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Una cosa bella è una gioia per sempre

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Un verso

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile.

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Giacimenti della memoria di guerra

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Tra i non pochi equivoci del postmodernismo, uno dei più influenti è stato l’interpretazione del cosiddetto spatial turn quale sostituzione della geografia alla storia. Se le «grandi narrazioni» della modernità avevano peccato di fede eccessiva in uno storicismo progressivo e teleologico, il tempo a seguire sarebbe connotato da un cambiamento di paradigma in grado di rappresentare i fenomeni culturali su un piano non più inclinato in una determinata direzione, bensì disteso in uno spazio a due dimensioni, senza vettori privilegiati. Era questa che si chiamava, appunto, la fine della storia. E invece se c’è una cosa che in questi ultimi decenni ci ha insegnato la migliore geografia culturale (penso a un geografo come Franco Farinelli, a uno storico come Karl Schlögel o a un comparatista come Michael Jakob), è che intendere i fenomeni sotto la specie della loro localizzazione nello spazio comporta né più né meno che un modo nuovo di percepirne la storicità. La superficie di un piano è quella che vediamo, certo, ma essa sottende stratificazioni e dislivelli che di quel piano – il nostro presente – sono la genealogia e l’archeologia. La nostra storia, appunto.  

 

Lo dimostra, agli albori del tempo dopo la modernità, quello che fu il primo – e allora, infatti, scandaloso – incunabolo cinematografico dell’interminabile elaborazione del lutto per quello che da allora, della modernità, è stato l’insostenibile estremo; e che ha trasformato gli ultimi settant’anni in un ininterrotto dopoguerra (o Postwar, come è meglio scelto il nuovo titolo della capitale opera di Tony Judt, da poco ripubblicata da Laterza). All’inizio di Nuit et brouillard, il mediometraggio realizzato nel 1955 da Alain Resnais, una panoramica scende dal cielo chiaro e da un orizzonte imperturbato sino a inquadrare un reticolato; si sente un flauto intonare una melodia bucolica di Hanns Eisler, e la voce di Michel Bouquet recitare le parole di Jean Cayrol: «Persino un paesaggio tranquillo, persino una campagna con il volo dei corvi, […] persino un paese di villeggiatura, con la sua fiera e il suo campanile, possono portare banalmente a un campo di concentramento» (cito dalla bella edizione, pubblicata nel 2014 dall’editore triestino Nonostante, di Notte e nebbia: che di Cayrol riporta, con postfazione di Boris Pahor, oltre al testo per il film, anche le poesie omonime). A far scandalo, nel film di Resnais, fu tra le altre cose la scelta di giustapporre quelle immagini quiete, dai colori pastello, al più crudo bianco e nero delle foto e dei filmati che, a testimonianza della Shoah, all’epoca si conoscessero. Ma in questo modo si riusciva a esprimere, oltre alla brutalità del passato, anche la più sottile nequizia del presente: quella che, sulla «topografia del terrore» (Schlögel), in appena un decennio aveva steso una pellicola d’oblio in forma di paesaggio. Come proseguiva Cayrol: «un’erba assurda è spuntata e ha coperto la terra consumata dai passi concentrazionari […] invano tentiamo di rinvenirne i resti». 

 

 

Passati altri sessant’anni, come si sa, alla reticenza e all’indifferenza è seguito il museo. O il parco a tema. La topografia del terrore è divenuta galleria degli orrori, per i turisti di guerra che su Instagram taggano il selfie ad Auschwitz «#juden#arbeitmachtfrei#zyklonb#feelgood», così contribuendo a formare quello che Guido Mazzoni ha definito l’«etere psichico della nostra epoca». È ingannevole, la museificazione dei traumi del Novecento, anche perché, isolando nel paesaggio dei punti privilegiati di male assoluto, implicitamente costituisce come innocente tutto lo spazio circostante. Cioè quello in cui, tornati dall’horror tour, continuiamo placidamente ad abitare. Quando invece siamo ben lontani dal conoscere nel dettaglio la sterminata parcellizzazione dei paesaggi contaminati: quelli cioè che ancora nascondono i luoghi degli eccidi sanguinosi e delle frettolose sepolture, la mimetizzazione dell’orrore che si stende per gran parte del territorio europeo.

 

Quasi un manuale, tecnico oltre che deontologico (che non si perita per esempio d’invocare l’ausilio dell’archeologia forense), per tentare di rivenire i resti di quell’orrore, di quegli orrori (talora sovrappostisi, guerra dopo guerra ed eccidio dopo eccidio, gli uni sopra i palinsesti degli altri: «spesso le vittime erano i colpevoli, e i colpevoli divennero poi le vittime»), è il piccolo, indispensabile libro dello scrittore tedesco Martin Pollack, dal titolo Paesaggi contaminati appunto, pubblicato l’anno scorso dall’editore Keller di Rovereto. Nato nel 1944, figlio del comandante di un Einsatzgruppe della Wehrmacht, Pollack ha scoperto in prima persona, sulla pelle psichica della sua terra (il Burgenland, al confine fra Austria e Slovenia), la radiazione fossile che contamina il paesaggio. Un bel giorno trova nel suo orto una forchetta conficcata nel terreno: una volta estratta e ripulita, il suo acciaio inossidabile fa luccicare il punzone Waffen-SS. Quel segno del passato che sporge dalla terra decide della sua vita, dell’ossessione per cui «proprio l’aspetto poco appariscente dei luoghi, il fatto che nulla faccia pensare a ciò che vi accadde, conferisce loro un’aria spettrale, anzi minacciosa».  

 

Quello che è il capolavoro di Andrea Zanzotto, Il Galateo in Bosco (1978), è segnato da una simile sensibilità nei confronti non tanto della guerra cui aveva preso parte in prima persona bensì, anche stavolta, del trauma che nel suo sangue circolava per via patrilineare (il poeta era nato nel ’21): quel ’15-18 i cui «pezzi di guerra sporgenti da terra», negli «os-ossari» del Montello, marchiano una volta per tutte il suo «esistere psichicamente», il suo sguardo «dietro il paesaggio». E non è un caso che uno dei nostri migliori giovani studiosi, Matteo Giancotti, che nel 2013 i Luoghi e paesaggi di Zanzotto ha raccolto in un’edizione esemplare, proponga ora presso lo stesso Bompiani un libro innovativo sin dal titolo, Paesaggi del trauma. Le due grandi guerre del Secolo breve si sono impresse nella letteratura (non solo e non tanto quella loro contemporanea) «come una memoria culturale del trauma», che proprio nelle viscere della terra va archeologicamente scovata.

 

Rileggendo in modo nuovo testi fondativi come la Filosofia del paesaggio di Simmel e la Teoria del partigiano di Schmitt, e incrociando alla filologia storia geografia e appunto teoria del paesaggio, Giancotti può così individuare due crinali fondamentali, due «linee degli ossari» – per dirla con Zanzotto – che percorrono il secolo: quella appunto della Grande guerra, già studiata in tal senso ma ora metodicamente riletta in questa luce (con pagine acute, per esempio, su Renato Serra, Giovanni Comisso, Emilio Lussu e sul grande e misconosciuto Camillo Sbarbaro), e quella della Guerra civile del ’43-45, che dalla sua analisi esce con un aspetto assai lontano dalla vulgata (e qui i protagonisti sono Fenoglio, Calvino e Meneghello ma anche Caproni, il Fortini di Sere in Valdossola e, dall’altra parte della barricata, il Carlo Mazzantini di A cercar la bella morte). Una delle novità di questo approccio è proprio quello di giustapporre, alle canoniche figurazioni della natura sconvolta e brutalizzata dalla guerra, la «finta quiete» di paesaggi idilliaci, se non proprio edenici, che per reazione evocano – con una sindrome à la Pollack, o à la Resnais – «la vibrazione nascosta» che li rende, nelle parole del Partigiano Johnny, «vacui e stregati». Quello che Clemente Rebora, il più grande nostro poeta del primo quarto del Novecento (e del quale non a caso Giancotti è fra i nostri maggiori studiosi), codificò, nel 1922, come il «tempo che la vita era inesplosa». 

 

Oppure la considerazione dei testi nel loro isotropismo al «restringimento del campo della coscienza» che Agostino Gemelli diagnosticò al soldato della Grande Guerra. Molto interessante, uscito insieme al libro di Giancotti, il breve saggio dal titolo Paesaggio di guerra, scritto nel ’17 durante un congedo dai combattimenti ai quali aveva preso parte da soldato semplice volontario, di uno dei padri della psicologia sociale, Kurt Lewin (il quale, ebreo e socialista costretto all’esilio nel ’33, ebbe in sorte di coniare l’espressione resa funesta dai nazisti, Lebensraum, «spazio vitale»). Anticipando cogli strumenti della Gestalt-psychologie il concetto di Ortung dello Schmitt del Nomos della terra, Lewin mostra che mentre quello di pace è uno «spazio arrotondato, senza davanti e senza dietro», quello di guerra è un «paesaggio delimitato», marchiato e vettorializzato dall’uso che della terra fa il combattente: proprio quello che dirà Schmitt nella Teoria del partigiano (e che ha messo a frutto, per il repertorio della Guerra civile, Gabriele Pedullà nella sua bella antologia dei Racconti della Resistenza). Lo stesso paesaggio infatti, visto dai reduci a distanza di tempo dai combattimenti, appare loro irriconoscibile.

 

Un paesaggio-sutura, una benda che si è stesa sul trauma per curarlo ma insieme per celarlo. Ma il trauma è sempre pronto a riemergere, come un revênant, deformando sottilmente quella che diventa, allora, una terra-sintomo. Racconta Pollack che a Hrastovec, in Slovenia, nel ’45 i partigiani jugoslavi pensarono di impiegare il fango delle peschiere del luogo, da loro svuotate, per seppellire le minoranze tedesche e ungheresi da loro eliminate dopo la ritirata della Wehrmacht. Ma testimoniano i contadini del luogo che i gas prodotti dalla putrefazione dei cadaveri fecero sì che per diversi inverni quegli stagni non riuscissero a gelare del tutto. Il ghiaccio dell’oblio si incrinava e infine si spezzava, riportando alla luce l’orrore di un secolo ancora tutto da scavare. 

 

Matteo Giancotti, Paesaggi del trauma, Bompiani, pp. 264; Martin Pollack, Paesaggi contaminati, traduzione di Melissa Maggioni, Keller, pp. 144; Kurt Lewin, Paesaggio di guerra, a cura di Raffaele Scolari, Mimesis, pp. 43. Altri testi citati: Jean Cayrol, Notte e nebbia, a cura di Giovanni Pilastro, traduzione di Nicola Muschitiello, postfazione di Boris Pahor, Nonostante, pp. 188; Tony Judt, Postwar. Europa 1945-2005, traduzione di Aldo Piccato, Laterza, pp. X-1075; Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, a cura di Matteo Giancotti, Bompiani, pp. 230; Guido Mazzoni, I destini generali, Laterza, pp. 122; Racconti della Resistenza, a cura di Gabriele Pedullà, Einaudi, pp. XLIV-346.

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita l’8 ottobre sul «Sole 24 ore».

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La vibrazione nascosta nel paesaggio
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Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi

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Che cosa sono, chi sono quelle bambine che cercano, scrutano, commentano, fanno da coro, con i loro vestitini dai colori tenui, a fiori, a disegni soavi? Quelle bambine che attraversano, curiose, stanze piene di oggetti, che a volte sembrano un deposito, a volte una vecchia casa contadina, o una chiesa, o addirittura un magazzino della memoria, forse un teatro con un finestrone aperto su alberi con verdi foglie estive, con maschere di cartapesta, teli, fondali teatrali, grandi candelabri, altri oggetti? Quelle bambine guidano, domandano, guardano stupite, introducono, come chi forse sa tutto della vita perché sa poco ancora. Sbucano all’improvviso, in lunghi corridoi, tra le sedie di una vecchia sala cinematografica o tra le poltroncine di velluto di una platea teatrale vuota. Appaiono da passaggi laterali, da anfratti, chiamati dalla prima, da quella che ha aperto il film, con il suo sguardo, e ne ha già introdotti alcuni capitoli. E ha offerto l’investitura di un fiore tropicale, un’orchidea carnosa, luminosa, incantata, alla straordinaria attrice che indosserà la figura di Aung San Suu Kyi, la donna politica birmana, la resistente, l’anima grande di un popolo offeso. 

 

 

Marco Martinelli con il suo Teatro delle Albe da tempo voleva cimentarsi con il cinema. Lo fa con un’opera prima asciutta, precisa e immaginosa, misteriosa e politica, portando sullo schermo, in modo originale, il suo successo teatrale Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi (2104: qui la mia recensione; il testo è pubblicato da Luca Sossella editore). L’interprete, come sul palcoscenico, è la superba Ermanna Montanari, che sembra indossare non solo la figura della guida del popolo birmano ma anche una speciale grazia, antica, contadina, molto italiana, universale alla fine. Pare, nei lunghi abiti che richiamano quelli birmani, una figura staccatasi da qualche quadro dell’ottocento, o addirittura qualche pallida donna della pittura fiamminga, insieme vigile, concreta, in tensione continua, pronta per un’azione, magari molto quotidiana, perfino casalinga, e sognante, distaccata, abbandonata a un superiore fluire delle cose. Rastrema le parole. Emana eleganza e placida dolcezza dalla figura intera, stagliata nella solitudine di una prigionia difficile da sopportare. Regge il primo piano che la va a scrutare con un volto antico, insieme di porcellana e segnato da belle piccole rughe. Fragile interna sicurezza fermamente in bilico.

 

Il film, in vari capitoli filmati con essenziale nitore, ritmati da didascalie scritte su fogli di carta preziosa, racconta la storia della donna politica premio Nobel per la pace e del suo Paese. Il racconto parte dagli anni intorno alla Seconda guerra mondiale e dai primi movimenti di liberazione dal dominio coloniale, guidati dal giovanissimo padre di Suu Kyi, Aung Sun, presto ucciso. Narra la dittatura militare, la vita all’estero della donna, sposata con un ricercatore inglese. Poi il ritorno in patria, richiamata dalla malattia della madre: Suu Kyi diventa subito un simbolo di lotta a un regime corrotto, violento, governato da generali folli che vessano il popolo e a volte affidano le loro scelte tiranniche perfino ad astrologi. Da allora sarà un esempio di resistenza non violenta: conculcata, messa agli arresti, in casa, per anni, costretta a non lasciare il Paese neppure quando il marito si ammala di tumore e muore, lontano da lei (e qui il film riserva una scena di dolore meravigliosa, senza parole, una danza di schianto, di precipizio). Simbolo di una nazione, la Birmania, alla quale viene cambiato persino il nome in Myanmar, Aung San Suu Kyi ritroverà la libertà solo nel 2010, dopo anni di clausura, di forzata solitudine, di silenzio. E sarà ancora a capo di un rinnovamento profondo, sempre minacciato dalla forza dell’esercito (qui lo spettacolo si chiudeva e si ferma il film, senza entrare nelle ultime polemiche circa il suo silenzio sulla crisi umanitaria dei rohingya, la minoranza musulmana). 

 

Ph. Marco Parollo.


Il film ripercorre questa storia con gli attori che guardano in camera, che si rivolgono direttamente allo spettatore, principalmente per monologhi o per essenziali dialoghi. Suu Kyi è prigioniera, per la maggior parte del tempo, sola: parla con un geco; riceve visite di una giornalista di “Vanity Fair” (Sonia Bergamasco) che vorrebbe farle dire che si sente una Giovanna d’Arco orientale; incontra un imbelle inviato Onu che dovrebbe proteggerla dagli arbitri dei dittatori (Elio De Capitani). Intorno a lei i generali, che la interrogano, in un iniziale balletto grottesco, sotto un enorme riflettore (la bambina che conduce ci dirà che nulla è inventato di quell’interrogatorio, neppure le accuse ridicole di cannibalismo). 

Spunta da una botola come un grottesco fantasma Roberto Magnani, il primo generale golpista ormai morto, che rievoca le follie del suo potere; siede il successore, che ha provato a rendere più accettabile l’arbitrio, pesante come pietra a un tavolo, inscalfibile (Fagio). Intorno alla solitudine della donna le bambine diventano coro che introduce immagini di repertorio, oppure si trasformano in spiriti, quelli che facevano paura a Suu Kyi da piccola e che nella prigionia diventano addirittura di compagnia. In virtù delle musiche distillate – di acqua che cola, di ninfea, di lontananza, di ruggine, di ghiaccio – di Luigi Ceccarelli, che pure talvolta precipitano in convulsi rap birmani, spira un’aria lieve, di tesa accettazione, di distacco e presenza, di sapienza: di grazia.

Eccola la parola che guida il film, forse ancora più che lo spettacolo: grazia. La scorgi nelle movenze rallentate della protagonista, qui perfino alleviata da certe profonde rugginosità della sua voce; nello sguardo delle bambine e perfino nelle ossessioni degli spiriti malvagi che vengono, a poco a poco, come le paure della prigionia, domati. Grazia come coscienza di fare il bene, di dover testimoniare il bene; consapevolezza che la rivoluzione può essere solo interiore. 

 

 

Il segreto di questa pellicola sta nella sospensione brechtiana, nell’asciutta forza delle immagini nella fotografia di Pasquale Mari, nelle scenografie dichiaratamente teatrali di Edoardo Sanchi, nel ritmo del montaggio di Natalie Cristiani (con la supervisione di Jacopo Quadri), in quella esplorazione continua che fa la macchina da presa per avvicinarsi sempre di più al viso, agli occhi di Ermanna Montanari, alle sue parole e alle sue sospensioni. In questo riuscito lavoro d’insieme sta la sfida di un’opera che porta nel cinema, e quindi ravvicina allo spettatore, la concentrazione intima del buon teatro, la sua capacità di non definire ma di lasciare da immaginare, l’incrinatura che esso spesso è capace di aprire come domanda alla storia.

 

Non simula la Birmania, il film, né ricostruisce in modo realistico la storia: bastano un manifesto e due attori con baffoni per rievocare il cabaret corrosivo, più volte sanzionato con l’arresto, dei Moustache Brothers (Christian Giroso, Vincenzo Nemolato). Gli attori indossano i personaggi come figure distanti e vicinissime allo stesso tempo; le adottano per tornare a riaccendere la lunga discussione su come possa attuarsi un cambiamento radicale delle cose, politico, sociale, etico. La soluzione prospettata – come una domanda di luce che sorge nel buio – nasce dall’indagine, dal gioco, dal narrare delle bambine che a volte assomiglia a una favola (ma quanto serie e piene di verità sono le favole). La soluzione è: una rivoluzione può essere solo spirituale, guidata da una forza interiore. È cambiamento, innanzitutto, nelle coscienze. Capacità di saper guardare le cose, gli esseri umani, ma anche di dialogare con un geco, di osservare il vento tra le foglie, di conservate il sorriso stupito di una bambina nella tempesta. 

 

Backstage del film.


In un aureo libretto intitolato Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti (edizioni Cue Press), dove raccontava la storia del Teatro delle Albe e prospettava il teatro come invenzione di un luogo di convivenza, ipotesi di comunità nella società delle disgregazioni e delle solitudini, Marco Martinelli scriveva: “Parlo del teatro come il luogo del lampo non trasmissibile. Bastasse faticare! E invece no: tutto il tuo faticare non sarà mai sufficiente a raggiungere la grazia. Il tuo sudare quotidiano è volto a creare le condizioni in cui la grazia possa manifestarsi. Fin lì puoi arrivarci con l’accanimento, e devi arrivarci per accanimento: oltre ti è dato solo per grazia. Sorprendendoti”.

 

E in questo film ci sorprende, dall’inizio, con quella domanda che si affaccia subito, nel primo capitolo: “È distante la Birmania? Eh? È distante?”. La risposta, da quelle mura scrostate che sembrano di deposito delle memorie, di soffitta o cantina, di casa contadina, di pieve di campagna, dai volti di quelle bambine così italiane (da citare tutte, meravigliose, per la prima volta sullo schermo, Ippolita Ginevra Santandrea, Sara Briccolani, Alessandra Brusi, Catalina Burioli, Olimpia Isola, Benedetta Velotti), dal volto romagnolo di Ermanna Montanari racchiusa in una bellezza straordinaria, d’anima, di sottrazione, di essenza, la risposta è, evidentemente: no, la Birmania non è lontana. Questa storia ci riguarda, molto da vicino, come esseri umani che fanno o subiscono continuamente violenza, o cercano di resistervi e di immaginare, brancolando, facendo appello a ogni risorsa esterna e soprattutto interna, un mondo nuovo (almeno un po’). 

 

Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi si può vedere a Ravenna dal 9 al 15 novembre. Torna nelle sale cinematografiche a gennaio a Milano, Brescia, Bergamo, a febbraio a Venezia e Bologna e in altre città.

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Un film di Marco Martinelli | Teatro delle Albe
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Armi di distruzione matematica

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Nell’ormai ben nota classificazione secondo Amber & Amber, Anatomy of automation, Prentice-Hall, 1962, esistono 10 gradi di automazione. Questi corrispondono a capacità umane che una macchina è in grado di sostituire: valutazione, apprendimento, ragionamento, creatività e dominio sono i gradi nei quali gli esseri umani saranno tra breve surclassati dagli automi. Ad esempio, con l’automazione “creativa” una macchina sarebbe in grado di creare manufatti originali. Con gli ultimi fatidici gradi 9 e 10, corrispondenti ad aspetti del “dominio”, tale macchina era stata ben rappresentata dall’occhio di HAL 9000 in 2001: Odissea nello Spazio e, infine, con la distruzione dell’umanità in The Matrix. Qui l’automa, prima fatto di bottoni, leve, bulloni e poi chip, infine, non esiste più: l’automa è una semplice “matrice di numeri” che ben oltre l’occhio di HAL che ci scruta, ci conosce, nei più intimi anfratti della nostra coscienza, ci sostituisce e diventa Noi. Proprio Zamjatin o Foucault hanno già causticamente rappresentato questo aspetto del potere, con l’Integrale e il matematico D-503 dello Stato Unico dedicato alla sua costruzione oppure il Panopticon ovvero quello “stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere”.

 

Ricordiamo però che nel 1900, l’eminente saggezza matematica incarnata in Hilbert, aveva posto apertamente il problema dell’esistenza, almeno in linea di principio, di una macchina in grado di stabilire se un qualsiasi enunciato (almeno) matematico sia vero o falso. La macchina di Turing è stata la risposta: questa macchina teorica si basa su un modello matematico che simula il processo di calcolo umano, scomponendolo all’infinito. Ma, come Gödel ci ha mostrato, in ogni sistema formale sufficientemente ricco esistono espressioni sintatticamente corrette che non possono essere né dimostrate né confutate all'interno dello stesso sistema. Proprio come negli esseri umani esistono espressioni, sentimenti e idee che non possono essere interamente spiegate da chi le esprime, le sente e le concepisce.

 

Anche se il sogno infranto della costruzione di un Integrale o di un Panopticon coerente sembra scongiurato dalla matematica stessa e gli esseri umani certamente non si possono ridurre a un insieme di espressioni formali, l’incoerenza dell’umano potrebbe essere erosa a tal punto da consentire a una macchina teorica di creare una realtà fittizia tutta sua, nella quale il modello matematico opera completamente indisturbato. Non importa se la macchina stessa non è coerente o sufficiente per spiegare la realtà. Il sogno di governare nella perfetta automazione si sta di fatto avverando proprio con l’avvento della realtà virtuale, con l’utilizzo ingiustificato di modelli matematici che creano una realtà propria e che non sono volti a spiegare quasi nulla. Si potrebbe sintetizzare tale nuovo rapporto con la realtà in una prospettiva che colloca il “comprendere il mondo” delle scienze classiche da un lato e il “fabbricare un mondo” delle nuove scienze dall’altro. Queste nuove scienze sono proprio armi in mano a governi ombra di una società globale che ha eletto il Panopticon a modello ideale di efficienza per il controllo dei saperi, da un lato, e della produzione di oggetti di consumo, dall’altro.

 

 

Infatti, si osserva una rinnovata sinergia tra potere e sapere che oggi si esprime chiaramente, ad esempio, nella tracciabilità dei dati. Appare assai calzante il paradigma dei Weapons of Mathematics Destruction (WMD) introdotto da C. O'Neil nel suo libro, ora tradotto da Bompiani con il titolo Armi di distruzione matematica. Con WMD la O’Neil intende modelli o algoritmi matematici che, esattamente come armi di distruzione di massa, possono mietere vittime, ma anche creare orientamenti, distorsioni e abusi in larga scala. Se vengono utilizzati modelli matematici come oracoli che emettono sentenze o decretano norme sulla base di statistiche che sfruttano grandi quantità di dati, desunti in modo opaco dalla nostra vita, il rischio che un modello errato definisca la sua propria realtà e la utilizzi per giustificare i suoi risultati è molto alto e, spesso, non è affatto evidente. 

 

Sebbene modelli matematici estremamente raffinati abbiano una validità limitata o addirittura del tutto ipotetica in ogni scienza che sia degna di questo nome, al contrario è allarmante l'uso di WMD nell'ambito della Big Data Economy. Evidentemente, ad esempio, il modello standard in fisica delle particelle ha avuto un immenso successo sperimentale, ma non esaurisce la comprensione dell'universo neanche per il fisico teorico. Al contrario, nell'ambito della Big Data Economy sembra che vi sia un'attitudine esattamente opposta a quella scientifica; oltrepassando i limiti sanciti dalla stessa matematica ci si pone come obiettivo principale quello d'impadronirsi e governare la realtà anche ricorrendo alla manipolazione dei dati e comunque mediante la determinazione di una realtà virtuale controllata. Questo chiarisce l'adozione di WMD in politica economica, ovvero di modelli matematici come strumenti di potere contrariamente a quello che avviene nella scienza, dove i modelli sono strumenti di conoscenza. Analogamente, tali abusi sono presenti nella Web Democracy, come illustrato egregiamente da C. O’Neil nell’ultimo capitolo del suo libro.

 

 

La sola possibile chance di noi umani è quella di creare o pensare sfumature impercettibili alle macchine. La concorrenza delle macchine, che lavorano di più e meglio di noi, è sempre più spietata e tutti i posti di lavoro, compresi quelli nell’ambito della ricerca scientifica, saranno in larga misura occupati da robot o algoritmi intelligenti: gli automi prenderanno il nostro posto praticamente in tutti i settori professionali. I robot possono già essere medici, operai, segretarie, cuochi, giornalisti, traduttori e professori. I robot penseranno meglio di Noi!? Certamente, perderemo milioni di posti di lavoro e questo sarà l’effetto della diffusione dei robot e dell’intelligenza artificiale secondo gli allarmanti rapporti diffusi dal World Economic Forum. Altri recenti studi sul futuro dell’occupazione ci dicono che digitalizzazione, automazione ed informatizzazione dei processi metteranno a rischio complessivamente, almeno un terzo dei posti di lavoro. Proprio i fondatori di aziende di robotica sono i firmatari della allarmante lettera aperta indirizzata all'ONU in occasione di un incontro mancato di esperti governativi sulle armi autonome. Nella lettera si afferma che “le armi letali autonome minacciano di essere la terza rivoluzione in campo militare” e che quindi bisogna invitare i governi a “sforzarsi di trovare modi per prevenire una corsa agli armamenti autonomi”. Difficile immaginare che un tale appello possa avere un seguito. 

 

L’impostazione panoptica della nostra società non consente più nessuna libertà. Con il controllo dei saperi esercitato nelle Università, con l’istituzione di campi del sapere invalicabili, lo studente viene educato alla disciplina dal docente e il ricercatore, maturata la consapevolezza delle norme del settore disciplinare in cui intende operare, pratica un “sapere controllato” ed esercita un “potere coscienzioso”. Con la riduzione delle arti a Entertainment lo spettatore ritorna bambino allontanandosi dalla vita ordinaria, in un contesto dove però il gioco, lo spazio creativo e immaginativo dell’essere umano, è anch’esso guidato da una macchina che conduce in una realtà opportunamente avulsa da ogni evento superfluo o imprevisto. Con l’adozione di armi autonomamente intelligenti, il cittadino è sottoposto a quel controllo capillare e ingannevole che, infine, assicura il funzionamento automatico del potere. Queste armi sono già in circolazione e sono già largamente adottate in svariati ambiti della società panoptica, come accuratamente riportato nel libro di C. O’Neil. 

 

In conclusione, per quanto facilmente osservabile e del tutto quasi banalmente prefigurabile, l’avvento delle macchine intelligenti, di algoritmi che apprendono dalla propria esperienza, come l’imminente estinzione del lavoro, di quel servizio utile che si rende alla società come l’abbiamo inteso fino a ieri, e, infine, l’esame e il controllo minuzioso delle libertà dei singoli individui, sono gli elementi che compongono uno scenario nel quale l’uomo si trova nuovamente protagonista.  Assistiamo, oggi, a una inesorabile spoliazione di quanto è propriamente umano. L’essere umano che gioca, senza fine e fini, la sua libertà di pensiero e la sua stessa dignità, si trovano in una condizione di patente vulnerabilità. La presunta visibilità dell’uomo che prelude la sua nudità davanti agli sguardi potenti dell’intelligenza artificiale, lo prospetta vittima della più eclatante e manifesta aggressione che abbia mai sperimentato nella storia. L’automazione ha già la sua excusatio non petita, accusatio manifesta, ora guardiamo alla rivoluzione: alla strada per superare il lavoro produttivo, come necessità economica ma anche come dovere morale e unico scopo dell’esistenza dell’uomo; all’urgenza di riaffermare il senso e il ruolo del gioco nella scoperta, di pensare e classificare liberamente, come pratica di formazione dei saperi senza limiti o campi; all’inalienabile diritto all’intimità, che insegue la sfumata e preziosa passione per l’ignoto, il recondito e inaspettato sogno della pazzia. Arrivare a tutto questo sarà una vera e propria rivoluzione. 

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George Saunders, Lincoln nel Bardo

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Il Bardo è lo stato intermedio della mente dopo la morte, con la coscienza che viene separata dal corpo. È una transizione, questo è il significato della parola di origine tibetana. In questa fase di attraversamento la coscienza guarda (o dovrebbe guardare) a ciò che è stato, guarda al corpo come una cosa altra, il corpo è ancora con la coscienza ma è già distante; la coscienza ancora è, la mente ricorda, la mente vede, la mente confonde, la mente resiste e cede contemporaneamente, perché dopo il Bardo c’è la fine, il vero finale. George Saunders fa del Bardo un luogo mentale, un vero e proprio posto in cui i morti transitano e rivivono e ricordano e si muovono, e si attraversano l’uno con l’altro. Alcuni lasciano il Bardo subito, altri non vogliono attraversare rendendo la transizione eterna, altri vorrebbero attraversare ma non riescono.

 

Il Bardo di Saunders è un luogo che lega anche il lettore, si finisce di leggere il romanzo e si resta in un limbo, quasi si ha timore di parlarne per non essere abbandonati dalla storia; si tiene il libro tra le mani, lo si sposta dal comodino al divano come se fosse ancora in lettura, ce lo si porta dietro. Il lettore si trova in un altro Bardo, casalingo, un luogo che trattiene le emozioni e i pensieri, mettendo il lettore in una fase di transito che va dalla fine della lettura al reale abbandono della storia che abbiamo attraversato. Il mio Bardo è durato quasi due mesi, ne scrivo oggi, quasi a fine ottobre, stamattina ho deciso che posso attraversare, dopo aver riposto Lincoln nel Bardo accanto a Dieci Dicembre; il testimone è stato passato.

“Il ragazzino aveva qualcosa che l’aveva toccata. L’ombrello diventò il granturco; il granturco la strega; la strega la fanciulla”.

 

Willie Lincoln muore di tifo nel febbraio del 1862. Ciò che lo porta alla morte, la morte stessa e il transito successivo nel Bardo avvengono su un palcoscenico letterario straordinario, il non-luogo più bello di tutti i tempi creato da Saunders. Prima della storia conta il modo in cui viene scritta, e il modo che ha trovato Saunders, per il suo primo romanzo, si sviluppa con un passo che non trova somiglianze nella storia del romanzo. Il narratore è un noi, il narratore è un coro, forse perché nel Bardo il singolo non ha più soltanto un’identità, non ha corpo, può entrare negli altri, può percepirne i ricordi, completarne i pensieri, doppiarne le voci. I narratori sono un Reverendo, un omosessuale che rivive continuamente il proprio suicidio come in un sogno e come con gli occhi aperti su altri sogni guarda a tutte le cose che con il suicidio si è perso, e un cinquantenne morto prima di poter consumare il matrimonio con la giovane moglie. Questo terzetto è fatto di personaggi straordinari, già dai nomi. Everly Thomas è il reverendo, Roger Bevins III è l’omosessuale, Hans Volmann è il terzo. Sono loro a prendersi a cuore le sorti di Willie nel Bardo.

 

“Eravamo stati nonne, schiette e pazienti, destinatarie di oscuri segreti, che, grazie alla capacità di ascoltare senza giudicare, concedevano un tacito perdono, lasciando così entrare il sole. Con questo voglio dire che eravamo stati notevoli. Eravamo stati amati. Non soli, perduti, stravaganti, ma saggi, ognuno a modo proprio. […] Che cosa volevamo? Volevamo che il ragazzino ci vedesse, credo. Volevamo la sua benedizione. Volevamo sapere cosa ne pensava, quell’essere apparentemente magico, dei motivi per cui ognuno di noi era voluto rimanere”.

 

 

L’essere visti, notati, essere compresi, una caratteristica comune anche ai personaggi dei racconti di Saunders. Speranza che in una terra di mezzo tra la vita e la morte non può che essere amplificata. Chi già non è più umano dimostra di esserlo più di chi vive. I tre narratori non si accontentano di fare da guide al piccolo Willie, desiderano essere “visti” per come sono, che è più di quello che sono stati. Lo sbaglio commesso è allo stesso tempo più grande e sfumato come su un piano lontano. Vogliono che Willie veda e che trovi conforto nelle loro debolezze, perché non essere andati oltre il Bardo è un nascondersi ma è pure la voglia di manifestarsi ancora un po’, dimostrare di essere buoni, essere in grado di commuoversi e commuovere. La volontà di rimanere umani, di esserlo di più. E questa umanità esplode nei momenti in cui i tre fanno tutto ciò che possono affinché Lincoln padre, il Presidente, riesca a “sentire” il figlio ancora una volta e viceversa, che avvenga un abbraccio impossibile, che il dolore possa lenirsi per un attimo. Tre morti che provano ad aiutare un altro morto e un vivo a condividere ancora qualche istante. George Saunders si ricorda che il suo tema principale è la condizione dell’uomo. Tornano in una versione quasi onirica le delusioni, il non avercela fatta, il cercare una seconda possibilità, qui, oltre la fine. Torna il bisogno di conforto, tornano quelli che hanno deluso, che sono tutti, che siamo tutti. Torna la voglia di capire l’umano, stavolta valicando il confine in cui l’umano sta diventando un’altra cosa. Torna la compassione ed è questo che più di tutto ci commuove. Torna il bene, che per Saunders è la vera questione morale.

 

A noi non americani forse la storia di Lincoln e di suo figlio, di quegli anni, della guerra, dell’uomo politico indebolito, visto da alcuni suoi contemporanei come uno che manda a morte i giovani, come uno che dà feste mentre il figlio sta morendo, potrebbe non interessare particolarmente all’interno di un romanzo. Ci interessa, però, il rapporto tra padre e figlio, ci riguardano il dolore e l’abbandono, amiamo il confine e il transito. Proviamo pena per Willie e per il Presidente degli Stati Uniti che a cavallo, un po’ curvo, di notte se ne va al cimitero per passare del tempo con il figlio, figlio che è là e che lo vede, che lo guarda, che con l’aiuto dei nostri tre eroi prova a comunicargli qualcosa.

 

George Saunders ha scritto un romanzo incredibile e difficile. Lancia una fida che il lettore non può far altro che raccogliere. I tre narratori si alternano continuamente più volte all’interno della stessa pagina, mischiano i loro ricordi con quello che accade nel Bardo; Everly Thomas comincia una frase, Volmann la continua, Roger Bevins III la chiude per poi riaprila, in un infinito gioco di sponda. Leggendo si è presi come in un vortice, si intuisce che faticheremo un po’ a indovinare il ritmo ma che poi non vorremo lasciarlo. I capitoli del Bardo si alternano a quelli di un altro coro, quello della storia; ciò che è avvenuto in quel periodo, dentro e fuori dalla Casa Bianca, è raccontato in un susseguirsi di citazioni (Saunders non spiega dove le vere si mischino a quelle che si è inventato, e fa bene).  Saunders ha alzato l’asticella, poteva permetterselo e ci è riuscito. Negli Usa hanno gridato da subito al capolavoro, e qualche giorno fa il libro si è aggiudicato il Man Booker Prize; di certo ci troviamo davanti a un romanzo straordinario, qualcosa che non c’era e che adesso c’è, qualcosa con cui fare i conti da qui in avanti. Non saremo mai abbastanza grati a Cristiana Mennella per aver reso, con un lavoro che suppongo di grande difficoltà, la grazia della prosa dello scrittore americano, la grazia che andiamo cercando.

 

“Sebbene avesse smosso tante cose dentro di me (ero immerso in una nuvola vaga e tormentosa di dettagli provenienti dalla mia vita: nomi, volti, stanze misteriose, odori di pasti consumati tanto tempo addietro; i disegni del tappeto di una casa che non riconoscevo; singoli pezzi di posateria, un cavalluccio a dondolo senza un orecchio, il nome di mia moglie, Emily, ricordato all’improvviso), la coabitazione in massa non mi aveva consegnato la verità fondamentale che andavo cercando, il motivo per cui ero stato condannato. Mi fermai sul sentiero, rimasi indietro, cercando disperatamente di mettere a fuoco quella nuvola e ricordare chi ero stato e che male avevo fatto, ma non mi riuscì, e allora fui costretto ad affrettarmi per raggiungere i miei amici. il reverendo everly thomas”.

Nel Bardo ci sono tutti nel momento del passaggio con ancora le proprie storie addosso, con le paure e il senso di perdita aumentati. Sul palco di Saunders ci stanno i ballerini, le puttane, gli assassini, i preti, i bambini, i camerieri, gli ignoranti, i professori, i generali, i morti in guerra, gli scampati e i disperati; riparati e poi scoperti dallo stesso ombrello, e non ci troviamo davanti a una nuova Spoon River, ci troviamo nel mondo di George Saunders, uno dei più bravi.

 

Trad. Cristiana Mennella, Feltrinelli 2017.

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George Saunders, Lincoln nel Bardo

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Il Bardo è lo stato intermedio della mente dopo la morte, con la coscienza che viene separata dal corpo. È una transizione, questo è il significato della parola di origine tibetana. In questa fase di attraversamento la coscienza guarda (o dovrebbe guardare) a ciò che è stato, guarda al corpo come una cosa altra, il corpo è ancora con la coscienza ma è già distante; la coscienza ancora è, la mente ricorda, la mente vede, la mente confonde, la mente resiste e cede contemporaneamente, perché dopo il Bardo c’è la fine, il vero finale. George Saunders fa del Bardo un luogo mentale, un vero e proprio posto in cui i morti transitano e rivivono e ricordano e si muovono, e si attraversano l’uno con l’altro. Alcuni lasciano il Bardo subito, altri non vogliono attraversare rendendo la transizione eterna, altri vorrebbero attraversare ma non riescono.

 

Il Bardo di Saunders è un luogo che lega anche il lettore, si finisce di leggere il romanzo e si resta in un limbo, quasi si ha timore di parlarne per non essere abbandonati dalla storia; si tiene il libro tra le mani, lo si sposta dal comodino al divano come se fosse ancora in lettura, ce lo si porta dietro. Il lettore si trova in un altro Bardo, casalingo, un luogo che trattiene le emozioni e i pensieri, mettendo il lettore in una fase di transito che va dalla fine della lettura al reale abbandono della storia che abbiamo attraversato. Il mio Bardo è durato quasi due mesi, ne scrivo oggi, quasi a fine ottobre, stamattina ho deciso che posso attraversare, dopo aver riposto Lincoln nel Bardo accanto a Dieci Dicembre; il testimone è stato passato.

“Il ragazzino aveva qualcosa che l’aveva toccata. L’ombrello diventò il granturco; il granturco la strega; la strega la fanciulla”.

 

Willie Lincoln muore di tifo nel febbraio del 1862. Ciò che lo porta alla morte, la morte stessa e il transito successivo nel Bardo avvengono su un palcoscenico letterario straordinario, il non-luogo più bello di tutti i tempi creato da Saunders. Prima della storia conta il modo in cui viene scritta, e il modo che ha trovato Saunders, per il suo primo romanzo, si sviluppa con un passo che non trova somiglianze nella storia del romanzo. Il narratore è un noi, il narratore è un coro, forse perché nel Bardo il singolo non ha più soltanto un’identità, non ha corpo, può entrare negli altri, può percepirne i ricordi, completarne i pensieri, doppiarne le voci. I narratori sono un Reverendo, un omosessuale che rivive continuamente il proprio suicidio come in un sogno e come con gli occhi aperti su altri sogni guarda a tutte le cose che con il suicidio si è perso, e un cinquantenne morto prima di poter consumare il matrimonio con la giovane moglie. Questo terzetto è fatto di personaggi straordinari, già dai nomi. Everly Thomas è il reverendo, Roger Bevins III è l’omosessuale, Hans Volmann è il terzo. Sono loro a prendersi a cuore le sorti di Willie nel Bardo.

 

“Eravamo stati nonne, schiette e pazienti, destinatarie di oscuri segreti, che, grazie alla capacità di ascoltare senza giudicare, concedevano un tacito perdono, lasciando così entrare il sole. Con questo voglio dire che eravamo stati notevoli. Eravamo stati amati. Non soli, perduti, stravaganti, ma saggi, ognuno a modo proprio. […] Che cosa volevamo? Volevamo che il ragazzino ci vedesse, credo. Volevamo la sua benedizione. Volevamo sapere cosa ne pensava, quell’essere apparentemente magico, dei motivi per cui ognuno di noi era voluto rimanere”.

 

 

L’essere visti, notati, essere compresi, una caratteristica comune anche ai personaggi dei racconti di Saunders. Speranza che in una terra di mezzo tra la vita e la morte non può che essere amplificata. Chi già non è più umano dimostra di esserlo più di chi vive. I tre narratori non si accontentano di fare da guide al piccolo Willie, desiderano essere “visti” per come sono, che è più di quello che sono stati. Lo sbaglio commesso è allo stesso tempo più grande e sfumato come su un piano lontano. Vogliono che Willie veda e che trovi conforto nelle loro debolezze, perché non essere andati oltre il Bardo è un nascondersi ma è pure la voglia di manifestarsi ancora un po’, dimostrare di essere buoni, essere in grado di commuoversi e commuovere. La volontà di rimanere umani, di esserlo di più. E questa umanità esplode nei momenti in cui i tre fanno tutto ciò che possono affinché Lincoln padre, il Presidente, riesca a “sentire” il figlio ancora una volta e viceversa, che avvenga un abbraccio impossibile, che il dolore possa lenirsi per un attimo. Tre morti che provano ad aiutare un altro morto e un vivo a condividere ancora qualche istante. George Saunders si ricorda che il suo tema principale è la condizione dell’uomo. Tornano in una versione quasi onirica le delusioni, il non avercela fatta, il cercare una seconda possibilità, qui, oltre la fine. Torna il bisogno di conforto, tornano quelli che hanno deluso, che sono tutti, che siamo tutti. Torna la voglia di capire l’umano, stavolta valicando il confine in cui l’umano sta diventando un’altra cosa. Torna la compassione ed è questo che più di tutto ci commuove. Torna il bene, che per Saunders è la vera questione morale.

 

A noi non americani forse la storia di Lincoln e di suo figlio, di quegli anni, della guerra, dell’uomo politico indebolito, visto da alcuni suoi contemporanei come uno che manda a morte i giovani, come uno che dà feste mentre il figlio sta morendo, potrebbe non interessare particolarmente all’interno di un romanzo. Ci interessa, però, il rapporto tra padre e figlio, ci riguardano il dolore e l’abbandono, amiamo il confine e il transito. Proviamo pena per Willie e per il Presidente degli Stati Uniti che a cavallo, un po’ curvo, di notte se ne va al cimitero per passare del tempo con il figlio, figlio che è là e che lo vede, che lo guarda, che con l’aiuto dei nostri tre eroi prova a comunicargli qualcosa.

 

George Saunders ha scritto un romanzo incredibile e difficile. Lancia una fida che il lettore non può far altro che raccogliere. I tre narratori si alternano continuamente più volte all’interno della stessa pagina, mischiano i loro ricordi con quello che accade nel Bardo; Everly Thomas comincia una frase, Volmann la continua, Roger Bevins III la chiude per poi riaprila, in un infinito gioco di sponda. Leggendo si è presi come in un vortice, si intuisce che faticheremo un po’ a indovinare il ritmo ma che poi non vorremo lasciarlo. I capitoli del Bardo si alternano a quelli di un altro coro, quello della storia; ciò che è avvenuto in quel periodo, dentro e fuori dalla Casa Bianca, è raccontato in un susseguirsi di citazioni (Saunders non spiega dove le vere si mischino a quelle che si è inventato, e fa bene).  Saunders ha alzato l’asticella, poteva permetterselo e ci è riuscito. Negli Usa hanno gridato da subito al capolavoro, e qualche giorno fa il libro si è aggiudicato il Man Booker Prize; di certo ci troviamo davanti a un romanzo straordinario, qualcosa che non c’era e che adesso c’è, qualcosa con cui fare i conti da qui in avanti. Non saremo mai abbastanza grati a Cristiana Mennella per aver reso, con un lavoro che suppongo di grande difficoltà, la grazia della prosa dello scrittore americano, la grazia che andiamo cercando.

 

“Sebbene avesse smosso tante cose dentro di me (ero immerso in una nuvola vaga e tormentosa di dettagli provenienti dalla mia vita: nomi, volti, stanze misteriose, odori di pasti consumati tanto tempo addietro; i disegni del tappeto di una casa che non riconoscevo; singoli pezzi di posateria, un cavalluccio a dondolo senza un orecchio, il nome di mia moglie, Emily, ricordato all’improvviso), la coabitazione in massa non mi aveva consegnato la verità fondamentale che andavo cercando, il motivo per cui ero stato condannato. Mi fermai sul sentiero, rimasi indietro, cercando disperatamente di mettere a fuoco quella nuvola e ricordare chi ero stato e che male avevo fatto, ma non mi riuscì, e allora fui costretto ad affrettarmi per raggiungere i miei amici. il reverendo everly thomas”.

Nel Bardo ci sono tutti nel momento del passaggio con ancora le proprie storie addosso, con le paure e il senso di perdita aumentati. Sul palco di Saunders ci stanno i ballerini, le puttane, gli assassini, i preti, i bambini, i camerieri, gli ignoranti, i professori, i generali, i morti in guerra, gli scampati e i disperati; riparati e poi scoperti dallo stesso ombrello, e non ci troviamo davanti a una nuova Spoon River, ci troviamo nel mondo di George Saunders, uno dei più bravi.

 

Trad. Cristiana Mennella, Feltrinelli 2017.

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Christian Nyampeta al Camden Arts Centre

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How to live together?  è una domanda ricorrente nella ricerca di Christian Nyampeta le cui opere si configurano come momenti di riflessione, di dialogo e condivisione. Nato in Ruanda nel 1981, emigrato nei Paesi Bassi nel 1999, Nyampeta, che oggi vive e lavora a Londra, interroga il significato più profondo d’identità personale e collettiva, di cultura, e quindi di lingua, approfondendo temi come civiltà, migrazione e post-colonialismo. Armonia e ritmo sono nozioni fondamentali che l’artista analizza attraverso la filosofia africana contemporanea e l’antico ascetismo occidentale, in particolare il modello idiorritmico di vita monastica. Idiota dal greco significa individuo privato e congiunge i concetti d’identità, idioma e idea. Ritmo scandisce l’esistenza e la vita comune in un determinato spazio e tempo; per Nyampeta ritmo è invenzione, genesi, generosità di forma di vita. 

 

 

Ritornando nel suo paese di origine, l’artista ha osservato come molte parole presenti in Olandese e in Inglese non siano traducibili in Kinyarwanda, il sistema linguistico del Ruanda, e viceversa; e a questo proposito ha iniziato un dialogo con il filosofo ruandese Isaïe Nzeyimana (Butare, 1964). 

A causa della dominazione coloniale, il pensiero occidentale fu ritenuto a lungo l’unica forma culturale sul territorio. I preti missionari sono i primi ad avvicinarsi allo studio della cultura africana con l’intento di comprendere il pensiero della popolazione colonizzata. Nel 1952 il Francescano belga Placide Tempels (Berlaar, Belgio 1906-1977) pubblica La Philosophie Bantue, un libro controverso per alcune conclusioni legate a una visione colonizzatrice, ma che dimostra un’attitudine rivoluzionaria all’epoca. Diventa centrale il ruolo di Alexis Kagame (Kiyanza 1912- Nairobi 1981) filosofo, storico, linguista e poeta che prosegue oltre la ricerca di Tempels con La Philosophie Bantu-Rwandaise de l'Être, tesi di dottorato presso la Pontificia Università Gregoriana, pubblicata nel 1956, anno in cui il Ruanda è ancora una colonia belga. Nonostante alcuni passaggi restino controversi, il libro analizza il Kinyarwanda, dimostrando come la struttura delle lingue Bantu costituisca un’ontologia africana. In seguito il filosofo ruandese Maniragaba Balibusta con Les Perspectives de la pensée philosophique Bantu-Rwandaise après Alexis Kagame (1985) compie uno studio programmatico sul testo insistendo sul sistema linguistico africano come pensiero esistenziale, culturale ed etico. 

 

Per questo Nyampeta individua nel Kynyarwanda un esempio di “come vivere assieme” e poiché ancora oggi non esiste una traduzione in inglese del libro di Kagame, decide di intraprendere questa impresa durante la sua residenza presso il Camden Arts Centre creando un gruppo di lavoro di traduzione da Maggio a Settembre 2017. 

 

Words after the Worldè il titolo della mostra, visibile fino al 14 gennaio 2018, concepita come un tavolo aperto di discussione, uno scriptorium, per il proseguimento dello studio e della traduzione intorno ai testi di Kagame e Balibusta. Attraverso l’analisi linguistica, il progetto riflette sullo stare insieme come possibilità di produzione e condivisione di senso e di conoscenza. L’artista risale al significato etimologico e religioso di traduzione come traslazione delle reliquie di un santo da un luogo a un altro, quindi come trasporto, attraversamento, rimozione, movimento che implica una migrazione temporale e geografica, in questo caso passando dal Francese all’Inglese attraverso il Kinyarwanda. 

 

 

La sua ricerca è argomentata in alcuni materiali di lettura che il pubblico può consultare all’interno della sala espositiva progettata come un ambiente di condivisione da abitare. “Hosting Structures” strutture ospitanti tra cui due grandi tavoli e sgabelli realizzati con pannelli colorati di fibra di legno, sono predisposti per i visitatori invitati a sostare, a sedersi, a pensare, a lavorare. Uno spazio utopico di apprendimento dove persone con abitudini, provenienze culturali e credi diversi, possono fermarsi le une accanto alle altre, liberando il linguaggio da restrizioni per raggiungere un senso di consapevolezza e ospitalità. 

 

La mostra è scandita dal ritmo visivo e sonoro del video Words after the World (2017), girato in parte nel 2015 a Nyanza in Ruanda attraverso una serie di laboratori con gli studenti della Igihozo St Peter’s Secondar School che hanno contribuito alla scrittura della sceneggiatura e partecipato alle riprese del film. Una tenda, antistante alla proiezione, si configura come una mappa, dove sono cuciti insieme disegni, fotografie, fermo-immagini del video, pagine dei testi di riferimento del progetto, note, appunti di traduzione. Come un contenitore, questo tessuto, simbolicamente riunisce la stratificazione di significati, di forme di pensiero, di linguaggi espressivi che l’opera di Nyampeta racchiude. Nero, arancione, marrone, grigio, rosso e viola, sono i colori dominanti che ricorrono anche nei mobili e nei pannelli a muro dove sono intagliati bozzetti delle scene del video. 

 

 

Il film, che si dispiega in una narrazione in bilico tra realtà e finzione, racconta la storia di uno scrittore che vive in un’epoca in cui l’uso di molte parole è soggetto a copyright e si trova costretto a escogitare nuovi modi per completare il suo romanzo. Come si può produrre significato quando la sua espressione è negata? Nyampeta s’interroga sulla necessità costante dell’uomo di ricercare un senso nel tempo passato e presente e di attribuire nuovi nomi alle cose che ci circondano e che viviamo, come banalmente alle strade. Chi ha e dove risiede quest’autorità? 

La vicenda dello scrittore è interpolata con scene del suo romanzo che parla di rivolta e di vivere assieme attraverso gli studenti di un collegio, metafora di una comunità politica. Un giorno la squadra di atletica diserta le lezioni dell’allenatore; le incomprensioni si susseguono e la sommossa si estende all’intera scuola fino a coinvolgere anche gli abitanti del villaggio. La voce fuoricampo dello scrittore, lasciando in sospeso la conclusione, s’interroga sull’invasione, su cosa abbia rappresentato, come si sia risolta e come sia stata raccontata in seguito. Nyampeta vorrebbe che gli studenti fossero considerati simbolicamente come portatori di cultura, e attraverso la sua opera chiede: “può la cultura scaturire da un momento di crisi politica?”, “Può nascere evoluzione dalla cultura?”. 

 

Denis Ferreira da Silva professore e direttore Direttore dell’Istituto di Giustizia Sociale della University of British Columbia in Canada propone una risposta agli interrogativi sollevati dall’artista e in particolare a How to live together? individuando la parola togetherward: “insieme verso”. Da Silva, nel suo testo di accompagnamento alla mostra, interpreta la domanda sottesa alla ricerca di Nyampeta come un invito a vivere assieme verso l’un l’altro, a concepire le azioni quotidiane - ascoltare la radio, parlare, lavorare – come esperienze collettive. Insieme verso - nella creazione, nella conversazione, nella traduzione – indica un’armonia poetica e polifonica, la capacità di vedere oltre le divisioni economiche, sessuali, raziali, linguistiche prodotte dal capitalismo globale (raziale e coloniale); in assonanza con il termine Ubuntu che in lingua Bantu significa “generosità”.

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Joe Colombo e il design del futuro prossimo

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Se per un colpo di fortuna vi ci imbatteste, in qualche mercatino, o magari in un’asta di design, non lasciatevela sfuggire, sebbene sia raro trovarla nella sua vecchia edizione: la 4867, meglio nota come Sedia Universale o Universal Chair, è un pezzo cult. Presente nei più prestigiosi musei del mondo, dal MoMA di NY, al Design Museum di Londra, a quello della Triennale di Milano, al Vitra di Weil am Rhein, tra il 2005 e il 2009 è stata anche al centro della grande retrospettiva, dal titolo Inventing the Future, dedicata al suo autore, Joe Colombo (1930-1971). Partita da Milano, la rassegna ha itinerato per l'Europa, facendo tappa dapprima a Weil am Rhein, poi a Parigi, a Manchester, quindi a Graz e infine a Lipsia. Sebbene questa sedia fosse stata progettata nel 1965, è entrata in produzione soltanto due anni dopo; in seguito interrotta, la produzione è finalmente ripresa nel 2013. Leggera, ergonomica, impilabile e facilmente impugnabile, è indubbiamente anche piuttosto comoda, ma ciò che la rende speciale è il record che detiene, quello cioè di essere la prima sedia in plastica (ABS) realizzata industrialmente ad iniezione utilizzando un unico stampo.

 

Joe Colombo fotografato seduto sulla 4867; la 4867 e i suoi disegni di progetto.


Joe Colombo è stato il più ingegnoso designer del Novecento. Nato a Milano, i tratti distintivi meneghini li possedeva tutti: simpatia, generosità, intraprendenza, sicurezza di sé e capacità imprenditoriale. Era insomma un ottimista-positivista dotato di una grande fiducia nella tecnica, uno che, in quella stagione del boom economico, che a Milano era anche sinonimo di “civiltà delle macchine”, in omaggio alla rivista di Sinisgalli, puntava su un futuro tecnologico. Ma il futuro a cui Joe Colombo pensava era il futuro prossimo, imminente, quasi un “hic et nunc”. Come scriveva lui stesso, tutte le sue creazioni erano: “in sintonia con il presente e orientate ad un immediato futuro”. Quello che si prefigurava era, in realtà, un futuro scevro da qualunque utopia, assolutamente apolitico, ‘meccanico' e – perché no? – anche meccanicistico, molto lontano da quello che poi sarebbe effettivamente stato, ma la sua morte prematura gli ha impedito di scoprirlo.

 

Dopo aver frequentato l'Accademia di Brera, Joe (Cesare all'anagrafe, il nomignolo americano pare lo avesse assunto in omaggio al cantante Joe Turner, conosciuto come il boss del Blues, di cui era fan) si iscrive alla Facoltà di Architettura ma non vi concluderà il ciclo di studi, preferendo dedicarsi alla pittura e alla scultura. Nell'aprile del 1952 aderisce infatti al movimento della Pittura Nucleare, fondato da Enrico Baj e da Sergio Dangelo, con i quali condivideva la passione per la musica jazz, maturando lì la sua spiccata propensione per tutto ciò che era audacemente futuribile e tecnologicamente avanzato. 

Quale amante del jazz, Joe non si limitava a frequentare l’Arethusa, a due passi da piazza Diaz, e il Santa Tecla, all'ombra del campanile di San Gottardo, i due storici locali milanesi in cui si “faceva jazz”, ma insieme a Baj e a Dangelo contribuì alla loro decorazione, dipingendone pareti e soffitti. 

Così racconta Tinin Mantegazza: 

 

Nel dopoguerra, quando aprirono locali come il Santa Tecla o l’Arethusa dove si suonava jazz, andai a decorare le pareti con dei giovani pittori: Enrico Baj, Joe Colombo, Sergio Dangelo. Fondammo un gruppo, Pittura Nucleare, e in seguito diventammo amici di Fontana e di Sassu.”

E ancora Rodolfo Bonetto: 

Di Joe Colombo ero amico. Quando studiavo il jazz all'inizio degli anni Sessanta finivo a mezzanotte e andavo all'Arethusa, in una vietta che sbocca in Piazza Diaz, dove Baj, Dangelo e Colombo avevano decorato un locale tipo esistenzialista.

La cave del Santa Tecla meritò di essere definita la piccola-Sistina-della-pittura-moderna-milanese, purtroppo, negli anni Settanta, quegli sciagurati dei suoi proprietari ne distrussero i preziosi graffiti, gli affreschi e gli altorilievi per far posto ad un allestimento banalmente convenzionale.

 

In alto a sinistra: Milano. Enrico Baj, Joe Colombo e Sergio Dangelo nello studio di Via Teuliè, 1952; Artethusa, un momento musicale, sullo sfondo le decorazioni di Enrico Baj, di Sergio Dangelo e di Joe Colombo, 1951. In basso. Anni Cinquanta. Lino Patruno e la sua band al Santa Tecla, sullo sfondo le decorazioni di Enrico Baj, di Sergio Dangelo e di Joe Colombo. A destra: Giorgio Gaber, Paolo Tomelleri, Gianfranco Reverberi, Luigi Tenco e Rolando Ceragioli, al Santa Tecla.


Di design, Joe inizierà ad occuparsi soltanto a partire dal 1956, dietro sollecitazione dell’amico e compagno d’avventura artistica al MAC (Movimento di Arte Concreta), Bruno Munari, il quale, avendo decretato la fine della pittura, sosteneva che la creatività dovesse essere convogliata verso la produzione di oggetti d’uso su scala industriale. E fu subito grande successo. In una sua intervista, Enrico Baj raccontava che il 1 ottobre 1961 mentre si trovava al MoMA per incontrare Marcel Duchamp, con il quale avrebbe poi stabilito un lungo sodalizio artistico, ebbe modo di leggere i titoli della stampa di quella città (dal Times, al New Yorker) inneggianti al design di Joe Colombo, con espressioni del tipo: “L'America scopre Colombo”.

 

È incredibile come soltanto in poco più di un decennio questo vulcanico artista abbia potuto progettare e vedere realizzata quella innumerevole serie di oggetti (che lui preferiva definire attrezzature: "La terminologia 'arredamento', 'decorazione', 'mobile', è oggi superata dai suoi stessi contenuti in quanto è superato il rapporto tra realtà in cui viviamo, e i vecchi oggetti che servono in una casa devono essere integrativi degli spazi fruibili, pertanto non si dovrebbero più chiamare 'arredi', ma piuttosto 'attrezzature'") che oggi popolano a buon diritto i musei di design, che sono protagonisti dei testi specifici di quella disciplina e persino delle tesi di laurea di chi si appresta a seguire le orme del suo creatore-inventore.

 

Se Le Corbusier aveva concepito la casa come una “machine à habiter”, Joe Colombo la riempie di “macchine per dormire” (il letto cabriolet, il 'closingbed’) e di “macchine per mangiare” (la mini kitchen), e la fornisce di molte delle dotazioni proprie delle automobili (di cui era appassionato, vi ci correva pure e nel 1970 curò presso il Musée des Arts Décoratifs di Parigi, insieme a Roger Tallon, Pio Manzù, Jean-Paul Riopelle, Jean Tinguely e Victor Vasarely, la mostra "Bolide Design", dedicata a quelle auto da corsa in cui la tecnica si coniugasse al design: rassegna divenuta un must del settore) dai cruscotti, ai pulsanti, dalle leve, alle lucine colorate. Nel letto inserisce addirittura un accendisigari (era un fumatore accanito che si faceva ritrarre volentieri con la sua pipa, ovviamente progettata da lui, la Optimal 121), un telefono, un ventilatore, un termometro, un barometro, un igrometro e perfino reostati e altoparlanti, tanto per non farsi mancare nulla. Nel 1969 realizza per la Fiera di Colonia il Visiona '69, una cellula integrata di circa 80 mq, dotata di differenti unità multifunzionali, con cucina, letto, bagno e soggiorno, pensata per una coppia senza figli. Questa comprendeva il blocco ''Night-Cell'' (letto con annesse armadiature e bagno), la ''Kitchen-Box'' (cucina-pranzo) e il ''Central-Living'' (soggiorno). Nel 1970-71 crea infine la Unità di Arredamento Totale (Total Furnishing Unit), esposta in permanenza al MoMA fin da quando vi giunse in occasione della mostra “Italy: The New Domestic Landscape”, curata da Emilio Ambasz.

 

I suoi pezzi sono spesso costituiti da componenti da montare in serie, da cui si può generare un numero teoricamente infinito di variazioni compositive, secondo il gusto e la necessità di chi li utilizzerà. In piena sintonia con i trend del “coinvolgimento”, che caratterizzava anche le coeve esperienze dell'arte figurativa e del teatro, il destinatario finale poteva interagire con il progetto, reinventandolo a suo piacimento. Spesso Joe realizzava le sue “attrezzature”, a mo’ di prototipi, prima per la propria abitazione di via Argelati a Milano, dove sperimentava e metteva in mostra il clou della sua prorompente capacità inventiva. Tra il 1961 e il 1971 finì per riarredarla per ben quattro volte e nell'ultima versione, arrivò a concepirla addirittura con un look sidereo, tipo Discovery, la nave spaziale del film di Stanley Kubrick: “2001: Odissea nello spazio”.

 

Joe Colombo, uno scorcio della sua abitazione di via Argelati; progetto di arredi “a scomparsa”; lampada Acrilica, ideata insieme al fratello Giovanni nel 1964.


Le case da lui progettate, oppure messe a punto a livello sperimentale, erano spesso dotate di pareti scorrevoli, di arredi girevoli, di scale attrezzate come armadi, di piani sfalsati che creavano ambienti giocati su differenti quote, di televisori collocati sul soffitto, di nicchie a scomparsa inserite nei muri e fuoriuscenti elettricamente grazie alla semplice pressione di tasti, di pulsantiere di comando simili a quelle degli aerei e di leve che permettevano di aumentare o di diminuire l’altezza di tavoli e scaffali (il più famoso è lo scaffale modulare kilometro, che sembra galleggiare sulla parete appeso a rotaie invisibili). Lo spazio, poi, era sempre fluido, ovvero privo di ostacoli: liberato da qualunque diaframma o elemento divisorio, consentiva di essere fruito in qualsiasi punto senza modalità prefissate. Quello prefigurato da Joe Colombo era, insomma, un modo di abitare in cui non esistevano luoghi deputati ad azioni stabilite a priori: 

"Uno spazio da organizzare e attrezzare, in tutti i suoi volumi, con elementi adatti alle nostre necessità e corrispondenti alla nostra epoca” – scriveva. –“Si potrà parlare di un contenitore e di un contenuto che, pur essendo complemento l'uno dell'altro, possano all'occorrenza essere svincolati per permettere maggiore flessibilità l'insieme. Il contenitore dovrà essere il più possibile elastico e dimensionato secondo le caratteristiche delle varie zone in cui si svolgeranno le azioni fondamentali dell'abitare, lasciando al contenuto di muoversi liberamente in esso."E altrove: “Io davvero ho progettato e realizzato nuclei Funzionali Autonomi, ho cercato di fondere mobili e elettromeccanica in un’unità programmabile. L'arredo abitativo non solo deve reagire in tempo reale alle sollecitazioni dell'utente, ma tale reazione deve poter essere programmabile per il futuro." 

 

Il suo spiccato interesse per il futuro era già presente nei suoi primi schizzi di "città nucleari" (1952), dove navette spaziali, vie aeree e sotterranee, costituivano lo scenario della vita urbana. Trovo curioso come questo progetto – con le dovute differenze storico-culturali e formali, s'intende – nel suo costituirsi per strati sovrapposti somigli vichianamente alla città ideale pensata da Leonardo da Vinci tra il 1487 e il 1490 per Ludovico il Moro, anch'essa futuribile, vero e proprio prodigio di tecnica e di meccanica.

 

Città


Ciò che contraddistingue tutti i progetti di Joe Colombo, dagli oggetti singoli, ai sistemi di arredo complessi, è la loro intrinseca artisticità (intendo il termine nel significato attribuitogli da Dino Formaggio ne: L'idea di artisticità, Ceschina, Milano, 1962. D'altra parte era quella l’Air du temps), il loro essere cioè imparentati in primis alle coeve ricerche dell'arte e solo in secundis all'industria e alla tecnologia, piegando sempre e imprevedibilmente le ultime alla volontà della prima. Credo consista in questo il segreto della sua originalità, che non ha eguali nel mondo del design ma semmai emuli che, privi di questo humus, hanno trasformato in bizzarro ciò che in lui era ironico e giocoso. Il profondo legame di Joe Colombo con l'arte del suo tempo (sebbene dichiarasse di averla rinnegata, ne è stato invece uno dei più alti interpreti) ha fatto sì che per molti anni egli abbia scelto di condividere lo studio con il fratello minore Gianni, esponente dell'arte cinetica, insieme al quale ha anche firmato alcuni progetti, come la lampada Acrilica, nel 1964, e poco prima di morire il film di presentazione del Total Furnishing Unit, per la mostra “Italy: The New Domestic Landscape”, al MoMA.

 

Oltre allo studio, quello di via Piave fino al 1965 e quello di via Argelati dal 1965 al 1968, i due fratelli condividevano anche il modo di concepire lo spazio, che intendevano mutevole e dilatato e non soltanto nelle tre dimensioni, ma anche nella quarta, quella temporale, vista la versatilità delle loro reciproche creazioni. A tale proposito, quasi nessuno dei pezzi e degli arredi ‘inventati' da Joe è statico o banalmente rigido e in sé conchiuso. Dal più  semplice al più complesso ognuno di essi possiede invece una componente dinamica: la rotazione su un perno di alcune sue parti (Boby, Combi-Center), la trasformabilità lungo un asse orizzontale (Tube Chair), o per mezzo di meccanismi elettrificati (blocco 'Night-Cell'), fino al movimento più elementare dell’impilabilità e della variazione di quota con la semplice sostituzione delle gambe (4867). Spesso è il loro essere dotati di ruote (Living Center) e di sistemi meccanici intrinseci a renderli  mutevoli.

 

Ciascuno di essi, nel suo traslare nello spazio per effetto di un intervento dinamico, subisce una vera e propria metamorfosi determinata e determinabile dal tempo necessario ad azionare i meccanismi o a compiere le azioni necessarie. Essi, insomma, se interpretati in chiave artistica e non solo funzionale, in quanto mobili in divenire, sono dei veri e propri “oggetti cinetici”, imparentati a quelli che, in quegli stessi anni, realizzavano, sempre a Milano, gli artisti del Gruppo T (cui aveva aderito suo fratello Gianni, insieme a Giovanni Anceschi, a Davide Boriani, a Gabriele De Vecchi e a Grazia Varisco) e quelli del MID di Alfonso Grassi & Company, che avevano dato vita alla corrente dell’arte Programmata e Cinetica.

 

Carrello Boby, 1967; Tube Chair, 1969; mini-kitchen, 1963/64; Cabriolet Bed, 1969.

 

Erano gli anni in cui si incominciavano a vedere nelle ricerche di questi giovani artisti gli effetti degli studi di Rudolf Arnheim, pubblicati nel 1954 e tradotti in italiano da Gillo Dorfles soltanto nel 1961 in “Arte e percezione visiva”, dove, sulla base della psicologia della Gestalt, l'autore metteva in evidenza le soluzioni di equilibrio, di forma, di spazio, di luce, di colore e di movimento di ogni opera, attuate dall’artista che l’aveva realizzata. Alla ricerca condotta dagli esponenti dell'arte Programmata e Cinetica giovarono anche gli studi neuro cognitivi sulla fenomenologia della percezione di Maurice Merleau Ponty e quelli di semiotica espressi da Umberto Eco ne l'“Opera Aperta” (1962), dove si sanciva l'avvenuta trasformazione dell'opera d’arte  da “oggetto” in “processo”. Esattamente come stava facendo Joe Colombo nei suoi marchingegni.

 

Un’altra delle prerogative di Joe, che affidava al disegno, nel quale eccelleva, ogni sua comunicazione, consisteva nello sperimentare nuovi materiali, così come avveniva anche nelle esperienze degli artisti cinetici. Egli era uso sfogliare montagne di cataloghi tecnici e frequentare tutte le fiere tecnologiche dove acquisiva notizie sia sui nuovi materiali messi a punto dell'industria, sia sulla componentistica meccanica; dopo averli studiati, collaudatene le novità proposte, le utilizzava in modo assolutamente creativo e imprevedibile nei suoi progetti. Oltre al già citato ABS, impiegato ad iniezione, preso a prestito dall’industria automobilistica, egli si avvalse per primo del metacrilato con un notevole spessore in un oggetto di design. Questo materiale era già stato adottato da circa un decennio dal settore dell'illuminazione, però in fogli sottili, Joe e Gianni Colombo crearono invece la lampada ''modello 281'', detta ''Acrilica''– che vincerà, nel 1964, la medaglia d'oro alla XIII Triennale di Milano – curvandone un foglio di elevato spessore in modo tale che la luce di una lampadina fluorescente contenuta all'interno della base in acciaio, in virtù delle proprietà di conduzione del materiale stesso, risalisse lungo il corpo trasparente e venisse emessa dalla parte superiore. Nei piani dei suoi tavoli fu tra i primi ad introdurre i laminati plastici stratificati e ad inserire lampade alogene negli apparecchi di illuminazione domestica (1970), con manopole per la regolazione meccanica dell’intensità luminosa ed altre per l'orientabilità del flusso. Usò persino il fiberglass (Elda) prendendolo a prestito dal mondo della nautica.

 

Joe Colombo ha lavorato con le più prestigiose industrie di design, italiane e non, quali: Alessi, Alitalia, Arnolfo di Cambio, Bayer, Bernini, Bieffeplast (B-Line), Boffi, Bonacina, Brionvega, Butz-Choquin, Candy, Carnovali, Comfort, Eleo, Fatif, Flexform, Kartell, Ideal Standard, Oliveri, O-luce, Pallucco, Pozzi Ceramica, Rosenthal, Sormani, Stilnovo, Wittman, Zanotta e molte altre, progettando oggetti, molti dei quali sono ancor oggi in produzione, in quanto tuttora perfettamente rispondenti alle esigenze di vita per cui erano stati creati, oltre ad essere divenuti vere icone di estrosità.

Nel 2015, Milano, la sua città, gli ha dedicato una strada, situata tra a Piazza Gae Aulenti e Piazza Alvar Aalto, nel quadrilatero dell'architettura. Sarebbe auspicabile che presto approntasse anche uno spazio espositivo permanente dove ospitare e mostrare al pubblico le sue opere, perché Joe Colombo è davvero un tipo da museo.

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Chaplin in esilio

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Associare Chaplin alla categoria migranti di tutte le condizioni e di tutte le epoche è un’operazione che non risulta certo immediata. Spontaneamente colleghiamo il suo volto piuttosto a tutte quelle situazioni in cui ci ha fatto ridere e, perché no?, piangere di commozione. Eppure quando nel 1952 a bordo della Queen Elizabeth si sta recando a Londra a presentare Luci della ribalta (Limelight), riceve la notifica da parte del governo americano che lui – cittadino britannico, benché viva da quasi quarant’anni anni negli Stati Uniti – non ha più un visto di ritorno valido.

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L'ingombro delle radici

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Non tutte le piante possiedono la ligia compostezza dei cipressi, gli alberi che abitano i confini, con le loro radici che affondano in verticale verso il centro della terra simmetriche alle chiome affusolate e non disturbano fondamenta, case e tombe nei cimiteri. Molto più spesso accade che le radici degli alberi corrano da tutti i lati, affiorino dal terreno, facciano inciampare. Tre romanzi affrontano il discorso sull'ingombro delle radici, su come si annodino alle caviglie allacciando al passato anche noi, che al contrario degli alberi possiamo muoverci per il mondo. E in tutti e tre i romanzi c'è il racconto di questa fatica del riconoscere se stessi contando i cerchi nel legno, del capire in che misura la famiglia e la storia che ci scorre nel sangue guidi il nostro destino e quanto resti di noi una volta tagliati via tutti quei fili e legami.

 

I fili che legano Fabio, il protagonista di Il mare dove non si tocca (Fabio Genovesi, Mondadori) sono moltissimi: un padre, una madre e una decina di nonni che hanno preso alla lettera il proverbio secondo cui per crescere un bambino ci vuole un villaggio, nello specifico il Villaggio Mancini, una strada chiusa che si butta nei campi e su cui sfilano le case della famiglia tra bestemmie, fucilate, fumi di grappa distillata nella notte e avventurosi racconti di amori e maledizioni. “La mia famiglia è così, dietro ogni scemenza c’è una storia che non finisce mai, milioni di racconti che schizzano fuori da ogni millimetro del nostro cammino tutto storto con particolari precisissimi a tonnellate”.

 

Così sono i libri di Genovesi e le figure che ci si muovono dentro, pieni di dettagli luminosissimi che aprono squarci traboccanti di altrettante storie. Nei libri dell'autore toscano i personaggi più riusciti sono spesso i bambini e la voce narrante qui è quella di Fabio, un bimbo di sei anni con lo sguardo largo e affilato e una sensibilità irrequieta. Con l'inizio della scuola Fabio esce dal villaggio e va nel mondo portandosi addosso un ingombrante bagaglio di storie e l’ombra cupa di una maledizione. L'apprendistato alla vita consiste spesso nel conciliare l'eredità di ciò che siamo con il campo di possibilità che ci si apre davanti, facendo attenzione a non inciampare nelle radici che ci corrono fra i piedi. Così Fabio cammina diviso tra le follie degli zii-nonni a cui vorrebbe sottrarsi per scampare a un terribile destino (“di finire con tanto vino dentro e senza donne e con tutta la loro maledizione addosso”) e la razionalità pacata del padre, un uomo che ha una voce bellissima ma la conserva gelosamente e usa invece le mani per aggiustare ogni cosa rotta, finché non si rompe lui e allora bisogna tentare di ricostruirlo e riscriverne la storia, pezzo per pezzo.

Fabio cammina sulla storia che è stata scritta prima di lui provando a muovere i primi passi fuori dai suoi contorni, “tanti passi, ognuno a caso che diventano una fantastica direzione”, e per slegarsi dal proprio passato dovrà attraversarlo e farsi attraversare, accettare la maledizione e scoprire come vestirla senza lasciarsi schiacciare.

 

Anche la protagonista di Chi ha bisogno di te (Elisabetta Bucciarelli, Skira) inizia a muovere i suoi passi nel mondo nel solco di una profonda narrazione familiare. Meri ha diciassette anni, una migliore amica, un padre a intermittenza e una madre innamorata dei Queen che le spiega la vita con i testi delle loro canzoni. Ma soprattutto coltiva sterminate piantagioni di ricordi. La madre di Meri semina addii e nuovi inizi, nascite e morti, misura la vita, come le persone, con le piante, le coltiva per coltivare i rapporti, riallacciare i legami e mantenerli vivi, anche se in forma vegetale. 

 

Più del tema musicale (in nome del quale il libro si inserisce nella collana Note d’autore di Skira), è il tema della semina ad attraversare il tessuto della narrazione, nel tentativo di costruire un linguaggio che sappia raccontare la propria storia. Meri ascolta i Queen cercando tra le strofe la cifra per interpretare la vita, riceve bigliettini anonimi e messaggi sul cellulare, ma queste conversazioni si rivelano irrimediabilmente rotte, fallite e il messaggio passa sempre distorto, vago e impreciso. Le verità più importanti vengono quasi sempre trasportate dai semi più che dalle note o dalle parole e se il refrain musicale appare talvolta forzato, nei vasi si nascondono le gradazioni più luminose e poetiche di questa scrittura. E a Meri non resta che leggere e scavare per trovare le risposte che chiede al mondo, provando a leggerlo con il linguaggio della madre che parla di radici e di vasi pieni di piccoli semi e della possibilità di indovinare in uno di quei minuscoli scrigni di possibilità “l'idea di un girasole, il profumo di un mughetto, il colore di una campanula viola”.

 

 

Leggere la propria storia nelle piante che hanno segnato ogni inizio, ogni rottura, ogni errore è un modo di riempire il vuoto lasciato dalle parole e di cercare un posto in cui restare. Ed è un modo di rivelare un tipo di maternità vegetale che accoglie, cura e trattiene, quella degli alberi che allungano le radici sotto terra per guarire il pino solitario in una delle storie della madre di Meri. Se un padre è “qualcosa che rimane in corso, è un durante” di cui non si vedono i contorni e non si conoscono “neppure le parole per spiegare il mondo” ma solo una vaga inclinazione alla fuga, la madre è ciò che resta e distende le radici per raccogliere in sé tutta la storia, tanto da identificarsi con essa e con chiunque la sfiori. E lungo le sterminate piantagioni dell'addio dove non può che specchiarsi nello sguardo della madre, Meri vede una bambina ma anche una “sagoma nera con dentro mille cose sconosciute” e non sa che farsene “di tutta questa terra che rimanda una memoria estranea”. E allora infila nella terra delle storie non sue, gli “abusivi”, i semi germinati per sbaglio o per distrazione, nascosti nei vasi in terrazzo senza motivo né un rituale materno, lasciati liberi di produrre inizi o finali, storie di cui non si può ancora sapere nulla, una piccola rivoluzione di autodeterminazione e libertà.

 

C'è nel nostro bisogno di dirci chi siamo e i perché del nostro stare nel mondo un costante conflitto tra la ricerca di una qualche condanna o legittimazione da imputare alla stirpe e la volontà di far saltare ogni ponte o radice per avanzare liberi e nuovi, con la nostra storia tutta davanti. L'inventore di se stesso (Enrico Palandri, Bompiani) inizia con tre generazioni in una stanza di ospedale dove si accoglie un nuovo nato. Gregorio vuole convincere suo figlio Giorgio a passare il suo nome al nipote, legandolo così a una stirpe, i Licudis, principi e precettori nella Russia di Pietro il Grande e assecondando la vocazione della storia, soprattutto quella famigliare, a ripetersi e conservarsi. 

 

“Qualcosa in lei si ergeva furibondo contro le leggi ineluttabili della consanguineità che si propagavano in individui e società come le radici di un albero nella terra”, dice Giorgio di sua madre mentre con la moglie si impegna a lasciare le origini alle spalle e indovinare un destino diverso per il loro bambino grazie al nome che porterà nel mondo. Il romanzo inizia con la scelta del nome del figlio e con una lettera fitta di fantasie araldiche e storie di antenati che chiedono ascolto e prosegue lungo la traccia di quel foglietto pieno di nomi e cognomi che si ripetono e raccontano come dentro ogni avo ci fosse la stessa vocazione a perdersi e a fuggire, la stessa inclinazione dello sguardo, come un marchio, una direzione.

Giorgio avanza nel romanzo e nella sua vita trasportato dagli eventi e dal destino; alla morte del suocero raccoglie l'eredità non sua del piccolo impero industriale che da Venezia guarda l'oriente e tiene in tasca il biglietto che lo lega alla Russia degli zar e descrive la sua storia con parole diverse e impossibili. Il libro è un viaggio all'indietro e all'interno per scavare nella propria identità e trovarci un appiglio, tenersi aggrappati alla fantasia di una stirpe per mettere un freno dissolvenza. Se la storia di Genovesi è piena di dettagli, quella di Palandri è nebulosa e intreccia fili sottili e discorsi interrotti. “Quali miti familiari o immagini della storia possono davvero consolarci di quello che siamo oggi?” si chiede il protagonista stringendo la sua storia di carta come un talismano. Le radici sono spesso una scusa, nei casi peggiori una bugia, e l'affondare le mani nella terra per cercare una voce sicura che ci dica chi siamo può risolversi in un fallimento, con un groviglio di fili spezzati e genealogie luminose incenerite dalla verità della storia.

 

 

Se la discendenza maschile appare sempre segnata da buchi e mancanze e dall'incapacità di afferrare la verità senza esserne annichiliti, quella femminile è un pieno, capace di allargarsi e contenere tutto. La maternità che affiora da questi libri è caratterizzata da una saggezza silenziosa, in grado di custodire la colpa, inglobarla, tenerla tutta dentro perché non contamini chi è fuori. Comune a tutte le madri (così è per la madre di Giorgio, come per quella di Meri e quella di Fabio) è l'impegno a proteggere la felicità più luminosa dei figli “dalle secchiate gelide della verità”, facendosene carico, arginandola, nascondendola e somministrandola con coscienza, in modo che non bruci tutto. Ma la madre è un altro luogo da attraversare per trovare se stessi e fare qualcosa di tutte quelle esplosioni.

 

Nel romanzo di Palandri Giorgio ritorna in Russia insieme a quel che resta della sua stirpe, per seguire la scia di briciole e macerie lasciata dall'incontro della sua storia con quella del mondo e fare i conti con ciò che ne resta. Anche nell'universo vegetale creato da Bucciarelli dopo l'incendio della verità rimangono solo semi bruciacchiati come una scia da seguire per ritornare; così come nella storia di Genovesi si scrivono pagine di manuali per insegnare come si torna a chi non se lo ricorda più. O si rimane come lo zio Aldo davanti a una chiesa, impietrito dagli occhi di medusa di una bambina che riempie la forma di un vecchio amore e ritorna come copia spaventosamente identica di una nonna cancellata dalla storia ed esplosa in un campo prima di fare l'amore. “La natura – dice Fabio – sa fare tantissime cose ma quella che le riesce meglio, da sempre e per sempre, è proprio questa: andare e tornare”.

Così Meri avrà “tutti i terrazzi della Mamma, tutta lei dispersa nei vasi che ricordano la fine e l’inizio di molte cose”; Giorgio avrà la lista degli avi illustri compilata dal padre Gregorio, per lasciare ai suoi figli un'indicazione su come trovare il proprio posto nel mondo o su come costruirselo, perché tutto parte sempre dalla narrazione di sé andando avanti e indietro su tracce sepolte o immaginate. 

L'anima di ogni persona è la sua storia e questa storia è destinata a replicarsi e a viaggiare, abbellita da dettagli nuovi e inventati, tanto giusti e commoventi che potrebbero essere veri. E Fabio, erede di tutte le narrazioni della sua grande famiglia, conserverà la sua bellissima maledizione, la certezza che la propria storia si può riscrivere e immaginare e che siamo fatti anche di radici e terra e antenati, che “stanno tutti dentro di noi, le loro vite e le loro storie, quindi siamo pieni di meraviglia”. Di cenere, detriti e meraviglia.

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Love. Disegnare la pittura

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Mi piace guardare alle radici anche dove non si vede l’origine”, dice Luisa Rabbia.

Ci sono opere che si manifestano a voce alta, ostentando la propria presenza, come a rivendicare uno sguardo. Ce ne sono altre, invece, che respirano nello spazio e attendono l’arrivo di chi le osservi, coltivando una vita segreta che accade prima e dopo l’incontro con lo spettatore. I lavori di Luisa Rabbia appartengono a questa seconda categoria: sono opere che richiedono un approccio modulato dalla gentilezza e che tendono una mano a chi decide di entrarvi in relazione, aprendo la porta a un mondo di silenziosa vastità.

 

Luisa Rabbia, originaria di Pinerolo, vive e lavora da molti anni a New York e l’esposizione alla Collezione Maramotti è un’occasione importante per poter osservare da vicino il suo lavoro. Loveè a tutti gli effetti una piccola retrospettiva dove trovano spazio tele, disegni e una grande opera murale. Le opere sono state selezionate a partire dal 2009, periodo al quale appartengono i disegni a matita e acrilico From the Within Out (2009), forme blu su bianco che appaiono come esseri organici primordiali, biomorfismi non meglio identificati. Possono essere considerate opere-ponte, fondamentali per capire il passaggio tra il lavoro della prima parte della carriera dell’artista e le opere più recenti: caratterizzate da un evidente interesse per la superficie, sono lavori “epidermici”, in cui si supera la necessità di una figurazione controllata e dove lo spazio della rappresentazione si apre e prende il passo di una meditazione pittorica, nel quale segno e campo di colore sono interdipendenti.

 

Luisa Rabbia Another Country 2017 pastello a cera, acrilico / wax pastel, acrylic 2,56 x 17,28 metri site specific per Collezione Maramotti / site specific for Collezione Maramotti Ph. Dario Lasagni.


Pur avendo sperimentato linguaggi differenti, che spaziano dal video alla scultura, il medium d’elezione di Luisa Rabbia è il disegno, con la sua forza segnica e la relazione diretta con il gesto. Se è convenzione identificarlo come disciplina concettuale per eccellenza, nel lavoro di Rabbia esso è anche traccia del corpo, prediletto per la sua forza espressiva a fronte della sua scabra specificità. Proprio per questa virtù, l’artista lo elegge a linguaggio primario durante il primo periodo dell’esperienza negli Stati Uniti, dove le contingenze la portano a prediligere un medium leggero, che le consenta una gamma espressiva vasta ma senza la necessità di ampi spazi d’installazione o tempi di produzione estesi. In fondo, una semplice penna blu e un foglio di carta possono generare interi mondi. 

 

Nel gesto del disegno si può quindi individuare il nucleo della pratica artistica di Rabbia, incardinata nella dialettica tra spazio interiore ed esteriore. L’artista dice infatti: “Il disegno è sempre stato il mio media. Ho sempre preferito il segno al pennello”. Questa relazione con il segno si evince in tutte le opere in mostra, nelle quali però l’azione grafica non si esaurisce nel solco della matita, bensì si attiva, irradiando la propria energia in relazione alla pittura. La punta della matita che tocca la superficie della carta e il flusso che ne scaturisce sono qui l’a-priori di qualunque altra manifestazione creativa, quel movimento verso l’altro che è il fondamento del lavoro di Rabbia, un’energia che la ricollega idealmente ai lasciti dell’Arte Povera. Uno scambio interno/esterno che riguarda sia la dimensione dello spazio dell’opera, fenomenologico e simbolico, sia il rapporto tra artista e mondo, nel tentativo di trovare un punto di incontro tra l’intimità dell’esperienza dell’io e l’inconoscibile che risiede nell’alterità, nella forma di una comunione laica con l’esistente.

 

La relazione tra spazio empirico, tangibile della tela, e spazio interno della rappresentazione rimanda inoltre alla lezione di Agnes Martin, artista amata da Rabbia e la cui presenza aleggia tra le tele. Tra le due artiste non si può parlare di rapporto di filiazione né di citazionismo, piuttosto si tratta di mondi contigui che risuonano l’uno nell’altro, accomunati da una volontà di scarnificazione dell’opera tesa a far emergere una verità profonda, universale e a tratti scandalosa.

 

Luisa Rabbia Love Veduta di mostra alla Collezione Maramotti, 2017 / Exhibition view at Collezione Maramotti, 2017 Ph. Dario Lasagni.


Le opere del 2009 segnano un approccio alla forma in cui si percepisce un movimento generativo: la forma è ancora conchiusa ma si avverte la destinazione cui tendono quei soggetti densi, che rappresentano uno snodo cruciale della produzione, prefigurando ciò che verrà dopo. Fino ad allora, il lavoro di Rabbia è stato chiaramente delineato, pur nell’eterogeneità di mezzi e soluzioni impiegati. In esso si dispiega una riflessione sul tema dell’esperienza privata e collettiva, sul corpo come contenitore di memorie e sulle dinamiche di relazione tra gli individui, mettendo in luce la fragilità intrinseca della condizione contemporanea umana, o meglio, postumana.

 

Oggi il disegno di Luisa Rabbia è mutato, innestandosi nella pittura e ha dato vita a opere che tendono all’astrazione, dalla tavolozza profonda contenuta in una gamma di viola, blu, rossi e marroni, colori che vibrano a basse frequenze e che rimandano al potere evocativo dell’Espressionismo Astratto. Un colore purificato dai vincoli della forma e trascendente, che emerge quasi con un movimento di autodeterminazione: “In qualche modo dipingo ma dipingo con i segni del mio corpo, delle mie mani, e poi i colori arrivano con le matite colorate. Prima che io inizi a disegnare abbiamo solo una grande superficie blu.”

 

Nel lavoro di Rabbia però non si ravvisa una dimensione lirica o un dramma in atto. Ciò che si manifesta è una figurazione mimetica, una rete di segni che suggeriscono contemporaneamente mappe geografiche, radiografie, cellule, arbusti, reticolati venosi, cartografie, mappe del cielo (Microcosmo, 2014). Le tele offrono allo spettatore l’occasione di una lettura immaginifica, dove rintracciare ferite e aperture carsiche, alvei di fiumi e burroni, visioni che si situano ambiguamente tra la geografia dei territori e l’atlante medico (Pathway, 2014, Untitled, 2013). Tutto sembra in dialogo: un sesso o un fiume, batteri e minerali, radici, pelle umana e animale, rizomi, funghi, polmoni. Ogni elemento concorre a formare una rete di segni apparentemente casuali ma che delineano una trama solcata da una scrittura automatica di lontana ascendenza surrealista. La barriera tra ciò che è dentro e ciò che è fuori è scomparsa, tutto si pone come un superamento del corpo fisico inteso come limite verso il mondo esterno. Qui vi è nudità profonda, l’antitesi di quella che il filosofo Leonardo Caffo definisce “un’umanità edificata sui confini”, un esercizio di disvelamento realizzato attraverso una figurazione che ha la forza di non assomigliare a nulla di ciò che il mercato contemporaneo offre come discorso sull’attuale.

 

Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo

Sono della stessa essenza.

Quando il tempo affligge con il dolore

Una parte del corpo

Le altre parti soffrono.

Se tu non senti la pena degli altri

non meriti di essere chiamato uomo.

Sa’di di Shiraz

 

Questa sorta di mappa universale dell’esistenza pone l’uomo non più al centro dell’universo, ma inserito in un sistema complesso dove ogni cosa esiste in relazione alle altre, senza esercizio di dominio o gerarchia. Anche l’artista è parte di questa danza. Non ci sono veli, ciò che offre di sé allo spettatore è una spoliazione dalle maschere e l’ostensione del proprio vissuto: “Mi interessa trovare le connessioni tra un paesaggio interno che quindi è basato sull’esperienza personale, e un paesaggio collettivo, in cui incontri l’Altro, che è anche un paesaggio fisico, è l’ambiente.”

 

Se la pelle è paesaggio e il blu un colore ideale che rappresenta una “razza universale”, le impronte digitali di I Want to be There, Too (2015) sono la moltitudine umana, le masse dolenti dei migranti ma anche la testimonianza di ogni singola individualità, l’unità cellulare. Millenni di evoluzione umana e ambientale che raccontano di storie che si sommano ad altre storie, reazioni chimiche, cause e conseguenze che concatenano l’esistente dalle origini misteriose del cosmo all’istante che è appena trascorso; uno dopo l’altro gli accadimenti attestano un vissuto condiviso che apre a una reale possibilità di empatia tra gli individui e verso le cose del mondo. Tutti noi siamo quelle impronte digitali, esseri in attesa sotto un fiume di linee di sangue che risalgono il corso del tempo e dell’arte fino a Munch e in avanti, nel domani. Perché, ormai lo sappiamo, il tempo non corre lineare e l’arte ne è la dimostrazione.

 

Luisa Rabbia Love Veduta di mostra alla Collezione Maramotti, 2017 / Exhibition view at Collezione Maramotti, 2017 Ph. Dario Lasagni.

 

“Non riesco mai a trovare negli altri colori quella profondità, quel mistero che il blu raccoglie. Quel silenzio.” 

 

Un velo blu pervade le opere, donando una qualità di rarefazione alle immagini, sottraendo corporeità alle figure. Nel murale site-specific Another Country (2017) il blu palpita sotto la sottile trama a pastello bianco che corre lungo tutta la superficie, emersa quasi come un frottage. Concedendosi il tempo per osservare l’opera in silenzio, a lungo, accade di entrarvi in risonanza. Se avesse un suono, sarebbe l’accordo continuo dello “shruti box” indiano, lo strumento a mantice che accompagna il canto dei mantra. Non si tratta di evocare uno scenario spirituale connotato specificamente, quanto di cogliere quel soffio – un Aleph forse – quel respiro che si percepisce nelle tele e che si innalza grazie alla vibrazione del colore. Si avverte scorrere negli organi di NorthEastSouthWest (2014), in Everyone (2013), nei “corpi celesti” incastrati nell’amplesso di Love (2016) che Mario Diacono, nel testo critico che accompagna il catalogo, rilegge anche all’insegna della mistica ebraica, evidenziando un sotterraneo legame con le Sefiroth, l’Albero della Vita capovolto le cui radici si allungano nell’aria.

 

In un orizzonte storico segnato dalla frantumazione, l’esperienza che ci offre il lavoro di Luisa Rabbia è quella di una forma di visione periferica. Non un centro ma molteplici centri, non una identità ma tutte. La riappropriazione di un senso profondo di “kinship”, che non si limiti alle dimensioni ridotte di un clan familiare ma che si allarghi a comprendere ogni parte della realtà in cui siamo immersi, è un’ipotesi sociale potente per il nostro presente, una tesi che sfida apertamente le paure che concorrono a definire l’umore del nostro tempo. 

Superato definitivamente il limite della forma imposto dalla scultura, protagonista della prima stagione del lavoro dell’artista, oggi Rabbia è approdata – grazie al disegno – sulle sponde di un territorio figurativo nuovo, che attende di essere pienamente esplorato. Un territorio dagli spazi smisurati, un continente le cui coordinate geografiche risiedono nel cuore dell’uomo. 

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Luisa Rabbia alla Collezione Maramotti
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Un pittore, un musicista, un poeta

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V’è molta ingiustizia, oltre che verità, nelle parole con le quali un celebre critico musicale censurò lo stile di canto del grande tenore Mario Del Monaco, parendogli che, se inizialmente si rimaneva “impressionati dal vigore e dallo squillo”, dopo due o tre arie l’interesse scadeva “per colpa della durezza del canto. Niente eleganza, niente grazia, poca fantasia”. A questo giudizio ripensavo, rileggendo la Pausania di Francesco Saverio Salfi nell’accurata edizione (a cura di P. Crupi, rist. 2017) con la quale l’editore Rubbettino l’ha scampato alla sorte di quei molti oggetti, consunti dal tempo e dall’oblio, dei quali Ariosto immaginò gremita la Luna, come al più conveniente dei pareri sopra i versi di questa tragedia. Di Salfi potrebbe dirsi, in effetti, aggiustando di poco le parole del critico sulla vocalità di Del Monaco, che se l’endecasillabo, lasciatogli in retaggio dall’Alfieri, conservava piuttosto bene la tempra del modello, la scarsa inventiva verbale finiva presto col renderlo piuttosto monocorde.

 

Una certa monotonia, d’altra parte, seppero ispirare ai contemporanei prodotti ben più eletti di quel gusto medesimo del quale Salfi si sforzava, nella Pausania, seguire le tracce: nota è, ad esempio, l’uggia che suscitavano in Thackeray i quadri di David: “mantelli bianchi” – scriveva – “bianche urne, bianche colonne, statue bianche, e ogni colore partecipa di questo pallore o livore marmoreo. Gli esempi più cospicui di sublimità si ricercano negli assassini e nelle morti di personaggi illustri…”; uggia per un gusto ch’egli seppe, peraltro, definire, con impeccabile arguzia, “classicismo da quinto atto di tragedia”. Se il giudizio dello scrittore inglese non è molto più equanime di quello del critico musicale, esso risponde, più dell’altro, al mutato intendimento di un’epoca nella quale gli eroi antichi, non più capaci a stimolare negli uomini l’azione, vivevano imprigionati nel recinto incantato d’un piatto viennese. Trascorso era il tempo delle armi; numi e guerrieri, in sereno ritiro, non s’industriavano adesso che in giochi domestici, baloccandosi talora con l’amore delle ninfe talaltra con la loro tetra mestizia di divinità avvilite in cui Heine vide struggersi perfino il vecchierello Giove, tribolata ombra fra i geli iemali. Enea, Bruto, Virginia, Oreste non erano più che innocui Indiani in riserve: Achille giocava ai dadi, Giove a fare il cigno. Doveva spiacere perciò all’autore di Vanity Fair il vederli risorti e come galvanizzati, di tela in tela da un David a un Gauffier, in una posa nella quale non sapeva più trovarvi altro che l’anchilosi d’una retorica muta! 

 

Gluck Alceste, regia e scene di Pier Luigi Pizzi.


Mantelli bianchi, bianche urne. 

Nel 1780 quest’immaginario esercitava ancora una forte suggestione sui contemporanei come mostrano la Tomba d’Ercole o il Cenotafio di Newton, sepolcri colossali concepiti perché le spoglie degli spiriti grandi fossero additati a perpetua memoria. “Uom se’ tu grande o vil? Muori e il saprai”: è l’ammaestramento di Plutarco in versi alfieriani. Egualmente plutarchiana era la preferenza per vicende d’uomini esemplari per i quali si volle coniare un linguaggio nuovo che, secondando l’esigenza di un arte spoglia e primitiva, spiacesse agli entusiasti della tornita grazia rocaille. Il desiderio d’un verso tragico di nuda e remota grandezza spinse Alfieri a lamentarsi con Calzabigi per come “le poche nostre recite, che tal nome usurpano son sdolcinate, cantate, snervate, insipide, lunghe, noiose, insoffribili”. Diderot auspicava che una lingua simile fosse trasposta in pittura e perciò raccomandava di “peindre comme on parlait à Sparte”. L’appello non dovette restare inascoltato se s’osserva quanto i procedimenti stilistici alfieriani, così abili a spezzare, nell’attrito consonantico e nella corrusca scansione dell’accento, la liquida cadenza del verso metastasiano, consuonino con quelli che adottò David per emanciparsi dalle seducenti modulazioni tonali del rococò.

 

Anche musicisti come Gluck parteciparono a questo rinnovamento; e se non poterono restaurare filologicamente la musica antica lo fecero in spirito, epurandone quegli stessi elementi voluttuosi che già Alfieri e David avevano stimato nocevoli ad ogni serietà d’arte: “mi sono sforzato di ricondurre la musica al suo vero compito” – scriveva Gluck nelle lettera introduttiva della sua Alceste – “(…) Ritenni che ciò si poteva realizzare nello stesso modo in cui i colori violenti influenzano un disegno corretto e armonicamente disposto con un contrasto ben assortito di luce ombra, il quale vale ad animare le figure senza alterarne i contorni” e per quel che attiene agli abbellimenti che inghirlandavano il canto settecentesco dichiarava d’essersi guardato “dal fermare un attore nella più grande foga di un dialogo per cedere il posto ad un seccante ritornello o dal prolungare la sua voce nel bel mezzo di una parola unicamente per sfruttare una vocale favorevole alla sua gola”. Che si guardino opere in musica, quadri o drammi il processo di palingenesi delle forme appare molto simile, consistendo in un rifiuto di moduli espressivi organici e complicati per una chiarificazione degli elementi costituitivi: la curva cede alla linea spezzata e la gentile chimera rocaille si scinde in un leone, una capra e un drago.

 

Così Alfieri rinuncia agli intrecci secondari per lasciar nuda la vicenda e frange, in sticomitie serrate, quel che era in Metastasio ondivaga carola di rime e assonanze; così David suddivide lo spazio del quadro in unità nette ed antifrastiche; così Gluck, perché la parola ne sgorghi nitida, spoglia il canto di fioriture e portamenti. Il poeta, il pittore, il musicista, cinti, come gli Orazi, da un’unica stretta, guardavano idealmente a Paestum: la loro Stonehenge. 

 

Che questa non fosse che una delle molte confessioni della religione neoclassica lo dice l’evoluzione stilistica dello stesso David, il quale dai “drammatici conflitti di ombra e di luce, dalle drastiche cesure compositive” degli Orazi passò ai “nudi corpi levigati, idealizzati, entro uno scenario che risulta unificato cromaticamente e illuministicamente” del Ratto delle Sabine (A. Pinelli nel saggio introduttivo a J. L. David, La Rivoluzione in mostra, Castelvecchi, 2017). Anche altrove il pittore sembrò deporre quanto di marziale era nei suoi quadri repubblicani: Saffo e Faone, Amore e Psiche o, ancora, L’arrivederci di Telemaco ed Eurachis hanno la zuccherina grazia delle porcellane ed anticipano il linearismo rilassato dell’Ingres più lezioso, quello di Giove e Teti: la buccina ha qui ceduto alla lira. 

 

Incisione su disegno di Carlo Falcini raffigurante la morte di Sofonisba tratta da un'edizione fiorentinadelle tragedie di Alfieri, pubblicata nel 1821.


Il magistero di Winckelmann si scorge, d’altra parte, in molte opere neoclassiche di quegli anni, sebben non sempre se ne possa avere una così estatica impressione come traversando le sale di Villa Albani, sulle cui porte e sulle cui pareti giocano i voluttuosi fantasmi di Ganimede e di Antinoo, fino a quella Sala del Parnaso, affrescata dal Mengs, dove il sogno neoclassico risplende in una tranquilla luce d’oro mite. I Grandi Romantici, pochi anni dopo, trovarono una continuità non più storica o politica ma sentimentale coi Classici – l’usignolo di Keats “light-winged Dryad of the trees,/ In some melodious plot/ Of beechen green, and shadows numberless,/ Singest of summer in full-throated ease”, gli dèi di Hölderlin riappaiono nei boschi di Heidelberg – che aprirà la via a Nietzsche, a Böcklin e a de Chirico; anche il neoclassicismo di Alfieri, di David e di Gluck, tuttavia, seppe parlare ai Moderni.

 

Quella semplificazione dei mezzi espressivi, rosi fino ad una nuda evidenza elementare, mossa in principio da intenti morali, si radicalizzò, in alcuni di questi artisti, con esiti che possono legittimamente ricordare le ricerche linguistiche delle avanguardie novecentesche: se certi disegni di de Superville parvero, infatti, ad Anna Ottani Cavina (I paesaggi della ragione, Einaudi, 1994) singolari anticipazioni delle spigolose xilografie di Die Brücke, partiture “riformate” come la Medea di Cherubini, hanno ispirato ai nostri contemporanei l’idea d’un Gluck “portato alle soglie dell’espressionismo”. Anche Alfieri, questo tragediografo limitato per il quale non potrebbe ripetersi quel che disse Citati a proposito di Shakespeare annoverandolo fra “gli scrittori immensi e anonimi che portano nel proprio grembo tutte le creature umane, le cose possibili e impossibili, le città reali e immaginarie”, fu un immenso creatore linguistico allorché si dette a forgiare l’endecasillabo spinoso e nervosissimo del suo verso. E se, d’altra parte, ci si provasse a immaginare un’ideale traduzione pittorica del suo sonetto-autoritratto, a chi si vorrebbero affidare le fulminee scalfitture della seconda stanza (“sottil persona su due stinchi schietti;/ Bianca pelle, occhi azzurri aspetto buono;/ Giusto naso, bel labro, e denti eletti;/ pallido in volto, più che re sul trono”) se non alla contratta brevitas di un Lorenzo Viani?

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Andrea Camilleri, in pirsona

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Sul finire dell’anno scorso, la Lettura del Corriere della Sera ha dedicato due ampie pagine ai triboli dei traduttori alle prese con espressioni letterarie stravaganti. Tra gli altri, ha tirato in ballo il caso di Andrea Camilleri. La sua prosa ha certo dato filo da torcere ai traduttori. In un riquadro, al centro delle due pagine, una parola ne è stata proposta con enfasi come emblema: pirsona. Scelta azzeccatissima: in pirsona, c’è infatti Camilleri per intero. Non però perché pirsona sia la “pronuncia siciliana per «persona»”.

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Sopravviverà la Val d'Aosta fino al 2019?

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C’era una volta (non moltissimo tempo fa, diciamo un secolo) una regione d’Italia collocata – per volere divino, certamente – agli estremi confini nordoccidentali del Regno. Con il più montuoso dei territori della penisola, con una popolazione abbastanza nettamente divisa fra piccola borghesia del fondovalle e contadini poveri delle valli laterali, con una minuscola capitale che ne riassumeva indole e storia. Valori di riferimento largamente condivisi: fede cattolica, fedeltà a Casa Savoia (di cui amava proclamarsi “figlia primogenita”), secolare tradizione francofona. Problema cruciale dell’epoca: una consistente emigrazione, verso i vicini paesi di lingua francese (Svizzera, Francia soprattutto) ma anche – più audacemente – verso le lontane Americhe. Nome ufficiale della regione: Valle d’Aosta-Vallée d’Aoste, Pays de la Doire. 

 

Se l’esodo di molti aveva iniziato sin dal secondo Ottocento a segnare in modo piuttosto rilevante la fino ad allora sostanziale immobilità culturale e demografica della regione, la Grande Guerra accentuava lo scossone portando (come in tutto il Regno) giovani contadini – altrimenti destinati a vivere e morire nello stesso villaggio – ad uscirne per luoghi – allora – favolosamente remoti.

Il primo dopoguerra, poi, aveva in serbo sorprese ancora maggiori: una intensa immigrazione – in particolare dalle province allora povere del nordest – si sarebbe riversata verso la regione, attratta da un’offerta crescente di lavoro industriale nel fondovalle. E l’arrivo del Fascismo avrebbe di lì a poco tentato di intaccare lo spirito autonomistico (non “citra” né “ultra” ma “intra montes”!) con le sue tonalità nazionalistiche e romanocentriche, arrivando a combattere tra l’altro l’uso (orale, scritto) del francese – lingua del dapprima potenziale, poi reale nemico del regime – nella scuola, negli uffici giudiziari, nei toponimi e, in prospettiva, nei cognomi stessi degli indigeni colpevoli di terminare non con una italianissima vocale ma con qualche barbara consonante. Furono propri questi attacchi – spesso velleitari e maldestri – ad eccitare (e a concretizzare, poi, con la caduta del Fascismo) una disposizione antitaliana che in Valle era stata fino ad allora minoritaria.

 

 

Tra il ’43 e il ’48 la Valle visse i suoi anni più caldi: fra guerra civile e incertezze del dopoguerra, fra proiezione verso la Francia gollista (non si diceva che Parigi fosse divenuta, per via dell’emigrazione, la più grande città valdostana?) e attaccamento alla nuova Italia. Fu in questo clima di rimessa in gioco di tutta la sua storia, che in Valle d’Aosta prese vita il movimento annessionista con cui si chiedeva – tramite un referendum popolare (“le plebiscite”) – di poter optare per il passaggio del territorio regionale alla Quatrième République francese. Malgrado la popolarità di questa prospettiva e malgrado l’acceso dibattito che suscitò tra filofrancesi e filoitaliani, alla celebrazione del referendum non si giunse mai: complicazioni locali e complicazioni internazionali lo fecero abortire lasciando in Valle un solco di delusioni e recriminazioni di lunga durata. Da parte sua, lo Stato italiano proponeva la concessione di un’autonomia che era, insieme, un riconoscimento della specificità regionale e un’offerta di prospettive economico-fiscali allettanti. D’altronde – sostenevano alcuni – alla tradizione accentratrice dello Stato francese (forte di una sua continuità monarchico-imperial-repubblicana) sarebbe stato difficile far digerire il riconoscimento di un’autonomia sia pur limitata del nuovo “département” d’oltralpe. Si arrivò così nel febbraio 1948 alla concessione dello Statuto Speciale che da allora regola i rapporti fra Repubblica Italiana ed entità regionale: vissuto dagli uni come compromesso al ribasso (ricatto autonomistico per addormentare le aspirazioni più profonde degli autoctoni) e dagli altri come occasione fertile per una rinascita (politica, culturale, economica ecc.) della Valle d’Aosta.

Questo il passato prossimo della storia regionale valdostana.

 

C’è ora una regione adusata da settant’anni alla sua autonomia: che in questi sette decenni la nostra condizione politico-amministrativa sia stata vissuta sempre più come un dato di fatto e sempre meno come una conquista da riconquistare ad ogni istante, è una verità difficile da contraddire. 

In questi settanta anni tutto (letteralmente: tutto) è mutato: la nuova onda migratoria degli anni ’50-’60 (proveniente questa volta dal Meridione d’Italia) ha messo a dura prova abitudini linguistiche e modi d’essere e sentire perlomeno secolari; il turismo di massa ha stravolto i rapporti tra fondovalle e montagna, tra residenti ed ambiente terremotando il concetto stesso di fonte di ricchezza; la burocrazia regionale si è viepiù consolidata; il sistema clientelare si è stabilmente installato; le “forze” politiche sono sempre più “debolezze” che tentano di sopravvivere a se stesse…I Valdostani, anche quelli di “vieille souche”, hanno nel frattempo, necessariamente mutato i loro “points de repère”: a Chiesa, Savoia e Francese si è sostituita la trinità Montagna-Autonomismo-Francoprovenzale, ma tutto è avvenuto nel segno di una maggiore debolezza, franosità, aleatorietà, tutto essendo ormai insidiato dall’inautentico, dall’“ufficializzato”, dal pre-disposto… 

 

In anni di maggiore vivacità culturale rispetto a questi nostri attuali, Pier Paolo Pasolini ci ha insegnato quanto la volontà politica, anche la più rigida, sia debole se paragonata alla potenza di Consumo, di Imborghesimento, di Mezzi di Comunicazione nell’opera di sradicamento di una cultura, di una lingua, di qualunque fede, di qualunque virtù. Di questa lezione pasoliniana la storia recente della Valle d’Aosta è una conferma così perfetta da sembrare caso da manuale: caratteri distintivi (“antropologici” nel senso pasoliniano della parola) rimasti intatti per secoli e solo intaccati dai provvedimenti politici del Ventennio, franarono allorché – nel dopoguerra – la libertà e la proclamata autonomia avrebbero dovuto salvaguardarli ed anzi rafforzarli. La sensazione diffusa della perdita irrimediabile di un’antica identità da parte della minoranza valdostana è all’origine di un disagio che aggiunge al vuoto di senso della nostra epoca, una connotazione specifica: di fronte all’“indifferenza” delle generazioni nate nel secondo dopoguerra e alla pressione dei miti più pacchiani del consumismo, nessuna istituzione, per quanto sacrosanta, dispone della forza per resistere. Si aggiunga che scandali e scandaloni e scandaletti non sono mancati in questi settant’anni neppure nell’“isola felice” intramontana, ma soprattutto che non è mancato il degrado del “politico” con continue rotture e ricomposizioni di alleanze tra partiti locali (o tra ciò che resta delle moribonde forme-partito) in un alternarsi di formule che niente hanno a che vedere con “linee politiche” e tanto meno con scelte “ideali” ma solo con il carrierismo ora di questo ora di quel leaderino locale.

 

“Piccoli popoli, abituati da secoli a governarsi da sé, popoli ricchi, come i loro fratelli di Svizzera, di tradizioni proprie, sviluppatesi in lunghi secoli di vita politica autonoma, popoli disciplinati nel loro spirito di libertà, fedeli al dovere sociale fino al sacrificio, si sono visti, in nome dello Stato italiano alla cui formazione avevano collaborato, privati di quelle autonomie politiche, che avevano custodito attraverso i secoli”: sono parole di Emile Chanoux morto in carcere il 19 Maggio 1944 e da allora considerato il padre nobile del nostro autonomismo. A riascoltarle in questo duemiladiciassette, un brivido trascorre il lettore sensibile, e una domanda: “È riservato un futuro a questa nostra forma di esistenza politica e amministrativa alla vigilia del suo settantesimo compleanno?” A poche settimane dai referendum nel Lombardo-Veneto, la questione non sa più di teorico ma acquista una sua urgenza molto, molto concreta. Cosa dovrà intendersi per “autonomia” qualora altre regioni italiane ne facciano più o meno legittima richiesta? E davvero tutte e quindici le regioni italiane finora “normali” potranno proclamarsi “speciali”? Domande che, in un paese serio, non avrebbero neppure senso ma che in uno Stato sempre pronto ad implodere come quello italiano possono essere “seriamente” poste…

 

Certo è che, se i “privilegi” dello Statuto Speciale valdostano e il benessere diffuso che ha comportato ci hanno tolto anima, il cittadino intellettualmente onesto si trova imbarazzato nel difenderlo. 

E siccome concedersi un sogno è ancora permesso ed è gratuito, mi concedo questo sogno: che, se un domani alla Piccola Patria tra le Alpi fossero sospesi gli onori della specialità, si trovasse ancora qualche Valdostano capace di rispondere a questo diniego con fierezza (quella per cui questa gente fu celebrata in passato), nulla chiedendo più e nulla elemosinando ma voltando le spalle a uno Stato insieme codardo e sbruffone, ricominciando da capo in altro modo (non nuovo ma antico), nulla delegando al politico, tutto affidando alle residue virtù dei singoli resistenti…

S’intende che i sogni, più sono improbabili, più sono innocenti.

 

Daniele Gorret vive a Châtillon. Scrittore, poeta e traduttore, tra i suoi ultimi libri: Malattie infantili di Andelmo Secòs, Pendragon; Errori giovanili di Adelmo Secòs, Italic; Quaranta citazioni di Adelmo Secòs, Lieto Colle; ha vinto di recente il Premio Carducci (2016) e il Premio Rubiana-Dino Campana (2017).

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Storia di un'autonomia
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Terrorismo permanente

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Nel pomeriggio del 28 settembre Stephen Paddock si presenta alla reception del Mandalay Resort and Casino e si registra con la sua carta di credito. Sale al 32esimo piano aiutato dai facchini dell’albergo: dieci grosse valigie. Dentro ci sono tredici fucili mitragliatori e varie pistole automatiche. Ha con sé una mazza da demolizione. Resta nella stanza quattro giorni senza aprire le valigie. Nel frattempo va a giocare nei casinò di Las Vegas com’è solito fare. Il 1° ottobre c’è un concerto sotto la torre dove alloggia Paddock: Harvest Festival, concerto di musica country con 22.000 spettatori, tante famiglie con bambini. L’uomo rompe con la mazza i vetri accuratamente sigillati della sua stanza e punta i fucili sulla folla sottostante. Sono solo quattro minuti di raffiche con i mitragliatori: le armi automatiche poggiate su un treppiede hanno un dispositivo che accelera i colpi fino a 800 al minuto. Restano sul terreno 58 morti e più di 500 feriti. La polizia sale di corsa al piano chiamata dai vicini di stanza. Entrano le teste di cuoio nella sua stanza: Paddock si è suicidato. Nelle ore che seguono all’attentato FBI, CIA e servizi di sicurezza americani si domandano: Paddock era un convertito all’Islam? Un lupo solitario dell’Isis?

 

Un terrorista guidato da una cellula eversiva islamica dormiente? Le risposte arriveranno solo 24 ore dopo, senza sciogliere l’enigma su questo sessantenne dedito al gioco e amante delle armi da guerra. Paddock è il primo terrorista post-Isis. Non un terrorista pre-moderno, come hanno scritto i giornali, ma un terrorista post-Isis. Non somiglia per nulla ai ragazzi che a Barcellona, e prima a Parigi e Londra, si sono suicidati trascinando con sé vittime innocenti. Paddock è solo il primo dei nuovi assassini che hanno debuttato nel paesaggio contemporaneo. Il terrorista è un Signor Nessuno, che sino a un momento prima di uccidere non ha dato nessun segno di follia o impazzimento? Com’è possibile che si sia trasformato in assassino seriale così organizzato e determinato? La risposta la troveranno probabilmente gli psicologi o gli psichiatri, che indagheranno nella sua vita privata interpellando parenti, ex mogli, fidanzate, vicini di casa, colleghi e amici. Ma sarà una risposta che non cambia il senso del suo gesto. Paddock ha dimostrato che chiunque oggi può essere a tutti gli effetti un terrorista, e anche un terrorista suicida. L’Isis ha vinto la sua battaglia trasformando gli omicidi seriali da casi clinici in azioni di guerra. La stessa paranoia, l’unica malattia mentale che si diffonde per contagio, agisce in questa direzione.

 

 

Come ha scritto Luigi Zoja nel suo libro Paranoia. La follia che fa storia (Bollati Boringhieri) “un potenziale paranoico è presente in ogni uomo ordinario, in ogni fase della sua esistenza, in qualunque società si trovi”. Nella pagina in cui definisce questa follia lucida che è la paranoia, Zoja cita una frase di Primo Levi riguardo le SS: “I mostri esistono ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi, sono più pericolosi gli uomini comuni”. Stephen Paddock è a tutti gli effetti “un uomo comune”, come probabilmente lo sono i ragazzi con la cintura esplosiva legata alla vita in Israele e in Libano, come i giovani che sono entrati sparando all’impazzata nel Bataclan. Tutti normali, ma anche tutti paranoici. È sempre più evidente che il terrorismo ha rotto la barriera che separava i combattenti per le cause ideologiche e la gente qualunque. Si è insinuato nelle nostre vite con un’evidenza incontrovertibile.

 

Nel 2001 il filosofo Jean Baudrillard scriveva su “Le Monde” (oggi nel volume Lo spirito del terrorismo, Cortina Editore): “Il terrorismo, come i virus, è dappertutto. C’è una perfusione mondiale del terrorismo, che è come l’ombra portata di ogni sistema di dominio, pronto dappertutto a uscire dal sonno, come un agente doppio”. Il terrorismo sarebbe nel cuore stesso della cultura che lo combatte, secondo il filosofo francese, che collocava proprio lì, con un residuo di marxismo, la linea di demarcazione tra sfruttati e sfruttatori, tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati, aggiungendo che questa stessa linea o demarcazione “si congiunge segretamente alla frattura interna al sistema dominante”. Era una tesi frutto dell’abbacinante attentato alle Torri Gemelle nel settembre del 2001. Ora le cose sono andate molto avanti. Non solo perché il terrorismo suicida è diventato endemico e costante in Occidente, coinvolgendo i giovani emarginati e frustrati delle immense periferie europee, ma perché il suo fantasma è penetrato nelle vene stesse dell’Europa e dell’America, diventando una condizione possibile, non solo agli islamici radicali, ma anche degli uomini bianchi di mezza età, come dimostra il signor Paddock, anonimo possessore di decine di mitragliatori, giocatore d’azzardo, frequentatore di casinò e con un ragguardevole conto in banca. Si diventa terroristi senza ideologia, senza fede religiosa, senza aderire a un movimento di rivendicazione reazionario o rivoluzionario. La distruzione delle ideologie di destra e di sinistra, la loro messa in scacco definitiva, è cominciata ben prima della caduta del Muro di Berlino, data dal giorno del ritorno dell’ayatollah Khomeini a Teheran il 1° febbraio 1979.

 

Il terrorismo è oggi la malattia endemica dell’Occidente, il suo stato di fatto duraturo e permanente. E non solo dell’Occidente, ma anche dell’Oriente, due metà del mondo unificate in una sola unità omnicomprensiva. Dal punto di vista delle stragi perpetrate mensilmente in ogni luogo del mondo, il Pianeta è oggi unificato. Se si prende per buona la definizione che parecchi decenni fa il politologo Raymond Aron diede del terrorismo – “è detta terroristica un’azione violenta i cui effetti psicologici sono sproporzionati rispetto ai risultati puramente fisici” – è evidente che il primo strumento del terrorismo non è la bomba o il mitragliatore, ma i mass media. Ai tempi del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle BR, Marshall McLuhan, interpellato dai giornalisti, rispose che lo scopo fondamentale dei terroristi era di manipolare la stampa e i media. Ogni attentato ha sempre più una cassa di risonanza nei media, e oggi nei social media, così che l’onda d’urto delle esplosioni arriva sin dentro i nostri computer e smartphone: accade qui e non più là, in un tempo che è istantaneo. La rivendicazione presente o assente crea un’atmosfera di tensione, come ha messo in luce Nello Barile in Il marchio della paura (Egea). Dopo la strage di Las Vegas tutti i media del mondo, in qualsiasi lingua diffondessero le notizie, funzionavano come i media italiani in quei giorni del 1978. Sarà stato l’Isis o è solo un pazzo omicida che ha sparato sulla folla ignara? La matrice jihadista è diventata un optional. Anche se non ce ne siamo resi conto, siamo potenzialmente tutti degli jiadisti, basta solo che impazziamo e compiamo una strage: a piedi, in auto, sulla cima di un grattacielo, dentro una metropolitana, dappertutto e con ogni mezzo.

 

 

Non è consueto e non è neppure normale impazzire di colpo, diventare un folle sparatore come Stephen Paddok. Ma su alcuni miliardi di persone che abitano oggi il Pianeta, quanti possono diventare pazzi? Di follia metodica, come ha dimostrato il Signor Nessuno nella città del gioco americana. L’epidemia del terrorismo si è poi unita alla centralità del brand, come scrive Barile, “che sfrutta non solo la capacità d’acquisto ma la creatività stessa del consumatore”. Com’è accaduto per le marche della società post-fordista, il nuovo terrore post-islamico ha esteso “il proprio perimetro d’azione sulla vita quotidiana di soggetti che mettono a disposizione la propria mente, il proprio corpo, il proprio vissuto, ai fini di una causa che condividono più o meno integralmente”. Oggi il Terrore ha fatto un passo in più. Non siamo solo sotto l’influenza psichica degli atti terroristici, ma forniamo noi stessi più o meno inconsapevolmente la materia del terrore, come ha fatto Stephen Paddock. Siamo tutti membri dormienti dell’Isis. 

 

Questo articolo già uscito su «L'Espresso», è un allegato del volume di Marco Belpoliti, Chi sono i terroristi suicidi, da poco pubblicato da Guanda.

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Chi sono i terroristi suicidi?
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Van Gogh: il mio Giappone

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Van Gogh: passeggiate giapponesi

Mariella Guzzoni

 

“Sono in Giappone qui”

Vincent, lettera alla sorella Willemien, Arles, 14 settembre 1888

 

Ogni mostra o catalogo sui maestri giapponesi del Mondo Fluttuante accenna a Vincent van Gogh come a uno degli artisti che, più di altri, ha subito il fascino delle prime immagini ukiyo-e giunte nelle mani del mercato dell’arte parigino nella seconda metà dell’Ottocento. Come Van Gogh guardò al ‘suo’ Giappone?

Dalle prime famose tele riprese da Hiroshige, da Père Tanguy alle Scarpe, dagli autoritratti parigini all’autoritratto da giapponese di Arles, le opere che parlano di Giappone sono molte. Una passeggiata dietro alle quinte di questi quadri ci porta nella mostra Van Gogh: il mio Giappone, aperta alla Biblioteca Sormani di Milano (fino al 25 novembre) a scoprire alcune sorprese: le ispirazioni letterarie, il contesto editoriale, le illustrazioni, le copertine magnetiche di Le Japon Illustré, con le opere che Van Gogh appendeva nel suo studio del Sud. Tra le stampe dei maestri giapponesi dell’ukiyo-e amati da Vincent, spiccano i tre album di Hokusai delle Cento vedute del Fuji, con la versione nei toni di grigio della grande onda; gli attori e le cortigiane di Kunisada e di Eisen, i paesaggi di Hiroshige. Il percorso di snoda nei vari periodi della vita del genio olandese, e mostra come Van Gogh assorbì la poetica giapponese restituendola in uno stile sempre più personale, in profonda sintonia con se stesso e con la grandezza della natura.

 

Da Anversa a Parigi

Vincent van Gogh era un collezionista, aveva più di 400 stampe giapponesi. La sua collezione inizia festosamente ad Anversa nel novembre del 1885: “il mio studio non è male, soprattutto perché ho appuntato alle pareti una serie di stampe giapponesi che mi divertono molto. Sai, quelle piccole figure femminili nei giardini o sulla spiaggia, cavalieri, fiori, rami nodosi”. Ha appena lasciato l’Olanda e la tavolozza contadina, ora un mondo nuovo è sotto i suoi occhi: “Bene, questi porti sono un’enorme Japonaiserie, fantastica, singolare, strana”, scrive a Theo a fine novembre. 

Lettore vorace e multilingue, quando raggiunge il fratello a Parigi nel febbraio 1886, ha già letto tutto del romanzo francese moderno e conosce l’atmosfera giapponesizzante di molti di essi, in particolare quelli dei fratelli Edmond e Jules de Goncourt. Nei romanzi dell’epoca in mostra, come Chérie, Manette Salomon, En 18... si scoprono le righe che raccontano i salotti parigini, ‘tutti pazzi’ per il Giappone. Vincent ammirava molto i fratelli Goncourt, come leggiamo nelle sue lettere. 

 

 

Dei due anni che Van Gogh trascorre a Parigi sappiamo ben poco, ma le pagine di alcuni tra i più importanti libri illustrati sul Giappone come Promenades Japonaises di Émile Guimet illustrato da Félix Régamey (presentato all’Exposition Universelle del 1878), e L’art Japonaise di Louis Gonse (Parigi, 1883), rivelano le contaminazioni visive e le intersezioni tra gli artisti occidentali e il mondo orientale. Dai magnifici acquerelli e schizzi dal vivo di Régamey, diario etnografico del suo lungo viaggio in Giappone a fianco del collezionista Guimet, alle curiose illustrazioni d’invenzione degli artisti francesi che il Giappone non l’avevano mai visto, alle illustrazioni più fedeli all’originale nell’autorevole volume di Louis Gonse, interessanti d’après che portano doppia firma (oriente-occidente), il panorama editoriale dell’epoca è ricchissimo e tutto da scoprire.  

 

 

Nel Maggio 1886 esce un numero speciale di Paris Illustré curato da Sigfried Bing, con la famosa copertina della cortigiana di Kesai Eisen (ripresa da Van Gogh) e con un lungo testo di Hayashi Tadamasa: per la prima volta è un giapponese a parlare del suo paese.  

Tutto questo affascinò Van Gogh forse ancor più della lezione impressionista. Tra febbraio e marzo 1887 egli organizza una mostra della sua collezione di stampe ukiyo-e, una vera anteprima parigina, a LeTamburin, il ristorante amato dagli artisti, e gestito da Agostina Segatori, sua amica e modella, di cui abbiamo due tele giapponesizzanti. Come anni prima con le copie da Millet, inizia allo stesso modo il suo apprendistato orientale con due famosi d’après da Hiroshige, ma si diverte a sperimentare anche la scrittura giapponese: pennella ideogrammi e firme in guisa di cornice per il suo Susino fiorito e per il Ponte sotto la pioggia

             

L’enigma delle Scarpe

È in questo contesto visivo di confini porosi e desideri sperimentali che si inscrive ‘un enigma’ nascosto in una delle opere più famose di Van Gogh. Si tratta di un piccolo dettaglio (in basso a destra) in una delle cinque versioni delle Scarpe parigine che non è mai stato notato né studiato prima. La frontalità delle Scarpe preferite da Martin Heiddeger cattura lo spettatore, e quel dettaglio sfugge… Cosa succede di tanto enigmatico? Van Gogh trasforma il grosso laccio della scarpa sinistra in qualcosa d’altro: un rametto o radice rotondeggiante. Una scrittura orientale… Sembrerebbe di sì. La metamorfosi è impressionante.  Abbiamo un laccio che non è più un laccio e che non potrà più essere allacciato.

 

Utagawa Hiroshige, Stazione 40, Chiriu; Utagawa Hiroshige, Stazione 30, Hamamatsu (1855)

 

Non si tratta dei rami o delle radici contorte e nodose che Vincent aveva disegnato fin qui, come le Radici in un terreno sabbioso dell’Aia, siamo di fronte a qualcosa di diverso. Una piccola radice che si anima come un albero giapponese… Vincent aveva molte opere di Hiroshige – tra cui molte delle Cinquantatré Stazioni della Tokaido, di cui possedeva la “tate-e Edition”, la cosiddetta Tokaido “verticale”. Tutti paesaggi straordinari, dove uomo e natura si compenetrano in un equilibrio di forze perfetto. Molti sono gli alberi che paiono animarsi, contorcersi, spezzarsi. Radici nude che paiono danzare. 

 

A sinistra, Vincent van Gogh, Scarpe (1886), Amsterdam, Van Gogh Museum.


Accanto alle Scarpe, alla luce della lente d’ingrandimento, c’è una radice rotonda legata a un gesto, un gesto del corpo e della mente. Non appoggia da nessuna parte. È lì sulla tela che le fa da supporto come se la tela, d’improvviso, fosse un foglio da scrivere. Il risultato che ne deriva all’occhio dello spettatore è di un gesto rasserenante, un gesto poetico. Non c’è forza, non c’è dramma in quella forma. Un rapido colpo di pennello, l’essenza di un attimo: qualcosa che ben si accompagna allo sguardo dell’Autoritratto con stampa giapponese che Van Gogh dipinge poco prima di lasciare Parigi. I suoi occhi sono per la prima volta a mandorla, la Provenza è annunciata, un sogno orientale. 

 

Vincent van Gogh, Autoritratto con stampa giapponese (1887), Basilea, Kunstmuseum; Keisai Eisen, Donna in piedi (1820-30)


In Provenza

A fine febbraio 1888 è ad Arles, in cerca di un sole più vivo, di una luce più forte. “Sono in Giappone qui”. Progetta dei piccoli album da 6 o 10 o 12 vedute, “come gli album dei disegni originali giapponesi”. Legge Madame Chrysanthème di Pierre Loti che cattura la sua fantasia anche per le bellissime illustrazioni, “l’hai letto?” scrive al fratello, “mi ha dato da pensare questo, che i veri giapponesi non hanno niente sui muri”. La semplicità dei giapponesi.

Intanto a Parigi Sigfried Bing inaugura nel Maggio 1888 Le Japon Artistique con le sue copertine iconiche; la nuova rivista mensile è ricca di lunghi articoli che raccontano vita costumi e artigianato giapponese. Le illustrazioni a colori di molte stampe e manga sono ora fedeli agli originali, tavole fuori testo realizzate in fotoincisione da Gillot. A Vincent non sfugge nulla: “Tra le riproduzioni di Bing trovo splendidi il disegno del filo d’erba, i garofani, e l’Hokusai”, scrive al fratello da Arles.

 

Anonimo, Studio di erbe; Bumpo, Garofani; Hokusai, Granchi, Personaggi sotto la pioggia, in Le Japon Artistique, Maggio e Giugno 1888.


Hokusai occupa un posto d’onore per Van Gogh. Lo paragona a Delacroix, e alla Barca di Cristo tra le onde che aveva visto con Theo ai Champs Élysées. La forza del colore di quella piccola tela aveva colpito il critico Paul Manz: “non sapevo che si potesse arrivare ad essere così terribili con del blu e del verde”, aveva scritto nel suo articolo.  

Beh, prosegue Van Gogh, “Hokousai ti fa lanciare lo stesso urlo – ma lui con le linee, con il disegno: quelle onde sono degli artigli, la barca è presa là dentro, lo si sente”, scrive a Theo l’8 settembre 1888.   

 

Eugène Delacroix, Cristo addormentato durante la tempesta (ca. 1853), New York, Metropolitan Museum; Katsushika Hokusai, La [grande] onda presso la costa di Taganawa (ca. 1830-32).


Dalla Provenza chiede al fratello di acquistare altri Hokusai da Bing, le “300 vedute della montagna sacra e le scene di genere”. In realtà Hokusai, dopo il successo della prima serie delle 36 vedute a colori, si mise a viaggiare e realizzò le famose Cento vedute del monte Fuji raccolte in tre album, considerate il suo capolavoro, di raffinata invenzione. Nel secondo possiamo ammirare la versione nei toni di grigio del Fuji sul mare con in primo piano una versione avvolgente della grande onda, insieme ad altre immagini di onde e di flutti che furono nelle mani di Vincent e ispirarono il suo pensiero, i suoi sfondi, la sua voglia di arrivare a disegnare  veloce come un lampo. “Il giapponese disegna veloce, molto veloce, come un lampo, e questo perché i suoi nervi sono più fini, il suo sentimento più semplice”. 

 

Katsushika Hokusai, Il Fuji sul mare; Il Fuji del drago ascendente (ca. 1834-1835), da: Le cento vedute del monte Fuji.


E così come Hokusai era per Van Gogh “uno dei più grandi maestri di schizzi dal vivo”, insuperabile per velocità e sintesi, Utagawa Kunisada (anche se nelle lettere non ne cita mai il nome), doveva essere tra i preferiti, per i suoi ritratti così immediati e dirompenti. Attori, cortigiane, guerrieri, nella sua collezione ve ne sono a centinaia, insieme a tanti lavori di altri artisti tra i quali Utagawa Kuniyoshi, Toyohara Kunichika, Keisai Eisen, oltre a molti trittici della vita nelle case, dei mestieri, delle stagioni, e poi fiori, insetti, uccelli e piccoli album. 

 

Utagawa Kunisada, Attore kabuki, Immagini nello specchio (1860); Utagawa Kuniyoshi, La Principessa Izutsu (ca. 1842).


La Provenza, con la sua natura incontaminata, il sole più forte, era per Van Gogh il ‘suo’ Giappone. “Vorrei che tu passassi qui qualche tempo”, scrive a Teo nel giugno 1888, “dopo un poco ti accorgeresti che la vista cambia, si vede con un occhio più giapponese, si sente il colore in un altro modo”. La Casa Gialla di Arles è un sogno orientale, ma anche il suo progetto culturale, un luogo dove i pittori avrebbero potuto vivere come fa l’artista giapponese, immerso nella natura a studiare “un solo filo d’erba”.  Un pezzetto di mondo “senza intrighi” lontano da Parigi, questo voleva Van Gogh, una comunità di pittori, semplice, essenziale: “a quanto pare sembra che anche i giapponesi guadagnino ben poco denaro e vivano come semplici operai”, scrive all’amico Bernard.

 

Operaio dell’arte sin dal 1882, ai tempi dell’Aia, Van Gogh sapeva immergersi nei boschi olandesi al punto di prendere “annotazioni stenografiche” e trascrivere sulla tela quello che la natura gli “aveva detto”. Era dunque naturalmente predisposto, più di altri, all’incontro con la poetica dei maestri del paesaggio, come Hiroshige e Hokusai, dove il mondo della natura, nei suoi diversi elementi, risponde a un’unica forza universale, a una concezione unitaria dell’essere. Uomo e natura, natura e uomo in fondo era questa, anche per Van Gogh, una lotta costante, una ricerca senza sosta: “cerco sempre la stessa cosa, un paesaggio un ritratto, un ritratto e un paesaggio […] l’arte è l’uomo aggiunto alla natura,” scrive da Arles alla sorella Willemien.  È difficile immaginare, oggi, l’impatto delle stampe giapponesi nella Parigi di Van Gogh, in un momento in cui la tradizione occidentale dirigeva lo sguardo dello spettatore verso un punto di fuga, gli assegnava un posto, mentre la pittura giapponese arrivava a rifiutare un punto di vista fisso, lasciando allo spettatore la libertà di muoversi nell’immagine. 

 

Una rivoluzione, dunque, non solo o tanto per i colori piatti, la costruzione dell’immagine, l’inquadratura, i pesi, ma una nuova finestra sul mondo, che Van Gogh accoglie in pieno e trasforma nel suo linguaggio. Lo scrive al fratello con la sua solita semplicità, ecco “quei due disegni della Crau e della riva del Rodano che non hanno l’aria giapponese e forse in realtà lo sono più di tanti altri”. All’amico Bernard racconta di più delle colline di Montmajour, dove torna in continuazione per respirare le sensazioni di quel paesaggio piatto sotto di lui. “Ho fatto due disegni di questo – questo paesaggio piatto dove non c’era nient’altro che .   .   .   .   .   .   .   .   .   .  l’infinito .   .   .  l’eternità”. 

Sospende il tempo all’amico che legge lasciando grandi spazi tra i puntini sulla lettera, tutta una riga di soli puntini e lì, in mezzo, l’infinito. Questo è il senso profondo del suo Giappone, e forse l’aspetto più autentico della civiltà giapponese: entrare nei ritmi del cosmo, e della sua forza spirituale.

 

Vincent van Gogh, La Crau vista da Montmajour (1888); Il Rodano visto da Montmajour (1888), Amsterdam, Van Gogh Museum.


Le vedute quasi aeree, gli orizzonti alti e senza cielo, i disegni a inchiostro, le onde, gli sfondi o i cieli eseguiti a cannuccia con la velocità dei giapponesi, e in uno stile sempre più personale, sono ormai una vera ‘scrittura’, la sua, sicura e inconfondibile. 

La trasformazione è anche sul suo volto: nel settembre 1888 Van Gogh dipinge il ritratto di sé più stupefacente della sua vita, da monaco giapponese, “semplice adoratore del Buddha eterno”. È così che compie la sua rivoluzione nel ritratto moderno.

“Il tempo qui è ancora bello, e se fosse sempre così sarebbe meglio del paradiso dei pittori, sarebbe Giappone in pieno”. È il 29 settembre 1888.

 

 

Il Giappone di Van Gogh

Rocco Ronchi

 

Per il filosofo è quasi inevitabile confrontarsi con le Scarpe di Van Gogh. Almeno da quando il “filosofo” per eccellenza del Novecento, Martin Heidegger, le ha elette a esemplificazione dell’essenza dell'arte, dando origine ad un dibattitto che dura ancora oggi. Nella versione delle scarpe prediletta da Heidegger, Mariella Guzzoni ha rilevato però la presenza di un dettaglio finora mai notato e studiato, probabilmente perché, come scrive, “la frontalità delle Scarpe cattura lo spettatore, e quel dettaglio sfugge...”. In forma apparente di laccio, in basso a destra, c'è una specie di radicella tondeggiante: è un laccio che non potrà allacciare nessuna scarpa, forse, aggiunge Guzzoni, non rappresenta nemmeno qualcosa, ma è l'importazione sulla tela di una scrittura giapponese...

 

La scoperta di Mariella Guzzoni non è priva di conseguenze. Infatti, scombina le carte non solo della lettura heideggeriana, ma, più in generale, della lettura che la “linea maggiore” del pensiero novecentesco ha fatto dell'opera d'arte. Che siano d'accordo o meno sull'interpretazione heideggeriana delle Scarpe, i filosofi nel Novecento hanno condiviso un paradigma, dividendosi poi sulla sua applicazione: l'opera è una autentica opera d'arte se ciò che mette in opera è la Verità. Anche il post-modernismo, con la sua apologia dei simulacri, non fa eccezione: la “potenza del falso” non è altro che il rovescio speculare della Verità che ogni autentica opera mette in opera. Il patto stretto tra arte e Verità è indissolubile anche quando l'arte professa ironicamente la menzogna o la parodia del vero.

 

Vincent van Gogh, Scarpe (1886), Amsterdam, Van Gogh Museum

 

Scrivo Verità con la maiuscola a capolettera, perché la Verità in questione non è il semplice essere vero di una proposizione o di una immagine (la proposizione funziona infatti come immagine di qualcosa) che si misura dalla sua adeguazione o meno all'oggetto raffigurato. La filosofia novecentesca ha mostrato una sorta di aristocratica ripulsa per questa “volgare” concezione del vero come “corrispondenza”. Da almeno due secoli, niente è meno accetto nei salotti buoni dell’estetica e della teoria dell'arte quanto l'ingenuo naturalismo mimetico. La Verità messa in opera dall'opera d'arte è piuttosto la condizione di possibilità di ogni derivato essere-vero nel senso della corrispondenza. Heidegger è chiarissimo in proposito: le Scarpe di Van Gogh non sono un paio di scarpe. Non sono né un paio di scarpe (un particolare) né il paio di scarpe, vale a dire l'idea o l'essenza delle scarpe (un universale). Quelle scarpe sono piuttosto il “che c'è” delle scarpe e del contadino che le ha portate, come lo sono del mondo fatto di sudore e di fatale rassegnazione alla fatica che il contadino ha abitato e di cui la loro usura è testimonianza. Le scarpe sono l'evento (singolare) di un mondo, il suo “storicizzarsi”, il suo “accadere”. Le scarpe di Van Gogh sono il presentarsi del Senso nel quale ogni esistenza storica è “gettata”.

 

I filosofi hanno la fortuna di disporre di una stenografia concettuale che permette loro di sintetizzare efficacemente questioni straordinariamente complesse. Possono infatti scrivere che le scarpe di Van Gogh non sono un “ente” o la raffigurazione di un “ente” (particolare) o l'idea di un “ente” (universale); le scarpe di Van Gogh sono piuttosto l’“essere” dell’“ente” (singolare). Dell'ente determinato, le scarpe, appunto, mostrano il suo “che c'è”, il suo “darsi”, il suo “apparire”. Nell'opera d'arte è, dunque, messa in opera una Verità, che non è nient'altro che l'essere dell'ente. Questo è da intendersi nel suo senso più immediato: sulla tela di Van Gogh “ci sono” delle scarpe. Ora, tutta l'intelligenza del filosofo consiste nello spostare l'attenzione dalle scarpe raffigurate al loro “esserci” singolare. Ecco la Verità con la maiuscola a capolettera che, secondo il paradigma heideggeriano, è messa in opera dall'opera d'arte!

 

Ma sulla tela di Van Gogh, nota Guzzoni, c'è anche quel “rametto tondeggiante”, che scombina tutto... Esso funziona come dettaglio. I dettagli non sono particolari. Ingrandito da una lente, il “particolare” si rivela omogeneo al tutto che lo contiene, mirabile esempio dell’unità di intenti che governa un'opera riuscita (o un uomo ben vestito, il quale resta elegante perfino nei particolari impercettibili). Il dettaglio, invece, rivela qualcosa di eterogeneo che, per quanto sia parte empirica del tutto, è in eccesso rispetto all'insieme che lo contiene. Esso mina dall'interno la rappresentazione, come lo farebbe una piccolissima macchia d'unto nei pantaloni dell'uomo elegante. La radicella nelle scarpe di Van Gogh è un siffatto dettaglio. Essa porta fuori. Ma dove porta? Geograficamente e culturalmente porta in Giappone, speculativamente porta fuori dall'essere dell'ente, fuori dalla Verità come Evento e come Storia.

 

Vincent van Gogh, Scarpe (1886), e dettaglio, Amsterdam, Van Gogh Museum

 

In realtà le due direzioni sono la stessa direzione: il Giappone di Van Gogh è la messa in questione dell'ontologia dell'opera d'arte. Quella radicella restituisce la tela di Van Gogh alla bidimensionalità della superficie sottraendola alle profondità ontologiche della storia alla quale era invece ricondotta dall'interpretazione filosofica. La radicella è un segno dalla natura sfuggente. È una scrittura giapponese, suggerisce Mariella Guzzoni. Ora, in una cultura alfabetizzata scrivere e dipingere sono attività differenti: la lettera scritta è la riproduzione della voce che parla e la pittura è raffigurazione del mondo muto là fuori. Ma che ne è di questa differenza di natura, dove, come in Giappone, la raffigurazione è parte integrante della scrittura? La differenza di natura diventa differenza di grado e implica il riferimento a un genere comune che comprende entrambe non essendo né ciò che noi chiamiamo scrittura né ciò che noi chiamiamo pittura, disegno ecc. Scrivere e dipingere sfumano l'uno nell'altro, come ben sanno i traduttori dei poeti orientali, che fanno sempre precedere alle loro traduzioni una raccomandazione. Bisogna tener presente, avvertono, che la scrittura in oriente non si cancella davanti al significato che veicola o alla musicalità che esprime. La scrittura nella sua qualità figurativa è parte integrante del testo. La stessa cosa è ripetuta poi in qualsiasi presentazione dell'opera “pittorica” di un maestro giapponese, la quale, come è noto, lascia largo spazio alla scrittura. Non c'è qui un testo di commento alla raffigurazione, come saremmo portati a credere, ma vi è continuità senza soluzione tra quanto noi, alfabetizzati, chiameremmo testo e quanto chiameremmo figura o disegno. Dove insomma il nostro occhio alfabetizzato scorge una combinazione di elementi eterogenei, c'è la semplicità di un terzo che li contiene entrambi (fatto che spiega il primato in Giappone della calligrafia tra le arti).

           

E qual è questo elemento che li tiene insieme? Il genere comune è ciò che lo psicoanalista Jacques Lacan, di ritorno nel 1971 da un viaggio in Giappone, ha chiamato la “lettera”. La lettera non è evidentemente ciò che si intende comunemente, il carattere alfabetico. La lettera è piuttosto il tratto del pennello che scivola su di una superficie con maggiore o minore intensità. È l'atto generatore della figura: figura che non è né l'espressione di un voler dire né la raffigurazione di un mondo esteriore, ma, per quanto la cosa possa apparirci strana, è un essere vivente. Questo tratto non è nulla e, al tempo stesso, è il tutto, o, meglio, è ciò che dà vita al tutto. Hokusai nel suo “Testamento” del 1834 doveva avere di mira la potenza generatrice della lettera quando scriveva beffardo: “A settantatré anni ho un po' intuito l'essenza della struttura di animali e uccelli, insetti e pesci, della vita di erbe e piante e perciò a ottantasei progredirò oltre; a novanta ne avrò approfondito ancora più il senso recondito e a cent'anni avrò forse veramente raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. Quando ne avrò centodieci, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria”.

 

Le Scarpe di Van Gogh sono per Heidegger il luogo dell'incidenza della Verità. Di quale verità poi si trattasse (verità questa volta con la minuscola a capolettera), se fossero cioè le scarpe del contadino radicato nella Terra o l'autoritratto dell'artista deraciné che vaga in un mondo divenuto estraneo (l'ipotesi di Meyer Schapiro), di questo si poteva poi discutere infinitamente e, di fatto, si è discusso. Restava incrollabile la fiducia che l'opera d'arte dovesse mettere comunque in comunicazione con una Verità che è l'archistruttura di tutte le verità particolari. È la Verità che si presenta alla prima persona, nella sua singolarità, e che dice: io sono la Verità più vera di ogni verità semplicemente proposizionale (la verità homoiosis, la verità adaeguatio), perché della verità sono il fondamento di possibilità. Del significato, di ogni significato storicamente determinato, io sono l'Origine. Ma se ha ragione Mariella Guzzoni, non è più la Verità a “storicizzarsi” nell'opera. A nessun grande pittore giapponese sarebbe del resto mai venuta in mente un'idea del genere. Ed è, forse, venuto il tempo che anche le Scarpe di Van Gogh siano liberate dall'obbligo di funzionare come significanti del Vero, della Storia, del Mondo (e, in ultima analisi, dell'Uomo e dei suoi drammi) e siano restituite alla loro dimensione “letterale”. Si sarebbe così più fedeli a Van Gogh che nel Giappone sognava la natura e soltanto la natura.

 

Per saperne di più

 

La collezione delle stampe giapponesi del Van Gogh Museum (che comprende anche quella di Vincent e Theo) è consultabile online. Si veda inoltre Japanese prints. Catalogue of the Van Gogh’s Musuem Collection, a cura di Keiko van Bremen, Willem van Gulik, Tsukasa Kodera e Charlotte van Rappard-Boon (Van Gogh Museum, Waanders, 2006); Louis Van Tilborg Van Gogh and Japan (Van Gogh Museum, 2006); Hokusai, il vecchio pazzo per la pittura, a cura di Gian Carlo Calza (Electa, 2010); Ukiyoe. Il mondo fluttuante, a cura di Gian Carlo Calza (Electa, 2004). Il volume Le scarpe di Van Gogh, a cura di Elio Grazioli e Riccardo Panattoni (Riga 34, Marcos y Marcos, 2013) ripercorre e ricostruisce il dibattito filosofico inaugurato da Martin Heidegger intorno al dipinto Le scarpe (sopra illustrato). Si segnala inoltre che al Metropolitan Art Museum di Tokyo è in corso la mostra Van Gogh & Japan (24 ottobre 2017 - 8 gennaio 2018) che si sposterà a Kyoto, al National Museum of Modern Art per riaprire i battenti ad Amsterdam al Van Gogh Museum, dove è in programma a partire dal dal 23 marzo fino al 24 giugno 2018.

 

Van Gogh: il mio Giappone, Biblioteca Sormani, Milano, dal 7 al 25 novembre 2017.

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Marie Curie. Radio e Polonio

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Una volta un'amica mi raccontò di un collega (maschio) che entrato in una stanza dove si trovavano sei colleghe (femmine) domandò: "Ah siete sole?". "No", rispose una di loro, "te sei solo, noi siamo sei". L'aneddoto mi è sempre sembrato esilarante. E tragico: per lui intendo, poveretto. Come un ventriloquo che si ascolti uscire di bocca cose turche, quanto si sarà sentito stupido da uno a cento?

Eppure facevano tutti e sette parte di una categoria composta non certo di stupidi ma anzi di cervelloni: erano infatti degli studiosi di fisica. Gente che avrà magari la testa tra le nuvole, ma dovrebbe saper contare. Invece il protagonista di questa scena, spinto da forze collettive a lui superiori, aveva cancellato perfino il ricordo del pallottoliere di fronte alle sei donne sole che lo guardavano allibite.

A sua parziale giustificazione bisogna riconoscere che in effetti non era solo, quando si è affacciato nella stanza dove si trovava il gruppetto solitario di colleghe. Dietro di lui premeva una folla di antenati a dir poco illustri: Francesco Petrarca, per esempio, il fondatore della soggettività lirica della cultura occidentale. In un famoso sonetto del suo Canzoniere Petrarca parla di dodici donne (dico 12: il doppio delle nostre 6 di partenza) che se ne vanno in barca da “sole”. 

 

Lo cito per chi lo avesse letto dodici volte senza mai accorgersene: “Dodici donne onestamente lasse, / Anzi dodici stelle, e ’n mezzo un Sole, / Vidi in una barchetta allegre e sole”. Ricordiamoci di loro. Sei, dodici, ventiquattro. Si possono scalare tutti i gradi della moltiplicazione, quadrata o cubica, sempre sole rimangono: magari allegre, in buona compagnia l’una dell’altra, ma irrimediabilmente sole. 

Ricordiamoci di queste donne quando ci avviciniamo al libro di Gabriella Greison, Sei donne che hanno cambiato il mondo. Le grandi scienziate della fisica del XX secolo, appena uscito per Bollati Boringhieri. Marie, Lise, Emmy, Rosalind, Hedy, Mileva: sei donne sole sulla barchetta della fisica moderna, nel mare in tempesta del Novecento. 

 

 

L’ultima è la prima moglie di Einstein e riapre l’annoso capitolo delle ombre dei grandi uomini. Quelle donne che governano i figli con una mano, mentre con l’altra spingono i mariti verso la gloria. La penultima se ne sta distesa su uno spicchio di luna in copertina, somigliante come una goccia d’acqua a Vivien Leigh. Fu una celebre attrice hollywodiana e insieme l’inventrice di una tecnologia della comunicazione su frequenze radio che sta alla base del nostro Wi-Fi. Rosalind è una pietra miliare nella storia della scoperta del DNA. Emmy ha battezzato un famoso teorema matematico con il suo nome. Lise era considerata la Marie Curie tedesca. Infine Marie è Marie Curie in persona.

 

Marie Curie non è Che Guevara, ma poco ci manca. Le manca certo ogni sex appeal fotografico, eppure è diventata un santino di diffusione globale. Non la sua immagine: nei nostri tempi patinati francamente improponibile per cupezza e vecchiume. Ma proprio il suo nome. Dici “MarieCurie” tutto d’un fiato e si schiudono le porte del futuro. Una delle più prestigiose borse di studio europee per giovani ricercatori le è intitolata. L’austera polacca che veniva dal nulla e che ha vinto non uno ma due premi Nobel, è un monumento al genio scientifico. Costruito a forza di duro lavoro e sacrificio.

Gabriella Greison racconta che Marie da giovane era “attratta alla stessa maniera dalla letteratura e dalla fisica, e non riusciva a decidere quale delle due strade intraprendere”. A volte ci si chiede cosa sarebbe stato della storia del Novecento se Hitler fosse diventato un pittore invece che un dittatore. E se Marie Curie fosse diventata una poetessa? Oppure una celebre narratrice? Avrebbe potuto scrivere un romanzo, per esempio, su Radio e Polonio. Due fratelli nati all’inizio del XX secolo da un padre che si chiamava Pierre e da una madre di nome Marie, che attraversarono il secolo affrontando le più rocambolesche avventure.

 

Polonio nacque per primo e quando divenne famoso molti cercarono di attribuirsene la paternità. Ma Marie era donna sulla cui onestà non si poteva scherzare. Lo stesso avvenne per Radio, che vide la luce subito dopo e rubò ben presto la scena al fratello. Le differenze di carattere dei due erano sottili ma decisive: Polonio, nonostante tutto, era un ragazzo moderato e tradizionale rispetto all’irruenza del fratello. Mentre a Radio nessuno poteva dire nulla. Ribelle e incontrollabile, a volte sembrava sfuggire di mano perfino ai poveri genitori, che cercavano di trattarlo con i guanti. 

 

Non appena entrarono a scuola, Radio e Polonio scombussolarono l’intera classe, che era tenuta insieme a fatica da un maestro di nome Dmitrij Ivanovič Mendeleev. Chiamato dalla Siberia per metterli in riga, Mendeleev aveva creato una ingegnosa classificazione dei suoi 63 studenti a seconda di quello che lui chiamava il loro “peso atomico”. Vale a dire la loro capacità di fare scoppiare una bomba di risate e confusione mentre lui spiegava per esempio i principi di chimica o il funzionamento dello spettroscopio. 

I ragazzi iniziavano piano piano a scandire il nome Lju-ba, Lju-ba, che era la bellissima figlia minore di Mendeleev e ogni interesse per il sistema periodico spiegato da quel vecchio con i capelli lunghi e la barbona bianca decadeva all’istante. Finché qualcuno dall’ultima fila non si metteva a proclamare i versi che l’esimio poeta Aleksandr Block, nonché marito della stessa Ljuba, aveva dedicato all’incantevole moglie. Facendo montare su tutte le furie il vecchio che del suo celebre genero e della letteratura in generale se ne infischiava del tutto.

 

Eppure di quei turbolenti anni scolastici Radio e Polonio si ricordarono in seguito soltanto i versi per Ljuba. E la parola “radio-attività” che Mendeleev usava per prendere in giro Radio, minacciando di sbatterlo fuori dalla classe in quanto capo dei peggiori sbuccioni. Il maestro non aveva torto: la sua, infatti, era quella che oggi si definirebbe una spaventosa sindrome da deficit di attenzione e iperattività, che lo accompagnò per tutta la vita. 

Nel 1927 la madre dei due ragazzi comparve in una fotografia scattata al quinto congresso di Solvay, sola in mezzo a 28 scienziati uomini. Quando molti anni dopo la foto fu mostrata ai figli, nel corso di un’intervista dedicata alla storia della loro bizzarra famiglia, Polonio scoppiò a ridere: “Sola?”. E Radio che era con lui continuò: “Voi siete soli. Lei è in mezzo ai fuochi d’artificio dell’eternità”.

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7 novembre 1867 - 7 novembre 2017
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7 novembre. Rosso

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Den’ sed’mogo nojabrja / krasnyj den’ kalendarja. / Pogljadi v svoe okno, / vse na ulice krasno!

 

Prima di tradurre e commentare la poesiola che fa da incipit a questa pagine è necessaria una breve precisazione per chi non abbia familiarità con la lingua russa. L’aggettivo krasnyj, che oggi significa rosso, aveva come accezione primigenia il concetto di bello. I versi del poeta Samuil Maršak, presenti su ogni libro di lettura per le scuole elementari e noti a ogni bambino o ex bambino sovietico, giocano su questo doppio valore semantico.

La giornata del 7 novembre,

è una data “rossa” del calendario.

Guarda dalla tua finestra,

fuori tutto è “rosso”.

 

Giornata di un rosso politico comunista, certo, ma anche bella e festosa, come la lingua russa permette di intuire a chi la conosca. Perfetto per celebrare una delle feste più importanti, sentite e gradite per i cittadini sovietici, almeno fino a un certo punto della loro storia. 

 

Il 7 novembre è un giorno rosso del calendario.


In assenza di posta elettronica e internet, con le comunicazioni telefoniche non scontatamente garantite, il ricorso a biglietti e cartoline era grande (come nell’arcaica Italia del resto) e la produzione di cartoncini augurali proliferava. I temi iconografici non vedevano grandi investimenti creativi. Dominavano i simboli classici, stella rossa, falce e martello, nastri rossi, più rari nastri di San Giorgio, spighe di grano, garofani rossi, stemmi sovietici. Talora erano inseriti dettagli specifici legati alle peculiarità del momento, conquista dello spazio, edificazioni straordinarie, skyline di città, rimandi al folclore. Più rare le figure umane (di solito allegoriche o infantili e sovrastate dall’icona leniniana). Come immancabile chiosa gli slogan più tradizionali: “Gloria all’Ottobre!”, “Buona festa del grande Ottobre!”, “

 

Gloria al grande Ottobre!



Buona festa del grande Ottobre!


Rivoluzione d’Ottobre. Buona festa d’Ottobre!


Buona festa d’Ottobre!

 

Buona festa del grande Ottobre!


La giornata solitamente iniziava con le preparazioni per la parata. Chi aveva conquistato il diritto all’eccellenza avrebbe sfilato sulla piazza Krasnaja (a sua volta Bella e Rossa) nelle file della propria fabbrica, istituzione o associazione sportiva. Chi si era reso meritevole in grado minore aveva garantita comunque una postazione d’onore nelle tribune riservate. Il grosso della popolazione si accontentava, e non era poco, di assieparsi con i vestiti della festa sui bordi delle strade che la manifestazione ufficiale avrebbe percorso prima di accedere alla piazza e di gustare la cerimonia a una certa distanza dal Mausoleo di Lenin e dal politbjuro di turno schierato sulle sue gradinate, ma aderendo in ogni caso festosamente all’entusiasmo collettivo. Sfilavano le rappresentanze delle repubbliche sovietiche, i migliori lavoratori del paese, i recordmen di ogni genere e grado, i più illustri rappresentanti della patria sovietica, gli atleti, gli sportivi, i pionieri. A seguire arrivano le divisioni militari, i carri armati, la tecnica bellica, la cavalleria, mentre nel cielo sfrecciavano ardite formazioni aeronautiche. Il tutto in un tripudio di bandiere e festoni rossi, da giorni strategicamente sistemati con grande gusto estetico per tutta la città. E, come testimoniamo ancora oggi blog nostalgici, “negli animi esplodeva l’orgoglio: siamo i più forti!”. 

 

Manifestazione del 7 novembre 1975.


Al momento politico collettivo seguiva la celebrazione casalinga personale. Si invitavano gli amici e i parenti. Si preparava una tavola di festa. Un popolare libro di consigli per l’economia domestica recitava: “Per le feste di novembre suggeriamo di invitare i vostri amici al pranzo del 7, dopo la fine della dimostrazione. Reduci da una passeggiata per la città, arriveranno da voi del migliore e vivace umore, colmi di impressioni e, soprattutto, con un considerevole appetito, dettaglio che non potrà che essere gradito a ogni massaia ospitale”. I negozi avevano da giorni incrementato gli approvvigionamenti e le famigerate code non lasciavano nessuno a bocca asciutta.

 

Ogni padrona di casa avrebbe sfoggiato la propria versione dell’irrinunciabile salat Oliv’e (una variante più ricca di quella che noi chiamiamo insalata russa). Non sarebbero mancati gli šproty (spratti di Riga), pesciolini affumicati in scatola, altra delicatesse inevitabile, e l’insalata di fegato di merluzzo, vera delizia per palati raffinati. La vodka avrebbe innaffiato generosamente piatti e stomaci facendo salire il benessere e stimolando la predisposizione a emozionarsi e commuoversi. Qualcuno avrebbe sfoderato una chitarra o una fisarmonica e ci si sarebbe messi a cantare. Orgoglio patriottico e compiacimento personale si sarebbero combinati alla grande, tra canti di guerra, melodie popolari e, più tardi nel tempo, poesie-canzoni dei cantautori. 

Anni, quelli dei cantautori (Sessanta-Settanta), in cui l’incanto e il coinvolgimento sovietico cominciavano a declinare, soprattutto tra i giovani. Un disincantato Eduard Limonov, nel suo primo romanzo autobiografico Podrostok Savenko del 1983 (Eddy Baby ti amo, nella traduzione italiana), tratteggiando la propria adolescenza di teppistello a Char’kov già evocava con irriverenza i riti novembrini dei borghesucci sovietici:

 

“Strisciavano fuori dalle loro case con i vestiti buoni e in corpo già un paio di bicchierini di vodka e assaggi dal pranzo della festa. Eddy Baby sapeva che in tavola non sarebbero mancati l’insalata “Oliv’e”, il salame e gli irrinunciabili šproty. Il capo famiglia avrebbe indossato, non senza fatica, il cappotto pesante e una giacca blu scuro, la cravatta e le scarpe nuove che gli avrebbero procurato dolori indicibili a ogni passo. Bambini tirati a lucido, vestiti da adulti in abiti troppo grandi e brutti, avrebbero ingurgitato l’immancabile gelato, trascinandosi dietro alcuni palloncini legati a un filo. Di tanto in tanto i palloncini sarebbero scoppiati, con un terribile colpo di pistola, sempre nei momenti più inattesi. L’abito e il cappotto della consorte con ogni probabilità avrebbe puzzato di naftalina: loro sapevano conservare come si deve i propri beni”.

 

Con la perestrojka di Gorbačëv tutto questo sarebbe stato spazzato via, suscitando in alcuni irrefrenabili rigurgiti nostalgici, in altri vendicativa soddisfazione, in altri ancora il gusto sarcastico di guardare indietro non con rimpianto ma con ironia e distacco.

Atteggiamenti che ritornano oggi nelle varie immagini legate alla storica festa nell’anno del suo centesimo anniversario. È opportuno ricordare che dal 2005, per decreto di Putin, il 7 novembre non è più festa nazionale né giorno di vacanza. In sua vece, con un procedimento che ricorda quello adottato dai sovietici dopo l’ottobre per cancellare le festività religiose sostituendole con nuove celebrazioni politicamente al passo coi tempi, è stata ripresa la festa dell’Unità nazionale, eliminata dal calendario bolscevico nel 1917. Celebrata il 4 novembre, a pochissima distanza dunque dalla vecchia data “rossa” del calendario, ne fa parzialmente le veci, ambiguamente sovrapponendosi a lei nell’immaginario e nella coscienza collettiva. Il problema dell’unità, della compattezza nazionale, della stabilità del Paese è fondamentale nel discorso politico putiniano contemporaneo e certe scelte non stupiscono. Il riferimento storico è alla cacciata dei polacchi da Mosca nel 1612 per opera di Minin e Požarskij, gli eroi a cui è dedicato un famoso monumento sulla piazza Rossa che oggi compare nelle immagini celebrative. 

 

4 novembre. Giornata dell’unità nazionale. (Monumento a Minin e Požarskij).


Già da alcuni anni la storica parata del 7 novembre celebra non già l’anniversario del 1917 ma quello del 1941, anno in cui, grazie a Stalin, nonostante gli occupanti tedeschi già fossero sul territorio sovietico, la dimostrazione ebbe luogo sulla piazza rossa e costituì fonte di stimolo patriottico, ispirazione e sostegno morale per i combattenti al fronte e per il popolo nelle retrovie. Il Presidente Putin aveva comunicato anticipatamente che non avrebbe preso parte alla marcia russa del 4 novembre di quest’anno. Significativamente, ha inaugurato nei giorni scorsi un monumento alle vittime di tutte le repressioni sovietiche, il Muro del dolore. Le reazioni polemiche, ovviamente, non sono mancate. E le vittime delle sue repressioni? Politkovskaja, Nemcov? E le violazioni odierne dei diritti umani? Con grande sottigliezza diplomatica il Presidente sta aggirando la delicata ricorrenza, per non scontentare né i nostalgici dell’URSS né i più accesi revisionisti. L’evocazione del “colpo di stato” del 1917 potrebbe essere fatale alla lunga e lenta costruzione di immagine carismatica che lo ha portato a godere tra la sua gente di un seguito inaudito. Su tutto questo aleggia il fantasma di Stalin, ora acclamato, ora demonizzato, ma, negli ultimi tempi, con sempre maggiore insistenza, rivalutato e riconsegnato alla storia come responsabile morale, se non militare, della vittoria nella Grande Guerra patriottica.

Segnalo, avvicinandomi alla conclusione, alcuni riscontri iconografici  decostruttivi, tra i moltissimi a disposizione, del mito relativo al 7 novembre, riprese ironiche e talora beffarde per promuovere iniziative di assoluta contemporaneità, globalizzate e disincantate.

 

Ristorante Sharikoff. 7 novembre, ore 18.00. Per volontà dei lavoratori! Concorso teatralizzato di bellezza. Miss Rivoluzione. La vincitrice sarà eletta dai partecipanti. Tutto il potere ai Soviet!


6 e 7 novembre. Retro-party: rievochiamo le indimenticabili canzoni del secolo scorso. Metro-party: dedicato all’inaugurazione della nostra stazione della metropolitana. Giornate “rosse” del calendario. Di giorno, studiare; di notte, andare per discoteche. Terra a i contadini! Fabbriche agli operai! Discoteche ai clubber!


Concludo con due esemplari di immagini afferenti alla categoria nostalgica. La prima, un volantino del KPRF (Partito Comunista della Federazione Russa) che invita a un meeting-marcia che prenderà eloquentemente le mosse dalla Stazione di Finlandia, dove Lenin era arrivato a Pietrogrado a bordo del famoso treno blindato, per procedere fino al mitico incrociatore Aurora. “Torneremo!” è l’impegno-minaccia-promessa che chiude il manifesto in basso.

 

Ho lasciato per ultima la fotografia di una donna non giovane, emblema di chi rimpiange, probabilmente, non tanto il regime sovietico quanto un Paese in cui aveva investito e creduto. Simbolo di intere generazioni, spaesate e deluse da cambiamenti radicali e scombussolanti, meritevoli di rispetto, prima di tutto, e attenzione per quanto hanno compiuto, subito, realizzato. Il cartello che la signora tiene in mano dice: “Signori Deputati, non azzardatevi a toccare il 7 novembre!!!” Non sono stati in molti a darle retta.

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“Signori Deputati, non azzardatevi a toccare il 7 novembre!!!”
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Gli dei della Grecia sono tra noi

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Gli dei della Grecia sono ancora tra noi. Leggende, miti e tragedie ispirate alle epopee omeriche sono intrecciate alle nostre vite quotidiane, ritrovate nei nomi di prodotti e di alberghi, nelle facili interpretazioni da psicologia spicciola e tra le sfere celesti. Il pantheon greco ha forgiato la nostra mentalità. L’Iliade e l’Odissea sono alle origini della nostra letteratura, reinterpretate e riscritte a cominciare da Eschilo per arrivare a James Joyce. E anche se gli inquilini del Monte Olimpo hanno vissuto altalenanti fortune attraverso i secoli, messi in castigo soprattutto dall’Illuminismo, in questa stagione letteraria fanno di nuovo capolino, impastando di nuovo i loro archetipi e le loro trame nel nostro presente.

 

Sarà solo una singolare coincidenza, ma in questi mesi sono stati pubblicati tre romanzi che tornano a rileggere i miti della tragedia greca: La donna dai capelli rossi di Orhan Pamuk, ossessionato dalle tematiche del parricidio dell’Edipo Re; House of Names dell’irlandese Colm Toíbín, che riscrive nel linguaggio contemporaneo la trilogia dell’Orestea; e Home Fire di Kamila Shamsie, che propone una rilettura dell’Antigone ambientata tra la Londra dei pachistani-britannici, la Siria dell’Isis e uno scioccante gran finale a Karachi.

Il romanzo di Pamuk, che quest’estate ha vinto il premio Lampedusa 2017, intreccia una storia ambientata nella periferia di Istanbul tra gli anni ’80 e i giorni nostri a un’analisi sulle forme di potere occidentali e orientali. Iniziando a scavare, letteralmente, in un pozzo alla ricerca d’acqua, il romanzo tesse un dialogo formidabile tra l’idea di parricidio come simbolo della ribellione occidentale contro il potere, contrapposto al concetto di figlicidio, eviscerato tramite la leggenda del guerriero Rostam che assassina inconsapevolmente il figlio in un campo di battaglia, e che, secondo Pamuk, rappresenta la figura autoritaria asiatica. 

 

 

Un mito dell’Occidente che s’intreccia, a Istanbul, con un racconto della mitologia persiana e islamica. Parricidio e figlicidio. Le imperfette democrazie nostrane contro l’arcaico dispotismo dell’Est. Il tutto sull’impianto di un intreccio cucito con fascino e tensione. 

L’irlandese Toíbín ha invece ammesso d’essere stato influenzato dall’eco degli eventi che accadevano durante la stesura del suo romanzo che ripercorre l’Orestea. “Scrivevo, dopotutto, al tempo dello Stato Islamico, quando le immagini di violenza e odio sembravano quasi naturali o almeno prevalenti, quando la bramosia per la crudeltà faceva parte dei notiziari quotidiani così come lo fu durante i conflitti dell’Irlanda del Nord.” Per trovare la voce del matricida Oreste ha studiato la personalità dell’attentatore della maratona di Boston. Per Clitennestra si è ispirato alla moglie del presidente siriano Assad. 

Ma è nell’autrice trentenne di Home Fire, Kamila Shamsie, che ritroviamo la più felice tessitura tra la tragedia dell’antica Grecia e il presente di queste estati di terrore. Shamsie trasforma la protagonista in sorella minore, come già fece il drammaturgo francese Jeanne Pierre Anouilh. È Aneeka infatti a disperarsi per riportare a Londra il fratello Parvaiz, radicalizzato dall’ISIS e reclutato a Raqqa. 

La storia si dipana tra il conflitto della famiglia Lone, pachistani-britannici di successo e integrati a tal punto che il patriarca diventa ministro dell’interno, e i Pasha, famiglia il cui padre jihadista venne ucciso nel tragitto verso Guantanamo e che cerca di barcamenarsi nell’ambiguità dell’integrazione contemporanea. Finale esplosivo da non spoilerare.

 

Cosa spiega questa stagionale tendenza letteraria che rispolvera la tragedia greca e risveglia gli dei? Forse la semplicità archetipica della tragedia umana è sopravvissuta ai precoci annunci della morte del romanzo, alla letteratura post-moderna, alla moda della saggistica e della reality fiction proprio perché interpreta al meglio un’universale umanità che sembra esser cambiata poco dai tempi di Zeus e Atena. 

È proprio la necessità di trovare un senso nei massacri da incubo nelle metropolitane, nei teatri, nelle promenade europee, o tra la polvere dei bombardamenti siriani, che la letteratura scava di nuovo tra le sue origini per cercare una spiegazione che può essere la ciclicità della storia, o il fatto che l’umanità è irrimediabilmente ferale, feroce, ambiziosa, vendicativa, ma capace di gesti nobili, di amore e sacrificio.

Gli archetipi mitologici e le tragedie greche saranno pure un’eccessiva semplificazione delle sfumature del presente, ma aiutano a dissipare la confusione e il rumore dell’adesso, delineando un’immagine più nitida di come vanno le cose, creando una storia accettabile, con un inizio e una fine, con un significato.

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Narrativa contempoanea e mito
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Guido Guidi. Prendere contatto con le cose

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Agosto – settembre 2017

 

Laura Gasparini: Di recente Gianni Celati ha affermato che alla base delle ricerche Viaggio in Italia del 1984 e di Esplorazioni sulla via Emilia del 1986 c'era il concetto di “qualsiasità” di Zavattini. Tu, insieme a Luigi Ghirri, Olivo Barbieri e altri fotografi della tua generazione avete declinato questo aspetto del pensiero zavattiniano in modo del tutto originale. Potresti parlarmene dal tuo punto di vista?

Guido Guidi: 6 agosto 2017, ieri a cena, Vittore Fossati suggeriva, ironicamente, di sostituire il lessema “qualsiasità” col più attuale “qualunquemente”. Da parte mia propongo la sostituzione col pasoliniano “cose da nulla”. Dionigi l’Areopagita sosteneva che l’immagine di un lombrico, piuttosto che quella di un re, era più appropriata nel dare figura al Divino.

 

Per Zavattini la “qualsiasità”è la possibilità di trovare cose interessanti da dire in qualsiasi luogo ci si trovi.Quindi, il tema del viaggio, che ha caratterizzato la fotografia degli anni Ottanta, verrebbe a meno.

Tutto sommato non ho molte cose da dire, ma piuttosto molte cose da guardare, come suggerisce il Talmud: “Ovunque tu guardi c’è qualcosa da vedere”.

Negli anni Ottanta, svolgendo il lavoro sulla via Emilia, dopo aver percorso pochi kilometri dovevo tornare a casa perché avevo consumato tutte le pellicole. Percorrere anche cento metri è un viaggio, bisogna però togliersi di dosso i panni del turista per indossare quelli del pellegrino.

 

Spesso, nel descrivere il tuo lavoro, hai parlato di “accumulo democratico di tracce”. Potresti approfondire questo aspetto del tuo pensiero?

Non ricordo, forse mi riferivo a The democratic forest di William Eggleston. Mi riferivo al tentativo di eliminare le gerarchie fra gli elementi che compaiono nella inquadratura. Come dice John Szarkowski, “la fotografia nasce dai bordi” e non dal centro, come accade nella tradizione pittorica italiana. Forse è anche la natura del medium fotografico che mi spinge a occuparmi di cose ai margini, del diffuso, delle periferie urbane...temi peraltro colpevolmente trascurati dalla pittura dal novecento in poi.

 

Sei un autore dove il tempo e la precisione geometrica dell'inquadratura hanno un profondo valore espressivo, elementi che afferiscono ad una consolidata tradizione del vedere, del descrivere e non del narrare. È così?

Mi piace la parola “descrivere”. Da bambino mi piaceva lanciare sassi nel vuoto per “ascoltare” la “parabola” vertiginosa che descrivevano.

 

Il viaggio, ma anche il paesaggio, gli oggetti sono quindi un pretesto per riflettere sul linguaggio fotografico?

Strand diceva che un fotografo non può prescindere dalle cose che sono davanti alla macchina fotografica. Eseguire una fotografia è un atto devoto, una riflessione sull’atto stesso.

 

 

Penso che sia anche un atteggiamento di denuncia o quanto meno di presa di posizione: il rifiuto della eccezionalità, della bellezza, l'abbandono di un linguaggio formale e compositivo a favore di uno sguardo che privilegia l'indagine, l'osservazione della realtà nelle sue diverse stratificazioni sono una testimonianza del tuo impegno.

Credo di sì.

 

In una tua recente intervista in merito all'opera di Walker Evans hai affermato che apprezzi, del lavoro di Evans, la sua capacità di non mostrarsi. Trovo che anche in alcune tue ricerche ci sia questo aspetto. È così?

Quando fotografo possibilmente posiziono la mia camera all’ombra.

 

Se guardo il tuo lavoro, anche ricerche svolte in passato, trovo una costante e un'analogia spontanea che ricorda un certo sguardo di Paul Strand. In particolare le immagini di quella architettura della pianura padana che lui definiva “blanda” e di un paesaggio “lontano dal pittoresco”. Eppure da questa lettura di Strand della pianura padana è uscito un capolavoro che è Un paese,che ha influito molto sulla fotografia italiana e non solo.

Anche Cartier Bresson influenzò molto la fotografia italiana, ma l’influenza di Strand si è mostrata nel tempo molto più fondativa. Ho visto per la prima volta il libro Un paese nel 1966. Italo Zannier lo portò a scuola; ricordo il suo entusiasmo nel mostrarlo a noi studenti.

Poco dopo, con un colpo di fortuna, ne trovai una copia a metà prezzo, 2.000 lire. Da allora occupa un posto privilegiato nella mia libreria.

 

A proposito di Un paese e del rapporto tra immagine e scrittura, anche tu hai lavorato con uno scrittore, Vitaliano Trevisan. Nel realizzare Vol. I riprendi alcuni tuoi lavori degli anni Settanta “sugli spazi domestici come luoghi di luce e di ombre, sulla casa come camera oscura dell’esistenza. Un viaggio intorno alla tua stanza”. Potresti parlamene?

Evans, e in seguito anche Ghirri, hanno insistito sulla vicinanza della loro fotografia alla letteratura piuttosto che alle arti figurative.

Per me la fotografia appartiene alla sfera del non verbale.

Purtroppo dalle scuole elementari in avanti, il verbale prevarica sul visivo, il “logos” nella scala dei valori è posto più in alto della “icona”; non si insegna a guardare, si da per scontato che lo si impari attraverso l’esperienza funzionale, magari quella del guardare attentamente a destra e a sinistra quando attraversiamo la strada.

Ho guardato molto la pittura medioevale e del primo Rinascimento che, come tutti sanno, è il periodo in cui nasce la prospettiva. Daniel Arasse nota che la nascita della prospettiva coincide con un gran proliferare di Annunciazioni dipinte. Il paradosso, insiste Arasse, è come dare figura al mistero attraverso una rappresentazione razionale come quella prospettica. Allora, se fotografo una stanza vuota potrei immaginare che quella stanza o quella casa fosse un tempo della Madonna. Infatti, ancora oggi si dice “casa della Madonna” per dire una casa fuori dal comune. Forse la fotografia può metterci in presenza di una assenza, come la prospettiva poteva dar conto del mistero dell’Annunciazione.

 

Pensando ancora a Un paese, ma anche al tuo Vol. I, benché i presupposti progettuali siano differenti, ti chiedo perché mai un fotografo privilegi a volte di più le pagine di un libro che non l'esposizione delle proprie opere in una galleria?

È la sequenza che le pagine di un libro impongono al lettore? È il formato? È il fascino della carta?Probabilmente perché il libro è meno effimero e può raggiungere un pubblico più vasto. Nello scaffale può essere posto a fianco del saggio o del romanzo…

 

 

Alcuni esperti sostengono che il photobook funziona se il rapporto tra testo e immagini è in armonia o comunque risponde in qualche modo ad una precisa regia. È questo il segreto di un buon libro?

Detto che non mi sento per niente regista, ma piuttosto esecutore, non dobbiamo dimenticare però che anche una singola fotografia è un luogo attraverso cui pensare; un luogo che magari richiede e dovrebbe ottenere “la leggera lusinga della nostra completa attenzione”, come diceva Lincoln Kirstein delle fotografie di Evans. Un testo visivo non dovrebbe aver bisogno di essere aiutato o introdotto da un testo verbale.

“Bisogna tornare all’evidenza”, scrive Daniel Arasse, “in ogni tempo, il pittore e lo spettatore hanno usufruito delle possibilità dell’immagine di non essere testo, di non essere riducibile ad esso…”.

 

Zavattini affermò che Un paese era un film fattosi libro, ma anche per Gerry Badger, Martin Parr e John Gossage l''autore-fotografo è considerato come uno scrittore di un film, vale a dire il regista e lo sceneggiatore che con quella forma e quel linguaggio creano la propria opera. È curioso, vero, che da punti di vista differenti e da presupposti differenti, si sia arrivati alla stessa conclusione. Tu come te lo spieghi?

Sì, anche Strand aveva parlato di “film su carta” e anche io quando lavoro alla sequenza di un libro non posso fare altrimenti. Ma tutto sommato preferisco, quando è possibile, rispettare la sequenza cronologica eseguita sul campo e non lavorare sul montaggio a tavolino. Penso alla fotografia come interrogazione e non come comunicazione.

 

Ma torniamo al tuo lavoro, al tema del paesaggio, della strada. In una tua recente mostra dal titolo Per strada. Fotografie sulla statale 9 allestita per Fotografia Europea 2016 a Reggio Emilia dove hai esposto fotografie della via Emilia dal 1983 al 2000 hai affermato che la strada appunto, ma anche il paesaggio diventano dispositivi della visione. In pratica hai rovesciato l'idea del soggetto: il soggetto sei tu che fotografi, il tuo sguardo e non più quello che fotografi.

Non credo di aver detto questo, al massimo posso aver detto che in quanto “soggetto fotografo” mi approprio del soggetto fotografato.

Il soggetto-fotografato e il soggetto-autore dovrebbero darsi reciprocamente figura.

 

Per questa mostra hai avuto l'occasione di rivisitare il tuo archivio. Hai affermato che hai conservato tutto della tua attività, ma hai archiviato poco, perché non avevi tempo e perché pensavi che la memoria sarebbe stata sufficiente per orientarti. Oggi ti rendi conto che non è così. È com'è oggi il tuo archivio? È parte attiva del tuo lavoro, della tua progettazione o una volta che hai concluso un progetto non lo consulti più?

In realtà non ho conservato tutto. Per esempio ho perso i miei primi negativi degli anni Cinquanta e questo mi secca molto. Poi quando cerco qualcosa nel mio archivio a volte sono colto da scoramento. Purtroppo, preso dal fare, non ho avuto tempo da dedicare all’archivio e le istituzioni pubbliche, che dovrebbero intervenire per evitare che tutto si disperda, hanno altre priorità. 

 

Il tuo studio ospita anche una ricca biblioteca di libri fotografici. Puoi raccontarmi come si è formata e qual’è la caratteristica peculiare?

Ho cominciato negli anni Sessanta, e ancora di più negli anni Settanta, a farmi arrivare per posta libri di fotografia dagli Stati Uniti. Mi ero associato al museo George Eastman House di Rochester che spediva la rivista “Image” e un elenco di libri disponibili. Tra quelli sceglievo. Ero curioso, volevo vedere, conoscere. Avevo poche possibilità di viaggiare e non conoscevo la lingua inglese, ma guardando e riguardando semplicemente le “figure” i libri sono stati il mio nutrimento.

Per ciò che riguarda la caratteristica, come mi chiedi, …a parte i libri messi nello scaffale privilegiato, posso dirti del quasi totale disordine e mescolamento tra antico e contemporaneo, tra pittura, fotografia, letteratura, architettura... Devo dirti però che, con rammarico, da un po’ di tempo a questa parte ho quasi rinunciato a comprare libri perché mi sta crollando il pavimento.

 

Hai la passione del collezionismo? Collezioni fotografie di altri autori? In caso di risposta positiva, qual’è la motivazione che ti spinge a collezionare?

Cerco di conservare tutto, accatasto, ma non credo di avere lo spirito del collezionista. Evans dice che il fotografo è una sorta di collezionista. Non saprei, può darsi. Per me alla base c’è soprattutto il desiderio di prendere contatto col mondo, con le cose.

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