Quantcast
Channel: Tutti i contenuti con tag: Emozioni
Viewing all 6268 articles
Browse latest View live

Nella mente di Cechov

$
0
0
Sottotitolo: 

Dead Centre significa sentirsi al centro e inconsistenti nello stesso tempo. È il promettente nome della compagnia irlandese “rivelazione della scena europea” approdata per la prima volta in Italia grazie un esito di scouting centratissimo del VieFestival di Emilia Romagna Teatro Fondazione. Troppe promesse annunciano, statisticamente, delusioni, ma non è proprio questo il caso. La rivelazione infatti c’è eccome, e il tempo, su questa proposta, darà ragione a Vie. 

Quello organizzato da Ert è uno dei pochi festival dedicati alle arti performative e alla sperimentazione teatrale che non sovrascrive segni e non colloca al centro della propria programmazione un nucleo tematico, ponendosi invece come rassegna internazionale vocata a intercettare le individualità e gli esiti più significativi della ricerca contemporanea. Quest’anno, in verità, sui palcoscenici emiliani dei teatri coinvolti, da Bologna a Modena, passando per Carpi e Vignola, si sono avvicendati soprattutto i protagonisti della scena e della danza italiana, quasi un prelude autunnale delle stagioni che verranno. Ma come sempre il festival ha riservato anche novità straniere fuori formato come l’originale progetto coreografico di Zaides Arkadi presentato al Mast di Bologna e, sempre per la compagine internazionale, il ritorno molto atteso dal pubblico di Theodoros Terzopoulos e di Levan Tsuladze. Nell’ottica di un’ecologia nazionale, questa concezione del festival può risultare utile proprio a far emergere spontaneamente alcune traiettorie del nuovo che intersecano linguaggi, generazioni e geografie anche molto distanti tra loro, laddove i festival ad alta densità curatoriale individuano e approfondiscono un campo di tensioni specifico. Ma veniamo, appunto, agli irlandesi.

 

Chekhov’s First Play, ph Jose Miguel Jimenez.


Dopo una fulminea escalation che dal Fringe di Dublino li ha visti circuitare in mezza Europa, Bush Moukarzel e Ben Kidd, fondatori, nel 2012, della compagnia, sono approdati al Teatro Pavarotti di Modena, presentando in prima nazionale Chekhov’s First Play. L’opera prima di Anton Cechov cui fanno riferimento è Platonov, dal nome del protagonista di una pièce che in realtà, essendoci pervenuta senza il frontespizio che ne riportava il titolo, è altrimenti nota come Dramma senza titolo o Dramma inedito. Il testo originale, scritto tra il 1880 e il 1881 e pubblicato postumo, nel 1920, è piuttosto lungo e sfilacciato: quattro atti, più di venti personaggi, oltre cinquanta scene, cinque intrighi amorosi, alcuni morti fuori scena, un paio di tentativi di assassinio, innumerevoli monologhi, dialoghi sovraccarichi e l’immancabile pistola che spara nell’ultimo atto. «Irrappresentabile» commentano gli esperti da diverse decadi; «come la vita» rispondono, oggi, i due registi. 

 

Questo testo giovanile profetizza tutti i tratti caratteristici del Cechov che conosciamo: nonostante in un tale viavai di personaggi e scene permangano tracce evidenti di quelle leggi dello sviluppo teatrale che incrinerà del tutto di lì a poco, in Platonov– al varco ancora caldo del passaggio da un mondo all’altro – si accampano già la paralisi dell’anima, il senso di ristagno, un’umanità che vive nel segno della rinuncia, o più precisamente, come scrive Peter Szondi in Teoria del dramma moderno, della rinuncia al presente e alla possibilità di incontrarsi, che abdica in favore di una vita votata al ricordo e alla nostalgia. Ma anche dialoghi che finiscono per non produrre mai azione, autoanalisi rassegnate, continui trapassi dalla conversazione alla lirica della solitudine. Non è certo un caso che oggi ci piaccia moltissimo leggere Cechov (e potremmo dire lo stesso di Raymond Carver che sappiamo aver letto molto l’autore russo, alla cui morte dedicò il suo ultimo racconto). 

 

Chekhov’s First Play, ph Jose Miguel Jimenez.


Ma il punto qui non è fornire una lettura critica e/o attualizzante di un testo poco rappresentato di un classico della modernità, quanto semmai di confrontarsi con la totalità del suo immaginario per far emergere il proprio, per fare i conti con l’eredità che ci è toccata in sorte. E come notava Derman, critico cechoviano della prima ora, qualunque sia la ragione che spinge un giovane a fare l’artista, «nella prima sua opera, in questo primo spiraglio attraverso il quale viene violentemente alla luce il suo mondo interiore, si trova racchiusa l’essenza stessa dei pensieri e dei sentimenti dello scrittore». In poco più di un’ora vengono infatti convocati più di cent’anni di teatro e di storia delle idee. Lo spettatore si ritrova trascinato in un’esplorazione percettiva dell’esperienza del concepire e mettere in scena uno spettacolo. Anzi, per essere precisi, dell’esperienza totalizzante del concepire il teatro, l’arte, la vita, stratificata e infiammata e profondamente comica, così come si presenta nella mente di un artista ai suoi aurorali, furiosi, esperimenti. «Unfinished plays for unfinished people» sottolineano Moukarzel e Kidd mentre lavorano a un nuovo progetto della serie intitolato Beckett’s First Play.

 

Il dispositivo dello spettacolo sembra semplice: gli spettatori sono convenzionalmente seduti in platea, ma indossano delle cuffie attraverso cui, con un effetto di spazializzazione olografica, la figura del regista parla letteralmente all’orecchio di ciascuno, commentando dal vivo il procedere della trama sul palcoscenico – molto spesso utilizzando le parole stesse del Cechov dei diari giovanili. 

Semplice apparentemente, perché lo svolgimento drammaturgico del congegno si rivela incredibilmente raffinato. L’ammiccamento metateatrale, che nei primi minuti rischiamo di scambiare per banale espediente formale, non è che una citazione tra le altre in una tessitura che inceppa continuamente il testo che consegna, destabilizzandolo fino al punto di liquidarlo completamente. Attraverso un progressivo deragliamento della pièce di partenza, la vita psichica del regista precipita nell’opera finendo per diventarne la sostanza stessa. 

 

Chekhov’s First Play, ph Jose Miguel Jimenez.


In ordine più o meno sparso, nel dipanarsi dell’intreccio, a partire – secondo il dettato filologico – da una conversazione nel giardino della tenuta nobiliare di Anna Petrovna (con tanto di costumi di lino bianco e scenografia naturalistica di un esterno), assistiamo all’affiorare di un intreccio di secondo grado ricavato dalla trama di citazioni e rovesciamenti innestati nel primo. Già solo nel negoziare la propria precipua relazione con lo spettatore, chiedendogli di indossare le cuffie perché possa così avvalersi di un commento di prima mano che fa luce sulle scelte registiche e drammaturgiche dello spettacolo, i registi scomodano la letteratura più aggiornata sull’argomento: ipertrofia tecnologica, disautomatizzazione della percezione, rottura del patto di finzione, coinvolgimento attivo del pubblico, e perfino la retorica della formazione, ovvero la presunta idiozia dello spettatore per la quale nelle gallerie d’arte «io stesso – dice il regista – passo il tempo a leggere le didascalie invece che a guardare i quadri».

 

E poi il valore dei classici, i tropi beckettiani dell’attesa e del fallimento, il tepore dei sentimenti di oggi rispetto a quelli vibranti e sregolati di “un tempo”, gli appunti di Stanislavskij, il principio della quarta parete (all’apertura di sipario un’attrice è seduta di spalle, si sente un cinguettìo di uccelli ecc…). E ancora, le questioni legate alla messa in scena: le regole della buona drammaturgia, il difficile rapporto con gli attori che non sono in grado di contribuire alla costruzione del senso previsto dalla regia, l’ossessione dell’attualità per cui si fabbricano e si riconoscono paralleli – per esempio tra l’impotenza di Triletskij e la crisi della produzione del Viagra del 2008! – che rasentano il comico a forza di pretestuosità. Il regista imbroglione, il regista despota, l’attore prostituta, le velleità filologiche, la trappola della rappresentazione, il reale rovesciato sul palco, l’ambizione di rifondare il teatro e di rapportarsi al pubblico in modo nuovo, il rischio di prosciugare ogni senso per smania di sovrascrittura, la fiction dissolta nel reale.

 

Così, muovendo dal primissimo Cechov fino ai giorni nostri, passando per il citazionismo postmoderno e la deteatralizzazione del teatro, si produce un’inesorabile progressiva disgregazione della forma (ancora vagamente mitica) di partenza che corrisponde, evidentemente, al liquefarsi dell’esperienza umana per come la conoscevamo. Le pareti della scena vengono distrutte da una enorme palla che poi verrà anche infuocata; gli attori prima perdono la voce e boccheggiano un playback di voci doppiate, perfette come quelle dei serial americani, e poi dismettono anche i costumi di scena, rifiutati in quanto simulacri ormai svuotati di senso: «È mio questo? Non riesco a immaginare di possedere nessun oggetto. Mi hai reso una nullità». Tutti provano ad accaparrarsi gli abiti di Platonov, per tornare a essere «come eravamo prima», perché per un motivo o per un altro sono franati in una vita che non riconoscono, tra prestiti studenteschi, matrimoni, professioni. 

 

Chekhov’s First Play, ph Jose Miguel Jimenez.


E Platonov, in tutto questo? Il protagonista della pièce è l’illustre assente. L’Amleto cechoviano, giovane colto e cinico, intrappolato nella paralizzante consapevolezza del non-sense della vita, diventa qui un Don Giovanni metafisico, cui presta il corpo uno spettatore a caso seduto in platea. Platonov è l’oggetto del desiderio di tutti, e finisce per coincidere con quel teatro stesso che sta andando in pezzi. Invece di crogiolarsi in “Cechov nostro contemporaneo” gli irlandesi riescono a raccontare quanto, nella scrittura, in questo caso teatrale, ma anche romanzesca, lo psicologismo primonovecentesco si sia trasformato progressivamente in psicanalismo e cognitivismo. La nostra pistola, come avviene nell’ultima opera del drammaturgo russo, non spara più nell’ultimo atto, perché «i suoi personaggi dovevano fare qualcosa ancora più difficile che morire. Dovevano continuare a vivere» (non citerà, qui, Dead Centre, Per Esenin di Majakovskij?). Così noi ci ritroviamo costretti a vivere perfino oltre il desiderio della morte, oltre un dissanguamento che non ci uccide (bellissime le scene in cui dai corpi colano fluidi di fumo e colore) intrappolati in una coazione a esistere e con un continuo commentare nella testa che non si placa mai: «Ultimamente non mi sono sentito me stesso. E con ultimamente intendo mai. […] Non sembra neanche la mia di voce. Come uscirò dalla mia stessa testa? Dove andrei, se potessi, chi sarei, se potessi, cosa direi…?». 

 

Quello che più colpisce di questo gruppo irlandese è la sapienza eminentemente teatrale, la capacità di attingere all’intelligenza, anche cinica, che caratterizza molti degli artisti di ultima generazione, scongiurando la palude della cerebralità. Dead Centre riesce infatti a toccare questioni linguistiche e filosofiche cogenti senza pronunciarle mai didascalicamente, volgendo qualunque domanda, ricerca e provocazione in figura scenica. A rendere efficace il lavoro è il concretizzarsi dell’idea in una scrittura viva, quell’“inesorabile deragliamento” dell’opera di partenza descritto poco fa, che non è sovrascrittura, né riscrittura, né giustapposizione, ma narrazione di una corrosione nel suo compiersi sulla scena davanti ai nostri occhi. 

Nel pieno dell’età dell’oro di quella che Alberto Savinio ha definito “avventura delle idee” (la definizione è stata riassunta molto bene dal critico letterario Matteo Marchesini quando, nel recensire per il Sole 24 ore Fisica della Malinconia dello scrittore bulgaro Goergi Gospodinov, richiama appunto Savinio per dire di come, venuta meno l’energia mitica che dava senso alle grandi narrazioni, in un mondo già tutto esplorato, l’unica trama possibile sia ormai solo quella che racconta la peripezia del passaggio da un’idea all’altra), il rischio abbastanza conclamato, soprattutto drammaturgico, risiede nel sovraccaricare la dimensione semantica del testo. Vale a dire nel fare discorsi, dichiarazioni, nello spacciare per dialogo un’istanza saggistica monologante. Ma il pensiero prosciugato dall’esperienza, il discorso nudo non “accade” e quindi, scena dopo scena, ci si dimentica immediatamente di ciò che viene prima, le parole non si sedimentano nella memoria. A teatro dichiarazioni, metafore e similitudini, implicando appunto un passaggio attraverso un significato, sono molto meno efficaci dell’analogia, pregna di predicato, di movimento. Scoprire degli artisti capaci di far convivere con tanta originalità narrazione e teatralità, senza cadere in questo equivoco diffuso, è stato decisamente esaltante.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Una rivelazione irlandese a VieFestival
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Animali umani (troppo umani)?

$
0
0

Inizialmente avevo una certa difficoltà a sentirmi “padre” del mio cane. Per una sorta di virile vergogna preferivo considerarlo un compagno con cui trascorrere alcune ore della settimana, perlopiù camminando insieme per i boschi. Senza volerlo, cercavo di tenerlo lontano dall’eccessiva confidenza, e sembrava che quelle instabili regole di convivenza che avevo elaborato, esito di sensazioni più che di convinzioni ragionate, potessero davvero funzionare. Poi il cane, Osvaldo, l’incrocio segugio, si fratturò una zampa durante una scorribanda solitaria tra i castagneti. Quella fasciatura infranse la barriera: il “degente” venne teneramente accolto nel letto matrimoniale, durante la notte. Se ne stava accoccolato in fondo, anche se in qualche occasione cercava di avvicinarsi a me o a mia moglie. Fu da quel momento che, senza dirmelo, cominciai a pensarlo come quel figlio che allora, quasi vent’anni fa, ancora non avevo. In effetti era a lui che dedicavo la gran parte del mio tempo libero, era a lui che destinavo ogni preoccupazione, soprattutto quando lo lasciavo libero dal guinzaglio ed ero schiacciato dall’angoscia di averlo perso per sempre.

 

Fu per lui, per capire quel “figlio” misterioso, che cominciai a leggere tutto ciò che pensavo mi permettesse di entrare nella sua testa. Sempre più frequentemente, come quel padre che non volevo ammettere di sentirmi, non perdevo poi l’occasione per parlare di Osvaldo, della sua strepitosa velocità, della sua “gelosia” nei confronti dei confratelli maschi, della sua evidente propensione ad apprezzare le grazie femminili, della sua voce tonante e delle operazioni di caccia indebite (la volpe snidata dalla tana e “trasferita” in un’azienda agricola, il cervo inseguito sulle montagne austriache), oppure del carattere irruente e gioviale e della sistematica attitudine a combinare pasticci. Agli occhi dei “non canari” avevo perso la testa, evidentemente. 

 

Come spiega Guido Guerzoni in Pets (Feltrinelli), la “parentizzazione” è il cuore della relazione tra uomini contemporanei e animali domestici. Oggi chi ha un cane o un gatto o un cincillà (la lista potrebbe essere smisurata) tende invariabilmente a considerarlo il figlio a cui prestare ogni cura per tutta la sua vita, che, complice il netto miglioramento delle condizioni ambientali e fisiche, si sta con evidenza allungando nel tempo. Se per molti aspetti si tratta di un meccanismo ben noto agli zooantropologi – la cosiddetta funzione epimeletica è quella che ci porta ad accudire i piccoli anche di altre specie ed è la radice dell’addomesticamento –, è anche vero che quanto sta accadendo negli ultimi decenni ha per molti aspetti la portata di una svolta. Il pet, il cane prima di tutti gli altri, sta ormai sempre con noi.

 

 

Come un eterno bambino, ci segue mentre facciamo la spesa, nei luoghi pubblici, in vacanza. A lui tutto si concede, per lui si gioisce e si soffre. Per molti aspetti è il figlio perfetto, quello che non ci lascerà mai, quello che non potrà deluderci, quello che conserverà anche nella vecchiaia il candore dell’infanzia. 

Le parole rendono per prime evidenti lo stato delle cose. Chi oggi ha ancora il coraggio di usare il termine “padrone” per definire il suo ruolo nei confronti del pet? E solo negli atti burocratici si fa ricorso all’asettico “proprietario”. All’opposto, si pensi ai nomi che scegliamo per i nostri animali, del tutto sovrapposti a quelli che attribuiamo ai figli della nostra specie: è distante ere geologiche l’abitudine di non attribuirgliene nemmeno uno “di superficie”, come talvolta in passato si faceva con i gatti, che rimanevano innominati per tutta la loro vita. 

 

Quanto mi sembra evidente, quanto io stesso ho misurato e continuo a misurare nella mia relazione con il cane, è che la parentizzazione ha ridotto le distanze tra le specie, per molti versi le ha addirittura annullate. Chi non ha animali per casa, chi li detesta proprio, o anche chi li ha ma appartiene alla generazione che questo non lo ammette, inorridisce all’idea di avere il cane o il gatto sul letto o nel letto, di fianco a noi, addosso a noi, attorcigliato alle nostre gambe, mentre dormiamo. Le accuse sono perentorie: non è da farsi, non è igienico, gli animali sono animali. Ma se dormire insieme al cane o al gatto può essere scomodo (e Guerzoni lo ricorda con ironia), si tratta anche della forma più spinta di annullamento delle barriere. “Il sonno unifica”, ha scritto Alberto Asor Rosa nel suo bellissimo Storia di animali e altri viventi (Donzelli), “ci fa tornare indietro, all’origine” e “la differenza tra animali e umani si attenua, anzi, si potrebbe dire che scompare”. Che sia davvero arrivata l’età dei metamorfanti (come li ha definiti sempre Asor Rosa), cioè di esseri viventi che “volontariamente o involontariamente, trasmigrano l’uno nell’altro”? 

 

Il rischio, però, è molto alto. Perché dietro la scelta di convivere sempre con il cane e il gatto (ed il primo è più esposto del secondo) facendolo diventare come noi, c’è il pericolo di annientarne la specificità, di schiacciarlo completamente sotto il peso del ruolo antropizzato che abbiamo deciso di imporgli. Se si dimentica la relazione e si fa del cane un trastullo simil-umano, come spiega Roberto Marchesini, si tradisce insomma l’antichissimo patto tra le specie, quello che ha contribuito in misura straordinariamente rilevante a farci diventare ciò che siamo. 

 

La realtà che emerge dallo studio di Guerzoni sembra andare proprio in quest’ultima direzione. I “canari” e i “gattari” di oggi appartengono alla middle class urbanizzata, che sta crescendo di numero in ogni angolo del pianeta. A fianco della famigliola da spot in cui ai due figli umani si aggiunge il cucciolo a quattro zampe o degli anziani in cerca di conforto, sempre più frequentemente sono i single o le coppie sposate senza figli ad avere voglia di spartire la propria vita con il cane o il gatto. E sono queste categorie a volere che gli animali gli assomiglino sempre più. Da qui discendono abitudini, vezzi, scelte esistenziali che, senza alcun dubbio, costituiscono una spinta verso l’annullamento della “caninità” del cane e, più in generale, dell’“animalità del pet. Che dire infatti del cane che va a spasso in passeggino o che viene mandato in palestra e piscina, o è periodicamente condotto in motel specializzati dove può dar sfogo alle proprie pulsioni (ma, in alternativa, ha a disposizione sofisticate bambole gonfiabili)? E che dire dell’ossessiva cura dell’estetica, dei piercing e dei tatuaggi che ne personalizzano la fisionomia o, ancora, della pratica del botox? E i cani o i gatti vegetariani? E i cani con la protesi che permette di superare il trauma (indubbio, peraltro) della castrazione?

 

Se certamente è vero, come ricorda Guerzoni, che, con moto opposto ma convergente, “cresce il numero di esseri umani che s’imbestialiscono scientemente ricorrendo al branding, facendosi impiantare code, ali, unicorni e banali corna bovine e regalandosi orecchie da pipistrello, occhi felini, lingue bipartite da rettile o dentature da coyote”, è altrettanto evidente che il cane non sceglie di diventare la caricatura di un eterno infante destinato a morire nella sua funzione di trastullo o di ornamento. 

Sono eccessi, è chiaro. Penso che la maggior parte di noi abbia un rapporto meno esasperato con il proprio “figlio-pet”. Quanto è innegabile è che da un passato anche recente sembra separarci un abisso. Si pensi che fino agli anni Settanta avere il cane in casa era un’eccezione e che dare da mangiare ai propri animali domestici qualcosa che non fosse uno scarto era decisamente raro, così come solo eccezionalmente si ricorreva alle cure veterinarie.

 

Appariva ancora evidente l’impronta contadina del rapporto tra uomini e animali per cui, scrive Guerzoni, “i pets erano “cose animate” (e), in quanto tali, il loro padrone era legittimato a esercitare, talora oltre i limiti della decenza, lo ius utendi et abutendi: poteva venderli, prestarli, abbandonarli, farli crepare di fame e di sete, seviziarli o accopparli senza subire sanzioni di alcun tipo”. Insomma c’è stata un’epoca in cui l’animale – anche quello a cui ti sentivi legato – era comunque l’“altro”, l’appartenente ad un mondo che non poteva coincidere con il nostro: animale da compagnia sì, ma relegato in una dimensione subalterna, congelato nella sua dimensione di presenza sporadica e transeunte.

Oggi tutto questo è finito. Il cane e il gatto hanno acquisito diritti sacrosanti. A loro si dedicano energie e denaro. Con loro si condividono emozioni profonde e si vive una relazione fondata sul reciproco amore. E grazie a loro, per ora, si riempie il vuoto, il solipsistico vuoto, dentro il quale si galleggia con crescente fatica. Come scrive Philip Schultz in Erranti senza ali (Donzelli), “Tutti preferiamo l’imperturbabile scodinzolio dell’illusione”. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Stretta parentela
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Giorgiana Masi, la vera storia di un mistero italiano

$
0
0

L’inizio è mozzafiato. Da romanzo. Roma, 12 maggio 1977. Una ragazza cade colpita da un proiettile al centro di un incrocio, mentre scappa verso Trastevere. Dall’altra parte, sul ponte Garibaldi, sono attestate le forze dell’ordine. Lei si accascia. La soccorrono. Non c’è sangue né bossoli. Fermano un’auto. La portano in ospedale. Il medico del pronto soccorso constata la morte. Giorgiana Masi fu uccisa da un proiettile blindato sparato da notevole distanza che la trapassò da parte a parte alle 8 di sera. Alla fine di una giornata di violenze scaturite da una manifestazione pacifica del Partito radicale. Era il 12 maggio. Pannella e i suoi volevano celebrare il terzo anniversario della vittoria al referendum sul divorzio e raccogliere firme per altri referendum. Cossiga, ministro degli interni, aveva vietato ogni manifestazione a Roma, dopo l’uccisone dell’allievo sottufficiale di Ps Settimio Passamonti, avvenuta durante gli scontri del 21 aprile, iniziati all’università (affianco alla chiazza del suo sangue comparirà, sull’asfalto, la scritta: “Qui c’era un caramba, il compagno Lorusso è vendicato”). Il centro di Roma era blindato da 1.800 uomini. Pannella non aveva accettato il divieto, che di fatto sospendeva la Costituzione nella capitale per un mese. “È un dovere disobbedire a ordini ingiusti”, aveva detto nel corso di una drammatica seduta parlamentare, mentre per strada divampavano gli scontri. 

 

Siamo nel 1977. Anno di trasformazioni, di esperimenti politici ed esistenziali. E di sangue, come quello di Francesco Lorusso, ucciso da un carabiniere a Bologna l’11 marzo, come quello di feriti e morti in scontri di piazza o in attentati terroristici. Tempo di tentativi di inventare a sinistra un nuovo modo di vivere la politica anche come liberazione individuale, accompagnati dall’incomprensione della sinistra ufficiale in cerca di legittimazione istituzionale; epoca di repressione, di risposta violenta della lotta armata che mira ad abbattere lo stato e che finirà per distruggere il movimento stesso. Anno di vittime innocenti.

La morte di Giorgiana Masi la racconta adesso, a dieci anni dal suo primo libro sugli avvenimenti di quell’anno (Ali di piombo. Il 1977 trent’anni dopo, Rizzoli, 2007), Concetto Vecchio, giornalista di “Repubblica”, cronista dalla scrittura brillante e appassionante che sa far rivivere fatti ormai lontani e mostrarne la caleidoscopica complessità. Con un atteggiamento diverso rispetto a chi quei fatti li ha vissuti e li ha sofferti sulla propria pelle.

 

Vecchio è nato nel 1971, all’epoca aveva iniziato le elementari, per lui quegli avvenimenti sono già storia, da riscostruire immergendosi e immergendoci nei documenti, da confrontare, da analizzare e criticare; una storia non sufficientemente lontana, però, da non lasciare spazio a ricostruzioni di testimoni diretti, con i rischi conseguenti di deformazioni personali, di reticenze, di smemoratezze, con il timore di affondare troppo in territori paludosi, in ipotesi non suffragate dai fatti.

 

 

La storia di Giorgiana, una diciottenne come tante, iscritta all’ultimo anno delle superiori, di famiglia modesta, impegnata politicamente a sinistra senza eccessi come tanti della sua generazione, la ricostruisce in un bel libro serrato, Giorgiana Masi. Indagine su un mistero italiano. L’ultima di copertina lo presenta come se fosse uno dei tanti romanzi di genere che affollano il nostro panorama editoriale: “Un’inchiesta mozzafiato sul mistero mai risolto di una studentessa che è diventata simbolo di un’intera generazione. Un giallo senza soluzione nell’Italia degli anni di piombo”. In realtà la povera Giorgiana simbolo lo è stato poco: per qualche dedica delle femministe, per quel suo essere una vittima innocente in un anno che di vite ne ha travolte molte. Un mistero la sua sorte lo è stato, nel senso che, come in molte vicende nazionali, non si sono mai trovati i colpevoli del suo assassinio. La ricerca della verità nel suo caso ha assunto note perfino grottesche, con menzogne, smentite, ricostruzioni di comodo, omissioni, fino alla condanna dell’avvocato della famiglia Masi, Luca Boneschi, per diffamazione del giudice istruttore che aveva firmato la sentenza di archiviazione del caso nel 1981, Claudio D’Angelo.

 

Sulla copertina del libro, pubblicato da Feltrinelli, tra ritagli di giornali spicca la fototessera della ragazza. Con un faccino un po’ triste, un’espressione da adolescente corrucciata. Quasi un’immagine di chi sa di non avere futuro, non perché preveda la morte, ma perché “non garantita”, come tutti quelli che sollevavano la testa in quegli anni di crollo di certezze. Era col fidanzato. Voleva andare a firmare in piazza Navona per i referendum radicali nel primo pomeriggio e poi godersi la giornata di sole. Trovò la zona militarizzata e ogni accesso vietato. Persino i deputati radicali erano stati respinti dal formidabile dispiegamento di poliziotti e carabinieri. Mimmo Pinto di Lotta continua, eletto deputato per Democrazia proletaria, era stato spintonato, buttato in terra e dileggiato dai tutori dell’ordine. Giorgiana, che aveva rassicurato i suoi (padre barbiere, madre casalinga) dicendo che era abbastanza accorta e che non si sarebbe fatta coinvolgere in incidenti (erano all’ordine del giorno) va a zonzo per la città, cercando altri accessi verso i banchetti delle firme, svicolando tra i numerosi focolai di scontri, accesi da cariche della polizia e da resistenze degli autonomi, tra i dintorni di piazza Navona e fino al lungotevere. Nella sua borsetta sarà trovato, tra le altre cose, un panino.

 

Poi capita alla fine di ponte Garibaldi, verso piazza Belli e Trastevere, nel momento in cui polizia e carabinieri hanno appena smantellato una barricata e stanno ingaggiando una lotta con i manifestanti, attestati verso Trastevere. Un giovane carabiniere è stato raggiunto di striscio da un colpo di arma da fuoco. Due giovani, Francesco Lacanale e Elena Ascione, vengono colpiti più o meno nello stesso tempo in cui viene ferita mortalmente Giorgiana. 

Vari testimoni dichiarano che gli spari arrivano dalla parte delle forze dell’ordine. Eppure le armi in dotazione ai reparti non hanno sparato, sarà dichiarato dai dirigenti e accertato come verità giudiziaria. Da testimonianze visive di fotoreporter dei giornali e da varie altre fonti emerge che dal lato di poliziotti e carabinieri in divisa c’erano vari individui in borghese armati. Tutto il pomeriggio, a partire dai primi fuochi accesi in piazza della Cancelleria, dalle parti di Campo dei Fiori. Nei vari scatti viene anche riconosciuto un poliziotto, Giovanni Santone, in maglietta bianca con una riga nera e tascapane da “autonomo”. Qui la situazione inizia a confondersi. Il ministro Cossiga in una prima dichiarazione parlamentare negherà la presenza di militari in borghese. Poi, di fronte alle prove fotografiche, le ammette, dichiarando che si trattava di elementi in servizio per segnalare reati, non tenuti a intervenire. Chi ha sparato?

 

Tutto il libro gira intorno a questo interrogativo e ad altri. Si poteva evitare quello che è avvenuto? Quale era il clima generale, che faceva immaginare un epilogo cruento? (Il 12 marzo, dopo l’assassinio di Lorusso a Bologna, la manifestazione nazionale degli studenti si era trasformata in un proliferare di scontri nel centro di Roma, con momenti di conflitto armato.) Poi la ricostruzione va ad analizzare il lungo svolgersi dell’istruttoria, che arriva, come tante in Italia, a un nulla di fatto. 

C’erano uomini in borghese e armati delle forze dell’ordine (quali? antirapine? Digos? corpi speciali? servizi segreti?), qualcuno ha sparato, verosimilmente dalla loro parte, ma chi?  E perché e per quale motivo tante versioni contradittorie? Vecchio non si concede il lusso di ipotesi e di giudizi. Prova a far parlare i documenti, e dai documenti quello che emerge è un fumo di nebbia che avvolge ogni cosa. Cita qualche ipotesi dietrologica avanzata all’epoca o in anni immediatamente successivi, ricorda, senza insistervi troppo, che Cossiga era uomo legato ai servizi segreti e mediatore tra il potere politico e quello militare e appena di sfuggita rammenta che una decina di anni dopo le sue dimissioni da primo ministro in seguito al caso Moro sarà riconosciuto come uno dei sovrintendenti di Gladio, la struttura segreta filo-occidentale che doveva contrastare un’ipotetica invasione del Patto di Varsavia. 

 

 

Il clima del ‘77 era arroventato: il confronto alla luce del sole, nelle assemblee, nelle fabbriche, nelle piazze, era accompagnato da scontri, da azioni terroristiche, delle Brigate rosse e di altre sigle insurrezionali di sinistra, ma anche di quelle cellule neofasciste che con la complicità di apparti dello Stato avrebbero compiuto stragi come quella della stazione di Bologna, anche quella mai definitivamente acclarata dalle inchieste giudiziarie, soprattutto per quanto riguarda la condanna dei mandanti. 

In un clima così teso varie forze giocavano. Qualcuno sostiene che fu avventurismo indire una manifestazione dopo il divieto di Cossiga (e dopo il precipitare di momenti simili nei mesi precedenti). I radicali affermano di aver difeso i diritti garantiti dalla Costituzione, che non potevano essere sospesi in quel modo. Le forze politiche e gli intellettuali al proposito si divisero.

 

Ugualmente si contrapposero tra loro sulla questione di come reagire al clima di paura instaurato in quelli che non a caso furono definiti “anni di piombo”: starsene a casa, non schierarsi né con lo Stato repressivo né con la ribellione o peggio con la lotta armata, o prendere posizione e opporsi al clima di violenza? Il terrorismo, che Vecchio ricorda assommava 102 organizzazioni, insanguinò l’Italia (in Ali di piombo ha raccontato quest’altra parte della storia). La paura era evidente tra le forze dell’ordine, anche, e non esclude, l’autore, tra le righe, che qualcuno abbia manovrato, anche senza il consenso del ministro e dei superiori, per forzare il quadro istituzionale verso leggi speciali. D’altra parte in quale altra direzione si muoveva la “strategia della tensione”, se non in quella di creare paura per indurre una svolta autoritaria e tenere comunque le sinistre lontane dal potere, facendo rigettare alla società qualsiasi ipotesi di governo delle sinistre o di “compromesso storico”?

 

Chi sparò a Giorgiana? Chi ne troncò la giovane vita? (Ora avrebbe 59 anni, sarebbe mamma e forse nonna, ricorda Vecchio.) Come si spiegano le varie testimonianze che dicono che personaggi in borghese, tra polizia e carabinieri, imbracciano armi e che dalla parte delle forze dell’ordine si spara? Domande rimaste senza risposta. Quando l’istruttoria è chiusa l’avvocato Boneschi è l’unico a finire sul banco degli accusati. Ha commentato la sentenza riproponendo le domande inevase, le foto, i filmati, i bossoli ritrovati di armi in dotazione alle forze dell’ordine, le ricostruzioni dei periti della polizia sbugiardate e quelle degli esperti di parte con la dimostrazione che un proiettile sparato dalla parte del ponte occupata dai tutori della legge trapassò la schiena di Giorgiana. Il suo ragionamento, il suo sfogo a voce, è stato trasformato in una dichiarazione dal Partito radicale, in accusa scritta contro il giudice istruttore di non essere andato in fondo. Per potere sostenere la sua posizione nel processo seguente per diffamazione, intentatogli dal giudice D’Angelo, non accetta l’elezione a deputato, rinunciando a trincerarsi dietro l’immunità parlamentare. 

 

La vicenda è grottesca e penosa. Vecchio la ripercorre anche nei suoi risvolti umani, oltre che nei tanti gradi di giudizio, che emettono sentenze contraddittorie, fino a una condanna civile definitiva per calunnia nei confronti del giudice nel 2008, l’unica verità giudiziaria certa dopo trent’anni. Questa rivelazione arriva all’autore quando l’avvocato è ormai malato gravemente e sta per spegnersi. Intorno alla vicenda di Giorgiana si volgono anche le vite che hanno attraversato questi 40 anni di ombre della Repubblica.

 

Una considerazione finale merita la forma del libro. La sua apparente emozionata oggettività, quel non fare mai il passo più lungo dei fatti, arrivando a mettere in campo tutte le ipotesi senza sbilanciarsi su nessuna, sembra il controcanto alla vicenda amara dell’avvocato Boneschi. Fa venire in mente che oggi affermare “io so i nomi dei colpevoli”, come faceva Pasolini, è pericoloso e forse impossibile. 

 

Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974[…]”, Pierpaolo Pasolini, “Corriere della Sera”, 14 novembre 1974.

 

Le vicende di quegli anni sono ancora troppo vicine e ne siamo ancora completamente implicati? È giunta l’ora di staccarsi dai partiti presi e provare a trovare la vera storia di quegli anni oppure registrare i fallimenti di quel bisogno di verità? Oppure?

Maurizio Torrealta, cronista che ha ricostruito in modo intelligente in approfondite inchieste giornalistiche molti di quei misteri recenti d’Italia racchiusi sotto la sigla “trattativa tra Stato e mafia”, ultimamente ha deciso di scrivere un romanzo, Il filo dei giorni (edizioni Imprimatur). Tratta degli attentati dei primi anni ’90 e della misteriosa Falange armata. Perché un romanzo e non un’inchiesta, un libro che cerchi di tracciare la storia “vera” di quei fatti? Torrealta risponde in un’intervista (“Corriere di Bologna”, 28 luglio 2017): 

 

“Sono stato l’unico giornalista ad accedere a ventiquattro faldoni dell’inchiesta giudiziaria sulla Falange armata archiviati in Procura a Roma. Archiviati perché non venivano rilevati profili criminali imputabili a persone specifiche. Non essendoci state conseguenze penali, se avessi fatto nomi avrei corso il rischio di essere processato per diffamazione. Allora ho preferito raccontare le storie piuttosto che nominare le persone”.

 

Conclusione provvisoria: la storia recente d’Italia è narrabile solo come un romanzo, come una fiction, una fantasia dalle tinte fosche con personaggi evanescenti per una sequela di trame feroci, lontane, indistricabili? Qualcosa come le Cronache italiane di Stendhal? Il libro di Vecchio, tra gli altri meriti, ha quello di riproporre, con il suo efficace racconto, la questione.

 

Concetto Vecchio, Giorgiana Masi. Indagine su un mistero italiano, Feltrinelli, pp. 225, euro 18.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
La memoria del ’77
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Severino Cesari. La dolcezza umbra

$
0
0

La dolcezza è stata la cifra umana di Severino Cesari, una qualità che appartiene agli umbri, e che è anche quella della regione dove Severino era nato, terra di profondi umori, grazia e anche di determinazioni assolute; perché c’era qualcosa di roccioso in lui, che si è manifestato dal momento in cui la malattia l’ha colpito, atterrato, ma non demolito, anzi. Roccia ed erba verde e tenera, sono le immagini che conservo di Severino. La prima volta che l’ho visto era nelle stanze di via Tomacelli, a Roma, al Manifesto. Era l’inizio degli anni Ottanta e Severino vi era arrivato da poco, proveniente, credo, da un altro giornale di quella che allora era l’estrema sinistra, Il quotidiano dei lavoratori. Nonostante che lo stigma del periodo fosse l’ideologia, manifestata in ogni modo e a ogni livello, lui non aveva nulla di simile. Non che ne fosse privo, non mancava di una visione del mondo, tuttavia non la metteva mai avanti, non entrava nei discorsi che s’intrecciavano con lui. La curiosità, la disponibilità, la capacità di ascoltare. Prima di parlare lasciava passare qualche secondo, come se stesse raccogliendo le idee, come se quello che voleva dirti dovesse passare almeno due volte dalla sua mente, poi principiava a dire con una sorta di esitazione, d’incertezza, quasi una balbuzie. Porgeva qualcosa che aveva pensato e ripensato con una forma d’interrogazione, prima a se stesso. Mai risposte dirette e neppure indirette; riflessioni, esitazioni, interrogazioni, che spostavano sempre il discorso a lato o in qualche zona della sua mente che non era facile conoscere.

Seduti dietro i tavoli della redazione c’erano lui e Domenico Starnone. Due persone così diverse, eppure così simili. Erano dei silenziosi, meditavi, l’umbro e il napoletano, entrambi dei rimuginatori, seppure in modo molto differente. Ho lavorato con Severino per parecchi anni, forse otto o dieci. La cronologia non è il mio forte e neppure le date. Ci sentivamo per telefono, perché all’epoca andare dall’Emilia, dove abitavo, a Roma era un piccolo viaggio e costava anche, tempo e un po’ di denaro. Telefonate lunghe, con quei lunghi silenzi di Severino dentro la cornetta del telefono. Aspettavo la risposta ai miei interrogativi. Severino era il mio editor, se così si può dire. Non chiedeva o riceveva semplicemente i pezzi che scrivevo per il quotidiano comunista di via Tomacelli. Li commentava, faceva obiezioni con paziente umbra maieutica. Voleva arrivare al punto, dirmi qualcosa che non funzionava nel pezzo, ma non ci andava dritto, e neppure girava intorno. Componeva ellissi di parole, affinché, alla fine, fossi io a dire quello che suggeriva con molto tatto, riguardo e finezza. La dolcezza consisteva in quel movimento di pensiero e di parole che fluiva nel suo discorso composto di silenzi. L’immaginavo dall’altra parte del filo con quella esitazione che si concentrava nel suo mento, nel passaggio dalla cosa che aveva in mente alla frase compiuta. Ti portava lì pian piano.

 

Ricordo che avevo scritto una lunghissima recensione a Il mulino d’Amleto di De Santillana pubblicata da Adelphi. Non era d’accordo. Bisognava tagliare il pezzo. Di sicuro era troppo lungo. Severino mi suggeriva di essere più essenziale, di non divagare. Ma c’era qualcosa di non detto nel suo discorso telefonico. Alla fine concordammo la riduzione. Era giugno, probabilmente. A settembre squilla il telefono. Era Severino. Durante l’estate aveva letto anche lui il libro di De Santillana. Mi diceva che avevo ragione, che era come avevo scritto e che lui ancora non lo sapeva perché il volume non aveva avuto il tempo di leggerlo, e che i tagli che mi aveva suggerito erano sbagliati. Quale fosse la questione su cui non era in accordo non la rammento più, e forse lui non la disse, né prima né dopo. Ma quello che importava era la nostra, la sua, interlocuzione. Il rapporto tra noi. Leggere, scrivere, correggere, pensare ancora. Interlocuzione è una brutta parola probabilmente, ma è quello che Severino sapeva fare: parlare tra, parlare in mezzo, parlare e collegare pensieri espliciti e pensieri impliciti. Lo spazio del suo dire era uno spazio intermedio, di raccordo. Anche quando la malattia si è accanita crudelmente con lui, dall’ictus, al trapianto del rene e poi il tumore, lui interloquiva con il male che abitava il suo corpo, creava spazi tra le cose e tra le persone.

 

Dopo anni di discorsi al telefono e visite a Roma, Severino cominciò a occuparsi di libri. Ricordo una riunione di collaboratori del Manifesto a Roma, c’erano Remo Ceserani, Giorgio Boatti e altri amici di quella stagione. Severino non stava più al giornale, mi sembra di rammentare. Arrivò con un paio di libri che aveva curato presso Theoria. Era la collana “Ritmi”. Con la sua solita dolcezza, pudore, ma anche convinzione, ci mostrò quei volumetti. Ne era orgoglioso, ma sempre in modo discreto, mai esibito, mai eccessivo. Parlava del lavoro che aveva avviato come una collaborazione: “Mi hanno chiesto di dare una mano”. Poi, dopo qualche tempo, venne “Stile libero” con Paolo Repetti. Ci eravamo persi di vista e ora ci rivedevamo nelle stanze di Einaudi dove eravamo entrambi approdati. Si fermava di colpo in mezzo al corridoio e, anche se era uno o due anni che non ci vedevamo, cominciava a parlare come se ci fossimo visti solo il giorno prima. La conversazione è stato lo stile del suo essere nel mondo. Con gli autori che seguiva, con gli amici della casa editrice, con gli amici sconosciuti e lontani che lo leggevano negli ultimi anni di strenua e indefessa lotta con il male. Sempre con dolcezza, garbo, pudore, come solo gli umbri sanno fare. “Stile libero” è stata una delle poche cose innovative in editoria negli ultimi decenni. Una pietra che rotolava staccando muffe dell’editoria, trascinando con sé una intera generazione di scrittori. Uno stile frutto del suo lavoro e quello di quel folletto che è Paolo Repetti. Coppia improbabile e insieme perfetta. Uno l’opposto dell’altro: lui silenzioso e quasi balbettante, l’altro ciarliero e ficcante. “Stile libero” è stato anche uno scandalo nella compassata Einaudi degli anni Novanta. Una provocazione continua. Il dolce Severino ha interpretato la parte dell’innovatore, quasi un’antitesi del suo carattere così antico e remoto. Lui che era nato come scrittore nelle stanze del Manifesto, autore di un sottile libro di racconti da Sellerio, ha lasciato il passo agli altri scrittori, li ha scoperti o inventati, li ha consigliati, li ha seguiti, li ha spinti a dare il meglio di sé con costanza, sensibilità, decisione. Non tutto quello che andava pubblicando mi piaceva, non tutto mi corrispondeva. “Stile libero” ha interpretato al meglio, come ha detto qualcuno, l’età dei consumi nell’editori italiana, quella della società di massa allargata degli anni Novanta e Duemila, in cui la letteratura è diventata un prodotto di consumo. Se l’ha fatto in modo intelligente e decisamente alto è merito di Severino Cesari, del suo stile e del suo metodo di lavoro. Ci siamo visti poco negli ultimi anni. Qualche scambio di email. Un paio di telefonate. Un incontro a Torino al Salone. “Ti seguo ancora, ti leggo”, aveva detto. Ogni parola era un gesto di rispetto e di affetto, una gentilezza, un’attenzione, spontanea e irriflessa come un respiro. Una voglia di vivere che era ammantata dell’ennesima grazia. Prima di questi ultimi mesi non avevo capito che la sua vita è sempre stata composta di piccole cose. Pensava e viveva intorno a frammenti di vita, frammenti di opere, frammenti di parole, che poi ricomponeva nella sua testa e che uscivano dalla sua bocca con quella forma strana e inusuale. Con un sorriso che non avevo mai visto sulla bocca di nessuno, mai piegato all’insù, come nelle faccine che oggi si usano, ma disteso, inafferrabile, enigmatico. Sarà stato così sino all’ultimo, ne sono certo. La dolcezza sino alla fine e anche dopo.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Un ricordo
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Chi vince non sa cosa si perde

$
0
0

La domanda, sottesa alle riflessioni che danno corpo a questo fascicolo di “aut aut”, potrebbe avere la seguente formulazione: “Attraverso il gioco possiamo tentare di disattivare gli effetti negativi dell’attuale agonismo sociale?”. Prima di rispondere con un “sì” o con un “forse sì” bisogna intendersi sulle parole, a cominciare dalla parola “gioco” che è per sua natura sfuggente e difficile da usare.

Nella domanda si dà per scontato che la pratica del gioco sia in grado di stare in una posizione più vantaggiosa rispetto a tutte le pratiche dell’agonismo che ormai caratterizzano le nostre relazioni quotidiane. La premessa è dunque che il gioco segni uno scarto significativo rispetto all’agonismo, non coincida né possa sovrapporsi con esso come invece tendiamo a credere. Ma riusciamo a parlare di gioco, a servirci del gioco, senza considerare che l’agone, l’agón per usare l’antico termine greco, insomma l’agonismo, anche nelle sue varianti più estreme o estremizzate di oggi, è qualcosa che ha a che fare con l’esperienza ludica?

 

P.A. Rovatti

 

 

0. Il titolo in gioco

 

Ambigua e paradossale, la forma del motto che appare nel titolo è ciò che più lo rende adeguato ad aprire un discorso sull’agonismo. Delle sue tre sezioni [/Chi vince/ /non sa/ /cosa si perde/] quella sensibile è certamente l’ultima, sensibile perché vi si manifestano sia l’ambiguità sia il paradosso. 

In quanto all’ambiguità, il /si/ può avervi 

 

[1.] valore intensivo (come in: “l’appassionato non si perde neanche una puntata del programma”)

 

 

[2.] valore di pronome impersonale (come in: “in questi casi si perde la pazienza”). 

 

La differenza fra i due casi si fa lampante quando si agisce sulla prima sezione, per esempio commutandola alla prima persona singolare. Nel caso [1.], bisogna variare anche la terza sezione: “Se vinco, non so cosa mi perdo”; nel caso [2.], non è necessario: “Se vinco, non so cosa si perde”. Ma è anche vero che, fra [1.] e [2.] poco cambia nel senso generale del motto: “(Chi vince non sa) cosa egli, vincendo, si sia perso / cosa, in generale, vincendo [ci] si perda”.

Il vero punctum del motto sta quindi nel suo carattere di paradosso, che a sua volta è fondato innanzitutto sulla relazione semantica fra “vincere” e “perdere”. È un’opposizione di reciprocità, in cui avviene un’inversione del punto di vista da cui si considera la medesima azione. In questo caso si tratta dell’azione agonistica, che implica la presenza di almeno due soggetti e ha un compimento necessario che può essere descritto in due modi: /A ha vinto su B/ o /B ha perso da A/. Che un soggetto nasca non ha come conseguenza, o implicazione, che un altro soggetto muoia; nella relazione agonistica invece non si vince senza che qualcuno perda. Accade lo stesso alla coppia “acquistare/vendere”. Avrebbe senso una versione commerciale del nostro motto, che dica: “Chi acquista non sa cosa si vende”? Forse no, ma ai lettori di Marcel Mauss potrebbe risultare soddisfacente la versione donativa del motto stesso: “Chi dona non sa cosa riceve”. 

 

Il motto innesca un’attesa: l’attesa che venga confermata l’ovvietà doxastica per la quale uno vince, uno perde. Nei giochi con il danaro, la vincita del primo corrisponde alla perdita dell’altro, tanto è vero che un costrutto come “la perdita del vincitore” avrebbe un ethos perfettamente ossimorico. Ma qui è nascosta una seconda ambiguità. “Perdere” non è solo il reciproco (o inverso) di “vincere”; equivale anche (e questa volta senza correlazione a “vincere”) a “non avere più”, come si osserva nel luogo comune: “Non sai cosa ti perdi”. Scardinando la tautologia “chi vince, vince” e innestandole il luogo comune “non sa cosa si perde”, il motto delude l’attesa che ha suscitato e ribalta la tautologia in un apparente nonsense: “Chi vince, perde (ma non lo sa)”. 

Una parola, infine, sulle virgolette. Ho trovato il motto del titolo in una raccolta di aforismi e citazioni legati al mondo del rugby. Non conosco il contesto originario, non saprei come verificarne l’attribuzione, non posso escludere che qualcuno avesse coniato il motto in precedenza e sono consapevole che potrebbe essere altrimenti coniato da chiunque si trovi a commentare una propria sconfitta e cerchi di uscire dalla lizza almeno come “vincitore morale”. Il mio interesse nel motto è nella sua capacità di confondere le acque frettolosamente separate da un’opposizione troppo rigida e piatta fra vincenti e perdenti.

 

1. Vincenti

 

Nel corso degli anni ottanta dello scorso secolo, uno slittamento semantico non vistoso ma decisivo ha interessato il participio, aggettivo e sostantivo “vincente”. 

Nella sua accezione tradizionale, “vincente” è sinonimo di “vincitore” e di “vittorioso”. È quindi una qualificazione terminativa: giunge alla fine di un’azione. Sembra inoltre in relazione più stretta con la dimensione della “vincita” (“il cavallo vincente”, “la schedina vincente”, il “numero vincente”) piuttosto che con la dimensione della “vittoria”, che si correla più frequentemente al “vincitore”. 

Solo in seguito è parsa prevalere un’accezione, al contrario, “incoativa”, quella secondo cui “vincente” nomina la condizione di chi è “abituato a vincere”, ha “il giusto atteggiamento per vincere”, e alla fine dei conti è addirittura “destinato a vincere”. Questa accezione capovolge l’ordine logico e cronologico dell’azione: non è più il vincere che fa il vincente, ma è il vincente che fa il vincere. “Risultare vincente” è la constatazione di un esito agonistico; “essere vincente” è ora una propensione, un’inclinazione, un tratto di carattere (un ethos). Lo stesso, naturalmente, è capitato anche al termine opposto di “perdente”.

Se si concede che questa intuizione semantica abbia un reale fondamento storico e sociolinguistico negli usi lessicali italiani degli anni ottanta, allora si potrebbe metterla in relazione a un’altra osservazione. È stato, quello, anche il periodo in cui alla dimensione politica della “lotta” fra classi si è sostituita la visione delle relazioni sociali come “competizione” fra simili (imprese, gruppi, squadre, individui). Una competizione pervasiva e frattale, diffusa in ogni ambito, ben oltre quelli che Roger Caillois indicava già negli anni cinquanta come settori di incidenza della propensione all’agon, nella vita sociale. La tabella che nel suo trattato Caillois ha posto fra il capitolo 4 (“Degenerazione dei giochi”) e il 5 (“Per una sociologia che parta dai giochi”) prevede: 

 

a. gli sport come “Forme culturali” dell’agonismo “che restano in margine al meccanismo sociale”; 

b. la concorrenza in campo commerciale, gli esami e i concorsi come “Forme istituzionali integrate alla vita sociale”; 

c. “violenza, volontà di potenza, astuzia, inganno” come forme di “degenerazione” dell’agonismo.

Occorre notare come gli esempi che compaiono nelle prime due caselle (quelle delle “forme marginali” e delle “forme integrate”) sono tutti a vario titolo “istituzioni” e del gioco condividono l’aspetto regolato. Nella terza casella, le “degenerazioni” elencate non sono invece “giochi” bensì “modi di giocare”. Negli stessi termini di Caillois, le prime due sono dalla parte del “ludus” (gioco come matrice formalizzata di regole); la terza dalla parte della “paidia” (gioco come dissipazione di energia), almeno per quello che riguarda violenza e volontà di potenza. Nei termini del saggio di Umberto Eco su Homo ludens di Johan Huizinga, le prime due caselle riguardano il “game” e la terza riguarda il “play”; più in specifico, elenca quattro modi di negare il cosiddetto “fair play”, modi che possono essere praticati anche nelle attività delle prime due caselle. Nello sport avremo il doping, la fallosità “antisportiva” (che danneggia non il giocatore avversario ma la persona del giocatore avversario), la corruzione degli arbitri; nella concorrenza avremo tutte le sue forme sleali, la corruzione degli organismi di controllo, la frode commerciale.

 

A proposito degli anni ottanta “una sociologia che parta dai giochi” come quella auspicata e fondata da Caillois forse troverebbe da dire che la normale fisiologia della concorrenza, del carrierismo e della valutazione del merito (rispettivamente nei campi agonistici del mercato, della gerarchia aziendale e della docimologia di esami e concorsi) si è come disciolta nell’ubiquità della “performance”. L’aspetto istituzionale della competizione sociale (cioè, il suo game) ha allora cominciato a perdere molto del suo formalismo (avviandosi verso la relativa libertà del play): in campo economico, con la deregulation reaganiana e l’insorgere del neoliberismo; in campo sociale, con la proclamazione thatcheriana dell’inesistenza della società e della centralità dell’individuo; in campo comunicativo, con la nuova informalità del discorso pubblico e con l’esplosione onnipervasiva dei mass media e della pubblicità. 

Come per un malinteso para-darwiniano, la “struggle for life” (o una sua parodia) ha occupato ogni ambito. La competizione è diventata la risposta all’egualitarismo della fase precedente e la quantificazione dei meriti – con il conio del neologismo valoriale (o meta-valoriale) “meritocrazia” – ha assunto la funzione di stabilire graduatorie in ogni settore. Audience (tv), incassi (cinema, mostre), copie vendute (editoria periodica e libraria): una società forse più confluente che “affluente” ha scelto l’aritmetica come unica misura possibile del “successo”, con il risultato di moltiplicarlo esponenzialmente, facendo trovare nel successo di un prodotto le ragioni per il suo ulteriore successo.

In Italia lo sport (forma culturale marginale dell’agon) è rappresentato soprattutto dal calcio. Anche grazie alla vittoria italiana ai campionati mondiali del 1982 (e alle sue ricadute sull’immagine e sull’autorappresentazione della nazione), il calcio ha acquisito dagli anni ottanta lo status di campo metaforico privilegiato, anche nel discorso politico, dove locuzioni come “scendere in campo”, “scelta di campo”, “segnare un gol”, “fare melina”, “fare catenaccio”, “finire in fuorigioco”, “prendere in contropiede”, “finire in panchina” (per non parlare dello slogan “Forza Italia!”) sono entrate con naturalezza nella narrazione delle vicende politiche.

 

In questo quadro la qualifica di “vincente” ha scavalcato (all’indietro) la fase cruciale della performance: da allora non è più la sanzione positiva che dalla performance consegue, ma diventa una forma di “competenza”, che la precede. Per le vite individuali, un carattere, un ascendente zodiacale e, infine, un destino: la “mentalità vincente” (o, al contrario, “perdente”) come qualità principale, nonché definitiva di una personalità. Si può ipotizzare che, nella vita sociale italiana (e non solo italiana), la degenerazione dell’agon sia stata proprio questa.

 

 

2. L’agon in semiotica

 

Agon deriva dal verbo greco “ágo”, io conduco, guido, e originariamente designava un luogo di riunione. La definizione con cui Caillois presenta la categoria dell’agonè la seguente:

 

Esiste tutto un gruppo di giochi che presenta le caratteristiche della competizione, vale a dire di un cimento in cui l’uguaglianza delle probabilità di successo viene artificialmente creata affinché gli antagonisti si affrontino in condizioni ideali, tali da attribuire un valore preciso e incontestabile al trionfo del vincitore. Si tratta dunque, ogni volta, di una rivalità che si rapporta a una sola qualità (rapidità, resistenza, forza, memoria, abilità, ingegnosità, ecc.) e si esercita entro limiti ben definiti, senza alcun intervento esterno, in modo che il vincitore appaia il migliore in una determinata categoria di imprese.

 

È una visione del tutto ideale, in cui l’agon

 

[…] lascia al campione le sue sole risorse, lo spinge a trarne il miglior partito possibile, lo obbliga infine a servirsene lealmente e entro i limiti stabiliti che, uguali per tutti, hanno in compenso la funzione di rendere indiscutibile la superiorità del vincitore. L’agon si presenta come la forma pura del merito personale e serve a manifestarlo.

 

Abbiamo già visto che prevaricazione, violenza, astuzia e inganno sono considerate da Caillois come forme degenerative dell’agon e che dunque, per lui, “play” e “fair play” coincidono necessariamente. Questa necessità deriva dall’osservazione (nient’affatto trascurabile) per cui le “condizioni ideali” fornite dalle regole del game e il perfetto rispetto del fair play trovano un corrispettivo (per quanto artificiosamente creato, nell’ambito separato di un gioco) nella loro “funzione di rendere indiscutibile la superiorità del vincitore”. Si è liberi di entrare in un gioco, ma occorre accettarne l’uguaglianza delle regole, per tutti, in modo che l’esito finale sia considerato pienamente valido dal vincitore come dallo sconfitto (come anche da giudici e osservatori).

Portata all’estremo, questa concezione dell’agonismo arriva a far sbiadire la figura dell’avversario, come avviene nell’esposizione della propria filosofia tennistica da parte di Gerhardt Schtitt, il personaggio dell’istruttore capo nell’accademia di tennis di Infinite Jest:

 

Il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall’altro lato della rete: lui non è il nemico; è più il partner della danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione. Le infinite radici della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti per trascendere l’io in immaginazione ed esecuzione. Scompari dentro al gioco: fai breccia nei tuoi limiti: trascendi: migliori: vinci.

 

Anche per Caillois l’agon è “una rivendicazione della responsabilità personale”, in cui il giocatore “conta solo su sé stesso”. La funzione dell’avversario resta certo necessaria all’agonismo; ma in questo modo di porre la questione il vero obiettivo del gioco è il superamento dei propri limiti, superamento di cui la prevalenza sull’avversario è semplicemente la sanzione.

È qui che la differenza fra “essere vincenti” e “risultare vincenti” produce le maggiori conseguenze e dove appare più chiara la differenza fra la vincita e la vittoria. Se uno dei verbi correlati all’agonismo è “misurarsi”, ritroviamo un’ambiguità simile a quella discussa a proposito del titolo: prendere la “misura” fra sé e un altro implica misurare sé stessi e il verbo esprime nel contempo entrambe le operazioni.

Per la semiotica, l’agon traduce e, in qualche misura, dà sostanza figurativa alla struttura polemica della comunicazione e della stessa significazione. “Il senso si dà nel dissenso”, scrive Gianfranco Marrone e il principio si può applicare alla natura oppositiva e differenziale delle relazioni semantiche più profonde come al confronto fra soggetto e antisoggetto sia all’interno delle strutture narrative sia nella comunicazione.

Ma l’analisi semiotica della dimensione polemica si è trovata costretta ad affiancarla e integrarla (più che opporla) a una dimensione contrattuale. “È indispensabile”, dice Marrone, 

 

che gli stessi contendenti abbiano qualcosa in comune, un codice per capirsi, un sistema di valori condiviso mediante cui dare agli stessi gesti gli stessi valori, alle stesse parole gli stessi significati. Per litigare, occorre prima essere d’accordo sul senso stesso del litigio, sui significati specifici di ciò che ci si rimprovera vicendevolmente. Se ogni contratto presuppone, ovviamente, un conflitto (ci si mette d’accordo per non parlarne più), vale anche il contrario: ogni conflitto presuppone un contratto (si deve essere consapevoli della comune posta in gioco della lotta). Anzi, relazioni polemiche e contrattuali sfumano gradualmente e reciprocamente le une nelle altre.

 

Qualcosa di analogo càpita, in particolare, nell’universo semiotico dei giochi, dove

 

[…] gli avversari sono in permanente cooperazione per stabilire il dialogo ludico. Cooperazione sulle regole e sul desiderio condiviso di giocare, cooperazione all’interno del processo speculare di emulazione.

 

Non si tratta qui di sostituire i giochi competitivi con quelli cooperativi, secondo utopie pedagogiche che non arrivano a distinguere la competizione dalla sopraffazione. Si tratta piuttosto (e all’opposto) di riconoscere gli elementi contrattuali dei rapporti polemici, e quelli polemici dei rapporti contrattuali, come in effetti la semiotica ha saputo da tempo. Questo permette di considerare come l’agonismo possa fuoriuscire dal modello cailloisiano dei giochi e sfociare in una dinamica di dissidio, o di conflitto aperto, in cui la relazione competitiva non trova una cornice collaborativa che contemporaneamente la contenga e la definisca. 

Nella storia recente della politica italiana, per esempio, i dispositivi di delegittimazione dell’avversario, la manipolazione delle normative che regolano le interazioni (dai sistemi elettorali ai regolamenti parlamentari), i fallimenti (totali o parziali) di tutti i tentativi di riforma largamente condivisa della seconda parte della Costituzione sono stati i sintomi ricorrenti del rifiuto di vedere una dimensione contrattuale all’interno della relazione polemica; la conseguenza è stato il sabotaggio delle dinamiche di “gioco”. Il sospetto è che il dibattito a proposito del “game” (le “regole del gioco”) abbia oscurato il tema del “play” (la degenerazione dei modi di giocare), dove tutti gli elementi già censiti da Caillois nella sua tabella (violenza, volontà di potenza, inganno e astuzia) hanno finito per forzare le forme istituzionali regolamentate.

 

3. La posta in gioco

 

A parte il fatto stesso di essersi occupato del tema, per certi versi, per primo, il principale contributo di Johan Huizinga a ogni teoria del gioco è stato quello di mostrare come il gioco non intervenga a posteriori, né cronologicamente né logicamente, rispetto a istituzioni umane come la giustizia, la poesia, il teatro, la religione. È per questo che quando diciamo che sia nella comunicazione sia nel gioco l’aspetto polemico-competitivo e l’aspetto contrattuale-collaborativo si presuppongono reciprocamente non possiamo dare per scontato che sia il gioco a funzionare secondo il modello comunicativo e non, al contrario, la comunicazione che sia stata modellata dal gioco. Ma sarebbe anche vano volerlo stabilire.

Qualcosa si potrebbe pensare anche a proposito della struttura narrativa di base in cui, secondo Algirdas J. Greimas, un soggetto vuole o non vuole, può o non può, deve o non deve, sa o non sa congiungersi o disgiungersi da un oggetto di valore. Nella teoria dei giochi il soggetto è il giocatore e l’oggetto di valore è, o dovrebbe essere, la posta in gioco. Dal gioco del “fort-da” descritto da Sigmund Freud alla dottrina dell’oggetto transizionale di Donald W. Winnicott, la psicoanalisi del gioco affonda le sue radici proprio nella creazione di uno spazio interposto, un’“area intermedia fra le cose percepite e quelle concepite”: nella prima infanzia è l’area in cui il soggetto sperimenta il dominio sulla sparizione e riapparizione di un oggetto; è la stessa area in cui si sviluppa il linguaggio e, sempre per Winnicott, quel che chiamiamo “creatività”. Ma è proprio così scontato che la posta in gioco sia l’oggetto di valore, nella semiotica del gioco? Innanzitutto va distinto lo scopo interno al gioco dalla sua posta. Il caso è facile quando il gioco mette in palio un oggetto di valore. Nel poker, lo scopo del gioco è formare una combinazione vincente (vincere o, in alternativa, convincere gli altri giocatori all’abbandono); la posta del gioco è il piatto da aggiudicarsi, la vincita conseguente alla vittoria. In altri casi la distinzione è più problematica.

I giochi competitivi si dovrebbero distinguere da quelli collaborativi perché i primi hanno un oggetto di valore comune e conteso fra i soggetti, mentre nei secondi l’oggetto di valore è comune ma non conteso. Nella risoluzione collettiva di un puzzle a tessere (più correttamente, un jig-saw puzzle) lo scopo del gioco è il completamento, ed è comune a tutti i giocatori, che vincono o perdono tutti assieme. Questo carattere evidentemente collaborativo del gioco non esclude che segmenti di agonismo possano determinarsi in certe fasi di gioco e localmente (per esempio, la collocazione particolarmente ostica di una tessera su cui si possono sfidare due o più giocatori). 

 

Non bisogna però sottovalutare neppure i possibili aspetti collaborativi nei giochi competitivi. L’esempio che serve a d’Afflon per illustrare questo punto riguarda, ancora una volta, il tennis. Anche qui lo scopo interno al gioco sembra chiaro: molto in sintesi, evitare che la palla tocchi due volte la propria metà del campo e fare in modo che ciò succeda invece nel campo dell’avversario. La posta in gioco sarà la vittoria in sé, il passaggio del turno o la vincita finale di un trofeo (nonché l’avanzamento nella graduatoria, per i giocatori che si dicono “classificati”). L’osservazione diretta del gioco ci dice però che questo non è affatto soddisfacente se non si instaura una tensione ludica, quello stato di “sospensione” e di incertezza di cui già aveva parlato Caillois. D’Afflon va oltre e afferma che la tensione ludica del tennis è volta non tanto a battere l’avversario quanto 

 

[…] a offrirsi reciprocamente la possibilità di affrontare e padroneggiare le situazioni più difficili e di mantenere questa sospensione. Se si desidera battere il proprio avversario, è per meritare di continuare a giocare contro un avversario ancora più ostico.

 

Infatti, per il pubblico come per i giocatori, una partita è interessante solo se nessuno dei due prevale troppo agevolmente sull’altro: è questa la “sospensione” capace di creare la tensione ludica che interessa d’Afflon.

“Tensione” è un termine che consente di tradurre in un linguaggio semiotico appena più formale quel (vago ma onnipresente) concetto di “oscillazione” che si incontra sempre parlando di giochi. Oscillazione fra regole e libertà, fra prevalenza dell’uno e dell’altro avversario, fra attacco e difesa, fra incertezza e scioglimento. Come un meccanismo funziona solo se ha “gioco” (se i due elementi che interagiscono non sono né troppo laschi né troppo stretti), così una partita di tennis risulta soddisfacente sia per il pubblico sia per chi la gioca se lo squilibrio finale tra vincente e perdente si determina solo al termine di una fase di equilibrio la più lunga possibile. Lo scopo reale del tennista, dunque, non è il risultare vincente in sé ma aver mantenuto la propria “sospensione” più dell’avversario, malgrado le sollecitazioni a cui si è stati sottoposti dai suoi colpi. A “fare la partita” non è una successione di punti secchi (aces, colpi vincenti), ma la ricorrenza di stati di tensione che punteggia lo scambio. Ogni singolo colpo di A svolge due funzioni: chiude l’azione dell’avversario B (è dunque terminativo; risolve il dubbio: A riuscirà / non riuscirà a colpire la palla?) e contemporaneamente ne apre una nuova (è doppiamente incoativo: il tiro di A sarà / non sarà valido? B riuscirà / non riuscirà a rispondere?).

Riformulato così lo scopo del gioco, si capisce come mai l’ideale del tennis è l’incontro fra giocatori di pari abilità: come segnalato da d’Afflon, una parte importante è giocata dall’“emulazione”. Nel caso in cui si incontrino invece due giocatori di livello impari, il fair play tennistico impone al più forte di non attenuare il proprio impegno ma di onorare il gioco comportandosi come se stesse affrontando un pari grado. 

 

Del resto, come negli scacchi, anche nel tennis i grandi giocatori hanno la qualifica di “Maestri”: giocare contro di loro dà infatti la possibilità di imparare, nell’essere sconfitti. Ecco dunque la posta in gioco alternativa, quello che si perde vincendo e che si vince perdendo. Il vincitore guadagna il prestigio, l’applauso del pubblico, il trofeo: in cambio, dice d’Afflon, offre al perdente un “dono epistemico”, la consapevolezza dei suoi punti deboli, la via per migliorare. La “maestria” è sì una dote individuale ma implica anche una relazione. È anche per questo che ci si diverte di più a giocare contro un avversario più forte di noi, a dispetto della probabilità ovviamente superiore di uscire sconfitti dal match. 

In conclusione, lo scopo del tennis è quello di battere l’avversario, o più sottilmente, quello di provare a batterlo? Provare significa “provarsi”, misurarsi, trasformando l’eventuale sconfitta in un’occasione per acquisire maggiore maestria.

 

4. Competizione e conflitto

 

D’Afflon finisce per riformulare la famosa quadripartizione di Caillois, trovando che il parametro che distingue agon, alea, mimicry e ilinx (competizione, sfida al caso, mascheramento e vertigine) è costituito da ciò che viene di volta in volta messo in gioco.

Nell’ilinx, è il rapporto con la propriocezione, con la percezione del proprio corpo.

Nella mimicry, si gioca con la propria identità personale.

Nell’alea, si gioca con le potenze metafisiche (gli dèi, la sorte).

Nell’agon, si mettono in gioco le relazioni sociali: competizione e collaborazione, con i loro intrecci e le loro possibili combinazioni, rientrano entrambe nella categoria, e alla pari.

È così possibile distinguere il gioco, anche agonistico, dal conflitto. Nel conflitto si desidera battere quell’avversario particolare; nel gioco, la vera posta è l’agio con cui lo si gioca, la maestria conquistata, la possibilità cioè di esercitare il massimo della propria libertà, l’oscillazione più decisa all’interno dei vincoli stabiliti dalle regole. Il conflitto ha invece come oggetto di valore l’inermità dell’avversario e lì non è davvero importante che l’avversario riconosca formalmente la superiorità del vincitore, che lo ha schiacciato e annullato. Nei codici bellici, la resa e l’onore delle armi sono elementi rituali, che simbolizzano l’ammissione: lo sconfitto si dichiara inferiore al vincitore, il vincitore ammette che lo sconfitto si è battuto. Tale passaggio simbolico è l’elemento che permette di ritornare alla dimensione contrattuale, dopo la fase prevalentemente polemica. Quando questo rituale non viene celebrato, il conflitto non ha più nulla a che vedere con agonismo e gioco poiché mira al puro e semplice annientamento dell’antisoggetto. Di conseguenza il conflitto non ha alcun bisogno di rispettare il fair play e di evitare le degenerazioni elencate da Caillois (violenza, volontà di potenza, astuzia, inganno). 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Agonismo e gioco
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Due artisti da romanzo

$
0
0

Un iperzelante ammiratore di un pittore che egli definisce senza esitazioni il più grande di tutta la Svezia di sempre e forse anche del mondo, intraprende il viaggio di raccolta di documentazione su di lui nel suo villaggio natale sperso tra montagne e foreste nel profondo Nord svedese e ne scrive di seguito la biografia. È L’ultimo bicchiere di Klingsor di Torgny Lindgren (Iperborea, Milano 2016), titolo che probabilmente fa il verso a L’ultima estate di Klingsor di Hermann Hesse, altro breve romanzo su un pittore di tutt’altro tono e intenzioni.

Klingsor ha fatto una scoperta che gli ha cambiato la vita: ha trovato un bicchiere, peraltro abbandonato dal capostipite della sua famiglia decenni prima, sopra un ceppo tagliato maldestramente storto; ebbene, col tempo quel bicchiere si era semplicemente raddrizzato da sé solo, “era diventato dritto in alto e obliquo in basso”. È di fronte a questo fenomeno che Klingsor diventa artista, perché “tutt’a un tratto gli fu chiaro che la materia morta non è morta”.

 

Subito si iscrive a un corso di disegno per corrispondenza, che poi evolverà nel corso superiore di pittura, e disegna e dipinge per tutta la vita esclusivamente nature morte, nella stragrande maggioranza con la presenza del misterioso bicchiere che porta sempre con sé. Vorrà raggiungere la sua insegnante, Fanny, a Malmö, ma non prima di avere fatto un lungo e strano giro dell’Europa per conoscere i musei e l’arte che si fa. Ma lo fa a modo suo: all’Accademia di Belle Arti di Stoccolma, per esempio, se ne resterà talmente in disparte nella classe di pittura dal vero, peraltro disegnando nature morte pur davanti a modelle nude, che i compagni lo scambieranno per un usciere. Andrà anche a Parigi, ma solo per guardare le finestre delle più famose scuole d’arte dalla strada.

 

Il romanzo di Lindgren è esilarante, ma di un umorismo non dichiarato, per cui noi stessi esitiamo spesso a ridere per non sentirci ingiusti nei confronti di una convinzione così radicata nel personaggio. Fanny, che all’inizio l’ha accusato di presunzione, se ne innamora e diventa la sua compagna e la sua grande difenditrice, convinta per prima che egli sia il più grande pittore vivente. Con uno zelo abnorme gli organizza l’unica sua mostra personale nella scuola abbandonata del suo paese natale neanche fosse in uno dei più importanti musei del mondo. È la gloria, secondo loro, anche se soltanto i paesani la visitano, nessuno viene da fuori e nessuno ne scrive. Un accadimento un po’ alla Capolavoro sconosciuto al rovescio chiuderà il romanzo e la vita dell’artista, che non sto a svelare per non rovinarne la lettura.

Una vita provinciale sovraccaricata da pochi superammiratori, un po’ ridicola, un po’ patetica, ma portata avanti, anche dal biografo, con una determinazione assoluta. Il fatto è che forse Klingstor ha scoperto davvero qualcosa di importante e questo gli basta, ed è il nocciolo duro anche del lato serio del romanzo. Lindgren ce ne suggerisce il valore facendo dire a Klingstor, con la sua sicumera sopra le righe: “Abbiamo una quantità enorme di cose in comune noi tre, Cézanne, Matisse e io”.

 

L’abbiamo anticipato: quel bicchiere che si è raddrizzato da sé gli ha fatto capire che tutta la materia vive, non esiste “natura morta” bensì, come si dice in altre lingue, silenziosa o calma. Il bicchiere è così, oltre che originario, anche “ultimo”, nel senso forte – non più ironico – delle ragioni ultime, perché mostra l’essenza fisica e metafisica della realtà, quella a cui hanno mirato anche i grandi pittori citati, e non solo quelli, quella di un’arte “capace veramente di vedere attraverso le cose, un’arte senza lati esterni”, capace di mostrare “gli straordinari movimenti e la vita eterna che esistono nell’intimo della materia”. “Gli atomi, i soli, le nebulose, i buchi neri, tutto trova spazio in una natura morta. E chi la dipinge è puro e innocente”. Anche qui Lindgren ammanta la cosa di ironia, arrivando a far dire agli ammiratori di Klingstor che sia stato lui il primo a intuire nientemeno che l’esistenza della particella di Higgs, ma forse non ride quando sintetizza definendola “quella particella dunque che collega l’esistenza con la non-esistenza”.

 

 

Restiamo anche noi in sospeso, perché no? Anzi a me sembra la particolarità stessa del romanzo di Lindgren, che ci fa dubitare sia quando ridiamo che quando ci sembra di cogliere un affondo estetico-metafisico. Chissà? E aggiungo: non è ciò che di fatto ci accade in coscienza di fronte a tanti artisti di tutto il mondo, anche strapaesani, che in modo diverso oscillano ai nostri occhi tra la sproporzione di ciò che credono di aver realizzato e quel “segreto” che pure forse hanno realmente còlto?

 

Ma veniamo al secondo artista, protagonista di un secondo romanzo. Questo artista, a differenza di Klingstor, è reale, è esistito ed è stato un vero artista internazionalmente riconosciuto, passato alla storia. Si tratta di František Drtikol, grande fotografo boemo degli anni venti e trenta del secolo scorso, situato stilisticamente dalle storie della fotografia tra l’Art Déco e il Modernismo. La specialità per cui è più conosciuto sono i nudi in cui i corpi delle modelle sono ripresi in scenografie dalle forme spesso astratte, forme tra forme, corpi tra simboli e astrazioni. Lo scrittore ceco Jan Nĕmec ne ha scritto una biografia in forma di romanzo intitolata misteriosamente, ma anche assertivamente, Storia della luce (Safarà Editore, Pordenone 2017), quasi a voler suggerire una storia dell’essenza stessa della “scrittura di luce” che è la fotografia. Il romanzo, all’opposto di quello di Lindgren, è molto intenso, sempre teso e poetico nella scrittura, preciso nella scelta degli episodi biografici significanti e profondo nelle riflessioni, estetiche e non.

 

Anche per Drtikol, secondo Nĕmec, c’è una sorta di scena primaria, meno esplicita di quella di Klingstor, anzi quasi nascosta, ma altrettanto formativa. È quella dell’inizio del libro: il piccolo František va a casa di un compagno di scuola e osserva come soggiogato qualcosa che sta realizzando il padre di lui. È uno stufenwerk, ovvero un modellino che rappresenta lo spaccato di una miniera – Drtikol è nato in una zona appunto mineraria – con tutti gli strati, i personaggi, gli oggetti. È dunque il contrario della luce, il mondo buio di sotto, delle profondità, ma anche – pure qui, in fondo, come in Klingstor – dell’interno, della “trasparenza”, della visione attraverso. Anche nel caso di František la scoperta è marcata da una stortura, che resta però tale, non si raddrizza come il bicchiere di Klingstor: è il “pollice deforme con l’unghia rovinata dalla quale il papà di Hynek sta togliendo la sporcizia”. La storia della luce dunque sarà la storia della lotta tra la luce e la profondità, la deformità e la sporcizia.

 

Così il romanzo procede raccontando in effetti una vita non facile, tormentata, diseguale, tra la fanciullezza nel paese minerario, poi l’apprendistato in un atelier fotografico locale, quindi l’ambizione di mettersi in proprio e di metterci qualcosa di originale e di artistico, gli studi all’estero, i contatti, eccetera, il tutto intrecciato alle vicende personali di scoperta della sessualità, innamoramenti, delusioni, ripieghi, e alla storia, la Grande guerra, i contesti culturali. Drtikol è ambizioso ma anche professionale, e riesce a raggiungere i suoi obiettivi, sia l’attività di un atelier che attira le persone famose a farsi ritrarre dal fotografo di punta, sia quella artistica che lo porta a esporre nelle più importanti mostre internazionali del periodo.

 

La sua vita si fa complicata, il matrimonio con una ballerina à la mode e la vita nel bel mondo finiscono male, la frequentazione dell’ambiente intellettuale, dapprima esaltante, si fa poi deludente: l’esoterismo dei settori più avanzati lo affascina, lui lo sfrutta anche, per costruirsi un’immagine e conquistarsi un ruolo di primo piano, ma che cosa cerca veramente, profondamente? Nĕmec ripercorre tutte le fasi e lo fa propriamente dall’interno, come se le vivesse egli stesso, cosicché ne abbiamo non solo un resoconto biografico ma anche una riflessione sentita, partecipata, viva. La scelta di fare un romanzo piuttosto che una biografia tout court ha questo senso empatico: il racconto è svolto in una particolare seconda persona, per cui il narratore è come se si rivolgesse al protagonista stesso, come se parlasse con lui, invece che di lui: “Il giorno prima che accade, sei seduto a tavola in una casetta di minatori...” L’effetto è molto singolare, di racconto in diretta, in cui il narratore esplicita al narrato quello che sta accadendo, e perfino ciò che sta pensando. Forse anche perché la storia non è, non deve essere la sua, di lui, ma quella della luce, come dichiara il titolo.

 

Dunque, negli anni trenta Drtikol si interessa sempre più del pensiero orientale. In realtà si tratta di un crescendo in cui Nĕmec dà fondo alle riflessioni più estetiche e filosofiche. Si comincia press’a poco così, già nella fanciullezza: “Poco dopo ti viene in mente che il mondo è come una moneta che viene fatta girare sul piano di un tavolo e, solo se si ferma miracolosamente per qualche istante, allora è possibile intravedere il suo valore e il rilievo sul rovescio”. Nĕmec non lo dice, del resto Drtikol non è ancora fotografo, ma si pensi al senso di questa riflessione sul senso della fotografia: solo se si ferma l’istante si può... E ancora, più avanti: “Non ti era mai venuto in mente che l’uomo potesse percepire solo il lato rovescio del tessuto del mondo, quello con i fili annodati, il disegno sfuocato e le cuciture al contrario; non ti era mai venuto in mente che per gli occhi di coloro che vedono, il tessuto del mondo è stato ordito al contrario, dalla parte della coscienza visibile.

 

Mentre ti stai addormentando pensi: E se invece le cose fossero ancora diverse? Sopra di te c’è la notte, quel tamburo bucherellato dalle stelle... E se ci fosse qualcuno dall’altra parte che guarda attraverso quei buchini e muove una manovella di ferro, in modo tale che a noi l’eternità sembri solo tempo che scorre gradualmente secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, ora dopo ora e giorno dopo giorno?” E per noi, di nuovo: la fotografia come questa scoperta, e questo sguardo e questa idea del tempo... E allora, più esplicitamente, esteticamente, ma anche a proposito di quel “rovescio”: “Non ti manca decisamente il tempo per la tua opera creativa. Rifletti su come potresti raffigurare il diritto del mondo, quel rovescio che brilla? Come puoi persuadere l’obiettivo affinché il rovescio diventi la soggettività?”

 

Alla fine subentra il pensiero orientale, buddismo e yoga, si diceva. Veniamo dunque brevemente all’ultima parte del romanzo. La scena centrale è una sorta di scoperta della luce interiore: “Congiungi le mani nella posizione del dhyanamudra e sul tuo viso appare un’espressione immobile. Sei qui e sei tu. Hai una candela nel corpo, si innalza dal tuo bacino come un albero. Quando la allontani con la fiamma trasparente della coscienza, non si spegne, ma si spinge verso l’alto, si arrampica sempre più su”. E Nĕmec descrive dettagliatamente e sapientemente le fasi del percorso della fiamma, finché essa, “sfaccettata come un diamante, ti perfora con la sua punta il culmine della testa, il punto di concrescenza delle ossa del cranio”. C’entra ancora la fotografia? Sì, è il culmine e insieme, in un certo senso, la fine, l’esaurimento di un compito, di una concezione che mirava a tanto.

 

Drtikol smetterà infatti di fotografare, ma ecco il culmine: “Ora ti volgi verso l’intero in tutto e per tutto, sospendendo i rapporti con il mondo esterno. Se ti viene ancora voglia di dedicarti alla tua creazione libera, al posto delle modelle ti ritagli delle silhouette di cartone”, e descrive il procedimento di fotomontaggio, finché, ecco la luce: “Componi quelle figure ancora come un artista, ma ormai ti interessa di più l’esperienza interiore che esprimono. Chi ha mai rivolto la fotografia verso l’interno? È come se in quelle fotografie le figure fossero illuminate soltanto dalla luce interiore, nebulosa, soffusa. [...] Durante la meditazione capisci che la coscienza è la luce e che la luce è la coscienza. Quando si uniscono è come se in cielo tintinnassero i piatti, forse come segno sei all’equazione che sta alla base della tua vita. Là, dove c’è la luce, c’è anche la coscienza latente, e là dove c’è la coscienza, si nasconde la luce. Il Maestro è impazzito, dicono”. Eccetera, perché non è finita e anche qui il finale riserva un ulteriore svolgimento.

Due artisti opposti dunque, ma quanto anche si assomigliano?

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Cézanne, Matisse e io
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Un'intervista impossibile al signor Bonaventura

$
0
0

L'altro giorno sono stato a trovare il signor Bonaventura. Mi avevano detto che avrebbe compito cento anni, così sono andato a fargli qualche domanda dopo uno spettacolo a teatro. Era una delle sue commedie per bambini: Una losca congiura ovvero Barbariccia contro Bonavantura, messo in scena da Marzia Loriga. Lo spettacolo è stato un vero successo e i bambini, nati quasi un secolo dopo, seguivano incantati e divertiti, ma anche genitori e nonni avevano il sorriso stampato sulle labbra perché, ha detto Sergio Tofano, si può “ridere con qualunque mezzo, purché, s’intenda, di buon gusto”. L’eleganza metafisica di Bonaventura, le impeccabili rime baciate, i velocissimi cambi di scena hanno conquistato tutti. Dopo la recita ho approfittato della naturale cortesia del signor (vero signore) Bonaventura e gli ho rivolto qualche domanda.

 

Caro signor Bonaventura: complimenti! Lei fa cento anni e non li dimostra proprio. Anzi, mi sembra sempre uguale.
Chissà se qualcuno se ne ricorderà. Per l’esattezza li faccio il 28 ottobre. 

 

L'esordio del signor Bonaventura, dal Corriere dei piccoli del 28 ottobre 1917.


Ohibò! Cinque anni esatti prima della Marcia su Roma e, scusi se la scoccio con queste notizie storiche, lei è nato proprio nei giorni in cui cominciava la battaglia di Caporetto, che portò alla più grande disfatta del nostro esercito.
I tempi sono sempre difficili, in un modo o nell’altro, ma la natura mi ha fatto nascere ottimista, sicché cosa vuole che le dica.

 

Mi dica qual è il suo rapporto con Sergio Tofano, con Sto, il suo creatore.

È così discreto. Resta sempre nell’ombra. E poi ci ha tanto da fare. Anzi non vorrei che uno che è stato autore, attore per Pirandello, disegnatore, si secchi con me perché lo ricordano solo per il signor Bonaventura. In fondo non sono che un pupazzo.

 


Autocaricatura di Sto con Bonaventura.


Vorrei almeno che mi svelasse quale è il segreto del suo successo che dura ormai da un secolo e, se posso farle una domanda un po' leggera, sapere come riesce a tenere i pantaloni così bianchi, senza mai una macchia.
Sa quanti milioni buttati in tintoria! Poi che io piaccia dopo cent'anni non deve chiederlo a me, ma a chi da tanti anni mi segue. Le direi delle ovvietà: cerco di far bene il mio mestiere, di tenermi a modino, ma son tutte cose che capisce da sé.


Ha ragione e, in più, mi fa sentire un po' stupido cosa che, le confesso, sembra che mi faccia un gran bene. Avrei voluto chiederle di Palazzeschi e di Pirandello, di Bontempelli e di Italo Calvino. Se Marcovaldo è il fratello sfortunato di Bonaventura, ma a questo punto preferisco chiederle la gentilezza di recitarmi una filastrocca.
Vuole che anche lei La filastrocca dei cento animali?

Non osavo chiederlo.

(Bonaventura sospira; poi, schiarendosi la voce)

Le zanzare a Zanzibar 
vanno a zonzo pei bazar 
e le mosche fosche e losche 
fra le frasche stanno fresche. 

Arsi gli orsi dai rimorsi 
bevon l’acqua a sorsi a sorsi. 
Mentre i ghiri ghirigori 
fanno a gara nelle gore, 
ai canguri fan gli auguri 
con le angurie le cangure.


Ecco il merlo con lo smerlo, 
il merluzzo col merletto, 
la testuggine ed il muggine 
ricoperti di lanuggine, 
di fuliggine e di ruggine. 
Tutti i cervi ci hanno i nervi 
e stan curvi e torvi i corvi, 
la cornacchia s’ impennacchia 
e sonnecchia nella nicchia, 
la ranocchia ama la nocchia 
e sgranocchia la pannocchia, 
i cavalli fan cavilli 
ed il ghiozzo ci ha il singhiozzo 
e la carpa è senza scarpa 
e si fa la barba il barbo 
ed i bachi sui sambuchi 
fanno buchi con i ciuchi.


Lunghe brache ci hanno i bruchi 
e le oche fioche e poche 
alle foche fan da cuoche. 
I bisonti son bisunti, 
qui c’è un ragno con la rogna, 
la cicogna sogna e agogna 
di vigogna una carogna, 
l’anatrotto e l’anatrotta 
con la trota trotta trotta. 

Nanerottola è la nottola 
e il pidocchio ch’è sul cocchio 
all’abbacchio strizza l’occhio 
e lo sgombro sgombra l’ombra 
e l’aringa si siringa 
e i mandrilli e i coccodrilli 
fanno trilli e strilli ai grilli, 
(però i grilli sono grulli).


La murena sulla rena 
con la rana fa buriana 
ed a galla resta il gallo, 
duole il callo allo sciacallo 
che barcolla e caracolla, 
la mangusta si disgusta 
e i machachi mangian cachi, 
lo stambecco non ha il becco, 
la giraffa arruffa e arraffa 
poiché vien di riffa in raffa.


Eleganti gli elefanti 
con gli infanti stan da fanti, 
la beccaccia si procaccia 
la focaccia con la caccia, 
la civetta svetta in vetta 
e l’assiuolo solo solo 
fa un a solo nel chiassuolo. 

Per ripicca picchia il picchio, 
la tellina sta in collina, 
sta in Calabria il calabrone 
come a Fano sta il tafano… 
Le zanzare a Zanzibar 
vanno a zonzo pei bazar.


Eh sì. Si potrebbe continuare a lungo, ma ora forse è giunto il momento di farle gli auguri per altri cent’anni come questi

Comprese le guerre, le disgrazie? Non so se ho voglia di vivere altri cent’anni.

Però se lei vive anche noi speriamo, prima o poi, di trovare un milione e che il bene vinca sul male.
Va beh. Per ora mi impegno di arrivare a cento e uno. E tanti auguri a tutti.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Compie 100 anni il personaggio di Sto
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Il nomadismo della poesia

$
0
0

“Leggiamo sempre per un ascoltatore sconosciuto. Uno che non è venuto alla lettura delle nostre poesie per obbligo o per reverenza, ma per il puro piacere e la passione della poesia. Se a fine serata uno sconosciuto viene timidamente a stringerti le mani, la serata non è andata a vuoto.”

 

Ho incontrato Sotirios Pastakas a Paestum, ospiti entrambi all’Hotel Calypso di comuni amici, Roberto Paolillo e Gabriella Paolucci. Insieme abbiamo rievocato gli anni Settanta, quando era in Italia, studente di medicina all’Università di Roma, cantato e ballato. Ma è alla Casa internazionale della poesia di Baronissi che, qualche sera dopo, ho potuto ascoltarlo mentre leggeva alcune sue composizioni.

Non ho difficoltà perciò a riconoscermi in uno dei tanti “sconosciuti” che, spettatori silenziosi in sala e senza particolare famigliarità con la poesia, hanno sentito sobbalzare il cuore, preso da un inatteso coinvolgimento. Ho pensato subito che se il “lirismo” ha significato in molti casi trasformare una “scia di immondizie” in “versi perfettamente puri”, inseguire enigmi linguistici, Sotirios Pastakas poteva senz’altro essere definito un antilirico. La semplicità che riesce a produrre una comprensione immediata è solo quella che ha radici così profonde nell’esperienza da toccare il sentire più intimo di chi legge, modificare la percezione che ha di sé e del mondo.

A Massimiliano Damaggio, che in una intervista per Versante Ripido del 5 aprile 2013 gli chiedeva “Che cos’è la poesia?”, Sotirios risponde:

 

“La poesia è lingua e come lingua crea sinapsi tra cellule nervose, i neuroni del cervello umano; dopo una poesia sconcertante, il cervello umano inizia a lavorare diversamente, cambia il modo con cui vediamo il mondo e tutto ciò che ci accade. In questo modo la poesia cambia il mondo. E poiché i neuroni e le sinapsi sono miliardi di miliardi, ci saranno sempre nuovi poeti che scuoteranno il nostro pigro cervello.”

 

Una risposta scherzosa, ma al medesimo tempo rivelatrice dell’aspettativa immensa che Sotirios ripone nel fare poesia. La parola che può scuotere l’ordine esistente non ha niente di dottrinale e di ideologico; il suo “impegno civile”, si potrebbe dire, sta nella capacità di uscire dalla separazione tra privato e pubblico, tra il corpo e la polis, tra biologia e storia, sta nel tentativo di sottrarre all’“afasia” pensieri, sentimenti, passioni “impresentabili” della vita e della quotidianità.

È da lì, dalle aree di frontiera meno praticate dai saperi e dai linguaggi tradizionali, considerate ancora oggi “non politiche”, che parte il viaggio di una poesia consapevole del legame imprescindibile tra corpo, individuo e legame sociale.

 

In questa singolarità dell’opera di Sotirios Pastakas ho creduto – o voluto vedere il segno del salto di coscienza storica che è avvenuto con i movimenti degli anni Settanta: la critica al dualismo che ha contrapposto e differenziato il destino degli uomini e delle donne, relegando al medesimo tempo nella “natura” le esperienze umane più universali, come la nascita, la sessualità, l’amore, la sofferenza, la solitudine, l’invecchiamento, la morte. È vero che la poesia, tra tutte le lingue sociali che conosciamo è quella che ha continuato a dare testimonianza di tutto ciò che passa nelle “viscere della storia”, senza avere paura di nominare l’orrore. Ma l’esito è stato spesso solo la bellezza e la perfezione del verso.

Sotirios è – come qualcuno lo ha definito – “un poeta dello sguardo”: uno sguardo che scava, spudorato e impietoso, nelle ferite del corpo, nominando i risvolti “indicibili” di un amore finito (L’esperienza del respiro), che si aggira negli interni delle case passando dai gesti più banali della quotidianità al dialogare tenero e pensoso col proprio gatto (Jorge). Ma è anche lo sguardo che riesce ad accostare la violenza del mondo alla distruttività con cui ci accaniamo talvolta sul nostro corpo, che può, attraverso pochi versi scarni, far incontrare in cucine disadorne, su tavole quasi vuote e cibi sempre più poveri, l’“impasse economica” che sta attraversando il suo paese e la spinta a creare nuove forme di “collettività” e di “altruismo” (Rancio).

 

 


Nella splendida lirica, Sarajevo, il ponte che unisce le due sponde del fiume Miljacka e permette alla gente di “camminare su e giù, incontrarsi e scambiarsi abbracci”, si può considerare l’immagine che più si addice all’idea e all’appassionante amore che Sotirios ha per la poesia.

Il “nomadismo” della poesia non è vagabondaggio, errare senza meta, ma la possibilità che ha essa stessa di farsi “ponte”, lastricato di voci diverse e tra loro sconosciute, come quelle dei poeti che si sono incontrati nel 2006 a Sarajevo: voci che parlano di guerre ma anche d’amore e di amicizia, che hanno cantato canzoni popolari e raccontato barzellette, volti su cui si possono leggere sia il dolore che la tenerezza e l’ironia. La voce “che meriterà la poesia” deve essere provata in tutte le condizioni, avere gambe per farsi strada nel mondo, attraversare “i viali illuminati e i vicoli ciechi dei drogati”, lasciarsi “leccare” da lingue e culture diverse.

 

Ai poeti Sotirios chiede la combattività dei “pugili”, anche quando al proprio interno conoscono fragilità e insicurezze, da loro si aspetta una volontà determinata a vincere l’afasia, rendere “indolore l’assurdo”, strappare “parole sempreverdi” persino alle tombe.

Se è così facile e immediato per qualsiasi lettore o ascoltatore ritrovarsi nelle sue poesie, sentirle agire emotivamente, intellettualmente dentro di sé, forse è proprio per questo raro aprirsi all’accoglimento dell’esperienza umana nella sua indicibile varietà e complessità, a partire da se stessi, da ciò che più ci accomuna al sentire degli altri.

A proposito del suo “nomadismo” e del suo vorace interesse per ogni situazione umana, Sotirios così si esprime:

 

“Essendo andato via di casa molto giovane, si è radicato in me lo sguardo del vagabondo e del nomade. Ho sviluppato una personale filosofia dell’anacoretismo, e una conseguente capacità di vedere la situazione umana come un moribondo.

Un moribondo che in ogni momento afferra bulimicamente il meglio che può dagli uomini e dai luoghi.”

 

Di una rara, generosa capacità di apertura verso gli altri e verso il mondo, parla anche l’idea che Sotirios ha della “traduzione”: non un “tradimento”, come si pensa di solito, ma un “marsupio” dove la creazione poetica compie il suo sviluppo, il suo passaggio ad altri luoghi, altre culture, altre lingue.

Pensando alla crisi, non solo economica, che sta attraversando la Grecia, è difficile non interrogarsi su che cosa possa essere per il poeta l’“impegno civile”. Fuori dalla “poesia schierata” e, al medesimo tempo, dall’Accademia, non c’è che l’autonomia di pensiero e di azione di un linguaggio, che il poeta è chiamato a difendere gelosamente e dal quale, non a caso, è venuto, nei giorni più bui, “un insolito fremito vitale”, la spinta a scoprire nuove forme di solidarietà, la speranza di vedere “nascere dalle ceneri una società migliore”. Contro la “solitudine politica” dell’uomo contemporaneo, “prodotto e ricetta del capitalismo”, Sotirios non si è limitato a schierare il poiein, ma una intensa, diffusa attività che va dall’organizzazione di Festival di poesia, riviste, trasmissioni radiofoniche, corsi di scrittura creativa, all’uso della comunicazione digitale – blog, facebook, ecc. –, divenuta indispensabile dopo la crisi delle pubblicazioni su carta.

“Animale da compagnia”, quale appare da tutte le foto che lo ritraggono nei suoi incontri pubblici sorridente e divertito, in mezzo ad amici, ammiratori entusiasti, non si può che confermare l’immagine che egli dà di sé:

 

“Trovo straordinariamente vitale per me trovarmi tra la gente e conoscere persone estranee tra loro e lasciarle parlare così che io possa trarre nutrimento dalle loro conversazioni. Le osservo e le ascolto, anche quando sembro distratto e pensieroso.”

 

Ma la sua poesia non potrebbe essere così coinvolgente, se non conoscesse anche l’amore per la “sospensione del tempo” – quello della sua Larissa, la Grecia di provincia, che permette di “registrare le inclinazioni della luce”, l’ondeggiare del mare e la direzione del vento –, e se non dovesse ogni volta strappare alle “ombre” e al “gelo” una parola creativa di cui tutto si può dire, tranne che abbia “ceduto alla disperazione”.

 

La prima citazione è presa da uno scritto di Sotirios Pastakas pubblicato su face book: L’identità greca. Tutte le altre sono tratte dall’intervista a Sotirios Pastakas, “Una poetica dello sguardo”, a cura di Massimiliano Damaggio, uscita il 5 aprile 2013 su Versante Ripido. Il presente testo è l'introduzione alla raccolta Corpo a corpo, Multimedia Edizioni, 2016.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Sotirios Pastakas
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

La nuda vita dei migranti

$
0
0
Sottotitolo: 

Le immagini recenti e impietose dei corpi, prevalentemente di pelle scura, che giacciono abbandonati sui pavimenti spogli dei cosiddetti centri di accoglienza libici, ancora una volta mi hanno riportato a un tema di cui da un po’ di tempo si parla poco, forse perché se ne è parlato troppo fino a farlo diventare uno slogan, come mi ha fatto notare un amico. Il tema è quello della nudavita. Ancora una volta, perché di immagini simili ne abbiamo viste tante, ultimamente, che richiamano più o meno lontane e orribili memorie. Unica differenza: il colore della pelle, appunto, dei soggetti in questione. Sembra che al momento prevalentemente gli africani funzionino come emblemi di quella che Giorgio Agamben, riprendendo un concetto di Benjamin, ormai diversi anni fa, ha chiamato nuda vita.

 

Vita che non è quella dell’essere dotato di linguaggio e dunque umano per eccellenza, né vita umana puramente biologica, per i greci zoé, che indica il semplice fatto di essere vivi, per umani, animali, se vogliamo anche piante. L’idea di nuda vita o vita “sacra” a cui Agamben si riferisce (riprendendo il diritto romano) è quella di una vita inclusa nell’ordinamento giuridico solo nella forma della sua esclusione. Essa è sacer perché appartiene agli dei e al loro giudizio è direttamente sottoposta. Non è dunque sacrificabile (sarebbe un controsenso) ma semplicemente uccidibile. Il potere sovrano in quanto rappresentante del divino include nella sua sfera questa vita a cui si può dare impunemente la morte, basta che ciò avvenga fuori dalle regole rituali.

 

La nuda vita o vita sacra si colloca dunque nella zona grigia tra bios e zoé, tra vita politica e vita naturale, una no men’s land su cui cui le altre due (forme) di vita si costituiscono transitando continuamente l’una nell’altra. Essa incarna la violenza insita, direi consustanziale, alla legge: c’è una soglia sottile tra diritto e violenza che coincide con il posto occupato dalla sovranità che, a sua discrezione, può attraversare questa soglia. A fronte di una concezione moderna della sacralità, o sacertà, della vita in quanto diritto imprescindibile anche in opposizione al potere sovrano, esiste una originaria e assoluta esposizione della vita al potere e alla sua uccidibilità e a quella che Agamben chiama relazione di abbandono. In quanto vita nuda e uccidibile il soggetto che ne è portatore in qualche modo è già morto, è uno zombie il cui statuto di esclusione/inclusione è necessario, tuttavia, alla costituzione del potere stesso, o meglio, della sua componente violenta. Naturalmente l’esempio pregnante di questo meccanismo nella contemporaneità è il campo di sterminio, nel quale vengono eliminate vite “indegne di essere vissute”, nude vite uccidibili a discrezione del potere sovrano che per l’occasione, a fronte del diritto, opta per il versante della violenza proclamando lo “stato di eccezione” dal diritto stesso (Agamben, Schmitt), ossia la sua temporanea sospensione. È facile che lo stato di eccezione si trasformi in una condizione permanente, come è accaduto durante il nazismo o durante le dittature militari sudamericane, ad es. E come sta già accadendo ai nostri giorni rispetto al fenomeno migratorio. L’emergenza, adottata come pratica abituale, espone evidentemente al rischio che la tutela giuridica dei soggetti (in questo caso i migranti), mostri le sue falle e determini costanti violazioni dei diritti umani. Questo è sotto gli occhi di tutti, lo si voglia vedere o no. Il versante oscuro e violento del potere sovrano, in barba al diritto e in modo consapevole o meno, è sempre in funzione. 

 

Ph Jan Grarup.


Freud, in Il disagio della civiltà (1929), il saggio che può essere considerato il suo testamento intellettuale e spirituale, aveva ampiamente enunciato e illustrato che la cosiddetta civiltà non è una garanzia rispetto alla violenza che abita gli esseri umani: “L’uomo non è un animale mansueto e bisognoso d’amore”. I meccanismi psichici che sono al lavoro per costruire le istituzioni collettive non riescono a neutralizzare del tutto le forze distruttive veicolate da Thanatos, la pulsione aggressiva che Freud aveva tematizzato nel 1920. Ne resta sempre una quota che induce e alimenta sopraffazioni, guerre, violenza di ogni genere. L’etica del desiderio, inaugurata da Freud, spazza via quella aristotelica del “bene”. Gli uomini non cercano il bene, proprio e degli altri, ma il soddisfacimento, anche quello delle istanze aggressive. Qui Freud è meno ottimista rispetto alle affermazioni contenute in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), secondo cui sembrava possibile, non senza prezzo, convogliare le istanze psichiche distruttive nei meccanismi al servizio della costruzione della collettività. Una lettura del testo freudiano del ’29 orientata alla mitizzazione di una presunta “condizione naturale” viziata e ingabbiata dalle catene della civiltà è del tutto fuorviante. L’idea di un essere umano in origine innocente, “naturalmente buono”, e poi costretto dalle limitazioni inquinanti della società è ingenua e soprattutto non è freudiana. Nessuno è innocente, sin dall’inizio.

 

Le vicende di Eros, responsabile di tutti i legami d’amore, non solo erotico in senso stretto, sono costantemente accompagnate da quelle di Thanatos che talvolta (spesso) prevale. Sebbene Freud si astenga dal valutare la civiltà umana, egli considera la pulsione distruttiva il più grave ostacolo alla civiltà stessa. Egli si aspetta, senza garanzie, che una delle “due potenze celesti”, Eros naturalmente, abbia la meglio per affermarsi sull’altra. Calcando un po’ la mano, essere edotti sul potenziale distruttivo insito in tutti noi non autorizza un fatalismo di comodo che si alimenta di una visione “negativa” dell’essere umano: “Non c’è niente da fare: tanto è così”. Al contrario, essa potrebbe o dovrebbe costituire ragione tale da indurre gli esseri umani e le società che essi costruiscono a sorvegliarsi rispetto a ciò che non riesce a essere addomesticato, al residuo distruttivo che genera le condizioni e le immagini da cui sono partita. In tali condizioni estreme le forze distruttive, nella forma del versante violento e cieco (in questo, del tutto pulsionale) della legge, sono al lavoro, legittimate dallo stato di eccezione che sospende il diritto. Nelle medesime condizioni estreme emerge l’essere umano in quanto nudavita. Vita privata dei diritti elementari, infinitamente esposta al potere politico, inconsciamente considerata uccidibile e dunque in fondo già morta, alienabile come quella di homosacer.

 

Sarebbero i migranti, dunque, le attuali figure della nuda vita (ogni epoca ha le sue), vita che, sebbene necessarie al potere politico, non valgono niente. Anzi, è proprio la loro sempre possibile esclusione dal diritto a renderle necessarie. La nuda vita è dunque caratterizzata da una condizione di assoluta esposizione al potere dell’Altro. Essa ci riconduce a quella che Freud aveva definito a più riprese condizione di derelizione (hilflosigkeit), un registro psichico per il quale il soggetto sperimenta un abbandono assoluto, un essere de-relitto che non prevede alcun aiuto da parte dell’Altro. Esso è pura angoscia, se l’angoscia è il sentimento estremo. L’origine è da ricercarsi evidentemente nella condizione di non compiuta maturazione nella quale il piccolo umano si affaccia al mondo, a differenza dei cuccioli non umani: un puledro galoppa dopo poche ore di vita, un piccolo di gatto o di cane esplora da subito l’ambiente in cui si trova anche se è semicieco. Questo registro psichico si mantiene (se non crediamo troppo a una presunta “definitiva maturazione”) nell’essere umano adulto come impronta incancellabile, come possibilità sempre riattualizzabile.

 

Lacan si spingerà a considerarla la condizione umana per definizione. Credo che questa sia un’iperbole lacaniana, penso tuttavia che la derelizione sia lì, sempre pronta a ripresentarsi e a gettare l’essere umano nello stato psichico originario. Lì dove, dal mio punto di vista, emerge la nuda vita, nostra e dell’Altro. L’assoluta esposizione all’Altro tocca una corda etica, ci interpella, ci chiama a fare i conti con ciò che è più scomodo e spesso insopportabile persino da vedere, come le immagini degli africani nei centri di accoglienza, abbandonati sui pavimenti spogli. La vista di quell’abbandono mina le nostre presunte sicurezze, la maîtrise, i confini tra noi e loro, e ci entra nella carne per ricordarci che loro siamo noi, che la derelizione e l’esposizione al potere e all’arbitrarietà dell’Altro non sono scampati per sempre. Essi sono sempre pronti a rispuntare, a ribaltare i rapporti, la nuda vita in quanto registro dell’essere ci ricorda l’estrema precarietà in cui l’essere umano si muove. Riuscire ad averne contezza, anziché rigettarla o collocarla illusoriamente sull’Altro, è di per sé difficile perché prevede l’emancipazione dall’idea di una condizione umana garantita una volta per tutte, ma potrebbe giocare una funzione nel laborioso e infinito lavoro (v. Nancy) di costruzione di legami sociali un po’ meno barbari. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
I nuovi homines sacri
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Notizie dall’impero delle bucce di banana

$
0
0

La buccia di banana ha proprietà miracolose. Non solo dà sollievo alle punture di zanzara, ma cura anche le verruche e attenua le rughe. Oltre a pulire denti, scarpe e argenteria, concima il giardino attirando uccellini e farfalle di ogni colore. La buccia di banana non andrebbe gettata via senza pensarci almeno due volte, essendo fonte inesauribile di rimedi naturali che tendono a migliorare la nostra vita. A meno che, certo, non ci mettiate un piede sopra: in tal caso la vostra vita andrà decisamente a peggiorare. Piegandosi sotto il peso di una gigantesca risata. 

 

Ma perché si scivola così bene su una buccia di banana? E non altrettanto su quella di una pera, di un kiwi o di un avocado? Perché sulla superficie interna della banana sono presenti a quanto pare dei follicoli che se spremuti rilasciano un gel a base di polisaccaridi. Un gel che spiaccicato tra la banana e il suolo provoca l’immediato scivolamento: è ingegnosa la banana. Forse si vendica dell’offesa di essere calpestata. Oppure lavora per il Dio del ridicolo che, al contrario di quello serioso con la barba, non dorme mai.

 

Se capitate tra le mani del Dio del ridicolo, rimpiangerete amaramente la barbetta paternalistica di quello serioso. Il Dio del ridicolo, che regna imperturbabile sull’impero delle bucce di banane, è infatti di una crudeltà inaudita. Dispotica e infantile. È il Dio della vergogna e della caduta: nel ridicolo non si entra, non si esce e neppure si resta, ma per l’appunto si cade. Come in un pozzo. E cadendo non si può fare a meno di chiedersi se sia un sollievo o piuttosto una tragedia. Se tutto è ridicolo, saremo alleggeriti oppure privati di ogni barlume di senso?

 

Pensate a un dittatore. Baffetti, mascella, vocione: l’incarnazione stessa del ridicolo. Ma pensate adesso a quel dittatore da bambino. In mezzo a un cerchio feroce di simili che ride delle sue orecchie a sventola. O delle pezze al culo che si ritrova. In un certo senso il ridicolo ci salva, facendo rotolare giù dal piedistallo quella schiera infinita di idoli e tromboni che funesta l’universo. In un altro ci censura e ci perverte. Dal bambino al dittatore: bacchetta i sogni e le stranezze, trasformandoli in mostruosità.

Il ridicolo è un tarlo che rode il mondo fino a lasciarlo nudo come un torsolo di mela. Con i semini che ci guardano attoniti. All’inizio il can can derisorio ci galvanizza come una forza che libera il mondo dalle sue impettite zavorre. Ma poi finisce per intristirci, come un eccesso di tabula rasa. Di troppa allegra distruzione. Sarà per quello che i più celebri comici di ogni tempo e luogo hanno sofferto di lancinanti attacchi di malinconia? O che Kafka, secondo una delle più belle parabole del Novecento, leggeva le sue cupe invenzioni ridendo? 

 

Ma torniamo alla banana. Ai suoi magici poteri. Magia bianca e magia nera. Risolleva e fa cadere. Pulisce le scarpe e le inganna con quel gel di polisaccaridi nascosto tra le sue pieghe. Prima di tutto abbiamo stabilito che sull’impero delle bucce di banane non risplende la luce di nessuna clemenza. Adesso la questione è se stiamo parlando di un impero retto da leggi più o meno democratiche. Oppure da bassi istinti di sopraffazione. Perché se è vero che il Dio del ridicolo non si riposa mai, quindi non risparmia nessuno, come negare che per amore del suo regno eternamente ridanciano quello stesso Dio percuota con un colpo di frusta soprattutto chi in piedi come gli altri non riesce a stare? 

 

 

Sei grasso e fai ridere. Inciampi e fai ridere. Sei vecchio, storpio, stralunato e una risata globale ti seppellirà. Sulla buccia di banana scivola il potente, d’accordo, ma prima di lui scivolano i poveracci cresciuti a suon di schiaffi e imperfezione. Aperto sberleffo alla legge, il ridicolo è anche il suo principale alleato. La norma e la vergogna di esserne fuori sono infatti il suo maggiore campo di applicazione. Questo è il più crudele paradosso che lo riguarda: contro ogni totalitarismo quale antidoto migliore del ridicolo? Nessuno. Ma la sua spettacolare efficacia in questo ambito non dipenderà anche dal fatto che dentro di sé cova un’anima altrettanto tirannica? Che conosce insomma il nemico meglio di chiunque altro, nella misura in cui gli è fratello? 

 

La seriosità ci uccide, ma il ridicolo ci annienta davanti a un pubblico impietoso. “Sei ridicolo!” è la più brutale ingiunzione al conformismo che conosciamo. Fin dall’infanzia più tenera: si cresce in mezzo a mille traumi e paure, ma niente supera il timore abissale di cadere nel ridicolo. E cadendo essere espulsi dal cerchio della tribù in cui ci è capitato di nascere. La vergogna per una caduta morale può inseguirci fino all’inferno. Ma quella per una caduta su una misera buccia di banana rovina il paradiso per sempre. Distrugge infatti l’immagine di noi che si va dritti nel mondo, consegnandola come un cavallo zoppo ai demoni della canzonatura. Chi inciampa pubblicamente perde ogni stato di grazia e si ritrova goffamente disfatto nelle mani degli altri. 

 

Infine, un’ultima domanda: lo sghignazzo è relativo o universale? Subisce variazione storiche, geografiche, oppure sta ficcato come Satana al centro della terra senza mutare mai? Il Dio del ridicolo per sopravvivere deve cambiare. Essere flessibile, elastico. Adattarsi ai diversi climi, alle diverse culture, ai cambiamenti di sensibilità. Tuttavia c’è un nucleo incandescente che rimane pronto a seguirci dappertutto. Quando il gel di polisaccaridi si spreme dai follicoli di una buccia abbandonata per strada, puoi essere in Cina, in Australia o in mezzo agli Inuit della Groenlandia: puoi essere dove ti pare. Ma se il piede che ha strizzato il gel della banana è tuo, allora puoi stare sicuro che l’insieme di atomi che forma momentaneamente la tua persona ha il tempo contato. Tra poco perderà l’equilibrio, disintegrandosi sotto lo sguardo appeso in cielo di qualcuno che ride di te.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Ma perché si scivola così bene?
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Castagno

$
0
0

Più che un albero, una cultura. Il castagno (Castanea sativa) non si sa da che parte prenderlo, tante e tali sono le cose da dire sul suo conto, e millenarie. Ma bisogna pur superare lo sgomento e la soggezione per un tipo che ha battezzato un colore e una sua sfumatura (il marrone, il castano), che è entrato in ricette gustose, che nei tempi grami con i suoi frutti e col suo legno ha sfamato scaldato e accolto gente a milioni.

 

Immagini: 

I paesaggi della nostra vita

$
0
0

 

Olivo Barbieri.


Paesaggio è una parola femminile o, almeno, al femminile. Non per la grammatica, ma per la vita e per la nostra appartenenza al nostro spazio di vita. Come il codice materno, il paesaggio ci contiene, è vulnerabile, ci accoglie e ci genera, se non lo consideriamo lo sfondo, il decoro o la cartolina, o se non lo collochiamo nell’impensabile, dandolo per scontato. L’equivoco della parola “ambiente” si mostra oggi in tutta la sua evidenza. Non è, infatti, qualcosa che sta là fuori, intorno a noi, ma è noi stessi. 

Svetlana Aleksievic, Nobel per la letteratura 2015, parlando della letteratura e del genere letterario che predilige, scrive qualcosa che dice molto di più di quanto si possa immaginare, a proposito del paesaggio come linguaggio di cui siamo parte.

 

“A lungo ho cercato un genere letterario che corrispondesse al mio modo di vedere il mondo (…) E ho scelto quello delle voci degli uomini. Nei miei libri l’uomo ordinario parla in prima persona di se stesso. I miei libri li osservo, li ascolto per le strade, dietro alle finestre. A volte posso stare seduta tutto il giorno con la stessa persona. Per me è importante cogliere la parola al volo, sul nascere. Senza lasciarmi sfuggire quella parte discorsiva della vita che trattiamo con noncuranza e distrazione, e che poi scompare nella frenesia del quotidiano, nell’oscurità del tempo. Che tutto ciò possa diventare letteratura può sembrare singolare. Ma io vorrei che tutto quello che costituisce la nostra vita diventasse letteratura. Anche le parole del quotidiano” (la Repubblica, 25 aprile 2017). 

Il paesaggio è un racconto che chi lo vive fa ad un altro giungendo a non trattare come scontato, con noncuranza e distrazione, l’aria, l’acqua, il suolo, il sistema vivente di cui è parte costitutiva. Il paesaggio è frutto della nostra considerazione, dell’accorgersi di esistere fermandosi a guardare, a respirare, a sentire, a pensare, camminando. Il paesaggio nasce dalle voci degli esseri umani che ne fanno parte.

 

A lungo abbiamo pensato che fosse solo un fatto di traduzione simbolica: che i luoghi fossero la fonte di una mediazione simbolica operata dalla mente umana che in tal modo generasse l’idea di paesaggio. Alla base di questo orientamento vi era e ancora vi è una concezione della percezione separata dall’azione e dal movimento, unitamente al primato della visione. Oltre al nostro andare fieri ed eretti, convinti come eravamo di essere sopra le parti e superiori al resto del vivente: tutto il resto era l’intorno, il panorama, la veduta, il contorno.

Abbiamo sufficienti elementi di verifica per sostenere l’ipotesi che le cose non stiano così.

Da non poco tempo gli artisti c’erano arrivati, anticipando – loro che vivono da poeti al di sopra della proprie possibilità – la ricerca scientifica.

Si consideri ad esempio Forme uniche della continuità nello spazio, l’opera di Umberto Boccioni del 1913, custodita al The Israel Museum di Gerusalemme, la celebre scultura icona della plastica cosiddetta futurista. 

 

Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, 1913.


Azione e percezione nel rapporto con l’opera sono indistinguibili: lo sono nella contingenza emergente nell’esperienza di accoppiamento strutturale tra la dinamica della forma impressa dall’artista e l’azione del ripercorrere quella dinamica nella simulazione incarnata che vive il fruitore. Ognuno di noi di fronte all’opera sente di muoversi nella dinamica dell’opera stessa e agisce e percepisce allo stesso tempo. Ognuno vive allo stesso tempo un processo di modulazione intenzionale con le ombre e le luci delle forme e si scompone e ricompone in sintonia con esse. 

 

L’azione non è un effetto collaterale della percezione e il movimento non è una conseguenza della cognizione, semmai azione e movimento precedono la cognizione e la traduzione simbolica, che ne sono profondamente informate. Ciò appare sempre più evidente anche a proposito delle probabili origini del linguaggio. Siccome pare che non vi sia continuità tra vocalizzi e linguaggio umano articolato, allora attendibile sembra la tesi di Noam Chomsky, in base alla quale la facoltà di parlare sarebbe sorta all’improvviso. E non come strumento di comunicazione ma come mezzo di autocoscienza (N. Chomsky, R.C. Berwick, Perché solo noi?, Bollati Boringhieri, Torino 2016). L’origine del linguaggio appare comprensibile in termini darwiniani se si considera la sua evoluzione non a partire dal porre al centro le sole aree cerebrali della comunicazione, ma considerando il ruolo e le funzioni delle aree senso-motorie. A livello neurofisiologico, il modo in cui si impara a produrre un manufatto è simile a quello con cui si impara a formulare una frase. L’utensile si crea a partire da una catena di operazioni, la frase a partire da una catena di parole: queste due attività condividono un medesimo sistema di regole, che viene appreso e gestito dalle stesse aree cerebrali. Lo stesso sistema senso-motorio pare essere coinvolto nella gestione del movimento nello spazio e, quindi, nella creazione del paesaggio e delle sue narrazioni.

 

È stato il primato della visione, ovvero la presunzione di quel primato, a nutrire la concezione del paesaggio come strettamente connesso al vedere. Franco Farinelli non si stanca di evidenziare gli effetti sulla nostra storia e sul nostro modo di concepirci e sentirci nel mondo derivanti dall’invenzione della prospettiva. La Terra ce la siamo inventata noi e dobbiamo reinventarcela. Seguendo il viaggio andata e ritorno tra mente e mondo in cui Farinelli ci conduce, abbiamo non poche possibilità di comprendere come vi sia una stretta connessione tra movimento e paesaggio.

Vi siete mai chiesti come si fa a farsi un’idea di una cosa che, per le sue dimensioni, non si riesce a vedere per intero? Si accettano le condizioni della conoscenza per noi esseri umani: “che noi non possiamo conoscere le cose per davvero, ma soltanto in figura, alla lettera geograficamente” (F. Farinelli, L’invenzione della Terra, Sellerio, Palermo 2016; p. 51).

 

Ma allora viviamo nella cosiddetta realtà o in una delle sue possibili e molteplici rappresentazioni? Se, come ci mostra con finezza di analisi Farinelli, Anassimandro, il filosofo greco del sesto secolo avanti Cristo, è stato il primo a creare una rappresentazione della Terra, facendolo egli ha operato il gesto proprio di ogni conoscenza scientifica. “La sicura via della scienza”, scrive Farinelli, “consiste non nel seguire le tracce di quel che si vede in una figura, ma al contrario nel trar fuori di essa quel che noi stessi vi abbiamo messo” (F. Farinelli). Se ci chiediamo come ce lo abbiamo messo, la risposta può essere trovata sostenendo che lo abbiamo fatto attraverso un’azione simulata: muovendoci e percorrendo i movimenti di chi ha creato la figura o modellato e curato il paesaggio. La ragione, infatti, mostra di scorgere solo ciò che essa stessa produce secondo il suo disegno.

 

Anassimandro, creando una metafora cartografica della Terra, riduce la Terra stessa al suo “cadavere grafico”. Sarà poi un altro filosofo, secondo Farinelli, il Kant della Critica della ragion pura, a riconoscere implicitamente la priorità di tale cadavere rispetto al corpo vivo della Terra, e a far dipendere la conoscenza stessa della Terra dalle regole della rappresentazione che noi stessi ci diamo. Una perdita? Possiamo considerare una perdita quella che produciamo con la messa a punto di una rappresentazione conoscitiva del mondo? Una perdita della presa diretta sul mondo? Con la conoscenza e la riflessione produciamo copie del mondo che, come mostra Iacono, “sognano” di essere l’originale senza riuscirci: intanto noi soggetti conoscenti siamo finiti in uno scarto e viviamo la malinconia e il dubbio che ogni conoscenza comporta, fonti allo sesso tempo della nostra mancanza e della nostra generatività.

 

Conoscendo abbiamo l’illusione di prendere il mondo, ma “una riflessione produce il senso di uno scarto, quello inevitabile e ineluttabile tra conoscenza e vita e quello doloroso tra il sé e l’altro” (A. M. Iacono, Il sogno di una cosa. Del doppio, del dubbio, della malinconia, Guerini e associati, Milano 2016; p. 18).

Su un terreno affine si muove Steiner, ponendosi la questione del dolore del pensiero. Mentre l’impulso a domandare genera la civiltà umana, le sue scienze, le sue arti, le sue religioni, noi animali umani che “possiamo trattenere il respiro, ma non possiamo trattenere il pensiero”, nel “venire dell’essere all’essere”, facciamo un’esperienza di malinconia e allo stesso tempo della capacità vitale e creativa di superarla. “Un velo di tristezza (tristitia), è steso sul passaggio dall’homo all’homo sapiens” (G. Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, Garzanti, Milano 2007; p. 12).

 

 

Gabriele Basilico.

 

È stato T. S. Eliot, grande poeta, a chiedersi con i suoi versi: “Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione? I cicli del Cielo in venti secoli ci portano più lontani da Dio e più vicini alla polvere”. Farinelli assesta una sottile e quanto mai opportuna critica alla cosiddetta filosofia della post-modernità, allorquando essa pretende di individuare una differenza tra moderno e postmoderno nel fatto che mentre nella modernità la mappa è la copia del territorio, nella postmodernità il rapporto sarebbe rovesciato: per la prima volta il simulacro (la tavola, la rappresentazione geografica) precederebbe il territorio. Farinelli commenta: “Come dire allora che già Kant sarebbe postmoderno, per tacere di Anassimandro”. Se così fosse “il più postmoderno di tutti sarebbe Cristoforo Colombo: così tra l’inizio della modernità e la postmodernità non vi sarebbe più nessuna differenza, la prima sarebbe la seconda e viceversa. Con Colombo, infatti, la rappresentazione geografica (la tavola, la mappa) prende il posto del mondo, ricomprende ed assorbe tutto ciò che esiste: la carta, cioè lo spazio, il primo degli strumenti della modernità, che proprio con Colombo si afferma” (Farinelli).

 

Come già si può intuire, quello di Farinelli non è solo un rigoroso argomentare geografico: siamo di fronte a un pensiero, il suo, che non si piega alla mortificazione dei confini disciplinari né al rigor mortis degli steccati accademici. Intervengono nella sua narrazione arcipelaghi di punti di vista, geografie affettive e dati oggettivi, epistemologia e psicologia dell’osservatore, per condurre il lettore in una vera e propria esplorazione, fino al punto di far pensare alla geografia come un viaggio infinito andata e ritorno tra mente e mondo. Noi, spesso, siamo come i marinai di Colombo, che sono nella condizione di credere “di vedere terra soltanto perché sono convinti della sua esistenza in quel punto, e sono convinti dell’esistenza della terra in quel punto soltanto perché l’hanno vista sulla carta, soltanto perché è la carta a dirlo” (Farinelli). Se si vuole comprendere qualcosa di chi siamo e come vediamo il mondo bisogna leggere, soprattutto, il capitolo dieci del libro di Farinelli e sognare che l’autore possa accompagnarci in un luogo guidandoci con la sua prosa ammaliante. Il luogo è il Portico dell’Ospedale degli Innocenti, la prima architettura costruita secondo il principio prospettico moderno da Brunelleschi. Scrive Farinelli: “Se noi crediamo che più le cose sono lontane e più sono piccole, più sono vicine e più sono grandi, è soltanto perché siamo moderni, e soltanto perché vi sono stati un secolo e una città (il Quattrocento e Firenze) che hanno inventato un modello terribile, pervasivo, onnicomprensivo, il quale in epoca moderna avvolgerà tutto il globo: la prospettiva lineare, cioè il punto di vista spaziale…” (Farinelli) “E davvero è straordinario come alla fine, tutto sommato, la storia della conoscenza del mondo è una storia in cui due globi, due palle, due sfere (quella della terra e quella del nostro occhio), facciano tanta fatica a riconoscersi, a mettersi in contatto, per così dire, e a guardarsi come davvero sono”.

 

Da allora l’occhio diventa autonomo e quel divorzio tra gli occhi e gli altri sensi diventa sempre più insanabile. Abbiamo per quella via colonizzato il mondo e il modo in cui ce lo immaginiamo. Almeno dall’età di Pericle in avanti, colonizzare significa non solo occupare materialmente una porzione di Terra, ma anche colonizzare a distanza tramite i modelli mentali che adoperiamo. Il formidabile modello mentale della prospettiva è divenuto il modello con cui inventiamo la Terra: “il più completo e totalitario che esiste, proprio perché è insieme un modello di costruzione del mondo, di percezione del mondo, di rappresentazione del mondo. Di qui la sua straordinaria potenza” (Farinelli). Condotti per questa via narrativa avvolgente giungiamo con Farinelli fino alla globalizzazione. Qualunque cosa significhi globalizzazione, dice l’autore, vuol dire che non possiamo, oggi, più contare sulla mediazione cartografica, perché le direzioni non corrispondono più a relazioni fisse tra una parte e l’altra e siamo oggi nella condizione di dover urgentemente iniziare a reinventare la Terra stessa “attraverso altre logiche e altri modelli, anche se oggi è molto più difficile orientarsi nel pensare in nome di tutti gli esseri umani che tenendosi per mano continuano a girare in tondo e sono l’umanità” (Farinelli).  

Anche la “camera ottica”, raccomandata dall’esponente dell’illuminismo veneziano Francesco Algarotti come strumento educativo nelle Accademie di Pittura, divenne a un certo punto il “vero modo” di vedere il mondo: “quel medesimo uso che fanno gli astronomi del cannocchiale e i fisici del microscopio, dovrebbero fare della camera ottica i pittori. Conducono ugualmente tutti codesti ordigni a meglio conoscere e rappresentare la natura” (Opere scelte, 1823; p. 126).

 

Farinelli.


Il modello di rappresentazione della natura mediato dalla visione avrebbe assunto una dimensione standard duratura nel tempo. 

Che i luoghi siano la fonte della traduzione in paesaggio, la base dell’apertura verso il significato simbolico del mondo, è un fatto. Con questa analisi si intende esplorare il modo in cui lo diventano e avviene la traduzione in significato. Interessa quello che accade nel registro dell’accoppiamento strutturale tra corpo-mente e mondo, in cui la combinazione tra azione e percezione propone al pensiero di cogliersi nella sua dimensione di macchina linguistica e mitopoietica, che a sua volta produce una sorta di surrealtà a partire da esperienze concrete e storicamente situate. In quel processo appare evidente come sia l’immaginazione il mediatore tra mondo interno e mondo esterno nella creazione dell’esperienza e del costrutto che chiamiamo paesaggio. La traduzione dei luoghi in paesaggio mette in immagine la realtà grazie a un’attività che prima di essere simbolica riguarda il sistema senso-motorio e il movimento nello spazio, per cui nella contingenza di una situazione emerge, nello stesso momento, la realtà naturale e la sua traduzione in artefatto: ed ecco il paesaggio. Il visibile e l’invisibile vanno a comporre un’immagine che, narrata mediante il linguaggio, diventa paesaggio. Stimolata dal luogo, il movimento e l’immaginazione diventano una macchina in grado di mettere in moto una lettura e una traduzione generative, che danno vita all’esperienza di fruizione degli spazi della nostra vita, che noi stessi narriamo come paesaggi. Il paesaggio è, perciò, inscindibile dal movimento e dal linguaggio; è e diviene nel linguaggio; è linguaggio e, forse, non necessita neppure della traduzione essendo in noi e divenendo con noi quello che a un certo momento dell’esperienza effettivamente è.

 

 

Caruana.


Sia la cognizione incarnata che il sistema senso-motorio coinvolti nella nostra conoscenza del mondo, ci mostrano che, qualora i simboli non siano ancorati a un referente, non si può che approdare a un circolo vizioso (A. Cangelosi, and S. Harnad, (2001). The adaptive advantage of symbolic theft over sensorimotor toil: Grounding language in perceptual categories., “Evolution of Communication” 4(1) 117-142).

Il paesaggio della mente contiene il paesaggio esterno esplorandolo e muovendosi in esso, e mentre si muove ne emerge a sua volta costruito da quel paesaggio esterno (S. S. Clark, Exploring the Landscape of the Mind. Understanding Human Thought and Behaviour, Thinkstock, New York, 2016).

La percezione delle direzioni cardinali del corpo, destra-sinistra, alto-basso, avanti-indietro, che appare fondamentale per l'organizzazione del comportamento può, infatti, essere modificata. È stato dimostrato che una prolungata percezione distorta dell'orientamento degli assi del corpo può essere una conseguenza di segnali sensori-motori disordinati. Una distorsione di lunga durata della percezione dello spazio personale può anche essere indotta da un compito definito indotto nel sistema ecologico del soggetto (E. Dupierrix , M. Gresty, T. Ohlmann, S. Chokron, Long Lasting Egocentric Disorientation Induced by Normal Sensori-Motor Spatial Interaction,“PlosOne”, February 12, 2009).

 

Alla ricerca di un approccio embodied e grounded al paesaggio, la concezione del paesaggio può essere definita come riattivazione del pattern di attivazione neurale che si ha quando si esperiscono gli oggetti e le entità del mondo esterno. In questa prospettiva il concetto diventa multimodale e corrisponde all’attivazione di una rete distribuita di diverse modalità (visiva, tattile, eccetera), secondo le indicazioni provenienti dagli studi e dalle ricerche di V. Gallese e G. Lakoff.

Tutto ciò comporta la messa in discussione della riduzione del significato a simboli linguistici. Scrivono, in proposito, Caruana e Borghi:

“Possiamo continuare all’infinito a parlare di elefanti grigi, ma se non abbiamo visto almeno una volta qualcosa di grigio e un’immagine di un elefante, riusciremo difficilmente a rappresentarceli. In contrasto con le teorie tradizionali e con quelle distribuzionali del significato, le teorie embodied hanno cercato di mettere in luce che la relazione che connetteva concetto e referente non era arbitraria, e che sentire, leggere o anche pronunciare la parola portava ad attivare gli stessi sistemi attivati durante l’attivazione con il suo referente. Questa concezione del significato, che potremmo chiamare ‘referenziale’, ha avuto indubbi meriti, anche se oggi si può pensare che sia limitata perché rischia di ridurre il significato delle parole, senza cogliere il fatto che le parole possono compiere azioni, estendere il nostro spazio peripersonale e le nostre capacità cognitive” ( F. Caruana, A. Borghi, Il cervello in azione, Il Mulino 2016; pp. 171-172).

 

Nel momento in cui emerge l’ipotesi della simulazione, a Parma con V. Gallese e G. Rizzolatti, alla Emory University con L. W. Barsalou (L. W. Barsalou, Perceptions of perceptual symbols, in “Behavioral and Brain Sciences”, 22, 4, 1999; pp. 637–660), a Berkeley con G. Lakoff, si comprende che i concetti non sono simboli astratti ma simboli percettivi: per formarci i concetti non è necessario tradurre l’esperienza di oggetti ed entità in un formato diverso, ma semplicemente riattivare l’esperienza. 

I concetti concreti attivano i sistemi senso-motori e si originano nell’embodied cognition e nel movimento e nell’azione. 

“È sempre tramite simulazione che comprendiamo il significato delle parole. È così che, quando leggiamo la parola ‘calciare’, attiviamo il piede e la gamba: perché programmiamo quell’azione” (F. Caruana, A. Borghi, op. cit., p. 172).

 

Come è evidente, per l’origine del concetto di paesaggio, non solo entra in crisi, come era già accaduto, ogni forma e possibilità di analisi basata sull’osservazione a distanza di un luogo o di un ambiente che sarebbe esterno all’osservatore e mero oggetto di contemplazione, ma si tratta di cercare di andare oltre la stessa ipotesi della traduzione simbolica dei luoghi in paesaggi mediante simboli astratti dalla realtà, appunto. Il concetto di paesaggio si propone come pattern di azioni possibili in uno spazio, emergendo all’interno del nesso tra concetti, parole, azioni, ed evoca simulazioni, in quanto, quando usiamo un concetto di paesaggio, rievochiamo l’esperienza del paesaggio a cui quel concetto si riferisce.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Autonomia e libertà

$
0
0

Faiza X è una donna di origini nordafricane, di religione islamico-salafita. Vive a Parigi, indossa il velo integrale, è sottomessa al marito ed esce di casa solo per accompagnare a scuola i bambini. La sua richiesta di cittadinanza francese, avanzata nel 2008, le viene rifiutata con la motivazione che i suoi valori non si adeguano a quelli della République, in particolare al principio di parità tra donne e uomini. È Faiza X una persona autonoma? 

 

Il tema etico-politico dell'autonomia

 

Sulla scorta di questo e simili esempi reali, ma prevalentemente  di casi tratti dalla letteratura e dalla cinematografia, Beate Rössler – filosofa tedesca docente di etica all'Università di Amsterdam e studiosa di teorie della libertà, dell'autonomia e del privato, di giustizia e eguaglianza, di etica della vita buona e di teorie femministe – ricostruisce definizione e portata di un importante tema della filosofia etico-politica che ritorna oggi alla ribalta dopo aver goduto di discreta fortuna nell'antichità greca e in seguito alla ripresa kantiana: autonomia. Si parla in ogni caso qui di autonomia quotidiana, non politica, benché l'agire in autonomia sia indubbiamente più facile nelle società liberal-democratiche che in altre forme di governo; tant'è che un autore arabo ha potuto affermare che la primavera araba non è stata altro che la scoperta della propria autonomia, individualità e personalità.

 

Morale dei doveri e etica della vita buona

 

Dal punto di vista filosofico, benché l'autonomia sia stata posta sotto i riflettori, nel pensiero moderno, da Immanuel Kant, nella Critica della ragione pratica (1788) come pure nella Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo (1795) e nella Metafisica del costumi (1797), Rössler poco si ispira alle posizioni kantiane dove autonomia riveste il senso di libertà morale di darsi le proprie norme e principi e di agire in base ad essi, pensando con coraggio con la propria testa e camminando con coraggio sulle proprie gambe, come l'Antigone di Sofocle che va a morire secondo la sua legge. Anche se dunque Rössler critica l'approccio kantiano fondato sulla morale dei doveri, non per questo aderisce al cosiddetto pensiero perfezionista nel quale si critica, come fa Harry Frankfurt, il primato della moralità a vantaggio dell'etica della vita buona.

 

Beate Rössler


Adottando una posizione che lei stessa definisce di «perfezionismo debole» e muovendosi all'interno dell'impostazione della filosofia analitica non senza qualche concessione all'approccio continentale, Rössler riconosce che siamo persone situate all'interno di processi sociali, imperfette e fragili, «immerse fino al collo nella propria vita» (Iris Murdoch); di conseguenza, non in grado di seguire in maniera adamantina le teorie procedurali alla Frankfurt, per le quali non sono importanti i contenuti ma soltanto le condizioni formali e l'agire in base alla struttura interna della volontà guidata unicamente da ragione/i, non da passioni o desideri. Autonomia è qui definita «concretizzazione di un concetto generale di libertà», e autonomo è l'agente che abbia riflettuto sui propri (spesso confliggenti) desideri, motivi, considerazioni, sentimenti, e che abbia preso le sue decisioni in base a motivazioni proprie (il che giustificherebbe, a detta di Rössler, l'autonomia di Faiza X). 

 

Gli ostacoli all'autonomia: ambivalenza individuale e costrizioni sociali

 

Nel saggio non vengono comunque trascurati i molti ostacoli che si frappongono all'esercizio dell'autonomia, primo fra tutti l'ambivalenza, ovvero il desiderare questo e quello, il volere e non volere della povera Zerlina. Ma è così umana l'ambivalenza – chi non ha provato il conflitto tra desideri e progetti dissonanti? – che non si possono non fare con essa i conti e in qualche modo venirvi a patti. Altro ostacolo, i contesti e le condizioni sociali, per esempio quelli che opprimono le donne, o gli schiavi, problema che Rössler aggira con disinvoltura grazie al concetto di «preferenze adattive» o, per dirla con Jon Elster, la storia della volpe e l'uva. Se non riesco a modificare le condizioni impostemi (quam tangere ut non potui) farò bene ad adattarmi ad esse, magari con forme di autoillusione (nondum matura est). Adattando le sue preferenze il soggetto oppresso potrà vivere in maniera più autodeterminata e di conseguenza più sensata e felice (ancora un motivo, non so quanto condivisibile, per definire autonomo il comportamento di Faiza X).

 

Autonomia e conoscenza: diari, blogs e il movimento del Q.S.

 

All'interno della analisi di Rössler – condotta in maniera talvolta così acribica e astratta da risultare pedante nonché ostica al pubblico non accademico «e che non abbia studiato filosofia» al quale vorrebbe invece rivolgersi – spiccano alcuni argomenti originali, quali quelli dedicati alla modalità di riflettere sulla propria vita allo scopo di conoscersi, sull'onda del vecchio detto socratico, e conseguentemente agire in maniera autonoma. Si tratta della disamina dei diari vecchio stile e soprattutto dei recenti blogs  e vlogs e lifelogs, nei quali gli utenti annotano le esperienze quotidiane compresi i movimenti del corpo (quanti passi, quanti gradini), l'alimentazione, il sonno, l'umore. È l'esito del movimento del QS (Quantified Self), una forma di autoconoscenza che parte dal progetto di annotare tutti i dettagli della vita, che collegati insieme e analizzati daranno una visione complessiva delle attività e degli stati d'animo della persona. 

 

Una vita sufficientemente autonoma, buona, sensata

 

Persino i nuovi media vanno dunque, seguendo il loro stile che scavalca la privatezza del diario a favore della condivisione della messa in rete, verso l'autoconoscenza, madre di autodeterminazione e autodirezione che sono le condizioni indispensabili per condurre una vita buona e dotata di senso, per vivere una vita autonoma che sia la propria e non quella di e per altri. Il concetto di autonomia qui proposto non si aspetta, in conclusione, che il soggetto sia in grado di decidere perfettamente e completamente prendendo in mano in toto la propria vita per essere autonomo, ma nemmeno che accetti semplicemente le costrizioni del destino per riuscire a determinare la propria vita in maniera sufficientemente buona, sensata, felice, autonoma. 

 

 

Una versione ridotta è uscita sul Domenicale del Sole24 Ore. Beate Rössler, Autonomie. Ein Versuch über das gelungene Leben (Autonomia. Una ricerca sulla vita riuscita), Suhrkamp, Berlin 2017,  pp. 444.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
E l'umana ambivalenza?
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

La montagna dei risvegli

$
0
0

Il territorio del Reventino è un pezzo di Calabria interna solcato dai fiumi Amato e Corace. Prende il nome dall’omonimo monte (1417m), la cima più alta di una cresta sottile e armoniosa che separa queste valli dal Mar Tirreno. Alle spalle l’altopiano della Sila. 

Ho lasciato questa terra vent’anni fa alla ricerca di lavoro: quando sei giovane pensi che le cose belle siano lontane da casa tua. Questa esperienza ha scavato un solco profondo tra me e la Calabria e tutto ciò a volte mi disorienta: troppo poco per sentirmi lombardo, quanto basta per mettere in crisi la mia identità calabrese. 

Sono tornato qualche anno fa e ho trovato la mia terra profondamente cambiata: molte porte chiuse, strade e piazze ormai semideserte che si animano solo d’estate. Mi chiedo spesso se è stata la scelta giusta e se alla fine riuscirò a ritrovare quello che cerco. 

 

Ma poi penso che un futuro deve pur esserci per posti come questi, e devo provare a immaginarlo.

 

 

Bisogna essere un po’ folli e un po’ poeti per dare forma ai sogni, per guardare oltre quelle porte, per immaginare ancora una comunità. La nostra terra ha bisogno di poesia, lo dico da sempre, non di un Ponte sullo Stretto o di grandi opere, ma di un’idea diversa di sviluppo.

Per decenni abbiamo inseguito quello industriale, imitando anche su piccola scala modelli lontani da noi. La conseguenza è stata disseminare l’intero territorio calabrese di impianti industriali dismessi, capannoni chiusi, attività mai aperte, sprecando risorse economiche importanti. Milioni di euro gettati al vento in opere pubbliche inutili, o finiti nelle mani di pochi che non sono stati capaci di utilizzarli. 

Per salvare un territorio occorre leggerlo, come si fa con un libro. 

 

 

L’errore che commettiamo spesso è di volerlo cambiare senza provare neppure a guardarlo, nella pretesa di conoscerlo. E invece continuiamo soltanto a lusingare noi stessi, proiettando su ciò che ci circonda il nostro piccolo universo personale, nella convinzione che tutto ruoti intorno a noi. 

Qualcosa sta lentamente cambiando. Nell’estremo tentativo di salvare la bellezza, negli ultimi anni un pezzo di società si sta muovendo. È il mondo delle associazioni che sta segnando la direzione: si edifica collaborando, costruendo una rete e superando le divisioni territoriali. Il fenomeno associativo è una risorsa importantissima per il Reventino, un tassello fondamentale per l’intera società civile. In questi ultimi anni le associazioni hanno realizzato tanto e l’hanno fatto insieme.

Da questa idea è nato “Rivìentu” il coordinamento delle realtà associative. Rivìentu che promuove ogni anno “Una montagna di pace”, la manifestazione che propone un punto di vista diverso sullo sviluppo delle aree interne della Calabria: tavoli tematici, incontri, mercatini, agricoltura, escursioni. Il tentativo di superare la visione campanilistica che ha sempre caratterizzato le nostre aree montane e marginali, un progetto di sviluppo integrato. La verità è una sola: si cresce insieme o si muore irrimediabilmente soli, rinchiusi nel proprio bellissimo giardino.

 

 

La Calabria è costellata di occasioni perse, dovremmo vivere di turismo ma ci ostiniamo a inseguire modelli di sviluppo che non sono nostri. Siamo seduti su un tesoro ma guardiamo da un’altra parte. Passata l’euforia del turismo di massa, che ha visto le nostre montagne deturpate da improbabili villaggi e colate di cemento, la direzione da seguire è un’altra: Il futuro e l’economia per le nostre aree interne passa dall’utilizzo consapevole del nostro territorio, dal tentativo di costruire un’idea di turismo sostenibile. Germoglia quindi un pensiero e nasce “Discovering Reventino”, un progetto di mappatura partecipata che opera sul territorio da diverso tempo. Lo scopo è di esplorare per riconoscersi e ritrovarsi, perché spesso viviamo il paesaggio come qualcosa che non ci appartiene, come un quadro appeso alla parete, statico, circoscritto da una cornice e fuori dalla realtà. Per quanto noi possiamo cercare di interpretarlo, c’è una cornice che ci tiene fuori. 

Imparare a leggere il territorio è importante perché educa a vivere lo spazio.
I livelli di lettura sono tanti: il primo è quello fotografico, si guardano luoghi e si riscoprono i toponimi. Poi, aumentando la “profondità di campo”, si scoprono storia e relazioni. E appena si varca questo confine la sorpresa è grande perché esiste un rapporto di appartenenza fra persone e paesaggio: in quel quadro ci siamo anche noi.

 

Il passo successivo è quello di trasformare il paesaggio in opportunità economica. Il turismo sociale fatto di trekking, gastronomia, collaborazione con le realtà produttive, ospitalità, può rappresentare il primo tentativo di costruire un disegno sano di sviluppo per il nostro territorio.

Il nostro futuro comincia dal paesaggio e dall’uso che sapremo fare di esso. Il capitale c’è già, sotto i nostri occhi, fuori dalla strada asfaltata, anche se non lo vediamo: occorre un po’ di fantasia, di poesia e di sogni.

Il Reventino è storia e cultura. Un’altra esperienza di risveglio è quella dell’Abbazia di Corazzo, importante insediamento cistercense nella valle del Corace. Grazie alla lungimiranza dell’Amministrazione Comunale di Carlopoli (Cz) e alla collaborazione delle associazioni questo sito sta rivivendo un periodo di splendore. L’area attorno all’abbazia è stata riqualificata e migliaia di turisti ogni anno vengono a visitarla. Attività agricole, progetti con le scuole, visite guidate, concerti in una location da sogno. Un radicale cambio di prospettiva, un guardarsi attorno con occhi diversi che ha generato il miracolo: il lavoro costante dei volontari sta lentamente restituendo l’anima all’abbazia. 

 

Quello che sta avvenendo a Corazzo è il segno di qualcosa d’importante: l’animazione dei nostri luoghi può e deve diventare il volano di crescita economica. Noi non abbiamo la Fiat e le grandi industrie, ma non le vogliamo neppure: le nostre risorse sono la natura e i beni culturali. La direzione da seguire allora è quella: valorizzare ciò che abbiamo, che guardiamo ogni giorno ma che non vediamo più.

Forse è il miracolo di Gioacchino da Fiore, che di Corazzo fu Abate, o forse soltanto quello degli uomini del nostro tempo che costruiscono, passo dopo passo, un cammino importante. Non si tratta di edificare cattedrali, di impegnare ingenti risorse finanziarie, di colare cemento in mezzo a queste splendide valli, ma di progettare lentamente la rinascita di un luogo, a partire dalle persone. 

Conflenti (Cz) ci ritorno ogni anno a raccogliere l’affetto di volti conosciuti. Antonella, Alessio, Andrea, Giuseppe e tantissimi altri ragazzi sono l’anima di “Felici e Conflenti”, il festival che rappresenta un incontro con la musica della tradizione. Corsi di zampogna, di organetto, di danza tradizionale e la scoperta di un immenso patrimonio culturale che lentamente sta scomparendo.

 

 

Là ho conosciuto Xenia, tedesca di Berlino, una ragazza con la zampogna sulla spalla, venuta qui dalla Germania a conoscere le tradizioni che noi stiamo perdendo. Sono tantissimi i turisti europei che ogni anno arrivano qui, dalla Germania, dalla Francia: quasi in sessanta nell’ultima edizione hanno abitato il centro storico. A Conflenti hanno capito che la nostalgia, la memoria e le tradizioni possono trasformarsi in economia. In tre anni di “Felici e Conflenti” sembra che, tra questi vicoli, il miracolo stia pian piano accadendo. 

Il Reventino è agricoltura. Quello di Decollatura (Cz) in passato è stato un distretto di importanza regionale nella coltivazione delle patate. Lo sfruttamento intensivo e dissennato della terra a monocoltura ha per lungo tempo imposto uno stop alla produzione. Oggi si assiste a un lento ritorno all’agricoltura responsabile e c’è chi cerca di indirizzarsi verso quella biologica e di qualità. Carmine e Mario sono i nuovi agricoltori, protagonisti di “Orto Corto”. Lo scopo è quello di ridurre la lunghezza della filiera e la distanza tra produttore e consumatore, offrendo sul mercato prodotti totalmente biologici: un pezzo di terra in comodato, un vecchio motocoltivatore e tanta voglia di mettersi alla prova. 

 

 

Alba e Francesca sono due ragazze di Castagna (Cz), piccolo borgo di 500 anime, che si sono inventate i laboratori di cucina sociale. 

Vivere su queste montagne non è molto semplice, soprattutto d’inverno e la cucina sociale vuole essere un’occasione per riscoprire le nostre radici attraverso i sapori della tradizione. Un ponte tra passato e presente. Non uno sterile rimpianto, ma la scoperta del cuore che batte ancora tra le mura di questo piccolo paese. Mettersi in gioco alla ricerca di odori, gesti e ricordi, recuperando le ricette popolari, facendo rivivere le vecchie case e con la pretesa di restituire un senso al quotidiano. Il laboratorio col tempo è diventato itinerante e si è aperto a tutto il territorio, nel tentativo di riuscire a disegnare una geografia gastronomica del Reventino. 

 

E alla fine ci sono io, che insieme ai miei fratelli ho provato ad aprire una di quelle porte chiuse, quella della casa dei miei nonni. Fino a pochi anni fa l’unico pensiero era di svenderla, di liberarci da un peso. Poi all’improvviso, al nostro ritorno in Calabria, prende corpo un’idea: ristrutturarla, andarci ad abitare e utilizzarla per accogliere chi avesse voglia di conoscere il nostro territorio. Il nostro non è un progetto imprenditoriale ma nasce da un sogno: portare la gente a conoscere questo pezzo di Italia interna che merita di essere valorizzato. Nasce così il b&b “La Casa dei Nonni”, una sfida soprattutto affettiva, familiare, che ha a che fare con il recupero delle radici. Un luogo non per turisti, ma per viaggiatori che hanno voglia di svegliarsi all’alba per perdersi in un bosco, di conoscere l’Abbazia di Corazzo, di ascoltare storie e di bere un bicchiere di vino leggendo un libro mentre fuori piove.

Ho provato con parole e immagini a raccontare la mia visione di questa parte dell’appennino calabrese. Non è l’unica strada percorribile, è soltanto un’idea, un punto di vista, un piccolo solco nel quale provare a seminare un briciolo di speranza.

 

 

Il lavoro da fare è tantissimo, anche a livello educativo: non possiamo coprirci gli occhi davanti allo strapotere della criminalità organizzata che mette in ginocchio la Calabria, allo scempio dei rifiuti abbandonati sul ciglio delle strade o allo sfruttamento dissennato delle risorse boschive.

Abbiamo bisogno di imparare una narrazione positiva del territorio, dare valore alla bellezza che ci circonda, cercare come scrive Calvino: “chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Forse l’espressione più efficace è questa: innamorarsi della propria terra. 

Sta tutto qui, in questa banale espressione, in questo capitolo di un immaginario “bilancio immateriale”, la speranza di uno sguardo diverso, di un briciolo di tenera compassione, per questa terra e per noi. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Speciale Appennini
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Escapografie

$
0
0

Dopo le matite dei nostri collaboratori, ecco il contributo scelto tra quelli giunti in redazione, vincitore del concorso Una matita per l'estate.

 

Il mondo è una selva di segni, ogni segno può essere tradotto, interpretato, ogni segno contribuisce alla costruzione della nostra personale prigione. Romolo traccia per terra un solco e crea un recinto, una città, un impero, e questo segno determina il secondo fratricidio più celebre di tutti i tempi. Romolo dovrà trovare un’idea geniale per sfuggire al suo crimine (avere ucciso Remo / avere fondato una anagrafe dei diritti di residenza, una prigione), ricorrerà al teatro degli illusionisti, uscirà di scena sottraendosi alle sue responsabilità in forma di Quirino ascensionista.

 

La colpa originaria sta nell’interpretare e nell’essere interpretati: una stella a sei punte e sei un ebreo, un triangolo rosa e sei un degenerato... comunque, sei quello che dice (a te o agli altri) un segno, e se il segno è quello sbagliato, sei morto, fai parte della Storia, della contabilità.

Le nostre prigioni sono fatte di segni, e alcuni segni sono sostituiti da complesse architetture di giustificazioni (visioni del mondo, ideologie, religioni, bilanci aziendali, profezie), altri sono resi in scala 1:1 da pietre, mattoni e colate di calcestruzzo. Alcune prigioni non hanno confini, altre sono piene di confinati.

 

Gomma e matita sono gli strumenti normativi più evoluti che l’uomo abbia inventato, anzi che siano scaturiti dalla sua necessità di far proliferare prigioni, trasformare e rappresentare (realtà / possibilità), e cancellare le sue proiezioni reticolari di idee. Ma sono strumenti democratici, nel senso che per quanto siano ben temperate le matite dei carcerieri, al singolo individuo rimane sempre un residuo di carica eretica che permette una fuga, anche solo temporanea, anche solo illusoria: aggiungere un paio di baffi al pezzo forte della collezione imperiale, aggiungere un commento sulla scheda elettorale prestampata.

 

Corda.


La matita viene sventolata come bandiera della “fantasia”, della creatività (altre prigioni), viene esibita dagli ordini professionali come si fa in caserma con la dotazione bellica. L’esercito delle matite campa d’ipocrisie e quando non ci sono guerre ci sono i banchi di scuola, quaderni, compiti a case e registri ministeriali. «Ne uccide più la penna che la spada», sarà anche vero, ma matita e gomma hanno la loro buona parte di responsabilità nell’ecatombe di segni (che a volte erano uomini, debiti o speranze), annullati, cancellati, sbarrati su campi di battaglia squadrati e a quadretti.

 

Gomma.


Ma per ogni crimine, per ogni prigione, per ogni sistema perfetto o rattoppato, resta quel residuo di possibilità, che gomma e matita siano strumenti per preparare la fuga, mettere in pratica il piano, complicarlo al punto di rinunciare all’evasione (a volte). 

 

Regalare una matita vuol dire “Ecco la tua prigione”, regalare una matita e una gomma, invece, significa “Ecco, adesso liberati da tutte le prigioni”. Un consiglio: siate parchi con le correzioni, gli errori sono sempre i primi a scappare.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Il vincitore del nostro concorso
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

I viaggi di Morfeo

$
0
0

Tratta Udine-Venezia  ore 10.31 (andata) 

 

Vedo sfilare elegantemente il Regionale Veloce delle 10,07 mentre, rallentata dal peso del bagaglio e con scarsa eleganza, corro verso il binario, consolata solo dal pensiero che il treno successivo sarà vuoto.  “Nessuno è così pazzo da prendere il Regionale/locale delle 10,31 che ferma in tutte le stazioni…”.

Immagini: 

Sergej Ėjzenštejn e l’antropologia del ritmo

$
0
0

Il 19 settembre si è inaugurata presso la Fondazione Nomas di Roma la mostra Sergei Eisenstein: The Anthropology of Rhythm | Sergej Ėjzenštejn: l’antropologia del ritmo. Numerosi documenti provenienti dagli archivi di Ėjzenštejn – Archivio di Stato Russo di Letteratura e Arti (RGALI) e Fondazione Nazionale Cinematografica della Federazione Russa (Gosfilmofond) –, inclusi diari, disegni, film e fotografie, vi sono esposti per la prima volta. L’esposizione, curata dalle storiche dell’arte e del cinema Marie Rebecchi ed Elena Vogman, in collaborazione con l’artista e grafico Till Gathmann, sarà visitabile fino al 19 gennaio 2018.

 

Pubblichiamo di seguito la traduzione di un estratto dall’introduzione al volume Sergei Eisenstein and the Anthropology of Rhythm, pubblicato da NERO, Roma. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

 

 

“Dalla povertà, la poesia; dalla sofferenza, la canzone”. Questo è il modo in cui l’antropologa e scrittrice Anita Brenner descrive le origini del corrido, la ballata messicana. Letteralmente “evento del tempo”, il corridoè un genere poetico anonimo che mette in musica la lamentazione del giorno. Raccontando un evento politico o personale, una catastrofe o un brutto sogno, i corridos prestano il ritmo ai dolori della vita, tanto “per i servitori, che li mormorano mentre lavano i piatti o mettono i bambini a letto, che per i conduttori di muli, che li cantano alle loro carovane”.  

 

La necessità del ritmo ha a che fare con il suo potere di trasformazione. È un medium del cambiamento; costituisce una transizione dalla paura alla gioia, dalla noia alla consapevolezza, da un semplice movimento a una coreografia o una danza. Per questo motivo, come sottolinea Brenner, una raccolta di corridosè uno “specchio del popolo messicano più autentico di qualunque testo sia stato scritto”. Trasforma “una casuale categoria giornalistica” in un evento politico.  

 

 

Nella sua qualità antropologica di esperienza che organizza il mondo, il ritmo è un veicolo di rivoluzione. Hannah Arendt ha indicato la tensione costitutiva che anima i due significati opposti della parola “rivoluzione” (On Revolution, 1963). Derivato originariamente dal contesto astronomico, in cui designava un movimento ciclico e regolare delle stelle, il termine “rivoluzione” in tempi moderni è giunto a definire il rovesciamento storico di un dato ordine politico, attuato dagli uomini e non dal cosmo o dalla Provvidenza. 

 

Cosa ha in comune il movimento fisico e coreografico del “voltarsi” con il cambiamento sociale e politico di una determinata situazione? Come partecipa il ritmo a questo cambiamento? Questo libro propone di esplorare l’intreccio tra la dimensione estetica, antropologica e politica, in tre progetti cinematografici incompiuti di Sergej Ėjzenštejn (Riga, 1898 – Mosca, 1948), il regista passato alla storia come autore paradigmatico del cinema rivoluzionario sovietico. C’è però un altro volto in questa figura simile a quella di Giano, quello dei molti progetti di film incompiuti e delle grandi opere teoriche rimaste inedite e perlopiù sconosciute durante la sua vita (e in una certa misura ancora oggi). È questo corpus ancora non esplorato che costituisce la materia del presente libro. Focalizzandosi in particolare sull’antropologia del ritmo nel “film messicano” di Ėjzenštejn (1931-1932), il libro ritrova questo stesso filo conduttore in altri due progetti non finiti: il film (distrutto) Il prato di Bežin (1935-37) e Il canale di Fergana (1939), interrotto ancor prima dell’inizio delle riprese. 

 

Il ritmo e l’antropologia sono strettamente connessi. I ritmi biologici e meccanici, regolari e irregolari, non sono semplici aspetti formali, estetici o temporali dell’esperienza, ma possono rivelarsi gli strumenti stessi di un’antropologia. Seguendo sia i percorsi estetici che quelli epistemologici indicati da questa ipotesi, il libro mira a ricostruire il metodo antropologico di Ėjzenštejn attraverso una serie di materiali d’archivio: disegni, diari, film. Ponendo il metodo di Ėjzenštejn in una costellazione situata tra l’estetica del Surrealismo eterodosso in cui si riconoscono i collaboratori della rivista francese Documents (1929-1930), da un lato, e la visione antropologica del Messico post-rivoluzionario dall’altro, esso esplora la paradigmatica esperienza moderna del guardare l’alterità in faccia

 

 

Concentrandosi sulla rappresentazione della gente comune, in particolare sull’intensa e sorprendente varietà dei modi in cui Ėjzenštejn ha filmato i volti umani, i materiali presentati in questo libro illuminano aspetti documentari ed etnografici finora sconosciuti della sua opera. Nelle immagini del Messico, così come in quelle dei suoi progetti di film antropologicamente orientati in Ucraina e Uzbekistan, Ėjzenštejn mette in gioco i due significati di “rivoluzione” evocati da Arendt. Qui percepiamo le relazioni emergenti della storia tra ripetizione e irruzione, ritorno e rivolta, tra un singolo destino – un corpo o un gesto – e la narrazione sociale e politica che ne costituisce lo sfondo. Ognuno di questi progetti cinematografici inaugura un nuovo e singolare approccio cinematografico, pur condividendo tutti un comune modello archeologico di storia e un’analoga costruzione antropologica dello sguardo. 

 

Filmando i volti di profilo, allontanandoli dalla messa a fuoco della macchina da presa, ruotandoli in una danza estatica o dissolvendo la loro visibilità dietro una maschera, Ėjzenštejn fa sì che i volti umani sfidino il paradigma fisiognomico, criminale o razziale dominante. Queste immagini aprono uno spettro concreto di possibili metamorfosi che superano ogni identificazione fissa. Essi disfano criticamente la nozione statica di figura umana, trasformandola in una ritmica molteplicità di se stessa, smembrando e decentrando la sua unità. 

 

Questa intensa, animalistica o persino cannibalistica concezione della mimesis ha origine in un’apertura antropologica a una storia della cultura che incorpora gli estremi delle sue manifestazioni sociali e religiose. Nelle immagini e nei diari messicani di Ėjzenštejn – di cui alcune parti inedite sono state tradotte in questo libro (da Natalie Ryabchikova) – il ritmo diventa un potente strumento mimetico di trasformazione. […]

 

 

Elementi per una “antropologia non specialistica”

 

Qual è il rischio epistemologico di questa esperienza antropologica e come può entrare in rapporto con altri modi d’indagare le formazioni culturali? Un interessante parallelo lo si ritrova nel campo della psicoanalisi. Nel suo testo Il problema dell’analisi condotta da non medici (1926), Sigmund Freud solleva la questione dell’autorità dell’analista rispetto al suo paziente e, di conseguenza, del terreno epistemologico della psicoanalisi in quanto “scienza”. 

 

Questa domanda “pratica” porta Freud a distinguere le condizioni della psicoanalisi da quelle del trattamento medico.

 

Noi non desideriamo affatto che la psicoanalisi venga inghiottita dalla medicina e finisca col trovar posto nei trattati di psichiatria, al capitolo terapia, fra quegli altri procedimenti – come la suggestione ipnotica, l’autosuggestione e la persuasione […]. In quanto “psicologia del profondo”, o dottrina dell’inconscio psichico, può divenire indispensabile per tutte le scienze che studiano la storia delle origini della civiltà umana e delle sue grandi istituzioni, come l’arte, la religione e l’organizzazione sociale. Penso che abbia già offerto a queste scienze un aiuto considerevole per la soluzione dei loro problemi, ma si tratta solo di contributi minimi in confronto a quelli che si potranno ottenere quando gli storici, gli psicologi delle religioni, i glottologi ecc., saranno messi in condizione di servirsi essi stessi del nuovo strumento di ricerca posto a loro disposizione. L’uso terapeutico dell’analisi è soltanto una delle sue applicazioni, e l’avvenire dimostrerà forse che non è la più importante.

 

 

La teoria dell’“inconscio mentale” non può essere ridotta al soggetto di una psiche individuale perché si riferisce alla cultura nel suo complesso. Allo stesso tempo, la situazione analitica non è solo una questione di relazione tra analista e paziente. L’inconscio comporta una temporalità più complessa: un processo dove ordini individuali e sociali, esperienze singole e collettive, sono intimamente connesse. 

Nella difesa dell’analisi dei “non medici”, Freud si rivolge all’inesauribile potenziale dell’inconscio; proprio per questo motivo, l’analista non sarà mai legittimato o qualificato dalla psicoanalisi in sé. Aprendo questa breccia epistemologica, Freud si concentra sulla processo di transfert, dove i “requisiti della tecnica analitica raggiungono il loro massimo”. Secondo Freud, il processo analitico si basa sulla meccanica e ritmica “riproduzione” dell’esperienza rimossa piuttosto che sulla memoria. L’impegno stesso dell’analista con il transfert potenziale tra sé e il paziente implica l’affrontare questo flusso inconscio.

 

Le esperienze di Ėjzenštejn in Messico potrebbero essere descritte nel segno di una “antropologia non specialistica”, basata sullo stesso terreno epistemologico evocato da Freud: la pratica di un discorso non professionale, vernacolare, non garantito da alcuna autorità istituzionale o da una conoscenza della disciplina antropologica. […]

 

 

Lo sguardo antropologico di Ėjzenštejn compie così non solo un passo oltre i confini della disciplina, ma un movimento più audace oltre il proprio terreno intellettuale, politico e culturale, esponendosi al suo “oggetto epistemologico” con una prossimità che sfuma nell’identificazione. Questo contatto fisico, che implica un processo immanente di transfert e controtransfert, influisce chiaramente sui modi e sui metodi della sua antropologia. “Il cannibalismo – leggiamo nel diario messicano di Ėjzenštejn – deve essere incluso nel novero delle pratiche di imitazione (identificazione)”. Mentre il concetto aristotelico di mimesis sottolinea la distinzione dell’imitazione dal suo modello, ciò che Ėjzenštejn ha chiamato la modalità “cannibalistica” della mimesi elimina la distanza tra queste polarità: sussume la differenza attraverso il consumo e la trasformazione. 

 

 

Seguendo questa logica, Ėjzenštejn afferma, sempre nelle pagine del suo diario, che “una carezza gentile è un pugno al rallentatore (il sadismo è solo uno stadio nel tempo e nell’intensità del colpo [...] il divorare rimane in amore solo in forma di morso e di bacio)”. Una simile pulsazione ritmica tra polarità opposte – che rievoca il saggio di Freud Il significato opposto delle parole primordiali (Gegensinn der Urworte) o il concetto di “inversione energetica” di Warburg nelle espressioni estreme del pathos – può essere vista come una manifestazione antropologica dello spettro degli spostamenti nel processo di transfert.

 

Anche se Ėjzenštejn non poté mai montare il suo film messicano, possiamo scorgere nelle sue scelte estetiche un montaggio immanente al film. Questo è il caso del movimento del voltare la testa: vediamo volti mascherati e senza maschera, balli cristiani e pagani, volti contemporanei sovrapposti alle rovine monumentali delle culture Azteca e Maya. Il tentativo di trovare un modello euristico – una melodia – nel materiale messicano ha dato origine a una vera e propria antropologia del ritmo. […]

 


Al di là della semplice metafora dell’inversione dei rapporti di potere, il corpo “in rotazione” fornisce a Ėjzenštejn uno strumento formale per lo spostamento della prospettiva: nel gesto di voltarsi, la figura si ricollega al suo sfondo in una reciproca trasformazione plastica. In queste sabbie mobili visive, la relazione tra il primo piano e lo sfondo viene messa in movimento. Non è né nella frontalità né nel profilo, ma piuttosto nella mobilitazione metamorfica del volto che Ėjzenštejn individua il potenziale politico e sociale di ciò che viene portato a visibilità.

 

In Messico, mentre porta avanti il suo progetto politicamente orientato con attori non professionisti, Ėjzenštejn approfondisce la pratica del tipazh (cioè l’apparenza tipica, rappresentativa di una classe sociale) proprio in direzione di un’antropologiavisiva sperimentale. Egli trasforma i volti messicani in paesaggi astratti, rivelando paradossalmente la crudeltà della storia del paese e della sua gente. Girando i volti di profilo, e poi nuovamente di fronte, scopre le differenze morfologiche tra i diversi strati di storia: i legami tra il Messico moderno e le rovine delle culture arcaiche Azteca e Maya; il sincretismo tra rituali e tradizioni pagane e cristiane.

 

Marie Rebecchi / Elena Vogman (in collaborazione con Till Gathmann), 

Sergei Eisenstein and the Anthropology of Rhythm.

128 pp., 340 immagini, parzialmente a colori.

Pubblicato da NERO, Roma, 2017

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Fino al 19 gennaio alla Fondazione Nomas di Roma
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Camillo Sbarbaro

$
0
0

Mezzo secolo fa, alla fine di ottobre del 1967, moriva Camillo Sbarbaro. Se chiedete a qualcuno, chi era Sbarbaro? Vi sentirete rispondere a colpo sicuro: un poeta. Eppure delle 697 pagine di cui consta l’edizione “definitiva” dei suoi testi (cito da quella, Garzanti, del 1985), tolte le ultime settanta che sono traduzioni in versi, ben 488 sono di prosa. Allora, forse, da un punto di vista puramente quantitativo, al quesito sopra formulato, si potrebbe magari dare una risposta diversa: un prosatore. O anche, considerando quanto e da quanti autori stranieri diversi ha volto in italiano – tra cui Flaubert, Stendhal, Eschilo, Euripide e Huysmans – un traduttore, e notevole.

 

Ma accettiamo il luogo comune e soffermiamoci anche noi sul poeta. Partiamo dalla sua opera più nota, Pianissimo, uscita nel 1914 per la prima volta per le Edizioni della “Voce”. Da qui parte la storia poetica di Sbarbaro, perché la sua primissima raccolta, Resine, uscita nel 1911, quando aveva solo ventitré anni, essendo nato nel 1888, venne poi disconosciuta dall’autore stesso e non compare nemmeno nel volume da cui abbiamo preso le mosse.

Ora, di Sbarbaro hanno scritto i più bei nomi della critica italiana. E non solo. Montale, suo illustre corregionale e amico, gli ha oltretutto dedicato una delle prime sezioni di Ossi di seppia, dove lo apostrofa come “estroso fanciullo”. Pasolini ne ha tracciato un buon ritratto in Passione e ideologia, caratterizzandolo con l’assai calzante definizione di “maestro in ombra”. Gadda, in un punto dell’ottavo capitolo della seconda parte della Cognizione del dolore (si tratta di una delle splendide descrizioni che impreziosiscono il romanzo) ha modo di parlare dei “licheni mattutini che avrebbero fatto pensoso lo Sbarbaro”, perché questo poeta e prosatore e traduttore è stato anche uno dei più importanti lichenologi del pianeta.

 

Detto questo, leggiamo Pianissimo con occhi impregiudicati. Come se fosse stato scritto adesso, e nessuno ne avesse mai trattato prima. 

Taci, anima stanca di godere/e di soffrire così inizia, con questo verso che pare quasi un controcanto rispetto al dannunziano Taci. Su le soglie del bosco eccetera. E poi, poco dopo, sempre riferito alla propria anima, camminiamo,/camminiamo io e te come sonnambuli.

Anche la seconda poesia della raccolta rappresenta il poeta mentre va, deambula, procede per strada: Talor mentre cammino solo al sole.

E anche la terza poesia descrive uno che cammina fra gli uomini guardando e precisa che si tratta di un camminare fra gli estranei.

Qual è l’attacco della quarta? eccolo: Esco dalla lussuria./M’incammino/per lastrici sonori nella notte. E la chiusura, di questo quarto testo è, circolarmente e con variazione minima: Cammino/per lastrici sonori nella notte.

Insomma, l’azione in cui è maggiormente impegnato l’io protagonista di queste pagine, è sempre quella di muoversi a piedi tra le vie cittadine. Citiamo alla rinfusa da altri luoghi dell’opera.

Talor, mentre cammino per le strade/della città tumultuosa solomi sovviene a un tratto/del mio cammino sotto cieli buicome in sonno tra gli uomini mi muovoandando per la strada così solo/tra la gente… Io che come un sonnambulo cammino/per le mie trite vie quotidiane… Quando traverso la città la notte… e dove vado mi domando,/perché cammino… Talora nell’arsura della via… 

Statisticamente, nei ventinove componimenti che fanno Pianissimo, prevale di gran lunga l’immagine del poeta viandante.

 

Usiamo la parola viandante, ma quella giusta è un’altra. La scriviamo o non la scriviamo? Tanto è una parola usata, strausata, abusata anche, ma sì, scriviamola pure, la parolaccia usurata: flâneur

Sbarbaro è il primo vero flâneur della letteratura italiana.

Benché abbia dichiarato che Rimbaud fu la “simpamina della sua giovinezza”, è naturalmente Baudelaire il modello di Sbarbaro, o almeno dello Sbarbaro di Pianissimo.

E qui, si sa, dovrebbe partire la citazione obbligata: il saggio di Benjamin su Baudelaire, il poeta- flâneur, che si aggira senza meta per i meandri della metropoli illimitata, che ha perso l’aureola, nel fango!, che è perennemente minacciato, che vive, ad ogni svolta, ad ogni incrocio, ogniqualvolta s’azzardi ad attraversare la strada, sotto il costante rischio dello choc.

 

 

Anche Sbarbaro, come Baudelaire, viene urtato (tra la gente che m’urta e non mi vede). Anche Sbarbaro, come Baudelaire (e come poi Montale), aspetta tuttavia la rivelazione, il segno che salva, l’angelo che si manifesta improvviso tra la folla anonima: una passante, i riccioli d’una nuca, l’ala di un cappello…

Però, ripeto, niente Benjamin (con tutto il rispetto!). Preferiamo allegare un passo di un critico oggi meno noto, Jacques Rivière, che nei suoi Studi del 1912 così tratteggia la figura di Baudelaire: “È in mezzo a noi. Non si rifugia nella solitudine per tornarne poeta e profeta. Non va a chiedere alla natura di renderlo divino – Ma è con noi. Lo scorgo nella strada…”.

Proprio lo stesso si potrebbe dire di Sbarbaro.

Era fatale che un poeta così s’imbattesse in Dino Campana, l’altro no, non diremo flâneur, ma piuttosto fugueur della letteratura italiana. Per la categoria del fugueur il riferimento obbligato è al saggio di Ian Hacking sui Viaggiatori folli, tradotto in italiano nel 2004, ci pare.

 

E infatti in una delle raccolte di prose di Sbarbaro, ossia Trucioli, datate 1920-1928, è descritto l’incontro tra i due. Il pezzo s’intitola Sproloquio d’estate. I poeti si ritrovano a Genova, in piazza Sarzano, che è sì un luogo ma è anche uno dei poemetti in prosa più belli di Campana, dove si realizza finalmente quell’aggancio del tempo all’eternità perseguito con tenacia lungo tutto l’arco dei Canti orfici.

Sbarbaro, in questo testo di Trucioli, ha modo, non a caso, di enunciare due massime capitali: “andare fu sempre il mio modo di vivere” e anche “come vado per strada, andrei pel mondo”. Del resto, Campana, con quel suo aspetto da “grassatore di strada”, anche lui viene ripreso dal “malo vento che lo cacciava pel mondo” ed è come risucchiato via.

Il poeta-impiegato Sbarbaro e il poeta-vagabondo Campana sono accomunati da un’identica mania deambulatoria. E, naturalmente, la loro erranza è di duplice natura: esistenziale e poetica. Se è vero, com’è vero, che il centro dei versi di entrambi è dato dalla descrizione di quell’andare senza meta che li caratterizza.

A un certo punto del colloquio Sbarbaro se ne esce con un “partiamo”, salvo poi chiosarlo così: “dissi insensatamente”.

 

Ma di fronte a Campana, ebreo errante d’elezione, il poeta ligure s’è lasciato prendere da un analogo impulso al viaggio. Magari verso Montevideo, come nella nota poesia dell’amico irrequieto.

Poi, in Sbarbaro, è prevalsa la sedentarietà o, detto altrimenti, il moto continuo all’interno della città conosciuta, o della campagna ligure dietro Spotorno, dove si ritirò a partire dagli anni Cinquanta (1951, per la precisione) in una “rustica casetta”, secondo la testimonianza dell’amata sorella Clelia.

Qui il poeta ha proseguito, fin che lo ha sorretto il fisico, la sua ricerca di licheni. Ne è stato studioso di fama mondiale, come detto, e ne ha scritto in modo mirabile e assai suggestivo. Basti qualche citazione da Licheni, anch’essa in Trucioli, ma edizione 1930-40.

 

Perché questa passione per i licheni? Nasce, scrive Sbarbaro, dalla sua “predilezione per le esistenze in sordina”. “Gli incospicui e negletti licheni, a salutarli a vista per nome, pare di aiutarli a esistere”. Il lichene è però tenace, tenacissimo. Vive ovunque. “Non lo scoraggia il deserto; non lo sfratta il ghiacciaio… Teme solo la vicinanza dell’uomo… Il lichene urbano è sterile… Il fiato umano lo inquina”.

Eppure è capace di attaccare le pietre più dure, il lichene, “con acidi di sua privativa” e le disgrega e le buca, per mettere i suoi semi al riparo dei venti. Ma ci sono anche i “licheni senza fissa dimora”, come la Parmelia vagante delle steppe chirghise, o l’Aspicilia Mangereccia dei deserti, da taluni irriverenti identificata con la manna mandata da Dio a sfamare il popolo eletto. Altre specie amano alloggiarsi persino sull’osso, sulla porcellana, sul cuoio.

Il lichene, prosegue Sbarbaro, è il più multiforme dei vegetali. Non sono solo crostosi, fogliosi o arborescenti. Questi aggettivi non esauriscono certo il polimorfismo dei licheni. Essi formano tetti d’embrici. Pavimenti a tasselli, triangolari, pentagonali, poligonali. Altri danno vita ad autentiche Vie Lattee o ramificati sistemi stellari. Altri ancora, penduli, a barbe, criniere, “capigliature assalonniche”.

Una specie denominata Grafidee ha l’aspetto di scritture indecifrabili, dotate di caratteri minuscoli o maiuscoli, lineari, forcuti, cinesi, cuneiformi.

 

Il lichene è un grande simulatore; può travestirsi da encausto, intarsio, traforo, mosaico.

Il lichene, infine, si entusiasma Sbarbaro, è “il più policromo dei vegetali. La sua gamma che va dal bianco latte al buio stigio, attinge tutti gli acuti, attraverso una orchestrazione di toni e sfumature da dar fondo al più ricco repertorio coloristico”.

C’è il grigio perla, il grigio acciaio, il grigio piombo, il grigio cenere. Nel limbo dei neri si distinguono un nero Africano (maurus), un nero Pipistrello (vespertilio), un nero Corvo (coracinus), un nero Fumo (infumatus), un nero Lutto (pullatus), un nero Torrefatto (torridus) e un nero Bruciato (Deustus).

Il lichene è un enigma, dice Sbarbaro, che ha la stessa inesauribile profondità del mondo, di cui è come un vasto, indecifrabile campionario.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
A cinquant'anni dalla morte
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Sergei Eisenstein and the Anthropology of Rhythm

$
0
0
Sottotitolo: 

The exhibition Sergei Eisenstein: The Anthropology of Rhythm on September 19, 2017. Numerous documents from Eisenstein’s archives – The Russian State Archive of Literature and Arts (RGALI) and The National Film Foundation of Russian Federation (Gosfilmofond) – will be exhibited for the first time, including notebooks, drawings, film footage and photographs. Curated by art and film historians Marie Rebecchi and Elena Vogman, in collaboration with the artist and typographer Till Gathmann, the exhibition will continue through January 19, 2018. 

Here below is an excerpt from the introduction of the book Sergei Eisenstein: The Anthropology of Rhythm, published by NERO, Roma. 

 

 

Out of poverty, poetry; out of suffering, song.” This is how the anthropologist and writer Anita Brenner describes the unfolding of a corrido, a Mexican ballad. Literally “event of the time,” the corrido is an anonymous poetic genre that musically voices the lament of the day. Whether recounting a political or personal event, a catastrophe or a bad dream, corridos lend rhythm to the sorrows of life, equally “for the servants, who wail them while washing dishes or putting babies to sleep, and for the muledrivers, who croon them to their caravans.” The necessity of rhythm has to do with its transformative power. It is a medium of change; it constitutes a transition from fear to joy, from ennui to awareness, from a simple movement to choreography or dance. For this reason, as Brenner points out, a collection of corridos is a “truer mirror of Mexican people, than any text yet written.” It transforms “a casual journalistic category” into a political event.

 

In its anthropological quality of organizing experience, rhythm is a vehicle of revolution. As Hannah Arendt once observed, it constitutes the etymological history of the word. Arendt pointed at the crucial tension of two opposing meanings of “revolution.” (N.d.R. On Revolution, 1963). Originating from the astronomical context where it defined a cyclical and regular motion of the stars, in modern times the word has come to define a unique historical upheaval of a given political order, enacted by man rather than by the cosmos or providence. What does the physical choreographic movement of turning have in common with the social and political change of a given situation? How does rhythm participate in this change?

 


This book proposes to explore the intersecting aesthetic, anthropological and political dimensions of three unfinished film projects by Sergei Eisenstein. The Soviet director (b. 1898, Riga — d. 1948, Moscow) is best known today as the paradigmatic author of revolutionary Soviet cinema. Yet there is another face to this Janus-like figure, many of whose unfinished film projects and extensive theoretical works remained unpublished and unknown during his lifetime — and to a certain extent until today. It is this as yet unacknowledged body of work which make up the subject matter of the present book. Focusing in particular on the anthropology of rhythm in Eisenstein’s Mexican project (Que viva Mexico!, 1931–1932), the book follows this thread to two other unfinished projects: the destroyed film Bezhin Meadow (1935–37) and Fergana Canal (1939), which came to a halt before filming even begun.

 

Rhythm and anthropology are closely connected. Organic and mechanical, regular and irregular rhythms are not merely formal, aesthetic or temporal aspects of experience. They can become instruments of anthropology. Pursuing both the aesthetic and the epistemic paths of this hypothesis, the book aims to reconstruct Eisenstein’s anthropological method through a series of archival materials: drawings, working journals and film footage. By placing Eisenstein’s method in a constellation between the heterodox surrealist aesthetics of the French journal Documents on the one side, and the anthropological culture of

post-revolutionary Mexico on the other, it explores the paradigmatic modern experience of looking alterity in the face.

 

 

By focusing on the representation of people, in particular the intense and astonishing variety of ways in which Eisenstein filmed human faces, the presented materials illuminate hitherto

unknown documentary and ethnographic facets of Eisenstein’s work. In his images from Mexico and his later anthropologically-oriented film projects in Ukraine and Uzbekistan, Eisenstein brings the two meanings of “revolution,” as evoked by Arendt, into play. Here we perceive the emerging relations of history poised between repetition and irruption, return and revolt , between a single destiny — a body or a gesture — and the social

and political narrative that constitutes its background. Each of these film projects invents a new and unique cinematographic approach, yet they all share a common archaeological model of history and an anthropological construction of the gaze.

 

By turning the filmed faces to profile, moving them away from the focus of the camera, revolving them in an ecstatic dance, or dissolving their visibility behind a mask, human faces are made to defy the prevalent physiognomic, criminal or racial paradigm. These images unfold a concrete spectrum of possible metamorphoses exceeding any fixed identification. They critically deface the static notion of the human figure, turning it into a rhythmic multiplicity of itself, dismembering and decentering its unity. This intense animalistic or even cannibalistic understanding of mimesis originated in an anthropological opening of a history of culture incorporating the extremes of its social and religious manifestations. In Eisenstein’s images and working diaries from Mexico — selections from which have been translated for this book — rhythm becomes a powerful mimetic instrument of alteration.

 

 

Elements towards a “Lay Anthropology”

[We want to thank philosopher Pawel Moscicki for having inspired this title. A research project on “lay anthropology” encompasses works based on the experience of “lay” ethnographic research].

 

What is the epistemic risk of this experience, and how does it relate to other forms of knowledge about cultural formations? An interesting parallel comes from the field of psychoanalysis. In his text on “Lay Analysis,” Sigmund Freud raises the question of

the authority of the analyst vis-à-vis his patient and, as a consequence, of the epistemic ground of psychoanalysis as a “science.” This “practical” question leads Freud to distinguish the conditions of psychoanalysis from those of medical treatment.

 


“For we do not consider it at all desirable for psychoanalysis to be swallowed up by medicine and to find its last resting-place in a text-book of psychiatry under the heading ‘Methods of

Treatment’, alongside of procedures such as hypnotic suggestion, autosuggestion, and persuasion … As a ‘depth-psychology’, a theory of the mental unconscious, it can become indispensable to all the sciences which are concerned with the evolution of human culture and its major institutions such as art, religion and the social order. It has already, in my

opinion, afforded these sciences considerable help in solving their problems. But these are only small contributions compared with what might be achieved if historians of culture,

psychologists of religion, philologists and so on would agree themselves to handle the new instrument of research which is at their service. The use of analysis for the treatment of

the neuroses is only one of its applications; the future will perhaps show that it is not the most important one.” 

 

The theory of the “mental unconscious” cannot be reduced to the subject of an individual psyche because it relates to the culture as a whole. At the same time, the analytical situation is not only a matter of the relation between analyst and patient. The unconscious involves a more complex temporality: a process wherein individual and social orders, singular and collective experiences, are intimately entangled. 

 

In defending lay analysis, Freud addressed the irreducible potential of the unconscious; precisely for this reason, the analyst would never be legitimized or qualified by psychoanalysis on its own. Opening this epistemic breach, Freud focuses on the process of transference, where the “requirements of the analytic technique reach their maximum.” According to Freud, the analytical process itself is based on the motoric and rhythmic

“reproduction” of the suppressed experience rather than on memory. The analyst’s own engagement with the potential for transference between himself and his patient involves facing up to this unconscious flow. 

 

Eisenstein’s experiences in Mexico could be described as “lay anthropology” based on the same epistemic ground evoked by Freud: the practice of a non-professional, vernacular discourse, not secured by any institutional authority or disciplinary ethnographic knowledge.

 

[…]

 

 


Eisenstein’s anthropological gaze does not only realize a step beyond disciplinary boundaries. It was a more audacious movement beyond his own intellectual, political and cultural context,

exposing himself to his “epistemic object” with an emphatic closeness verging of identification. This physical contact, including an immanent process of transference and counter-transference, distinctly affected the modes and methods of this anthropology. “Cannibalism,” we read in Eisenstein’s Mexican diary, “needs to be included in the totality of the imitation (identification) practices.” Whereas the Aristotelian concept of mimesis stresses the distinctness of the imitation from its model, what Eisenstein called the “cannibalistic” mode of mimesis eliminates all distance between them: it subsumes difference through consumption and transformation. Following this logic, Eisenstein asserts that “gentle stroking is a punch in slow-motion (sadism is only a stage in the tempo and intensity of stroking … devouring remains in love only in the form of a bite and a kiss.” 

 

Such a rhythmic pulsation of polarities — similar to Freud’s essay on the “antithetical meaning of the primal words” (Gegensinn der Urworte) or Warburg’s concept of “energetic inversions” in the extreme expressions of pathos — can be seen as an anthropological spectrum of shifts in the process of transference.

 

Although Eisenstein was never able to edit his Mexican footage, we can discern through his aesthetic choices an immanent montage of the planned film. This is the case with the highly prevalent gesture of turning one’s head : we see masked and unmasked faces, Christian and pagan masked dances, contemporary faces juxtaposed with monumental ruins of Aztec and Maya cultures. Here, the attempt to find a heuristic pattern — a melody — in the material gave rise to a veritable anthropology of rhythm.

 

[…]

 

 

Beyond a mere metaphor for the reversal of power relations, the turning body provides Eisenstein with a formal tool for the shifting of perspective: in the process of turning, the figure connects with its background in a mutual plastic transformation. In this visual quicksand, the relation between the foreground and the background is itself put into motion. It is neither en face nor in profile, but rather in the face’s metamorphic mobilization that Eisenstein locates the political and social potential of what is given to the eye. While developing his politically-motivated work with amateur actors in Mexico, Eisenstein expanded the practice of tipazh [the Russian word “tipazh,” English “type,” is a concept for typical appearance, representative of a social class. This is how Eisenstein and other Soviet cinema pioneers referred to a non-professional actor as opposed to a professional one. The political formula of tipazh quoted by Eisenstein, was a “social biological hieroglyph.”] to an experimental visual anthropology. He turns the Mexican faces into abstract landscapes, paradoxically revealing the cruel history of the country and its people. Turning the faces to profile and back again, he morphologically discovers the relations between different layers of history: the connections between modern Mexico and the ruins of archaic Aztec and Maya cultures; the syncretic intersection of pagan and Christian rituals and traditions.

 

Marie Rebecchi / Elena Vogman (in collaboration with Till Gathmann), 

Sergei Eisenstein and the Anthropology of Rhythm.

128 pp., 340 images, partly in colour.

Published by Nero, Rome, 2017

negli speciali in home: 
Non in Box
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Media e luoghi

$
0
0

Shaun Moores è conosciuto in Italia grazie al suo importante studio di qualche anno fa Il consumo dei media (Il Mulino), che ha avuto il merito di presentare nel nostro paese un dettagliato quadro delle attività di ricerca di tipo etnografico e dei dibattiti culturali sorti intorno al Media Group del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham, articolando una linea riflessiva in aperta opposizione rispetto agli studi quantitativi di matrice statunitense, che per decenni avevano rappresentato il punto di riferimento nella sociologia della comunicazione. Moores, in modo sistematico e originale, si è fatto traduttore di una “svolta etnografica” che ha avuto il merito di condurre lo studio dei media, e in particolare della televisione, sui dettagli della fruizione e dei prodotti culturali, integrando da un lato l’approccio semiotico ai testi – facendo riferimento in particolare ai lavori di Roland Barthes – e dall’altro riprendendo in maniera piuttosto fedele le metodologie delle discipline antropologiche, che in quegli anni stavano vivendo una svolta epistemologica, sintetizzata dal celebre lavoro di James Clifford e George Marcus, Scrivere le culture (Meltemi). 

 

Il nuovo volume di Moores Media, luoghi e mobilità (FrancoAngeli) è la prosecuzione di questa ricerca, una sua evoluzione naturale che indaga la triangolazione tra ambienti, esperienza e mobilità alla luce dei cambiamenti tecnologici e culturali avvenuti negli ultimi anni. Un frame importante e mai abbandonato dai media studies, che l’autore inglese aveva alimentato in passato, dedicandosi alla nascita della radiofonia e alla sua diffusione nei contesti domestici e, successivamente, riproponendo una analoga ricerca sulla televisione satellitare e i suoi usi negli ambienti familiari. L’originalità dell’ultimo lavoro di Moores consiste nell’evocare con precisione le principali teorie sul rapporto tra media, luoghi e mobilità facendo dialogare i testi in maniera produttiva e ottenendo il prezioso risultato di sviluppare un mosaico coerente, attraverso il quale spiegare i funzionamenti della vita quotidiana. Nel suo lavoro, la teoria, per quanto importante, scaturisce sempre dalla necessità di comprendere le esperienze degli utenti; essa non riduce mai il proprio oggetto di analisi a puro pretesto, ogni concetto è strettamente legato alla dimensione esperienziale. Pertanto, le ricerche qualitative condotte da Moores e le altre evocate nel libro divengono un imprescindibile punto di osservazione sul quotidiano, un luogo privilegiato da cui comprendere il presente. 

 

 

L’esempio più efficace di questa specifica modalità di studio è rappresentato dall’uso delle ricerche di geografia fenomenologica che a partire dagli anni Settanta hanno indagato il concetto di luogo. Secondo Moores, esse arricchiscono il dibattito mediologico, introducendo un’idea di luogo che supera quella di localizzazione – anche quella di localizzazione multipla proposta dal sociologo Paddy Scannell, uno dei principali riferimenti teorici dell’autore – proponendo, al contrario, una definizione performativa. Secondo Moores, i concetti di spazio e di luogo non sono sovrapponibili, quest’ultimo è inteso «come esito dell’esperire» (p. 56), una definizione che consente di espandere il confine della sua portata teoretica fino a comprendere i prodotti culturali e i media, vale a dire estendendo agli oggetti ordinari, alle pratiche e ai gesti con cui si stabiliscono delle relazioni lo statuto di luoghi, di territori in cui avviene l’esperienza. Il luogo di cui parla Moores nel libro è quindi antropologico, esso rinvia costantemente alla socialità e alle relazioni, quindi a una presenza umana colma di impulsi vitali. Il luogo è allo stesso tempo chiuso o poroso, statico o mobile, fisico o mediatico, ma per essere tale ha bisogno dell’esperienza umana, dell’abitare. Questo modo di intendere il luogo comporta due implicazioni: da una parte spinge i media studies a intendere «gli usi dei media anche come attività costitutive di luoghi all’interno di una gamma di altre attività di questo tipo nella vita quotidiana» (p. 76). Inoltre, diviene significativo per l’analisi sociale anche lo studio della mobilità: la transitorietà delle pratiche ordinarie e la loro caducità non sono intese dallo studioso inglese come il sintomo di una perdita di valore dei luoghi, ma di un loro consolidamento nel vissuto esperienziale degli utenti.

 

La mobilità quotidiana, quella per raggiungere il luogo di lavoro o per scoprire una metropoli attraverso una passeggiata in bicicletta, contribuisce a costituire i luoghi da un punto di vista emotivo e sentimentale, attraverso prassi che sembrano divenire per l’utente una “seconda natura”. Moores prefigura quindi un modo di intendere la mobilità differente da come le scienze sociali sono state abituate a pensarla: una mobilità fondatrice al posto di una mobilità come abbandono e disimpegno. A differenza dei geografi e degli antropologi con cui nel testo stabilisce un proficuo dialogo, Moores annovera all’interno delle pratiche “significative” anche gli usi dei media (la lettura di un giornale, l’ascolto della radio nell’automobile, ecc.) che prevedono un percorso di esplorazione e conoscenza della tecnologia e dei suoi prodotti, che conducono a un alto livello di familiarità, facendo così affiorare la dimensione abitativa dei media. 

 

È proprio da questo confronto serrato con altre discipline che Moores sviluppa l’idea conclusiva del suo lavoro: la proposta di un approccio non media-centrico ai media studies (p. 153). Una prospettiva coerente con le premesse della sua ricerca, che non deve essere derubricata come un tentativo di accantonare i media studies, al contrario essa spiega la volontà di decentrare il proprio punto di osservazione per accogliere altri modi di vedere e di studiare, esattamente come l’autore inglese fece nei primi anni Novanta, destrutturando la prospettiva dei cultural studies e abbandonando le velleità della semplice misurazione, in favore di un approccio etnografico alla televisione. Egli, infatti, spiega brillantemente che «riconoscere le proprietà distintive dei media è essenziale, poiché i media differiscono dagli altri oggetti materiali della vita quotidiana, nonché l’uno dall’altro, e tuttavia sono proprio le relazioni tra gli usi dei media e una serie di pratiche che li accompagnano a dover essere indagate» (p. 161). Insomma, grazie alla centralità del tema trattato, alla precisione analitica e alla sistematicità della riflessione, questo libro si appresta a essere un nuovo classico dei media studies

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Non c'è luogo se non c'è esperienza
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 
Viewing all 6268 articles
Browse latest View live