sempre nuove, che vanno dalla collaborazione con Renzo Piano per la progettazione di nuovi spazi destinati all'utilizzo della musica (Auditorium di Roma) alla programmazione di festival che coinvolgono musicisti di stile diversissimo come Luca Francesconi e Ludovico Einaudi, arrivando negli ultimi anni ad ospitare nella programmazione dell'Accademia di Santa Cecilia musicisti come Elio e le Storie Tese o Francesco De Gregori. Non che questo fosse una novità per Berio, che fin dagli anni '70, attraverso un programma televisivo ormai leggendario come C'è Musica e Musica, aveva aperto le porte a figure musicali delle estrazioni più diverse sovrapponendole e facendole comunicare tra loro.

 

Le interviste che riguardano capolavori della sua produzione come Sinfonia e Coro mettono bene in risalto il continuo scandagliare di Berio alla ricerca di una sintesi suprema (e forse inaccessibile) tra differenti linguaggi e segnali culturali. 

Possiamo seguire passo dopo passo il lavoro del musicista, impegnato in un lavoro che lo porta a raggiungere vette straordinarie di ispirazione musicale in queste partiture oggi giustamente considerate imprescindibili per la comprensione del Ventesimo secolo ma che in realtà lo trascendono per entrare nel ristretto elenco dei capolavori assoluti della Storia musicale. 

Molto interessanti i dialoghi con figure assai vicine a Berio come atteggiamento culturale quali Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Tullio Regge, dove si capisce con chiarezza come il pensiero del compositore non veda mai l'esperienza musicale come fine a se stessa ma come un qualcosa che si pone perennemente in rapporto con altri saperi (dal teatro alla semiotica) e si nutre di questi. Del tutto estranea al musicista ligure, invece, la nozione dell'artista separato dal resto della società e chiuso nelle proprie rimuginazioni estetiche: per Berio l'artista è essenzialmente qualcuno che produce, che fa delle cose, non per niente si autodefiniva come un Homo Faber

 

La capacità tecnica, l'artigianato, la conoscenza degli strumenti con cui si vogliono esprimere le proprie idee (fondamentali il contrappunto e l'analisi) sono pilastri del pensiero beriano così come la diffidenza per gli autodidatti, per la sciatteria tecnica, per la mancanza di chiarezza progettuale, per le fumisterie grafiche o le musiche di facile propaganda politica. 

Questa “concretezza” di atteggiamento lo rende immune sia agli schemi mentali elitari delle retro/avanguardie che alla retorica populista di certa neosemplicità: le sue partiture si offrono al nostro ascolto senza arroganza né piaggeria, sono organismi complessi che dobbiamo certamente comprendere in modo non superficiale, anche attraverso il riascolto e l'approfondimento, ma che non si nascondono dietro barriere impenetrabili e narcisistiche di complessità autocompiaciuta. Chiunque si avvicini ad esse senza pregiudizi può ben presto apprezzarne la bellezza e profondità di pensiero.

 

Quando Antonio Gnoli, nel 2002, gli chiede del proprio rapporto con il pubblico Berio risponde: “Non mi condiziona: il pubblico non esiste, è una pluralità che ascolta in modo diverso, a partire dalla storia, dalla lingua, dalle circostanze: Ciò che piace a New York o trionfa a Milano può essere un fallimento a Roma”.

 

La capacità di coniugare passato e presente ha permesso a Berio di navigare attraverso l'intera storia della musica, ponendosi in relazione con figure come Mahler, Schubert, Monteverdi, De Falla, Verdi, Purcell, Mozart, Bach senza timori reverenziali e con approccio sempre costruttivo: non a caso nel 1998 dichiarava: “Inevitabile dialogare con il passato, tutti lo facciamo anche senza saperlo. Io lo faccio spesso in modo pratico, anziché meditare, magari scrivendo lunghi saggi, spinto da ragioni non solo puramente musicali, analitiche e magari critiche, cerco di instaurare un colloquio concreto con le esperienze del passato, convinto come sono che la storia non è solo cronologia, linearità e irreversibilità”. Questa capacità di muoversi liberamente nel tempo e nello spazio sonoro è ciò che rende indispensabile e immortale la produzione di questo grande compositore.

 

La lettura del volume è naturalmente consigliatissima non solo per avvicinarsi a una figura cardine della nostra contemporaneità ma come vero e proprio scrigno di suggestioni, pensieri, spunti critici da poter utilizzare per poter riflettere su cosa significhi oggi creare e pensare la musica.

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Interviste e colloqui
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La natura sociale del centro commerciale

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Ormai da tempo, le famiglie italiane vanno a fare la loro spesa settimanale in un centro commerciale. Nonostante la crisi economica sopraggiunta negli ultimi anni, questo infatti continua ad essere per esse il luogo d’acquisto ideale. È utile allora interrogarsi sulla natura di tale luogo. Storicamente, il centro commerciale è il risultato della sintesi dei precedenti modelli della galleria e del grande magazzino. La sua struttura è infatti generalmente costituita da una o più gallerie contenenti un grande ipermercato e decine di negozi, ristoranti, punti di ristoro e di divertimento. Si tratta anche di un incontro perfettamente riuscito tra due diversi modelli commerciali: quello pre-industriale del mercato, nel quale il rapporto di vendita era fortemente umanizzato e personalizzato, e quello industriale, nato con il grande magazzino e perfezionatosi successivamente con il supermercato e l’ipermercato. 

 

La formula del centro commerciale è nata negli Stati Uniti nel 1924, con il Country Club Plaza di Kansas City, e ha cominciato a moltiplicarsi negli anni Trenta, ma è stato soltanto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale che ha avuto una vera diffusione su tutto il territorio statunitense, in conseguenza dello sviluppo verso l’esterno delle città e della costruzione di numerose strade extraurbane. Il centro commerciale però si è imposto anche perché in molti sobborghi statunitensi privi di piazze e luoghi pubblici si è proposto come il vero centro della vita comunitaria. Sulla scia del notevole successo ottenuto nel territorio nordamericano, i centri commerciali si sono progressivamente diffusi negli ultimi decenni anche nel resto del mondo. Il più vasto attualmente si trova in Cina ed è il New Century Global Center di Schengdu, che occupa quasi due milioni di metri quadrati di superficie. In Italia, i centri commerciali sono arrivati in ritardo rispetto agli altri Paesi economicamente avanzati, in quanto hanno cominciato a diffondersi soltanto dall’inizio degli anni Novanta. Oggi però sono diventati oltre 600 e alcuni di essi sono anche di notevoli dimensioni. 

 

 

Inizialmente, il centro commerciale era molto semplice e progettato più pensando alle esigenze della distribuzione dei prodotti che alla sua qualità architettonica ed espressiva. La progettazione degli spazi interni si concentrava infatti principalmente nel cercare di facilitare la circolazione dei carrelli della spesa. In seguito però il centro commerciale ha dovuto cominciare ad attirare l’attenzione aumentando l’importanza della qualità del suo design e dei suoi elementi d’arredo (aree di relax con panchine, fontane, sculture, portici, chioschi, piante e lampioni). Si è avuto anche uno sviluppo delle attrazioni: bar, ristoranti, sale cinematografiche, parchi gioco, ecc. Insomma, un centro commerciale oggi, se vuole avere successo, deve essere in grado di offrire alle persone soprattutto degli spazi adatti per la socializzazione e il divertimento. 

 

È dunque ben diverso da quelli che qualche anno fa sono stati denominati «nonluoghi» dall’antropologo Marc Augé nel libro dal titolo omonimo (Elèuthera). Infatti, secondo questo autore, i grandi spazi commerciali contemporanei si contrappongono alla tradizionale concezione antropologica che considera il luogo come uno spazio fisico legato a una precisa cultura, cioè dotato di solide radici in un contesto sociale e storico ben determinato, e pertanto in grado di consentire quelle relazioni con il prossimo grazie alle quali ciascuna forma di identità, sia essa personale o di gruppo, può costituirsi e mantenersi stabile nel tempo. Augé ha sostenuto infatti che nei nonluoghi l’individuo è costretto a vivere in una condizione di solitudine e provvisorietà e che pertanto deve liberarsi completamente dalla sua identità personale, che può ritrovare soltanto al momento dell’uscita. Diventa cioè una sorta di anonimo viaggiatore che attraversa un territorio a lui estraneo. 

 

In realtà, in quelli che Augé ha chiamato nonluoghi l’individuo non perde la sua identità, la quale viene invece trasformata e resa adeguata ad una situazione che si presenta all’insegna del consumo. Perché se possiamo trovare oggi un tratto comune ai tanti e diversi nonluoghi considerati da Augé questo è senz’altro l’esplicita appartenenza alla cultura del consumo contemporanea. Il processo di espansione dei nonluoghi è infatti principalmente stimolato dalla sempre più urgente necessità per l’individuo di costruire e radicare la propria identità sociale soprattutto mediante l’impiego dei prodotti acquistati e delle loro marche. I criteri tradizionali di definizione sociale non funzionano più e soltanto attraverso l’identità posseduta da prodotti e marche gli individui possono collocarsi socialmente. 

 

I centri commerciali dunque sono in grado di produrre identità allo stesso modo dei luoghi tradizionalmente studiati dagli antropologi. Perché per gli individui, lungi dall’essere asettici e privi di socialità, sono altrettanto ricchi di significato dei classici luoghi antropologici. Certo, in essi la storicitàè di solito limitata, data la loro recente nascita, ma non è comunque assente, perché l’individuo si affeziona progressivamente ai nuovi luoghi del consumo, di cui impara a riconoscere gli spazi, i percorsi e gli ambienti di ritrovo. Soprattutto, però, ci sono l’identità e la relazione, gli altri due elementi che insieme alla storicità, secondo Augé, caratterizzano il luogo antropologico tradizionale. Il consumatore, infatti, è in grado di costruirsi delle paradossali identità temporaneamente stabili ma “nomadiche”, cioè legate al territorio sebbene non radicate in nessun luogo particolare. 

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Simone Weil: la forza, la grazia

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«Non resta / che far torto, o patirlo», diceva l’Adelchi morente di Manzoni. Aggiungendo subito, a chiosa, che «Una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi / dritto». Il «mondo» rifiutato da Cristo è interamente sottoposto alle leggi della sopraffazione. Niente e nessuno ne è immune, e chi si illude di esserlo sta tirando una coperta ideologica sulla nuda realtà dei fatti. Il massimo che possiamo fare è sospendere a tratti il dominio di questa fisica bruta, trovare un geometrico equilibrio tra le forze e tenere ferme le tensioni contrarie in un’ascesi contemplativa. Non si può cancellare la ferocia che ci governa, solo esercitarsi ad arrestarne provvisoriamente l’azione. Ma la sua natura è così travolgente che anche per fare questo occorre un miracolo. Bisogna venire investiti dalla grazia. La forza, la grazia: sono i due poli intorno a cui ruotano i saggi più importanti di Simone Weil. Qualche mese fa, sotto il titolo Il libro del potere e con una nota di Mauro Bonazzi, Chiarelettere ne ha riuniti tre: L’Iliade o il poema della forza, Non ricominciamo la guerra di Troia, L’ispirazione occitana.

 

Succede spesso, negli ultimi anni, che editori più o meno piccoli ripropongano queste pagine scarne e perentorie composte subito prima e subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale; e non penso sia un caso. Da quando è sfumata la speranza diffusa in una palingenesi sociale (e non importa qui discutere la sua fondatezza, negata dalla Weil con argomenti decisivi), ci ritroviamo davanti a un puro potere che può mostrarsi senza pudori, ma al tempo stesso fingere che il suo ordine coincida con la giustizia. Siccome tutti, nessuno escluso, siamo condizionati dalle credenze che la vita comune infonde giorno per giorno in ognuno, questa pedagogia priva di alternative ci persuade col suo ghigno che al di là dell’esistente restano appena velleità, fantasmi, chiacchiere. Così, come sappiamo da mezzo secolo, meno sembra possibile una rivoluzione o un mutamento radicale, più la Storia si traveste da immodificabile Natura. E allora, chi alle leve del potere è più vicino si convince che se è in quella posizione non lo deve anche a un intreccio di combinazioni imperscrutabile, ma soltanto ad alcune caratteristiche eccezionali che lo distinguono, appunto per natura, da chi si trova in basso ed è schiacciato dalla sventura; la quale a sua volta, per usare le parole weiliane, apparirà non il frutto di una serie di casi e di fatalità mai del tutto riconducibili a progetti o a doti umane, bensì qualcosa di molto simile a una «vocazione innata». In una società che, non importa quanto fantasiosamente, ritiene possibile un altro mondo storico, chi in quello presente non riesce a integrarsi può essere considerato come un’avanguardia, una prefigurazione monca del futuro; in una società dove questa fiducia evapora è solo uno sfigato – termine in cui, significativamente, la sfortuna diventa una qualità negativa del soggetto che la subisce.

 

Vivere sottoposti al regno della forza implica prima di tutto rimuovere verità del genere. Se infatti questo regno è così potente, è anche perché in fasi storiche come la nostra accorrono a fornirgli giustificazioni ideologiche molte delle intelligenze migliori, più attendibili e più scrupolose; mentre a ricordare che esiste uno iato, sebbene quasi invisibile, tra le differenze di natura e le differenze imposte dal potere, rimangono o un pugno di acrobati della dialettica o una vasta platea di retori davvero velleitari, di chiacchieroni e utopisti da bar o da tastiera. Questo però, come sapevano qualche decennio fa a Francoforte, contrariamente a ciò che si crede non dice nulla sulla legittimità dell’esigenza che balena nella loro oratoria degradata, perché la sua apparenza ridicola e deforme è la veste nella quale sempre vengono imprigionate le istanze sconfitte. Quando la pressione della forza è enorme, chi in quel momento è portato in alto dalla sua onda può scegliersi l’avversario a sua immagine, e sconciarlo fino a farne un relitto kitsch o un involontario comico da sagra. Ma specularmente, intanto, le intelligenze impegnate a ripeterci i loro inesauribili “se è così c’è una ragione, sveglia!”, non possono non rivelare al fondo l’ingenuità propria di tutti i cinici, che si illudono di poter calcolare e controllare ciò che non si controlla e non si calcola: cioè la realtà, che per definizione coincide con l’imprevedibile, con l’inatteso, e che prima o poi li prende in contropiede (sotto il cuscino dei perdenti si scopre spesso una copia del Principe, diceva Brancati). 

 

Capire perché le cose stanno come stanno è bene, e sfuggire a questa comprensione è segno di infantilismo; ma tessere l’apologia di ciò a cui va reso solo l’onore di riconoscergli che “è ciò che è”, trasformandolo in un “è perché deve essere”, asseconda un bisogno di rassicurazione altrettanto infantile. Chi vuole far tornare i conti con uno stridulo Gott mit uns dimentica quello che, secondo la Weil, il poeta dell’Iliade ha espresso nel modo più puro descrivendo la guerra, la situazione per eccellenza in cui il potere si mostra nella sua aperta crudeltà: ossia il fatto che nessuna diversità essenziale separa vincitori e vinti. La forza, anche quando li rende simili a tempeste in apparenza inarrestabili, non è mai un possesso dei guerrieri, ma una corrente che passa dal campo troiano a quello acheo, e viceversa, svilendo gli uomini a «cose» – fulmini gli uni, tronchi mozzati gli altri. E quando agli eroi capita la parte del tronco, della preda, «tremano» tutti, persino il grande Ettore. Eppure basta che la forza torni a sollevarli, ed ecco che la sua droga cancella dalla loro mente questo dato elementare. Allora si sentono di nuovo invulnerabili, oltrepassano il limite della tracotanza e sono punti dalla Nemesi – un concetto che, osserva la Weil, l’Occidente moderno non ha nemmeno più parole per esprimere. 

 

 

Dunque lo sguardo omerico è supremamente equo perché non veste di ragioni ciò che non lo merita. Nel poema, l’efferatezza di chi sta vincendo una battaglia non è mai soffusa di una luce apologetica, e nel lamento disperato di chi soccombe non si vede mai il tratto distintivo di un «essere spregevole». Come poi la tragedia attica, e come la cultura occitana (provenzale, romanica, catara) spazzata via nel XIII secolo dalle crociate, l’Iliade ci mostra secondo la Weil una civiltà eccezionalmente consapevole del dominio della forza, e insieme indisponibile a identificare questo dominio con la giustizia. «Solo se si conosce l’imperio della forza e se si è capaci di non rispettarlo è possibile amare» ed essere giusti, conclude la pensatrice francese. Il contrario della forza è l’amore, che nei versi omerici avvolge tutto ciò che è vulnerabile e minacciato dall’annientamento. Ma accedere a questa forma di amore, come si è detto, richiede una capacità sovrumana: appunto perché il mondo umano appartiene alla forza, che quando ci innalza ci acceca, additandoci il miraggio di una realtà senza ostacoli e illudendoci di essere onnipotenti, mentre quando ci schiaccia giù a terra, in una servitù da cui sembra impossibile immaginare una liberazione, ci strappa la «vita interiore» e cancella in noi ogni sentimento. 

 

In questi saggi la Weil si sofferma anche su un altro punto cruciale, che riguarda proprio la copertura ideologica dei rapporti di forza. Siccome il potere si posa sull’uno o sull’altro uomo con un’ampia dose di arbitrio, rendendo radicalmente diversi i destini di individui radicalmente simili, chi vuole mantenerlo senza suscitare rivolte deve saper occultare questo arbitrio e razionalizzarlo. È così che intorno alla forza, fingendosi sua causa, si diffonde l’aura illusoria del «prestigio», che gli uomini scambiano per qualità innata mentre è l’effetto di un contesto determinato, di un provvisorio gioco di luci i cui riflessi tendono però a moltiplicarsi illimitatamente. Qui forse non è inutile ricordare la nazionalità di Simone Weil, dato che la Francia è stata nel mondo moderno il paese più socializzato, quello dove i fantasmi impalpabili ma pervasivi delle identità pubbliche sono penetrati in ogni spiffero dell’esistenza. Né è certo un caso che sia stato un altro francese, pochi anni prima di lei, a eternare letterariamente questi fantasmi nella mappa più ramificata e ricca d’implicazioni che ci sia mai stata fornita. «Solo chi è incapace di scomporre, nella percezione, ciò che a prima vista sembra indivisibile, crede che la situazione faccia corpo con la persona», ha scritto Marcel Proust, che attraverso i molti strati della sua Recherche avvicina all’esperienza quotidiana le essenze platoniche weiliane.

 

L’analisi dello snobismo, cioè, secondo il critico americano Lionel Trilling, dell’«orgoglio a disagio» di chi non è mai sicuro della propria identità, è appunto l’analisi degli equivoci creati dal «prestigio». In un universo come quello borghese, dove non esistono più ruoli fissi e garantiti da ordini aristocratici o da fedi soprannaturali, questa precarietà è fisiologica; e il romanzo, col suo dinamismo, è nato per rappresentarla. Ma di solito i romanzieri, anche i più estremisti, portano gli equivoci a uno scioglimento: o sotto la loro superficie abbagliante si rivela una certezza solida, inconfutabile, oppure questa superficie diventa il segno di una metafisica, arcana indecifrabilità, cioè in fondo di un’altra certezza, seppure di segno negativo. Proust, invece, dimostra che l’equivoco è la sostanza stessa, la stoffa onirica e fantastica di cui è fatta la pretesa identità di ognuno: una sagoma destinata inevitabilmente a variare a seconda delle luci che il luogo, ma soprattutto il tempo, l’immaginazione e i sentimenti personali o collettivi le proiettano sopra. L’ambiguità, in questo senso, è senza fine. La magia dei nomi trasfigura di continuo la materia, e la materia fa cadere a un tratto il sipario di una convenzione, di una magia effimera. La gelosia stabilisce ragnatele finissime, e non si sa mai se abbia occhi straordinariamente acuti o se straveda. Ogni gesto, ogni parola, ogni episodio racchiudono un gomitolo di equivoci che si intrecciano e si divaricano nel tempo. Volgarità e finezza, bontà e perfidia, onorabilità e impresentabilità, prosaicità e fascino esclusivo, provincialismo grottesco e talento supremo, filisteismo e regalità si scambiano ovunque le parti, e toccano tutti i principali caratteri di questo romanzo di romanzi: Saint-Loup, i Verdurin, Morel, Charlus, Swann, i Guermantes, Rachel, Odette, Bergotte, Albertine, Vinteuil, Cottard, Elstir… e ovviamente il narratore. 

 

Col prestigio, col potere e con i ruoli di vittime e carnefici, questi personaggi cambiano la loro stessa pelle. Ma se è così, non hanno ragione i lodatori di ciò che appare, di ciò che è in quanto s’impone? Non basta, per approvarli senza riserve, imprimere un po’ di mobilità eraclitea al loro troppo statico sistema panglossiano, al loro hegelismo mummificato e andato a male? Quale identità nuda o profonda ci resterebbe in mano da difendere, al di là delle mutevoli maschere sociali? Esiste forse là dietro un volto, un noumeno che non sia un’astratta, umanistica petizione di principio? Difficile crederci: soprattutto oggi che siamo tutti più socializzati dei vecchi francesi, essendo social e tendendo a una assai più totalitaria indistinzione di intimità e pubblicità. In quel vorticoso primo Novecento, tra Proust e Weil, un altro francese ha messo in bocca a un suo personaggio teatrale una risposta disinvoltamente contraddittoria. «Non state confondendo la gloria e l’amore? Amereste Giocasta se non regnasse?», chiede Tiresia a Edipo nella Macchina infernale di Cocteau. «Domanda stupida e ripetuta mille volte», ribatte il marito e figlio della regina di Tebe. «Giocasta mi amerebbe se fossi vecchio, brutto, se non sbucassi dall’ignoto? Credete che non ci si possa buscare il mal d’amore toccando l’oro e la porpora?». Ma poi aggiunge che «I privilegi di cui parlate non sono la sostanza stessa di Giocasta e aggrovigliati così strettamente ai suoi organi da non poterli disunire». La scena è interessante anche perché qui, come altrimenti in Proust, la politica, cioè il campo per eccellenza del potere, fa tutt’uno con l’amore.

 

Ma non è, s’intende, l’amore soprannaturale che per la Weil sta sull’altro piatto della bilancia rispetto alla forza. Eppure anche di questo amore è fatto l’amore umano. Chi, che cosa amiamo dunque davvero? È il nostro amore separabile dal prestigio? All’alba della modernità, in una Russia infranciosata, il romantico e ironico Aleksandr Puškin ha lasciato nell’Onegin una immagine memorabile della divaricazione tra società e verità su cui è fiorita la nostra cultura. «In quel tempo, in quel deserto, / Lontano dal pettegolezzo, / Io non vi piacqui: questo è certo… / E dunque mi inseguite adesso? / Che cosa a voi mi pone in vista? / Non forse il fatto ch’io apparisca / Per il mio rango in società; / L’esser di ricca nobiltà; / O il marito che in guerra è stato / Ferito e alla corte è in favore? / Non forse che il mio disonore / Da tutti sarebbe osservato, / A voi nel bel mondo recando / Un lusinghevole vanto?», domanda malinconicamente Tatiana a Eugenio verso la fine del poema, dopo che lui l’ha prima tenuta affettuosamente a distanza, moderando il suo dongiovannismo, quando era una semplice ragazza di campagna, e poi l’ha ardentemente corteggiata quando l’ha vista muoversi da dama impeccabile tra i ricevimenti pietroburghesi. 

 

Non so chi potrebbe rispondere alla domanda di Tatiana. Quanto è grande, specie in un mondo più che mai socializzato, la dose di desiderio mimetico che ci entra in circolo? Quanto influisce sui nostri atti il prestigio, questo vestito imperiale della forza? Se esistessero confini visibili o palpabili tra un’essenza e un’apparenza, combattere sotto l’insegna di una delle due riuscirebbe relativamente facile. Sarebbe lecito pensare a una lotta di princìpi, confidare in un mutamento progressivo che a poco a poco conduca a esiliare dal mondo la forza magnetica e menzognera del prestigio contrabbandato per cosa salda. Invece il mondo è strutturalmente suo. Perciò una tale etica è ritenuta insufficiente dalla platonica Simone Weil, e contemporaneamente anche dalla sensuale Etty Hillesum. Solo il riconoscimento di questa realtà, la sua accettazione senza risarcimenti e la contemplazione della forza possono sospenderla, tenere in miracoloso equilibrio la bilancia.

 

E sì: noi siamo anche i nostri privilegi, gli ori e le porpore di cui non potremmo mai dire, senza apparire tracotanti di fronte al fato, di esserceli guadagnati da soli. Eppure, c’è chi alle origini della nostra civiltà ci ha mostrato uomini spogliati di tutto ciò: uomini ridotti a cose passive, resi schiavi o annientati da uomini ridotti a cose ciecamente attive come catastrofi naturali. Chi amerà questi nudi? Chi rimarrà vicino a un corpo, a una voce, a un volto totalmente privati di prestigio e di potere? Chi sopporterà di stringere esseri che basta un soffio a cancellare dalla scena, e che non sembrano avere più alcuna dignità umana? Noi tendiamo a immaginare la sventura in chiave eroico-hollywoodiana, a incastonarla in una sequenza in cui lo sconfitto mantiene intatto il suo fascino, la sua forma socializzabile di uomo. Ma proviamo a immaginare invece la vera sventura, cioè una condizione in cui tutte le nostre coordinate vacillano come nel Vangelo vacillarono i discepoli durante la Passione. Immaginiamo una situazione dove ogni circostanza sembra dare ragione al mondo che umilia lo sventurato. Immaginiamo il momento in cui la sventura arriva a toccare l’ultimo strato dell’identità della persona che diciamo di amare – il momento in cui, senza che questa persona si sia inconfutabilmente macchiata di una colpa, le sue attrattive si mutano in un motivo di imbarazzo, di smarrimento o di nausea, in una specie di vergogna senza nome. Immaginiamo tutto questo, e la domanda ci farà tremare.

 

Forse di una tale figura nuda, senza protezioni sociali e senza neppure il marchio di una minoranza esclusa ma riconosciuta, non si può predicare nulla. Forse si può dire solo che l’uomo è più di tutto il suo prestigio, di tutte le qualità in cui i «privilegi» si mescolano ambiguamente agli «organi». Ma questo più non si può descrivere. Come l’anima, si può cogliere solo con un atto di fede. E proprio dalla fessura che lascia tra sé e il resto passa la grazia. È da lì che soffia l’amore trascendente, incondizionato, assoluto: l’amore senza il quale, diceva Denis De Rougemont occupandosi dei provenzali negli anni della Weil e in modi per molti versi opposti, siamo destinati a cadere in un romanticismo calcolatore che non troverà mai un oggetto su cui fermarsi, perché ci sarà sempre qualcosa di più attraente a meritare l’innamoramento. 

Solo una decisione mai giustificabile, che è poi il contrario di una facoltà d’opzione, può arrestare questa fuga nell’illimitato. Un decennio prima, montando le tessere del suo discorso sulle Affinità elettive e il matrimonio, Walter Benjamin lasciava intravedere una prospettiva molto simile. 

 

Credo che il saggio della Weil sull’Iliade sia uno dei due massimi capolavori della saggistica filosofica del Novecento. L’altro, non unilaterale e spoglio ma tormentosamente dialettico, va sotto il titolo di Minima moralia. Negli aforismi della raccolta adorniana si trova una frase che può stare accanto alla conclusione weiliana: «Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza». Il mondo, però, ci consegna un’ingiustizia ulteriore. Di solito si aderisce alla forza là dove la pressione collettiva è troppo intensa rispetto alle convinzioni che potrebbero farci resistere alla sua piena: cioè quando a propria volta, come carnefici, ci si trova in una condizione di debolezza, quando non si è abbastanza sicuri della propria comprensione delle cose da poter rimanere saldi in mezzo alla tempesta insieme a chi è rimasto nudo (la pressione consiste spesso in un sottile gioco di suggestioni atmosferiche incrociate, ma chi voglia vederne rappresentati i tratti più elementari e irresistibili può pensare al Bube di Cassola spinto a picchiare il prete Ciolfi, o al giovane ufficiale Eric Blair, alias George Orwell, accerchiato dalla folla birmana che esige di vederlo abbattere un elefante). Non è questa l’ultima ragione per cui il mondo ci chiude la bocca impedendoci di dire a ogni passo “non è giusto”, e quasi assimilando il nostro comportamento a un fatto di natura. Ma appunto, quasi. Resta quella fessura. Di cui nessuno si può appropriare senza tradirla, ma che nessuna forza può ridurre a sé. 

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Caporetto cent'anni dopo

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La prima volta che siamo arrivati a Caporetto per i sopralluoghi fu due estati fa. Era già stata una sorpresa, per me, scoprire che non stava più nemmeno in Italia, quel luogo così proverbiale per noi. Si trova in Slovenia adesso, e si chiama Kobarid. È un piccolo borgo, tipicamente attraversato da una via principale che si allarga su una piazzetta che a sua volta si biforca in due strade. Una porta a Tolmino, fuori dal paese. L’altra al Museo della Guerra e al Sacrario.

 

Mi aspettavo un luogo cupo, pieno di segni e di riferimenti al Grande Evento. Niente di simile. La giornata, radiosa, illumina un paese tranquillo e immemore. L’unico segno “bellico”: un mucchio di sacchi di sabbia e un finto mortaio che servono da decorazione al dehors di una birreria. Per il resto, nulla di eroico o retorico. Anzi. Insieme ai ristoranti e ai caffè, solo vetrine di agenzie che organizzano trekking, escursioni in bici o discese di rafting lungo l’Isonzo le cui acque, qui, sono meravigliosamente verdi e brillanti. In giro circolano cicloamatori con le loro surreali maglie iridescenti; e turisti che si godono il sole in braghette e canottiera. Penso che sia una delusione, la mediocrità balneare in un luogo così simbolico. Ma poi penso un’altra cosa, che è probabilmente una riflessione disarmante quanto l’idea che prospetta: com’è banale la pace, com’è suggestiva la guerra. Perché la pace è questa cosa qui, gente scamiciata che si gode la vita senza pensieri, in una giornata non memorabile, nell’assoluta normalità. Sì, come è banale tutto questo; come è fragile; e come è facile perderlo per qualche Grande Idea.
Poco dopo guarderò a lungo l’enorme riproduzione di una fotografia di un gruppo di soldati italiani in trincea che sta all’ingresso del Museo. Facce di uomini che tra poco, probabilmente, saranno massacrati e passeranno alla Storia, seppur in modo anonimo, sotto l’etichetta di caduti, dispersi, reduci. Ma per il momento se ne stanno lì, in una giornata che dalla luce non sembra dissimile da quella odierna, con il sole che scalda e nessun pensiero importante da offrire ai posteri; se non la speranza di poterla vedere ancora da vivi, quella fotografia che stanno scattando ad uso ufficiale.

 

 

A Caporetto ci sono poi tornato più di una volta per girare un film, Cento anni, che sarà presentato al Torino Film Festival e uscirà in sala il 4 dicembre distribuito da Lab80 Film. Lo si può considerare l’ultimo capitolo di una trilogia di documentari che ho girato in questi anni sulla storia italiana, tutti sceneggiati con Giorgio Mastrorocco. I primi due sono stati Piazza Garibaldi (2011) e La zuppa del demonio (2014). È stato Giorgio a offrirmi l’idea per Cento anni, pensando, già tre anni fa, al centenario di Caporetto che si avvicinava. La questione che Giorgio poneva era chiara e intrigante: perché noi italiani, nella storia del Novecento (ma non solo), abbiamo sempre avuto bisogno di una catastrofe per mobilitare le energie migliori del paese? In altre parole: perché, sempre, Vittorio Veneto deve essere preceduta da Caporetto? Tanto è vero che quella parola – Caporetto – è entrata nel lessico comune, mentre quell’altra, il toponimo della vittoria, no. La verità sta nella “necessità della tragedia”, immanente al nostro carattere nazionale. La tragedia necessariaè non a caso il titolo di un libro di Mario Isnenghi su Caporetto e sull’8 settembre.


Ecco allora che la sconfitta (ma anche la susseguente, necessaria riscossa) è il filo rosso che lega nel film quattro storie dal 1917 a oggi. Naturalmente, però, tutto parte da lì, da quel disastro militare e civile, spesso narrato solo mettendo in primo piano i giorni di ottobre e dimenticando l’anno di occupazione successivo. Perché questo fa impressione, se solo si guarda una cartina. La distanza tra Caporetto e il Piave, leggendaria linea di resistenza italiana. Sono 160 km di sfondamento del fronte, un’enorme fetta di territorio nazionale che per un anno finisce sotto controllo austriaco, con terribili conseguenze dal punto di vista civile e sociale, pochissimo studiate nel secolo a venire. Basti un’osservazione. Mentre le truppe nemiche invadono il Friuli e il Veneto, la quasi totalità dei sindaci scappa, mentre pressoché tutti i preti restano. Chi è il vero patriota? Quello che è fuggito per sottrarsi alla cattura e al collaborazionismo; o quello che è rimasto per soccorrere la comunità (sostanzialmente i contadini) che non hanno potuto scappare?


Ma tutto questo sembra lontano in queste giornate di sopralluoghi. Difficile immaginarsi gente intenta a scannarsi in mezzo a una natura così ridente. Così come, salendo in cima al Kolovrat, dove sono conservate le trincee delle linee difensive italiane, sembra assurdo immaginarsi delle frontiere. Le frontiere stanno nella storia degli uomini, non nei confini della natura.
Sul Kolovrat ci torneremo a girare in inverno; e sarà tutta un’altra cosa. Tira un vento polare e, nonostante i nostri confortevoli capi tecnici, geliamo. Inevitabile pensare ai nostri fanti vestiti con le uniformi prodotte a basso prezzo dagli appaltatori, le scarpe di cartone, il cibo di bassa qualità. Eppure che incredibile fucina di identità deve essere stata la guerra di trincea. Qui nulla ti aiuta se non la solidarietà dei tuoi simili. Ma è anche facile capire che per chi vive una situazione così estrema, la catarsi non viene con la pace, ma è qualcosa che deve fare i conti con il dopoguerra, con la necessità di dare un senso alla carneficina di cui si è stati insieme vittime e autori.

 

Il sacrario di Caporetto è il primo di una serie di ossari che visiteremo. Non è particolarmente imponente né spettacolare, al contrario di quelli di Oslavia, di Nervesa o di Redipuglia. Naturalmente non sfugge alla retorica patriottica di tutti i monumenti del genere costruiti dal fascismo. Scopriremo più tardi, per caso, parlando con la console italiana di Capodistria – che si occupa della manutenzione – che il problema del sacrario è di essere stato costruito con materiali scadenti, per cui ogni tanto le lapidi si staccano, con conseguenze pericolose per i visitatori. Ironia del destino, ma molto italiana, che, celebrando i caduti, gli imprenditori fascisti lucrassero sulla loro memoria.


D’altra parte, anche a Oslavia la vòlta che copre il corpo centrale dell’edificio è sbrecciata. Gli uccelli ci si infilano dentro e volano con veloci planate tra le lapidi, emettendo un sibilo stridulo. I pochi colpi d’ala echeggiano nel grande spazio vuoto. Quando torneremo a girare, un anno dopo, troveremo tutto riparato e pulitissimo. La lucidatrice industriale della ditta chiamata al lavoro sarà ancora lì, calda, dietro un angolo. Potere del cinema. O, in generale, delle pubbliche relazioni.
I sacrari della Grande Guerra rivelano molto del carattere nazionale. Sono monumentali, costruiti – per così dire – a lettere maiuscole, come certe frasi del duce incise su muri. Ma sono anche architettonicamente affascinanti, luoghi che incutono rispetto. Chi li ha progettati l’ha fatto con passione, al netto della committenza istituzionale. E se li visiti con animo aperto, lasciando perdere le manipolazioni ideologiche, non puoi non rimanere colpito dal sentimento che ispirano. Quando, a Oslavia, alla fine di un lungo, cupo corridoio il visitatore si affaccia a una cripta circolare fiocamente illuminata e scorge una grande lapide che copre i resti di “12.000 ignoti” non può non sentire un sentimento di sgomento, compassione, ma anche (e sono consapevole delle implicazioni della parola) di orgoglio. Non certo l’orgoglio militaresco e sbruffone del fascismo, ma il senso di appartenenza a un popolo, come il nostro, capace di una resilienza silenziosa e tenace.


Forse il pensiero che ti resta più addosso uscendo da questi luoghi è: ne siamo ancora capaci, nel nuovo millennio? Oppure la “mutazione antropologica”, acceleratasi nell’era digitale, ha sradicato questa pazienza millenaria, capace di ribaltare mille volte il destino della nazione? Non a caso la Caporetto che stiamo vivendo oggi è una Caporetto crudelmente radicale: quella demografica. Non sta scomparendo solo il carattere italiano, stanno scomparendo gli italiani. L’ultimo capitolo di Cento anni, infatti, si svolge al Sud, nelle aree interne appenniniche in via di spopolamento, quelle raccontate nelle pagine di Franco Arminio; che, infatti, ci farà da guida.


Così prende una strana risonanza l’ultima immagine di quella prima giornata di sopralluoghi. Pernottiamo a Pulfero, l’ultimo paese italiano prima della frontiera. Un borgo tranquillo, sulla riva del Natisone. La chiesa, il municipio, l’immancabile monumento della Grande Guerra, metà case abitate solo d’estate. C’è un vecchio albergo a conduzione familiare, comodamente ristrutturato, dove si mangia benissimo. Dall’altra parte del fiume, un piccolo emporio. L’unico rumore, quello della corrente. Ma all’improvviso, spuntato dal nulla sul piccolo ponte di ferro che unisce le due rive, ecco un giovane africano. È affacciato alla spalletta, sembra che stia guardando verso il fiume: ma in realtà sta osservando il suo cellulare. Gli passiamo accanto. Sul display del cellulare c’è un video di musica del Mali.
Le note, una nenia esotica, rimbalzano lente all’ombra delle montagne dietro Caporetto.

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Impresa culturale: datti una regolata!

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Se esiste un’impresa culturale, figuriamoci se non si può parlare di una cultura (giuridica) dell’impresa culturale. Il che significa parlare di regole istituzionali e sociali, formali e informali, ortodosse o atipiche, convenzionali conformiste controintuitive che siano. A patto che da qualche parte si veda un’impresa, a maggior ragione se fa parte di un più ampio tessuto connettivo, si tratta di reti cognitive, hub innovativi, distretti culturali, filiere produttive o mercati comuni. Ha senso discuterne proprio perché è tale appartenenza che perlopiù si riscontra, a partire da un esercizio professionale di attività economiche organizzate al fine della produzione di beni o servizi (ossia di impresa: art. 2082 c.c.). Sicché, per un giurista che abbia a cuore la sostenibilità delle attività culturali, specialmente creative, – ciò che significa garantire loro libertà di mezzi, fini e contenuti – è inevitabile occuparsi di modelli organizzativi interimprenditoriali: cioè di impresa e di sistema. Impresa…non semplice, d’altronde a questo serve il diritto dell’economia. La partita è complicata ma va giocata. Ne parlavo qui.

 

L’imprenditorialità culturale ha caratteristiche tutte sue: si sviluppa tipicamente all’interno di filiere produttive, organizzandosi secondo le regole del diritto privato, e al contempo subisce le influenze della filantropia finanziaria pubblica e privata. Inoltre, si avvale dell’indirizzamento e del sostegno delle fondazioni e gode di agevolazioni nazionali e comunitarie. La progettualità che essa manifesta discende dalle strategie proprie di gruppi societari, reti di imprese o distretti industriali, dalla pianificazione culturale proprie di amministrazioni locali o settoriali, sia pure basandosi primariamente sull’estro innovativo individuale e su fondamenta creative, le cui espressioni iniziali hanno spesso carattere artigianale. Le finalità di gran parte delle iniziative creative sono, a loro volta, private e pubbliche, ma in larga misura socialmente condivise, e (quasi) tutte meritorie. Elemento questo che sollecita l’adozione di modelli di organizzazione, e sistemi di governo societario (corporate governance), rappresentativi di una pluralità di contributori e apportatori di interessi (stakeholders). Nella maggior parte dei casi, infine e purtroppo, si riscontra la frequente difficoltà di autori/creatori/innovatori, e delle loro imprese, di raggiungere una condizione di autonomia finanziaria nella produzione dei beni e servizi che costituiscono l’offerta culturale.

 

Queste caratteristiche – modalità collettiva della realizzazione di opere dell’ingegno, pluripartecipazione ai modelli di governo societario e interimprenditoriali, problematica sostenibilità finanziaria dei progetti artistici e innovativi – derivano tutte dalla natura immateriale delle risorse utilizzate per esercitare attività creative di contenuto culturale. Ce lo insegnano gli economisti della cultura, spiegando che: (1) si tratta di risorse di cui è inizialmente complesso o costoso appropriarsi; fatto che (2) incentiva una ricerca intersoggettiva di raccolta del patrimonio intellettuale, il cui successivo utilizzo può dar luogo (3) a forme di opportunismo postcontrattuale (cioè di approfittamento del soggetto economicamente più forte) e (4) a fenomeni di arroccamento cognitivo attorno alle risorse acquisite; (5) il cui ultimo, ma non meno rilevante effetto, può manifestarsi nel condizionamento del contenuto stesso dell’offerta culturale, se la sua pianificazione è subordinata alla convenienza di ottenere finanziamenti per valorizzare le iniziative realizzate e massimizzare il guadagno conseguibile dal loro collocamento sul mercato, anziché dalla più rischiosa alternativa di programmare e intraprendere innovazioni ulteriori; anche quando si prescinde (6) dal computare il filtro spesso conformista apposto dagli intermediari (critici d’arte, consulenti, mecenati, eccetera), oltre che (7) dalle logiche abitudinarie che nella stessa direzione possono muovere le istituzioni politico-culturali, se per una ragione o un’altra preferiscono, anziché aggiornarli, consolidare gli schemi di organizzazione e di comportamento delle imprese che sfruttano le medesime risorse cognitive e sono soggette a regole comuni.

 

L’impostazione che condivido è che la creatività artistica e innovativa si sviluppi sulla base di un processo non atomistico ma consequenziale, che conduce a sbocchi non solipsistici ma culturalmente relativi, socialmente condivisi, e – per fortuna ma non per caso – replicabili. Il “salto intuitivo”, da cui l’apporto creativo ha luogo, è esclusivamente individuale, certo, e gli esiti di tale sbocco sono diversamente apprezzabili (o disprezzabili). Ma sotto il profilo cognitivo, che viene per primo, mi convincono gli argomenti secondo cui la creatività non può riassumersi solo nell’istante e nell’atto di comprensione e ideazione da parte dell’autore. In un saggio dell’anno scorso  ho apposta indagato le dimensioni endo ed eso-imprenditoriali di diffusione della creatività. Insomma, la prospettiva che ho adottato, trattando di regolazione delle imprese culturali, è che il processo creativo sia spiegabile muovendo in un alveo mediano tra l’approccio riduzionista e l’approccio meccanicista, a cui usualmente si ricorre per spiegare i meccanismi di manifestazione della creatività, e si rafforzi grazie al contributo di fattori sia originali, sia incrementali. Questa opinione trova importanti conferme nelle scienze economiche e sociali che, prestando attenzione ai fenomeni dell’imprenditoria innovativa, studiano da tempo e con convinzione i processi sinergici e multifattoriali, sviluppati in contesti di co-opetition, proprio per rappresentare i meccanismi più efficienti e sostenibili di moltiplicazione della creatività.

 

 

In altri termini, ma per ribadire lo stesso concetto, credo necessario parlare congiuntamente di innovazione e di imprenditorialità, dato che questa combinazione, meglio di altre, può contribuire a diffondere modelli, specialmente reticolari e distrettuali, per la realizzazione di attività collettive di natura creativa. Tanto la prima quanto la seconda si affidano spesso a relazioni reticolari tra una molteplicità di soggetti, pubblici e privati, e al sostegno non solo finanziario, ma politico, strategico e imprenditoriale, del tessuto economico-sociale, al cui coordinamento giovano strumenti di programmazione negoziata (sia negoziali, sia istituzionali), volti a favorire la costruzione di consenso su obiettivi comuni, la definizione delle principali regole operative, i meccanismi di risoluzione di eventuali controversie: tutta roba giuridica. Ma l’elemento che rileva prima e forse più di così si colloca pur sempre a monte di tale esito organizzativo, e attiene anzitutto al piano cognitivo.

La riflessività regolativa, di cui mi occupo da tempo, costituisce il corollario organizzativo di tale impostazione teorica e il diritto dell’impresa ne è strumento privilegiato, idoneo com’è a proiettare l’attività creativa individuale su piani cognitivi collettivi, parametrando secondo il principio di differenziazione – la cui realizzazione è favorita dalla progressiva neutralità delle forme giuridiche – le modalità tecniche richieste per concretizzare ogni forma di innovazione, sia essa artistica o industriale; come ho avuto occasione di scrivere su queste stesse pagine.

 

La modularità del diritto societario può poi assecondare propensioni del genere assumendo, all’interno di un modello multistakeholder, soggetti in possesso di competenze più o meno inclini a favorire il conseguimento di risultati strategici (se ad esempio intesi ad aggredire dati segmenti di mercato), organizzativi (se volti alla riduzione dei costi produttivi) o politico-ideali (se funzionali a realizzare beni o servizi di valore culturale generale). Trattandosi di una struttura pluripartecipata, importeranno i processi di selezione degli stakeholder, che prema accogliere nelle compagini proprietarie, amministrative o di controllo interno; e può darsi il caso che la società intenda connettersi ad altri poli produttivi di una rete o di un distretto comune ricorrendo a forme di organizzazione multilivello (siano esse istituzionali, societarie o contrattuali).

 

Tale struttura, come – ancora – ci insegnano gli economisti, può infine essere connotata in senso olografico o ideografico, a seconda che si prediliga un approccio creativo basato sul conflitto e il confronto tra apporti cognitivi provenienti da soggetti diversi per formazione culturale, competenze tecniche e predisposizione innovativa. O a seconda che si preferisca un loro sviluppo parallelo e separato, in vista di una combinazione in fase produttiva. Oppure, ancora se risultino opportune forme organizzative miste o sfumate che premino la prospettiva mediana (tra l’approccio meccanicistico e quello riduzionista) a cui ho accennato.

La trasmissione dei significati simbolici dei beni creativi e innovativi, precondizione per aprire prospettive sia alla loro produzione condivisa, sia alla loro commercializzazione, richiede che le imprese culturali concordino sugli strumenti regolativi da utilizzare congiuntamente per mediare, portare a coerenza e connettere le conoscenze necessarie per l’attività produttiva (in tutto o in parte) comune. Obiettivo che si realizza – ed è questo il punto centrale – non già smussando le specificità operative di ognuno, o sforzandosi di normalizzare gli effetti patologici destinati comunque a verificarsi nelle relazioni tra tutti, ma enfatizzando la differenziazione, e creando le condizioni affinché si riconoscano le rispettive identità imprenditoriali.

 

Il dato di progressiva neutralità delle forme giuridiche e la tendenza alla modularità dei modelli organizzativi, ai quali ho accennato e di cui scrivevo anche qui, gioca a favore dello stesso risultato. Infatti, l’attitudine valoriale e la capacità imprenditoriale a produrre beni o servizi meritori e collettivi non impone la non lucratività dell’ente che eserciti tale attività. Ma prima ancora, la forma giuridica mantiene un preciso senso regolativo, consentendo di costruire modelli di corporate governance articolati in base agli assetti organizzativi che rendono unica e preziosa – ma non per questo “eccezionale” – l’impresa culturale.

 

Nella prima parte di questo articolo scrivevo che è importante che la veste organizzativa di un’impresa culturale, più di quanto valga per altri tipi di imprese, dia forma e sostanza alla sua figura giuridica. Insomma, quest’abito fa il monaco (e d’altra parte: non è sempre così?). Risultato qui ottenibile, sfruttando gli strumenti del diritto dell’impresa, oggi più che mai. Il perché lo ricaviamo da almeno due recenti fattori evolutivi del diritto, specialmente commerciale: (a) la progressiva emersione, nei sistemi di corporate governance, di fattori regolativi appartenenti per tradizione alla strumentazione economico-aziendale; (b) il ruolo dell’autoregolazione societaria se essa è integrata a modelli organizzativi che aiutano la rappresentazione programmatica delle buone pratiche che l’impresa intende adottare nei propri rapporti interimprenditoriali, puntando alla replicazione virtuosa della “memoria” interna e al consolidamento delle relazioni fiduciarie con l’esterno.

 

La natura cognitiva, sia delle risorse di cui si servono le imprese culturali, sia delle loro attività, spiega perché è così importante adottare una prospettiva regolativa peculiare (alla quale accennavo anche qui). Cruciali, come sempre nell’analisi giuridica dell’economia, sono i frangenti di conflitto (tra i soci, tra costoro e i propri partner, e più in generale nei rapporti tra impresa e stakeholder), dato che è qui che si misura davvero l’efficacia delle scelte regolative. La fluidità del patrimonio intellettuale condiviso tra operatori culturali favorisce infatti la possibilità di pervenire, persino nelle ipotesi di conflitto, a compromessi anche distanti dalle posizioni assunte inizialmente, tramite processi di interazione euristici e adattativi ben conosciuti da chi si occupa di teoria dell’organizzazione; processi preziosi perché si basano, a loro volta, su un esercizio di creatività. Con ciò intendo la capacità di raggiungere esiti inattesi perché inducono conflitti premianti, secondo una prospettiva di co-opetition eclettica ma non irragionevole, anche se non catturabili dai paradigmi classici della scelta razionale. E sono processi che confermano, appunto, l’analoga natura intellettuale delle risorse necessarie per svolgere attività creative, e dei beni che tali attività realizzano.

 

Queste sono dinamiche comprovate, nel settore culturale. Basti pensare alle decisioni di coproduzione prese con propensioni contestuali, ma potenzialmente distoniche. Come di fatto si rivelano quelle motivazionali, ad esempio quando s’intende collaborare in base alla comunità di intenti e alla stima reciproca. O quelle economico-organizzative, ad esempio, quando si punta a ottimizzare autori e creatori talentuosi, competenti o comunque preziosi per l’impresa, che si vuole aggregare per realizzare un dato progetto.

In questi casi è frequente che, pur in presenza di esigenze conosciute ex ante, che di per sé possono sospingere verso date scelte organizzative (tra quelle immaginabili: l’interesse dell’impresa culturale a collaborare con un autore per ragioni di prestigio, l’opportunità di condividere oneri finanziari e burocratici in ragione degli elevati costi del progetto, la necessità di procacciarsi un partner disponibile a/per diversificare le proprie linee di produzione, l’allargamento del bacino di riferimento commerciale), la decisione sia presa seguendo attraverso mosse di arretramento, concessione, compromesso e soprattutto tramite l’accettazione di risultati parziali che tuttavia favoriscano più parti da punti di vista originariamente non preventivati. Come l’acquisizione della reputazione, quando la propensione iniziale sia principalmente di ordine economico; o il rafforzamento del potere di mercato, se invece in un primo tempo l’interesse volga soprattutto alle ricadute eminentemente culturali della partecipazione al progetto; e così via.

 

Si tratta – esattamente – dei processi che seguono le traiettorie laterali (od oblique) dell’adattamento cognitivo, secondo scenari relazionali basati sul cambiamento progressivo, persino radicale, delle posizioni originarie. Non sono cioè meri compromessi razionali, ossia scelte di natura esclusivamente egoistica e strategica. Come succede in ogni relazione fiduciaria, infatti, in condizione di carenza di opzioni modulate secondo i paradigmi di scelta razionale, i soggetti agenti all’interno di sistemi economici microsociali sono propensi ad alleviare il proprio stato di dissonanza decisionale con inconsapevoli, ma oggettive, propensioni cognitive di interiore normativizzazione, e di conseguente pratica, di comportamenti cooperativi.

 

Naturalmente è plausibile che ciò accada quando in partenza si riscontrano più tipi di interdipendenza tra le imprese cultuali. Perché sì, esistono forme di interdipendenza differenti. Ad esempio, a seconda che ogni impresa dia un contributo paritario (interdipendenza comune), o se esso costituisca la base o la risorsa per il lavoro altrui (interdipendenza sequenziale), se l’apporto sia complementare (interdipendenza intensiva), o infine quando il contributo di ognuno dipenda almeno parzialmente da quello dei cooperatori (interdipendenza reciproca).

Ora: se il valore degli apporti non è frazionabile, come accade in tutti questi casi, risulta a sua volta problematica la definizione dei diritti di proprietà, tipicamente intellettuale, sugli esiti parziali delle fasi produttive. Sicché rileva l’attribuzione ad enti o soggetti terzi, per così dire intermedi, del ruolo di assegnazione dei diritti collettivi, che possono essere inclusi nello schema organizzativo. A maggior ragione tale assetto risulta decisivo nelle ipotesi in cui il bene creativo, come è vero per tante rappresentazioni artistiche, nasca da un processo i cui apporti siano singolarmente valutabili, mentre il prodotto finale non sia di per sé esistente una volta e per sempre (si pensi a un qualsiasi spettacolo dal vivo), e quindi commercializzabile in via continuativa; ma lo sia solo se tale processo possa essere interamente replicato (sperando che, sera dopo sera, vada tutto bene).

 

Il ruolo dell’autoregolazione, come sostengo da tempo, è spesso trascurato, ma cruciale. I modelli di cui mi sono occupato recentemente hanno il pregio di modulare norme primarie e secondarie, formali e informali, attraverso procedure di accordo su dati principi, presi a riferimento, in modo tale che quell’accordo svolga una funzione non solo regolativa, ma anche di segnalazione della diversità di ciascuna impresa culturale (leggasi: unicità).

Insomma le pratiche di autoregolazione si legittimano, prima ancora di ricevere legittimazione da altre fonti dell’ordinamento, proprio perché incorporano i principi fondamentali per l’impresa (ad esempio: produzione di beni meritori, applicazione di buone pratiche organizzative, natura nonprofit dell’attività, responsabilizzazione sociale della gestione, governo democratico della società). Inoltre, esse filtrano e connettono il diritto proveniente da altre fonti giuridiche, ma non per questo lo uniformano, e perciò non conducono a un’indistinzione valoriale. Infine, gli strumenti di autoregolazione di rete e di distretto, se connessi alla struttura aziendale e alla fisionomia statutaria dell’impresa, contribuiscono ulteriormente ad armonizzare interessi apparentemente contrapposti. Per un verso, l’interesse a creare punti di convergenza nella trama regolativa che aggrega più agenti economici, costruendo fiducia e aspettative di affidabilità anche laddove le pratiche consuetudinarie non coprano interamente il piano operativo comune. Per altro verso, l’interesse a differenziare, cioè a rendere identificabili e concorrenziali, i modelli di auto-organizzazione societaria adottati da ciascuna impresa culturale, e con ciò i loro interessi. Detto altrimenti: una consapevole autoregolazione può sorreggere in modo equilibrato, e più stabile di quanto avvenga in altri settori economici, le propensioni alla cooperazione e alla competizione di autori e cooperatori culturali.

 

Per chiudere il cerchio e concludere davvero: la disciplina delle attività creative richiede che siano forti, anzitutto, i legami tra vision e mission culturali dell’impresa, e la costruzione della strategia economica della loro implementazione. Inoltre la disciplina delle attività creative richiede che siano forti le rispondenze e la coerenza reciproca tra le fasi di programmazione, organizzazione e conduzione societarie, che è il diritto commerciale a regolare.

 

Infatti, la direzione di un’impresa culturale non è intesa solo a definire le linee di gestione dell’impresa, ma soprattutto a estrapolare le competenze cognitive dei soggetti coinvolti nel processo creativo. Tanto è vero che, dal lato teorico, è riconosciuta l’importanza di concepire vision e mission culturali organiche e aperte alle sollecitazioni esterne. Dal lato pratico, sono applicate strategie economiche di valorizzazione degli apporti dei partner come contributi idealmente individuali e collettivi.

Per questo risulta specialmente appropriato, nella prospettiva della disciplina giuridica delle attività culturali, proporre modelli organizzativi forgiati secondo i principi di riflessività regolativa e di interimprenditorialità. Qui infatti, come non vale per alcun altro settore economico, è stretto il nesso tra l’impresa intesa come comunità della pratica e del lavoro, e l’impresa intesa come soggetto giuridico e organismo economico.

Sicché viva l’impresa, e vivrà la cultura.

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Brevi note sull'Appennino

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L’Appenino attraversa tutta l’Italia, ne è la colonna dorsale, ma è come se non esistesse. Nessuno si dice appenninico, anche chi vive sui monti si dice lucano, irpino, abruzzese, calabrese, ma non appenninico. Insomma ci sono le montagne, ma non c’è una questione Appennino, come una volta c’è stata una questione meridionale: per la verità ci sarebbe ancora, ma si è deciso che è scaduta, che è durata troppo tempo e dunque nessuno ha più voglia di occuparsene. 

 

Chi rappresenta politicamente l’Appennino? La risposta è semplice: nessuno. I politici che vengono eletti sui monti hanno impostato tutta la loro vita per andare a Roma e dunque per allontanarsi dall’Appennino. Si allontanano anche quelli che arrivano nel capoluogo di Regione, comunque distanti dai piccoli paesi e dalle montagne. 

L’Appennino è una somma di luoghi, si va da luoghi sacri a luoghi immiseriti dalla modernità incivile, e oggi negli ambienti internazionali più avveduti si torna a parlare di luoghi. Se n’è accorto anche l’Economist nei giorni scorsi: nel loro articolo bandiera hanno messo che nelle politiche economiche degli ultimi anni sono state sottovalutate le politiche per i luoghi, si è pensato esclusivamente alle merci e a come distribuire il reddito delle persone. Ecco che allora il pessimismo muta segno: l’Appenino è un luogo d’avvenire. Non è chiaro se è un avvenire imminente o lontano, ma è certo che il futuro arriverà su questi monti tremanti. E arriveranno anche nuovi residenti, pochi italiani e molti stranieri, forse.

 

Illustrazione di Cristiano Iurisci.


PAESI

 

Castelnuovo di Conza, Santomenna 
Gallo Matese, Duronia, Rosello,
Limina, Paludi, Salle,
Gildone, Faeto, Castelgrande,
Tripi, Lupara, Villarosa,
Roseto in Val Fortore, Volturara Appula,
Conza della Campania.
Ricordatevi questi nomi, 
sono alcuni dei paesi più feriti
dall’emigrazione.
E si vergogni chi si deve vergognare:
i galantuomini che se ne andarono
senza necessità
ma per disprezzo della vita paesana;
i governanti di un intero secolo,
i cantori del progresso.
Questi paesi sono relitti ad alta quota, 

monasteri dello sconforto,

nascosti nella nebbia e nell’argilla, 

nella neve degli inverni. 

Questi paesi sono reliquie,

ossari, barche sfondate. 

Affondano 

e portano a galla il sacro.

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Sullo zero, il vuoto e il nulla

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Un matematico, un fisico e un filosofo, vecchi compagni di liceo, decidono di intessere i concetti di zero, di vuoto e di nulla in questo libretto di grande peso specifico: leggerlo “non è impresa da pigliare a gabbo”, ma i dividendi sono cospicui. Contro l’opinione di Umberto Eco, che aveva inserito la “zerologia” tra i lemmi di un’ipotetica enciclopedia dell’assurdo, i tre autori sostengono che “la macchina della conoscenza umana ha bisogno della grammatica del non, che lo zero, il vuoto e il nulla diversamente esprimono nei loro campi.” (11) Il negativo, controparte di ciò che sappiamo, “si sporge su ciò che non sappiamo ancora, su quel non sapere che, come l’ombra luminosa del nulla, sempre circonda ed abbraccia ciò che crediamo di sapere.” (11-12)

 

È proprio l’inseguimento dell’assurdo, del limite, di ciò che appare e scompare negli specchi tersi della razionalità, è questa ricerca della diversità, della contaminazione, del dubbio, che ci consente di andare oltre, di aprire strade nuove, segnate dalle mutazioni, dagli scarti e dagli slittamenti di significato: come le rocce metamorfiche che nascono, in seguito a sconvolgimenti giganteschi, nel seno placido delle stratificazioni sedimentate nei millenni. Un esempio fra tutti di questa necessità, e fecondità, del nonè fornito dalla scrittura narrativa, dove il non detto è importante almeno quanto il detto (così opinava anche Wittgenstein a proposito del suo Tractatus), poiché il detto risalta e scaturisce dal bianco dello spazio e dal silenzio del non detto, anzi esiste solo in quanto è in dialettica con il non detto. Lo scrittore, in particolare il poeta, corteggia il non detto nella sua forma più estrema: l’indicibile. Anzi, si può dire che in fondo l’unica cosa di cui ci interessa parlare è l’indicibile. Il dicibile ormai è stato detto, o sarà detto, dunque rientra nella massa crescente e agonizzante dei luoghi comuni, delle espressioni trite, delle metafore spente.

La scienza, per suo statuto, non accetta il limite dell’ignorabimus e vorrebbe illuminare tutto di luce scialitica, uccidendo ogni residuo di oscurità e di nonsenso. Ma uccidere l’oscurità significa paradossalmente uccidere la luce: “Nonostante i progressi delle scienze o forse proprio per quelli, il nonsenso non smarrisce mai la sproporzione della propria smisurata ignoranza” (13) perché accanto a ciò che sappiamo e a ciò che sappiamo di non sapere c’è anche lo sterminato dominio di ciò che non sappiamo neppure di non sapere. Inoltre, notano i tre autori nell’inerpicata levità dell’introduzione, il nonsenso “non mobilita fedeli al suo servizio e può così essere utile per salvaguardare le scienze e tutti i saperi umani dagli eccessi di aspettative”, che potrebbero farli scambiare per le nuove forme “di quelle antichissime agenzie del senso che sono le religioni.” (13) Sorriso, leggerezza, libertà sono le insegne che il lettore è invitato a inastare prima di affrontare le pagine successive.

 

Nel primo saggio, Lo zero, Bartocci guida il lettore nella selva dei paradossi e delle difficoltà che s’incontrano non appena si voglia andare oltre il sottile involucro che, nella nostra inconsapevole quotidianità, avvolge e maschera questo numero specialissimo. È un percorso storico affascinante, che dispiega il rigoglio di vicissitudini, incroci, slittamenti di significato, di usi e di metamorfosi subiti da questo segno-numero-concetto. Fin da tempi remoti, secondo il sanscritista Frits Staal, l’India antica “riecheggiava di zeri, di entità zero e di eventi zero” e pare proprio che la culla dello zero sia stata l’India. Non è possibile dar conto della ricchezza, e intricatezza, della storia narrata da Bartocci: ne resta un senso di stupore e quasi di sgomento di fronte alle cautele, alle diffidenze, alle esitazioni, e al fascino, con cui scrittori, filosofi e ovviamente matematici si accostavano a questo numero singolare. 

 

Lo zero, accompagnando i mercanti sulle rotte dei commerci, dall’India si diffonde in Europa, fino ad approdare in Italia attraverso l’opera che rappresenta “il vertice della matematica medievale latina” (35), il Liber Abaci di Leonardo Fibonacci (1202). Leonardo non si preoccupa della natura ontologica dello zero, ma soltanto delle sue applicazioni pratiche. Solo in seguito pensatori più attrezzati del pisano si tormenteranno a lungo sulla natura e lo statuto dello zero e indagheranno i suoi legami con l’infinito, con la teoria degli insiemi, con la logica. Storia affascinante e ancora in corso quella dello zero esposta da Bartocci, il quale, riprendendo una duplice domanda posta dal neurofisiologo Warren McCulloch (“Che cos’è un numero che un uomo può conoscerlo? Che cos’è un uomo che può conoscere un numero?”) conclude: “Che cos’è dunque un insieme? Che cos’è un numero? La risposta non è univoca, perché dipende dal nostro modello di riferimento. Detto altrimenti, in ogni universo si gioca una matematica diversa. Ma ogni gioco ha inizio dal nulla.” (70)

 

 

Scendendo dalle rarefazioni concettuali della teoria dei numeri, il secondo saggio, Il vuoto, ci conduce dentro altre rarefazioni, di natura più concreta, ma non certo ovvia. Infatti, precisa Martin: “Così come per la matematica lo zero è un concetto tutt’altro che scontato, anche quello di vuoto per la fisica non è certo banale.” (74) E le pagine che seguono sono un’interessante esplicitazione di questo enunciato. Anche qui l’impostazione è storica e la trattazione intreccia i tentativi sperimentali di fornire realtà tangibile al concetto di vuoto (esemplari in questo senso le scoperte di Torricelli) con le numerosissime applicazioni pratiche: dal barometro alle lampadine e agli aspirapolvere, dai tubi catodici dei vecchi televisori ai grandi acceleratori di particelle e via elencando, il che dimostra che il vuoto è... pieno di impieghi. Passando dalla storia all’attualità, l’autore descrive il cosiddetto “vuoto” quantistico, che vuoto non è, essendo “Un ribollire di coppie di particelle e antiparticelle virtuali che si creano dal vuoto e si annichilano successivamente nel vuoto...create e distrutte in intervalli temporali...così brevi da non lasciare il tempo di osservarle.” (98) Queste fluttuazioni, essendo state osservate, non sono una costruzione teorica e forniscono una solidità sperimentale ai “rarefatti” concetti della meccanica quantistica. Il vuoto quantistico contraddice il concetto classico (ideale) di vuoto assoluto poiché, in virtù del principio di indeterminazione di Heisenberg, nella meccanica quantistica non esiste lo zero assoluto in termini di energia, quindi non esiste neppure il vuoto assoluto. (98)

 

Con il terzo saggio, Il nulla, siamo trasportati in un paesaggio concettuale irto e abbagliante (“La fulgida immensità dello spensierato nulla” (119), come dice Joseph Roth), che costituisce “la parte più problematica ed oscura della ‘zerologia’”. (119) Il sapere scientifico è sì un fare cumulativo e progettuale, ma anche un togliere, sottrarre e delimitare: è un galileiano ‘provando e riprovando’ “che ha nella negazione...un momento decisivo per la sua stessa legittimità.” (119) La necessità del vuoto, del negativo, dello spazio tra le parole, del silenzio è sostenuta sia dai kabbalisti sia dai filosofi: Ortega y Gasset sosteneva che il parlare si compone soprattutto di silenzi. (120) Se lo zero e il vuoto rappresentano, o sono, pur sempre qualcosa, il nulla ci sfida a pensare qualcosa di assoluto: “Un negativo che negando tutto finisce per negare anche se stesso...tanto che si potrebbe dire che niente è meno di nulla.” (120) E non è un caso che il nulla sia protagonista di oscillazioni logiche vertiginose, di cui è paradigma l’asserzione del cretese Epimenide ‘I cretesi mentono sempre’. Il vero e il falso non cessano di rimandarsi come le due figure contenute in un’illusione ottica, di cui si può cogliere una sola alla volta. E già parlare del nulla è una contraddizione, poiché si tratta il nulla come se fosse qualcosa. 

A questo proposito non si può non menzionare la domanda metafisica fondamentale formulata da Leibniz nei Principi razionali della natura e della grazia: ‘Perché vi è qualcosa piuttosto che niente?’. Per Bergson il nulla “è un analogo del tutto, sicché contrapporre le due idee come fa Leibniz genera uno pseudoproblema” (137), anche se, prosegue Bergson, non possiamo non porci un problema collegato, cioè perché questo ‘problema-fantasma’ continui ostinatamente ad assillare la mente umana, che sembra convinta che prima delle cose o sotto di esse vi sia il nulla. 

 

Che statuto ha il nulla nella nostra società? Per Tagliapietra “la cultura occidentale ha paura del nulla perché vuole sempre troppo, sicché alla fine, verrebbe da dire citando ironicamente il monito del proverbio, ‘chi troppo vuole nulla stringe’”. (161) Ma c’è anche, sul finire di questo affascinante discorso sul nulla, una breve ma intensa escursione sull’età del nulla realizzato, su quell’emblema dell’annullamento totale costituito dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. “Del resto antimateria, materia oscura, buchi neri, positroni e altri termini del gergo della fisica nucleare sono i nomi con cui la scienza moderna nasconde, mediante una patina tranquillizzante e scientificamente corretta, una nozione, quella del nulla, tanto terribile quanto remota e sfuggente, che appartiene alle origini stesse della nostra e di molte altre culture. Infatti, c’è una concezione prefilosofica del nulla che ritroviamo in numerosi miti, saghe e leggende e che l’umanità primitiva associa alla scena primordiale della creazione del mondo o a quella finale della sua distruzione, descrivendo entrambe con le immagini, affascinanti e tremende, delle tenebre, della notte e dell’abisso.” (168) 

Da qui in avanti il saggio va oltre le acuminate argomentazioni della filosofia per assumere un registro poetico e quasi sapienziale: il nulla tanto indagato dalla razionalità del logos “è in realtà un grandioso espediente simbolico che rivela il funzionamento eminentemente poetico della nostra mente”. Una mente il cui procedere è aperto sulla realtà, che non si lascia imprigionare dai rigorosi strumenti della logica, ma li trascende di continuo (viene alla mente il finale del Processo di Kafka: “La logica è ferrea, sì, ma non può resistere a un uomo che vuol vivere”), ospitando insieme il tutto e il nulla senza soffrire di questo paradosso che la scienza non sopporterebbe, come non sopporterebbe, nel suo procedere positivistico, il buco, la lacuna. E invece l’uomo viene al mondo dopo un incalcolabile nulla e alla fine torna in un incalcolabile nulla. “Ecco quindi la risorsa del senso creare un’armonia tra la lacuna da cui veniamo e quella verso cui andiamo, tra l’inizio e la fine,” (172) compendio folgorante e terribile della condizione umana.

 

Claudio Bartocci, Piero Martin, Andrea Tagliapietra, Zerologia. Sullo zero, il vuoto e il nulla, il Mulino, Bologna 2016.

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