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Possiamo fare a meno delle monografie?

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In questo periodo, si è scritto molto a proposito dell’anniversario della rivoluzione russa avvenuta nel 1917. Ma questo importante evento sociopolitico non avrebbe probabilmente avuto luogo se Karl Marx non avesse pubblicato esattamente cinquant’anni prima un saggio teorico fondamentale come il primo volume del Capitale. I saggi monografici rilevanti, infatti, possono modificare e addirittura sconvolgere il processo evolutivo delle società. Basti pensare, ad esempio, alla potente forza di cambiamento culturale e sociale manifestata da un saggio estremamente importante come L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud. Oppure a ciò che hanno causato altri innovativi saggi pubblicati tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del Novecento: Miti d’oggi di Roland Barthes, Apocalittici e integrati di Umberto Eco, Gli strumenti del comunicare di Marshall McLuhan. 

 

Un saggio monografico può dunque dare vita a una potente forza di cambiamento della società. L’evoluzione del pensiero scientifico ma anche della cultura sociale non ha potuto prescindere nella storia della modernità da questo strumento di elaborazione teorica. Eppure oggi stiamo progressivamente rinunciando a tale strumento. È in atto cioè una vera e propria rivoluzione. Si tratta di una rivoluzione silenziosa, eppure è comunque una rivoluzione. D’altronde, è noto come spesso le rivoluzioni silenziose siano quelle più radicali ed efficaci, perché nascoste e invisibili. Che cosa sta succedendo? Le università italiane stanno abbandonando quel modello di produzione culturale basato sulla monografia che per molto tempo è stato per esse centrale. Le regole di valutazione del lavoro di ricerca svolto dai docenti stabilite negli ultimi anni dal Ministero dell’Università e dall’ANVUR stanno progressivamente indebolendo il valore attribuito alle monografie. Già oggi agli articoli pubblicati su riviste scientifiche classificate nella cosiddetta “fascia A” viene attribuito un maggior valore delle monografie. Ma è evidente che tali articoli richiedono agli studiosi un lavoro decisamente inferiore a quello richiesto per la realizzazione di una monografia. Un articolo infatti ha mediamente una lunghezza che corrisponde a circa un decimo delle pagine di un saggio monografico. Non consente pertanto di sviluppare un’analisi e un’argomentazione così approfondite come quelle che caratterizzano tale saggio. 

 

 

Ciò non comporta che un saggio rivoluzionario debba necessariamente essere voluminoso. Un testo come La moda di Georg Simmel è lungo una cinquantina di pagine, eppure, dopo più di un secolo dalla sua pubblicazione, costituisce ancora oggi il punto di riferimento fondamentale della riflessione teorica sulla moda. E un altro lavoro di un centinaio di pagine – Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa – ha rivoluzionato a sua volta nel Novecento la concezione dominante nella teoria economica. Quello che conta è che l’autore di un saggio sia libero di strutturare il suo lavoro con la massima libertà, per poter esprimere al meglio il suo pensiero. Invece, un articolo di una rivista scientifica ha per il suo autore un margine di libertà decisamente limitato, perché il suo contenuto dev’essere fatto rientrare all’interno di un format internazionale che è stato da tempo rigidamente normato. Si perde pertanto anche quella capacità di dare spazio a un pensiero innovativo che un saggio scientifico può avere. Come ha scritto cioè il filosofo Roberto Esposito sulla rivista L’Espresso, «Ve li immaginate, per restare nel campo della filosofia, Habermas e Derrida che cercano le riviste di fascia A per scrivere dodici articoletti?». Ve li immaginate cioè due giganti del pensiero come questi che rinunciano a esprimere in una monografia la forza dirompente della loro innovativa capacità di riflessione per fare rientrare quest’ultima all’interno del tipico format che caratterizza una rivista scientifica internazionale? 

 

La questione della progressiva scomparsa del modello della monografia dal nostro scenario culturale sembra interessare poco oggi, eppure è della massima importanza. È vero che viviamo all’interno dell’era della comunicazione iperveloce del web, ma dobbiamo comunque chiederci se come società possiamo permetterci di rinunciare a quell’approfondimento e a quella riflessione che il modello del saggio ci consente di sviluppare. Se possiamo cioè permetterci di produrre un significativo indebolimento della nostra capacità di produrre cultura. 

E ciò dovrebbe preoccupare seriamente anche gli editori specializzati in volumi di tipo saggistico, perché corrono il rischio di non avere più autori. I giovani studiosi, infatti, oggi preferiscono giustamente adattare le loro idee al format di un articolo, anziché sobbarcarsi la fatica di produrre una monografia. Appare dunque estremamente urgente che esprimano una posizione su questa questione sia gli editori che tutti coloro i quali hanno a cuore il destino dello sviluppo del pensiero umano. 

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Saluti da Brescello

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Sulla scena le statue in bronzo di Peppone e Don Camillo. Per intenderci, quelle che si fronteggiano a grandezza naturale in Piazza Matteotti a Brescello, provincia di Reggio Emilia. Sono lì dal 2001, opera dello scultore Andrea Zangani: Don Camillo sorridente, la chiesa di Santa Maria Nascente alle spalle, tonaca sacerdotale e cappello da parroco in testa, la mano destra alzata in segno di saluto, nella sinistra un libro, probabilmente il suo breviario, Peppone dal lato opposto della piazza, il municipio alle spalle, fazzoletto al collo, la mano destra, che tiene il cappello, alzata in segno di saluto. In Piazza si fronteggiano e si salutano, qui invece sono voltate entrambe verso gli spettatori, e pare che stiano salutando proprio loro. O è un’illusione?

 

Una luce lunare. Notturno con nuvole.

 

Entrambi su un piedistallo. Il sorriso di Don Camillo comincia piano a sciogliersi, a tramutarsi in un ghigno sofferente, poi ritorna sorridente, come per forza di volontà, ma si vede che non ce la fa, allora guarda verso Peppone che invece il sorriso ce l’ha stampato in faccia, anzi no, meglio, diciamo scolpito, proprio come deve essere il sorriso di una statua. Don Camillo sembra vinto da una tristezza di cui lui stesso non si capacita. 

 

DON CAMILLO Che vergogna.

 

PEPPONE Eh sì… una gran vergogna.

 

Silenzio. Peppone sempre statuario e sorridente.

 

PEPPONE Io sono sempre stato più bello. E poi il colore del bronzo… è un colore che proprio non mi dona.

 

DON CAMILLO Ma chi stava parlando del bronzo!

PEPPONE Ah no? Pensavo vi riferiste a quello.

 

DON CAMILLO Sei il solito asino, Peppone. Pensa prima di parlare. Lo sai bene a cosa mi riferisco, e per quello a cui mi riferisco sei soprattutto tu che ti devi vergognare.

 

PEPPONE Perché soprattutto io, signor parroco?

 

DON CAMILLO Perché è un tuo… come lo possiamo chiamare… è un “tuo” illustre discendente quello che ci fa la figura più misera, in questa brutta storia.

 

Peppone tace, ma adesso il sorriso gli è scomparso dal volto, e lo si sente ribollire. Don Camillo beffardo.

 

PEPPONE Però… però anche il “suo” discendente, il parroco di Brescello, quello che dal pulpito sentenziava “la mafia non c’è a Brescello, qui ci sono solo bravi cattolici che vengono a messa tutte le domeniche”, anche quello non me lo vorrà definire un santo, vero signor parroco?

 

Stavolta è Don Camillo a scuotere la testa, a far cenno che ahimè sì, sì.

 

DON CAMILLO Ma cosa ne diresti allora se ripartissimo dal principio, e raccontassimo per bene come sono andati i fatti?

 

PEPPONE E’ un’ottima idea. Signor parroco, a lei la parola, Lei che ha studiato.

 

DON CAMILLO Non mi permetterei mai, signor sindaco, è Lei il primo cittadino.

 

PEPPONE Va bene, va bene. (Si rivolge agli spettatori). Oh dovete sapere che questa storia si svolge negli anni Novanta del secolo scorso, e si svolge nel più bel paese del mondo (il tono si fa leggermente sentimentale), quel paesello che sta tra il fiume e il monte, tra il Po e l’Appennino…

 

DON CAMILLO (interrompendolo bruscamente) Signor sindaco, non siamo qui a fare promozione turistica! Si attenga ai fatti, i fatti. “Facta”… in quel latino che fai male a non conoscere.

 

PEPPONE E non devo illustrare a lor signori dove si ambienta la storia? Questi “facta” si svolgeranno pure da qualche parte, mica tra le nuvole.

 

Don Camillo fa segno come a dire: va bene, asciuga e continua.

 

PEPPONE Questi fatti sono accaduti a Brescello, Bersèl nella nostra lingua, provincia di Reggio Emilia, d’inverno la nebbia e il gelo e d’estate un sole che ti martella, nel cuore della nostra pianura sorridente…

 

Altro sguardo fulminante del parroco che tenta di smorzare sul nascere il sentimentalismo del sindaco.

 

PEPPONE Sorridente… si fa per dire… è una… metafora… 

 

DON CAMILLO Mo lascia stare le metafore, che hai fatto appena la quinta elementare!

PEPPONE Accadde quindi in quei primi anni Novanta che Donato Ungaro vinse un concorso e divenne vigile urbano e da Milano si spostò a Brescello, pur essendo lui di Boretto, ma l’infanzia l’aveva passata spesso nel paese vicino, appunto la nostra Brescello, la Brixellum dei romani, un centro importante della Bassa fin dall’antichità.

 

DON CAMILLO Ma lui era contento di trasferirsi dalla grande metropoli a un villaggetto attaccato al Po? E’ questo che bisogna spiegare.

 

PEPPONE Ci stavo arrivando. Che poi non furono i Romani a fondarla, ma i Galli Cenomani che…

 

Don Camillo si spazientisce e continua lui, a raccontare agli spettatori.

 

DON CAMILLO Lui era ben contento di tornare al paesello, perché non sopportava più la violenza di Milano, quell’aria irrespirabile. Milano come tutte le grandi città non ti fa vivere, ti cresce dentro un’ansia che non ti sai spiegare, la gente corre e corre e corre e non ci si guarda più in faccia, ma fermati un momento, no? Chi è che ti corre dietro? Dove scappi? E poi i banditi, e le lotte politiche, e le sparatorie. E allora Donato Ungaro, padre foggiano e madre di Boretto, vigile urbano diplomato geometra, arrivato a trent’anni e sposato con due bambini, decide che quei suoi bambini li farà crescere nella pace e nella tranquillità della pianura, e accetta con gioia quel che gli ha preparato il destino.

 

PEPPONE Pace e tranquillità, ha detto bene signor parroco. Che tra quei pioppi argentati e quegli olmi…

 

DON CAMILLO Pace e tranquillità che, anticipo a lor signori, non troverà affatto. Adesso continua ma senza farmi il sentimentale e lascia i pioppi e gli olmi dove stanno.

 

PEPPONE Sì… allora dicevo.., una volta arrivato nel paese della sua infanzia, tutto sembra procedere come sognato. Poi una sera tardi, mentre è nel suo ufficio, sente delle grida, degli urli provenire dalla piazza lì accanto. Un baccano! Ma cosa sta succedendo? Non ti preoccupare, gli fa il collega, sono i calabresi che giocano a carte. I calabresi? E fanno tutto ‘sto chiasso i calabresi, a quest’ ora di notte? La cosa, al vigile urbano Donato Ungaro, parve parecchio strana.

 

DON CAMILLO E perché gli parve strana?

PEPPONE Beh, perché…

 

Don Camillo ha il sorrisetto sardonico stampato sul volto. Peppone si scioglie di scatto dalla sua posizione statuaria, innervosito dal sarcasmo del prete. Scende e si siede sul suo piedistallo.

 

PEPPONE Per via del sindaco di Brescello. Quello non sopportava i rumori in piazza. 

 

DON CAMILLO E perché?

 

PEPPONE Perché ci abitava, in piazza, ecco perché.

 

DON CAMILLO Ah già... la piazza era come il suo giardinetto sotto casa. 

 

PEPPONE Non autorizzava più le manifestazioni, vietava le giostre. Per quel che ne so, aveva addirittura vietato la festa di San Genesio, il santo patrono del paese, proprio perché non tollerava ogni genere di confusione. E a quel punto Ungaro, che è un curioso di natura, un vigile urbano sì ma con l’animo del giornalista, comincia a informarsi, a chiedere in giro, e viene a sapere che sì, i calabresi son brava gente, che sono emigrati in tanti nella Bassa per cercare lavoro, ma insieme alla brava gente nella Bassa c’è arrivato anche qualcun altro che proprio brava gente non è. 

 

Adesso è Don Camillo a scendere dal piedistallo, ad avanzare verso il proscenio, a rivolgersi direttamente agli spettatori.

 

DON CAMILLO La vicenda va avanti fin dagli anni Settanta. Sapete, la vicenda del soggiorno obbligato. Prendevano i boss mafiosi e li mandavano nelle regioni del nord. Uno come Don Tano Badalamenti, per dire, quello che ha fatto ammazzare Peppino Impastato, se ne stava a Sassuolo, era un signore gentile che tutti i giorni te lo trovavi al caffè, e tutti i giorni si faceva mandare il pesce fresco dalla Sicilia. Come è meglio chiamarla, vacanza-punizione o punizione-vacanza? La sostanza non cambia. Sta di fatto che quelli continuavano a fare i loro sporchi affari anche risiedendo al nord, e intanto si guardavano attorno, con sorpresa: ma che belle cittadine pulite! Ma come sono ricche e prosperose! Perché non potremmo radicare qui il nostro bisinisse?

 

PEPPONE Sì, e sono stati i suoi, signor arciprete, sono stati quelli della sua parte politica a fare questa bella pensata del soggiorno obbligato.

 

DON CAMILLO Io non ho mai fatto politica, signor sindaco.

 

Peppone scoppia a ridere.

 

PEPPONE Ah beh… ah Lei non… e avrebbe anche il coraggio di affermare una menzogna simile?

 

Don Camillo tira dritto. 

 

DON CAMILLO Qualche mese dopo il vigile urbano Donato Ungaro vede in piazza una macchinona in sosta vietata. E’ proprio di un calabrese, tal Diletto Alfonso, uno cui piace farsi notare, più o meno come il suo amico Domenico Camposano detto “Mimmo Settebellezze”, che qualche tempo prima in piazza ci era arrivato a cavallo, come un cow boy americano. E il vigile urbano Donato Ungaro cosa fa davanti a quel macchinone in sosta vietata? Fa il suo dovere. Nient’altro che il suo dovere. Lo multa, e quello inizia a gridare davanti a tutti che lui la multa non la paga. Ungaro gliela scrive sotto gli occhi e gliela mette in mano, e quello la strappa davanti agli occhi di tutti, per dimostrare a tutti che Diletto Alfonso non si fa multare come un cristiano qualunque. Non si fa mettere sotto i piedi da un vigile urbano. E quando Ungaro, testardo come un asino, va fino a casa sua per farsela pagare quella multa, l’altro, mansueto come un agnellino, la multa la paga, e si scusa perfino: sa, signor vigile, mica potevo fare quella figura davanti a tutti. E il signor sindaco? Come reagisce il sindaco in quei frangenti, stiamo parlando del tuo “discendente”, il signor Ermes Coffrini, che era sindaco del Partito Comunista Italiano dal 1985 e lo sarà per quasi un ventennio?

PEPPONE Lui apprezza. Fa complimenti. Bravo Ungaro, così si fa.

 

DON CAMILLO E bravo anche il signor Coffrini, il sindaco con la Jaguar.

 

PEPPONE Adesso, signor curato, non mi farà mica il moralista per questi dettagli…

 

DON CAMILLO Chiamalo dettaglio… e comunque ai tuoi tempi tu la Jaguar non ce l’avevi. Te ne saresti vergognato.

 

PEPPONE Sta di fatto che non è la Jaguar la questione…

 

DON CAMILLO Ah sì? E qual è la questione, dì ben su…

 

Silenzio. Imbarazzo. Don Camillo intanto è tornato al suo piedistallo e, non si sa da dove, tira fuori una bottiglia di lambrusco e due bicchieri.

 

 

DON CAMILLO Ti è andata via la voce, compagno? Vuoi un bicchiere di rosso per fartela ritornare?

 

Glielo versa. Peppone beve. 

 

PEPPONE La questione è che Ungaro… che lo abbiamo detto è un curioso di natura ed è pure diplomato geometra, insomma, di case se ne intende, nel guardarsi attorno curioso…

 

Peppone si alza tutto immedesimato, e stavolta è lui ad avanzare in proscenio.

 

PEPPONE … con quel suo volto simpatico da D’Artagnan, baffi e pizzetto, e gli alamari da carabiniere cuciti direttamente sul cuore, non sulla divisa, perché non l’abbiamo ancora detto, ma prima di fare il vigile urbano Ungaro ha fatto il militare come carabiniere a Napoli, ha prestato servizio nel battaglione di Secondigliano, e quella frase del cuore e degli alamari l’ha sentita dal generale Dalla Chiesa e non l’ha più scordata. Ungaro dicevo vede l’edilizia che prospera, case ricchissime che vengono su, copri interruttori in marmo di Carrara, ma cosa diavolo sta succedendo, cosa sta succedendo Cristo di un Dio…

 

Occhiata di Don Camillo. Ma il signor sindaco non la vede, volge le spalle al parroco e adesso è un fiume in piena, con ritmo serrato da invettiva, altro che statua!

 

PEPPONE … cosa sta succedendo a questa nostra terra tra il fiume e la montagna, dove d’inverno si gela nella nebbia e d’estate il sole ti prende a martellate, cosa sta succedendo che da Cutro stanno arrivando tanti di quei cutresi, Cutro in provincia di Crotone, saranno anche brava gente, ma Cristo qualcuno che non è bravo ci sta là in mezzo, per esempio quelli della cosca dei Grande Aracri, che prima in soggiorno obbligato ci era arrivato Antonio Dragone, e comandava lui, poi il suo luogotenente Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”, lo ha fatto fuori, gli ha sparato per la strada, è diventato lui il capo, e giù affari e il riciclaggio, e a quel punto il vigile urbano Donato Ungaro si guarda attorno e vede i copri interruttori in marmo di Carrara e le ville lussuose con piscina, ma quelli non erano semplici muratori si dice e si domanda, e un giorno scopre che han costruito otto appartamenti là dove per legge ce ne potevano stare solo quattro, eh no non si può, questo non si può, vado a dirlo subito al sindaco che mi ha già fatto i complimenti per come mi sono comportato con il calabrese in sosta vietata, e invece stavolta il sindaco non li fa i complimenti, stavolta si impunta, lascia perdere Ungaro, non rischiamo, come non rischiamo signor sindaco, ti dico che è una perdita di tempo, quelli ci fan ricorso, lascia perdere va bene così, e poi si viene a scoprire che è il sindaco che vuole lasciar perdere e intima al vigile urbano Donato Ungaro di non fare il proprio dovere, perché il signor sindaco è anche un signor avvocato, e nel suo studio legale di Reggio Emilia, città del tricolore, tra i suoi clienti c’ha anche la famiglia Grande Aracri e in particolare Francesco Grande Aracri, fratello del signor Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”, quello che anni prima zitto zitto aveva fatto ammazzare il suo boss di un tempo, Totò Dragone, a colpi di pistola e kalashnikov. 

 

Silenzio.

 

DON CAMILLO Ah. Eccola la questione.

 

Silenzio.

 

DON CAMILLO Sai cosa faceva San Tommaso a Parigi all’inizio di ogni lezione? Metteva sul tavolo una mela. 

 

Don Camillo estrae, non si sa da dove, una mela rossa (l’autore ci terrebbe particolarmente che fosse rossa, e soprattutto vera), e la mostra al sindaco.

 

DON CAMILLO E poi diceva agli studenti: questa è una mela. Se qualcuno non è d’accordo, può anche andarsene subito.

 

PEPPONE E questo cosa c’entra?

DON CAMILLO Niente. Ma un po’ di filosofia, in quella tua testona, non ti farà male… non credi?

 

Peppone è confuso. Don Camillo lo raggiunge a proscenio, con la sua mela in mano. Adesso sono lì le due statue, protese entrambe verso gli spettatori. Don Camillo dilaga con le parole, mentre Peppone scruta attento l’uditorio. 

 

DON CAMILLO Va bene, lasciamo perdere la filosofia. Così come lascia perdere il vigile urbano Donato Ungaro: cosa deve fare, mettersi contro l’autorità del proprio sindaco? Del primo cittadino? Del compagno sindaco con la Jaguar? Ungaro lascia perdere, e si arriva al nuovo millennio, e Ermes Coffrini viene rieletto sindaco, perché si vede che i compagni avvocati con la Jaguar fanno un certo effetto agli inizi del nuovo millennio, certo il glorioso Partito Comunista italiano è scomparso, sostituito da una sfilza di nomi che nessuno più si ricorda e che non sarò certo io a voler qui ricordare, sta di fatto che il nucleo duro del partito cambia nome ma è ancora lì, a comandare, e allora all’inizio del nuovo millennio il vigile urbano Donato Ungaro di cui è nota, almeno a me e a te, la passione per il giornalismo, va dal suo sindaco e gli chiede il permesso di collaborare con la Gazzetta di Reggio pagine di Brescello, in realtà Ungaro lo sa che non è tenuto a chiedere il permesso, la Costituzione stessa glielo permette, ma lo fa come gesto di correttezza, e il signor sindaco stavolta reagisce con entusiasmo…

 

PEPPONE … ma certo Ungaro scriva, scriva bene di noi e della nostra comunità, anzi, c’è la nuova centrale turbogas da creare, c’è quella grossa ditta di Boretto, la conoscerà sicuramente, la Bacchi, che sarà nostra alleata in questa impresa, serve il consenso della popolazione, e quale miglior strumento della stampa per creare consenso, scriva Ungaro scriva!

DON CAMILLO E Ungaro ringrazia e scrive, e di cosa scrive, scrive del traffico di stupefacenti, della droga che circola, di chi ci fa affaracci sopra, scrive di mafiosi che affermano con orgoglio io sono una persona seria, traffico in droga da vent’anni, scrive di macchine bruciate con l’acido e di una invasione di capitali sporchi, scrive di imprenditori quasi onesti che stanno a un gioco molto poco onesto, e un bel mattino il vigile urbano Donato Ungaro trova la saracinesca del garage del proprio vicino completamente bruciata, ma come, ma cosa ho fatto dice il suo vicino che detto per inciso è la persona più mite del paese, e Ungaro si informa in giro e viene a sapere che quelli là hanno sbagliato indirizzo e la saracinesca che doveva bruciare era proprio la sua, e si vede che quelli con le saracinesche dei garage si trovano bene, le usano come agendine per dare messaggi al popolo, pensate che un parente di Domenico Camposano, il calabrese a cavallo, se la ritrova scritta con sopra una frase inequivoca: il fuoco brucia, la neve non si tocca. 

 

 

Tornano entrambi a sedersi sui piedistalli. Stavolta è il sindaco a versare il lambrusco all’amico.

 

PEPPONE Che è così bella la neve sulla pianura. Mi darà del romantico, signor curato, ma per me, un Natale dalle nostre parti senza la neve… non è un Natale come si deve. Adeste fideles!

 

Don Camillo lo guarda come a dire: ma cosa hai capito?

 

PEPPONE No… ho capito, ho capito… la neve, lo so quel che significa… è che la frase sulla saracinesca mi ha fatto pensare… va beh, torniamo a Ungaro…

 

Don Camillo fa un cenno come a dire: che è meglio.

 

PEPPONE E intanto la vicenda della centrale turbogas va avanti.

 

DON CAMILLO E a portarla avanti c’è la rinomata ditta Bacchi, ditta di costruzioni e calcestruzzo.

 

PEPPONE E la Bacchi coinvolge nell’affare anche un gigante come l’Ansaldo.

 

DON CAMILLO Ma la Bacchi, fate attenzione, ha già avuto qualche problemino con la giustizia, è già stata indagata per aver concesso due subappalti a ditte legate alla ‘ndrangheta.

 

PEPPONE E dov’è il problema? Il sindaco Coffrini e il Bacchi sono amiconi e vanno di comune accordo perché fiutano che la centrale turbogas sarà per Brescello l’affare del secolo.

 

DON CAMILLO Comincia così: che i contadini vendono i terreni.

 

PEPPONE Ma che dico del secolo, sarà l’affare del millennio.

 

DON CAMILLO E i dirigenti dell’Ansaldo vengono a visitare la zona, a fare sopralluoghi.

 

PEPPONE Tutto regolare dice il sindaco, anzi, Ungaro, venga anche lei, venga a fare il suo dovere di giornalista! Le faccio intervistare i pezzi grossi, scriva, scriva, scriva che tutto è in regola!

 

DON CAMILLO (beffardo) E’ il nuovo nuovissimo che avanza!

PEPPONE (assai convinto) E’ l’industria che darà lavoro a tutti!

 

DON CAMILLO (sempre più beffardo) Sono le magnifiche sorti e progressive!

 

PEPPONE E’ il sol dell’avvenire!

 

DON CAMILLO Che non tramonta mai…

PEPPONE (trionfante) E’ la rivoluzione comunista e proletaria!

Don Camillo si ferma, basito.

 

DON CAMILLO Non si sarà certo espresso in questo modo, il sindaco con la Jaguar!

 

PEPPONE Beh no… certo che no… mi scusi, signor arciprete… non so cosa mi è successo, mi sono lasciato andare… 

 

DON CAMILLO Ma intanto si formano comitati di cittadini contro la centrale, che denunciano i pericoli per la popolazione.

 

PEPPONE Scriva Ungaro, scriva che sono tutte paure infondate!

 

DON CAMILLO E Ungaro scrive… 

 

PEPPONE Scriva che quei comitati sono pieni di disfattisti e criticoni!

DON CAMILLO Ungaro scrive ma fa il contrario di quel che gli suggerisce il sindaco, dà voce a quei comitati e alle loro fondate paure.

 

PEPPONE Apriti cielo!

 

DON CAMILLO Il signor sindaco lo chiama a rapporto.

 

Peppone avanza a proscenio, Don Camillo lo segue.

 

PEPPONE Lei non si può permettere!

 

DON CAMILLO Ma io veramente…

 

PEPPONE E’ disonesto osteggiare un’impresa che farà il bene della nostra Brescello.

 

DON CAMILLO Mi scusi signor sindaco, ma…

 

PEPPONE Ora ti chiamo il cavalier Fantuzzi, il cavalier Fantuzzi in persona!

 

DON CAMILLO La prego, mi ascolti…

 

PEPPONE Lui ti dirà che sono tutte fandonie, che non c’è niente di vero, che i terreni su cui far crescere la nuova meraviglia di Brescello sono a prova di bomba!

 

Silenzio.

 

DON CAMILLO Io una bomba la tirerei a quelle due statue. 

 

Ritornano ai loro piedistalli, come a una prigione. Si mettono in posizione di statue.

 

DON CAMILLO Ma ti sembra che uno se ne debba stare lì, immobile giorno e notte, che grandini o faccia bel tempo, a non fare nulla di nulla? Ci si annoia da morire. Stare lì solo perché i turisti ti vengano accanto a farsi le foto ricordo, con quella faccia da ebeti…

 

PEPPONE Cosa le han fatto di male i turisti, signor curato?

 

DON CAMILLO Ah niente, niente. Se entrano in chiesa a dire una preghiera e accendono una candela davanti al Crocifisso sono anche contento. Ma quando si piazzano vicino a me, alla mia statua intendo dire, in calzoncini corti e bottiglietta d’acqua minerale, e con quel sorriso da imbecilli mi strusciano, mi abbracciano, mi fanno il solletico sotto il mento e sproloquiano e infilano una banalità dietro l’altra e si scattano una valanga di selfie che non la finiscono più, ecco che mi verrebbe voglia di dargli un cazzotto, tutto qua. Un bel cazzotto! Che li stenda tutti!

 

PEPPONE Già… i selfie…

 

Silenzio. Poi Peppone riprende a raccontare.

 

PEPPONE Avvenne allora che il vigile Donato Ungaro si ammalò. Niente di grave, una semplice influenza. Va a trovarlo a casa il medico generico, una gentile dottoressa che arrivando si scusa, sai Donato ho fatto tardi perché lungo la strada della Cisa, quella che partendo da Sarzana arriva a Verona passando per Brescello… beh, tu non sai quanti ammalati di tumore ci sono su quella strada, e proprio nel pezzo vicino al nostro paese. A Donato gli prende un colpo: sei sicura? Son sicura sì, fa la dottoressa. A quel punto Donato Ungaro guarisce di colpo e scrive un nuovo articolo sulla Gazzetta di Reggio, quello sì, una bomba: casi di leucemia sulla strada della Cisa!

DON CAMILLO Ma, combinazione, quel terreno è proprio vicino vicino a quello su cui il sindaco, la Bacchi e l’Ansaldo vogliono far costruire la centrale turbogas. Esce l’articolo, telefonata immediata del sindaco con la Jaguar: devi ritrattare! Devi dire che ti sei sbagliato, che sei stato male informato, non è vero nulla! Ma ormai la frittata è fatta: e quando quell’articolo, e il clamore che ne consegue, arrivano ai dirigenti dell’Ansaldo, questi fanno marcia indietro, e l’intero progetto va in fumo. Immaginatevi lo stato d’animo del primo cittadino, nonché avvocato di grido! Una furia!

 

Peppone si slancia giù in proscenio, Don Camillo dietro.

 

PEPPONE Ungaro, o la smetti di scrivere, o ti licenzio.

 

DON CAMILLO Mi licenzia? E cosa ho fatto di male?

PEPPONE Non puoi scrivere queste cose!

DON CAMILLO Ma signor sindaco, non può licenziarmi perché scrivo sulla Gazzetta!

 

PEPPONE E invece sì. Hai tirato troppo la corda, Ungaro, e adesso si spezza. Ti avevo avvisato. Avvio immediatamente una procedura disciplinare nei tuoi confronti. Io ti caccio!

 

Peppone tira fuori dalle tasche carta e penna.

 

PEPPONE Ecco qua… vedrai… sulla strada finisci, disoccupato… hai violato dei segreti d’ufficio!

 

DON CAMILLO Segreti? Quali segreti?

PEPPOBE E poi hai scritto anche per la Gazzetta di Parma che non ti avevo dato il permesso! Non avevi la mia autorizzazione!

 

Peppone continua a scrivere tutto arrabbiato.

DON CAMILLO Ma signor sindaco, a dire il vero io Le chiesi, se lo ricorda, di poter scrivere per la Gazzetta di Reggio, e glielo chiesi per gentilezza. Lo sapevo bene che il permesso non me lo doveva dare Lei. Il permesso, meglio, il diritto me lo dava la Costituzione, l’ha presente, quella fondata sul lavoro…

 

PEPPONE Ecco, appunto, quel lavoro che oggi io ti tolgo, guarda un po’.

 

DON CAMILLO Visto che Le andava bene che io scrivessi per la Gazzetta di Reggio, non mi sono preoccupato di rinnovarle la richiesta per quella di Parma.

 

Peppone ha finito di scrivere e porge il foglio a Don Camillo.

 

PEPPONE E con questo sei licenziato, vigile urbano Ungaro.

 

Don Camillo legge attentamente il foglio. Poi, calmo calmo.

 

DON CAMILLO Ha dimenticato una cosa, signor sindaco.

 

PEPPONE Che cosa?

 

Don Camillo sorride.

DON CAMILLO La firma.

 

PEPPONE Ma… non c’è bisogno di firmare…

 

DON CAMILLO Come non c’è bisogno? Lei mi sta licenziando senza una buona causa. Lei avrà anche i suoi buoni motivi, ma deve prendersi le sue responsabilità. 

 

Il signor sindaco si innervosisce ancora di più, per il tono tranquillo ma determinato del suo sottoposto.

 

PEPPONE Insomma Ungaro! Sei ancora in tempo: smettila di scrivere e torna a fare le multe in strada, che è quello che sai fare meglio. E io ti lascio al tuo posto. Tieni famiglia, no?

 

Don Camillo sorride. Con voce piana.

 

DON CAMILLO Io non la smetto, signor sindaco. Io qui sto.

 

Il sindaco sbotta.

 

PEPPONE E allora vai all’inferno! E trovati un altro lavoro, se sei capace.

 

Don Camillo gli porge ancora il foglio. Implacabile.

 

DON CAMILLO La firma.

 

Peppone ha un attimo di incertezza, afferra il foglio e lo firma.

 

DON CAMILLO Grazie.

 

Don Camillo si mette il foglio in tasca.

 

PEPPONE E così il vigile urbano Donato Ungaro venne cacciato via. 

 

DON CAMILLO E si ritrovò disoccupato.

 

PEPPONE Ovviamente fece causa al sindaco, e iniziò così un lungo processo

 

DON CAMILLO A Brescello si fece il vuoto attorno a lui. I compagni non furono così solidali… allora si trasferì a Bologna e trovò lavoro come conducente di autobus.

 

PEPPONE Però la passione per la scrittura e il giornalismo non lo abbandonò.

 

DON CAMILLO E poco tempo dopo, nel 2003, a proposito dell’arresto di Francesco Grande Aracri, fratello del boss Nicolino detto “Manuzza”, Francesco che per la cronaca verrà poi condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso, il sindaco Ermes Coffrini dirà…

 

PEPPONE A noi non risulta nulla, qui si è sempre comportato bene, ha fatto anche dei lavori in casa mia, e si è visto assegnare dei lavori dal Comune.

 

DON CAMILLO Sì, perché il sindaco con la Jaguar è uno che il lavoro lo toglie ma anche lo dà, come il Padreterno. E a ragione dice che non gli risulta, perché proprio in quegli stessi anni si toglieva spesso la giacca da sindaco e indossava la toga da avvocato e difendeva proprio Francesco Grande Aracri davanti al Tar di Catanzaro, dicendo…

 

PEPPONE Se viene un signore e ha bisogno, non gli chiedo certo un certificato penale o attinenze con la sua moralità. Io tutelo un diritto particolare. Altrimenti qui un avvocato non deve più tutelare un eventuale mafioso o un medico curarlo?

 

I due ritornano sui loro piedistalli, riprendono la posizione da statue.

 

DON CAMILLO Che vergogna.

 

PEPPONE E non è finita.

 

DON CAMILLO Come non è finita?

 

PEPPONE Perché una volta terminati i quasi vent’anni da sindaco di Ermes Coffrini…

 

DON CAMILLO Cosa succede?

PEPPONE Succede che dopo un breve intermezzo, al posto suo di sindaco si installa il figlio Marcello.

 

Don Camillo alza gli occhi al cielo.

 

DON CAMILLO Signore non potete farmi questo!

PEPPONE Anche lui avvocato nello studio del padre.

 

DON CAMILLO Con gli stessi clienti?

PEPPONE Ovvio che sì. 

 

DON CAMILLO Basta ti prego. Ne ho abbastanza. Parlami del paesello e del grande fiume…

 

PEPPONE E c’è di più: il promettente erede, eletto sindaco in quota Partito Democratico nel 2014, sempre a proposito di Francesco Grande Aracri, già stracondannato…

 

DON CAMILLO Ti prego parlami degli olmi, dei pioppi argentati… 

 

PEPPONE … lo definisce in un’ intervista alla televisione “uno educato”, “molto composto”.

 

Don Camillo fa come un grido soffocato. Si mette le mani in testa, non vuole sentire.

 

DON CAMILLO Parlami di Giuseppe Verdi! 

 

PEPPONE A quella dichiarazione seguì un putiferio di polemiche, potete immaginare, ma la direzione provinciale del PD non ne chiese le dimissioni.

 

DON CAMILLO Cantami Va pensiero, cantami Parigi o cara, anzi no, meglio, Di Provenza il mare il suol!

 

PEPPONE Il PD reggiano si dichiarò impossibilitato ad agire perché Marcello Coffrini non risultava iscritto… quindi…

 

Don Camillo mostra il fiasco vuoto a terra e chiama un ipotetico cameriere.

 

DON CAMILLO Del lambrusco, del lambrusco vi supplico, una damigiana, e una vasca di tortelli di zucca e parmigiano, che ci voglio affogare dentro! 

 

PEPPONE E finalmente il nome del paese di Brescello è comparso nelle carte della maxi-inchiesta AEMILIA sulla ‘ndrangheta in regione, e ci sono stati nuovi sequestri di immobili nel territorio comunale tutti riconducibili alle ‘ndrine.

E poi tutti sappiamo come è andata a finire: l’operazione AEMILIA ha fatto arrestare e condannare più di 300 persone, e Brescello è stato il primo comune dell’Emilia Romagna sciolto per infiltrazione mafiosa.

 

Peppone è orgoglioso di questo finale, si scioglie e si siede sul piedistallo.

 

DON CAMILLO Dimmi che c’è un lieto fine.

 

PEPPONE E’ questo il lieto fine.

 

DON CAMILLO Questo è… un finale lieto, secondo te? 

 

Peppone allarga le braccia. Guarda il fiasco: è vuoto.

 

PEPPONE Ma non aveva chiesto dell’altro lambrusco?

 

Don Camillo, pur fisso in posizione statuaria, sbotta.

 

DON CAMILLO Con tutto quello che è successo e succede da nord a sud di questa benedetta stramaledetta penisola, che da un secolo e mezzo a questa parte, da quando si è formato questo Stato cosiddetto unitario, nessuno ha mai saputo distinguere veramente la mafiosità dei politici dalla politica fatta dalle mafie, tu questo me lo chiami un lieto fine? Siamo all’ombra di una montagna di morti che non riusciamo a vederne la cima, conficcati come dannati in un lago ghiacciato e senza vita, e tu questo me lo chiami un lieto fine? Mi dovrei accontentare? 

 

Tira fuori dalla tonaca un foglietto e legge.

 

DON CAMILLO 

 

“Ahi mafia infame che tieni avvinti tutti nelle tue spire 

genìa perversa che domini in questo bel paese! 

Hai i piedi in Sicilia, ma afferri anche Roma!” 

 

Questo lo ha scritto uno della mia ditta, lo sai, un prete di nome Don Luigi Sturzo…

 

PEPPONE Lasci stare la sua ditta, signor curato, che con tutte le porcherie che avete combinato, farebbe molto meglio a starsene…

 

Fa il gesto dello stare zitto, ma il parroco è un fiume in piena.

 

DON CAMILLO … un siciliano di Caltagirone, lo ha scritto la bellezza di 117 anni fa, e aggiungeva: 

 

“Dunque in tali mani è capitata la patria 

da essere ridotta a spelonca di ladroni? 

L’onestà, la moralità, il bene del popolo 

sono divenute parole vuote e prive di senso 

anzi, servono per meglio coprire 

le malversazioni, la prepotenza, la tirannia.” 

 

Si ricaccia il foglietto in tasca e si rimette in posizione statuaria, rivolto agli spettatori. 

 

DON CAMILLO Così era l’Italia nel 1900, caro Peppone, così è l’Italia di oggi, il “bel paese”, una lurida, stratificata, camaleontica Macchina Mangereccia, una palude spaventosa e senza fondo dove i prepotenti e i ladri e i truffatori sono detti “furbetti”, come a premiarli, a dargli la medaglia, segno che tutti gli altri son coglioni, dove chi grida in piazza “onestà onestà” stai pur certo che sarà il primo una volta al potere ad apparecchiarsi la tavola per sé e per i congiunti, e a quel punto è fatta, è-fat-ta, se il primo pensiero dell’onesto cittadino è apparecchiarsi la tavola e pensare alla famiglia siamo tutti condannati, tutti fregati, dietro ogni tavola apparecchiata ci sono i crimini peggiori, i delitti più atroci, e il tutto è condito da lazzi e barzellette dis-gus-to-se, ma sì, che basta metterla sul ridere, siamo un popolo di guitti, basta chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie, farsi un bel nodo alla cravatta e murarsi l’anima, che tanto l’onestà è quella merce che milioni e milioni dei nostri connazionali richiedono sempre agli altri, ai vicini, ai lontani, agli amici e ai nemici, ai soliti fessi che pagano le tasse e davvero ci vanno a lavorare, e la richiedono con una faccia di bronzo che al confronto le nostre fan tenerezza, tanto son pallidine. E va bene dirai tu, noi siamo…

 

PEPPONE Statue.

 

Don Camillo si ferma, come smarrito, davanti a quella parola scolpita. Silenzio.

 

PEPPONE Non mi faccia il melodrammatico, signor parroco. Così minuscolo, questo lieto fine, non mi pare. E’ pur sempre una lucina in fondo al pozzo... le sembra poco? E’ un finale… donato… sì, mi scusi il gioco di parole, è un dono per cui provare gioia. Chi vuole il paradiso mica lo può cercare in terra.

 

DON CAMILLO Ah beh, se lo dici proprio tu… viene da crederci. 

 

DON CAMILLO E il Donato Ungaro un tempo vigile urbano e oggi conducente di autobus, l’ha vinta la sua causa?

 

PEPPONE L’ha vinta sì. Nel frattempo gli hanno tagliato le gomme dell’auto e combinato qualche altro scherzetto, ma la causa l’ha vinta. Pare che gli abbiano proposto un sacco di soldi per starsene dov’è, ma che lui non abbia accettato. Lui rivuole il suo lavoro. Vuole tornare a fare il vigile urbano a Brescello. 

 

DON CAMILLO Bene. Così ce lo ritroveremo a fare multe in Piazza Matteotti. 

 

Una musica lontana, di fisarmonica. Una musica straziante, che sembra venir fuori dalla terra. Un lamento. Un grido. O un’illusione?

 

DON CAMILLO Spero solo che multi anche quei turisti insopportabili, delle multe da fargli fischiare le orecchie, da non farli più tornare… ci sono tanti bei posti in Italia dove andare, delle “location” ben più famose della nostra! Che quando mi corrono incontro, con quelle faccette e quel sorrisetto prestampato da depliant… e i gridolini… che il Signore mi perdoni, ma io a quelli altro che cazzotto…

 

PEPPONE Ma via signor parroco, il turismo è una risorsa! 

 

DON CAMILLO Bravo compagno, sentilo lì, come l’ha imparata bene. Il turismo è una risorsa… sarà anche una risorsa, ma quando me li vedo arrivare, come dei plotoni in guerra, un flagello, una piaga d’Egitto, come le cavallette della Bibbia… 

 

Si sente in lontananza, poi sempre più vicina, quella fisarmonica dal suono antico, che è il suono del non-ancora, del germoglio che non vediamo. 

 

DON CAMILLO Io uno di ‘sti giorni scappo…

 

PEPPONE Non può scappare, signor parroco, Lei è una statua di bronzo!

DON CAMILLO Su questo hai ragione. Sei un asino, ma su questo hai ragione. E poi anche se ci riuscissi quelli sarebbero capaci di corrermi dietro fino al Po. 

 

PEPPONE Quelli chi?

 

Mentre la musica cresce, il buio se li inghiotte entrambi. 

 

DON CAMILLO E se aspettassimo la notte, quando non ci vede nessuno, una bella notte di luna, per scappare insieme?

 

Peppone fa una faccia come a dire: è un’idea.

 

Buio. 

 

Il testo originale Saluti da Brescelloè l'ideale 'prologo' di Va pensiero, una creazione corale, ideata e diretta da Marco Martinelli e Ermanna Montanari, che racconta il 'pantano' delI’Italia di oggi in relazione alla “speranza” risorgimentale inscritta nella musica di Giuseppe Verdi. Domani il debutto a Modena al Teatro Storchi e poi ancora a Ravenna, Bologna, Ferrara, Cesena, Milano, Bergamo, fino a fine febbraio. Qui le date.

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Distopico e sentimentale: Houellebecq in scena

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“Questo spettacolo è innanzitutto la storia di un uomo, di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo secolo. Perlopiù solo, egli intrattenne tuttavia saltuari rapporti con altri uomini. Visse in un’epoca infelice e travagliata”. A pronunciare queste parole in apertura delle Particelle elementari (Si vous pouviez lecher mon coeur) che Julien Gosselin ha tratto dal romanzo di Michel Houellebecq è Denis Eyrley,  un attore biondiccio lievemente incurvato che indossa un eskimo sopra una camicia jeans, e, in dispregio a tutte le regole, morali e amministrative, fuma tenendo la sigaretta tra il medio e l’anulare, ed è proprio questa gestualità da tabagista, goffa e indisponente, a sigillare con una smorfia il ritratto dello scrittore francese che sul proprio corpo porta sfrontatamente i segni della miseria umana raccontata nei suoi libri.

 

Ma, anche se è già accaduto – nella Carta e il territorio– che Michel Houellebecq facesse di sé stesso un personaggio, non c’è il tempo di chiedersi il perché di questa ulteriore mise en abime del giovane regista di Lille, dove, come spesso accade a teatro, è la dissomiglianza a esaltare la somiglianza: il pubblico del Teatro Vascello di Roma che poco sa e niente è tenuto a sapere di Houellebecq e delle sue Particelle elementari, viene immediatamente investito da un diluvio di parole, di suoni, di immagini che si rivelerà ben presto ininterrotto, una sorta di ipertesto scenico destinato a incarnare il racconto con tutte le presenze possibili, dalla musica dal vivo allo sdoppiamento degli attori in video e alla grafica proiettata, dai bruschi cambi di luce in cui le immagini cadono a picco a una recitazione cangiante che al registro aspro dell’invettiva alterna il filtro sommesso dell’elegia, ma senza quel ronzio cantilenante da messa latina che è la croce e la delizia del “tono” francese incatenato nell’alessandrino. 

 

Julien Gosselin - Les particules elementaires.


Niente di tutta la panoplia dello spettacolo dal vivo ci viene risparmiato, neanche il fumo profumato alla saponetta dei concerti rock che avanza come una nube tossica verso lo spettatore, ma il teatro di Gosselin, a onta dei suoi stessi miti, è veramente totale e, nel giro di pochi minuti, lo spettatore si ritrova a slittare tra i piani temporali del romanzo di Houellebecq come un surfista sulla cresta dell’onda, avvinto a un ritmo che in quattro ore di spettacolo non conosce un solo calo di tensione. Forse non sa bene se quello che ha di fronte sia un’invettiva filosofica contro una velocità di liberazione del desiderio che finisce per consumare anche l’amore o l’imbarazzante confessione di una miseria sessuale di tutti e di nessuno, se le Particelle elementari parlino la lingua distopica del Mondo nuovo di Huxley o siano veramente la celebrazione scientifica di un futuro transumanistico, l’avvento di un uomo tanto nuovo quanto imponderabile nel suo distacco dalla sessualità, dalla riproduzione, dalla morte. Ma si sorprende a ridere di gusto di una farsesca lezione di yoga impartita in un club vacanze della Francia del sud fondato da ex sessantottini dove la meditazione new age si unisce a uno scaltro scambismo. Oppure digrigna i denti davanti a un Tribute to Charles Manson, involontariamente attuale, dove la performance rock è scandita e sovrascritta da una feroce requisitoria contro un individualismo dionisiaco che si riversa senza soluzione di continuità dall’azionismo viennese alla cultura hippie prima di essere glorificato dalle cerimonie omicide degli snuff movies. Un accostamento che nella forma del concerto liveè, se possibile, ancora più urticante che nelle pagine del romanzo, perché le iscrive nella contemporaneità con una disinvoltura tutto sommato ignota ai protagonisti generazionali delle Particelle, smuovendo le ceneri fredde di un ardore trasgressivo che non esiste più o è materia di intrattenimento di qualunque dj set. 

 

Julien Gosselin - Les particules elementaires


Per un verso, le Particelle elementari di Gosselin ricalcano quelle di Houellebecq, sono la stenografia implacabile sub specie theatri della decadenza dell’uomo occidentale (maschio e bianco) spaventato dall’invecchiamento e dalla morte che, nella vicenda dei due fratelli, lo scienziato ammalato di angelismo Michel e il letterato sessuomane Bruno, distilla in lacrime avvelenate la vacuità morale di un’epoca. Ma non è tanto il fallimento esistenziale delle generazioni degli anni 60 e 70 a interessare il regista del Théatre du Nord che mette in scena attori e attrici giovani vestiti con uno stile più o meno glamour, più o meno sexy, ormai  privo di un tempo (poiché tutto nel nostro tempo è, in effetti, privo di un tempo). Quel che gli preme di più è dimostrare che l’autore di Piattaforma e della Possibilità di un’isolaè anzitutto uno scrittore sentimentale e che le Particelle elementari, troppo a lungo scambiato per un trattato di sociologia truccato da romanzo, è una commedia malinconica dove lo struggimento è persino più devastante dell’ironia. Vero per chi ha veramente letto Houellebecq, contendendolo a tutta l’idiosincrasia che lo affligge e lo circonda, e che lui stesso, idiosincratico come tutti i personaggi, ha contribuito a creare. Ancor più vero, sulla cartina di tornasole della scena di Gosselin, dove lo spettacolo avanza a perdifiato, corale, quasi circense in quel ring che contiene tutto (uomini e cose) e in cui tutti si scambiano di posto, rubandosi la battuta o il microfono, proseguendo uno la storia dell’altro, ma dove quel che questo avanzare si lascia indietro è forse più decisivo. 

 

Nella luce, frontali, gli attori portano avanti il racconto, mentre in controluce i rarefatti incontri tra corpi si intrecciano ai dialoghi e alle confessioni di un’intimità ferita, come quella di Christiane, l’amante di Bruno interpretata sulla scena da Noémie Gantier, di gran lunga il più delicato, il più sfumato e anche  il più sereno tra i  personaggi delle Particelle: coperta da una camicia leggera, i capelli corti, le gambe nude e slanciate, è in lei che la disperazione erotica di Bruno (e di Houellebecq), sempre minacciata dal fantasma della separazione, riesce a vivere la propria agonia anche sotto forma di grazia. È la presenza di Christiane a rendere più credibile e meno scientificamente apocalittica, meno volgarmente utopica, la scritta che a un certo punto pulsa sulla parete di fondo della scena: il futuro è femmina, sintesi del pensiero più puro e drammatico di Houellebecq, grondante cronista del naufragio patriarcale.  

 

Julien Gosselin - Les particules elementaires, ph Simon Gosselin.


Julien Gosselin aveva ventiquattro anni quando realizzò questo spettacolo, oggi che ne ha ventinove si appresta ad affrontare Don DeLillo dopo aver messo in scena il 2666 di Roberto Bolaño, un altro romanzo mondo. Ma c’è da chiedersi se questi ambiziosi exploit sarebbero mai stati possibili, o non sarebbero stati penosamente rallentati, senza l’appoggio decisivo di Stanislas Nordey al festival d’Avignone e di tutto un sistema che cura in maniera quasi maniacale i suoi giovani talenti (e se qualcuno vuole leggere in questa affermazione una critica ai Saturni del nostro sistema teatrale che i figli preferiscono mangiarseli o sottoporli a esami infiniti che ritardano sine die una maturità presunta che i padri non hanno mai posseduto, beh, ha visto giusto: direttori dei teatri nazionali leggete qua). Nella grande impresa delle Particelle, comunque, è sempre il contrappunto della mortalità (e dell’attore, a dispetto della sua vituperata crucialità da cui, sostiene il regista francese nell’intervista con Chiara Pirri pubblicata sul programma di sala di Romaeuropa Festival, Romeo Castellucci avrebbe liberato il teatro) a illuminare il precipizio distopico che detta il ritmo dello spettacolo: il progressivo dileguarsi di Michel, profeta della clonazione umana incapace di vivere tra gli uomini, irresistibilmente attratto dalla quiete unanimistica del mare, da cui tutto ha preso inizio, le iperboli sessuate di Bruno, puntualmente accompagnate dai tonfi comici e vergognosi del fallimento, e finalmente destinate a placarsi nella follia farmacologicamente controllata che accoglie tra le sue braccia ogni vitalità in eccesso. Più romantici di così, si muore. 

 

Julien Gosselin - Les particules elementaires, ph Simon Gosselin.


Quando, nell’epilogo dello spettacolo, la fine torna nell’inizio e gli attori e le attrici si dispongono su un praticabile per quell’addio all’uomo che chiude il romanzo, indossano capi di biancheria intima bianchi e sembrano già le blande, distaccate creature angeliche che nella Possibilità di un’isola compiono la profezia delle Particelle elementari. Nel testo non cambia che una parola: “libro è stata sostituito con “spettacolo”. Ma il pubblico ha l’euforica, beffarda e commovente sensazione che quella dedica sia rivolta a lui, agli uomini che restano, ultimi rappresentanti di “questa specie tormentata, contradditoria, individualista e rissosa, di un egoismo sconfinato, talvolta capace di inaudite esplosioni di violenza, ma che tuttavia non cessò mai di credere nella bontà e nell’amore. Questa specie che altresì, per la prima volta nella storia del mondo, seppe considerare la possibilità del proprio superamento…”. Sulla parola uomo cade la luce ed esplode un applauso scrosciante, pieno di ammirazione e di gratitudine. Perché è nella luce bianca del futuro, in quel bianco che diceva Kandinskij viene prima del mondo, che forse ci attende il grande cambiamento. Ma è nell’ombra del presente che batte il cuore del teatro. 

 

Les particules élementaires di Michel Houellebecq, adattamento e messa in scena di Julien Gosselin, con Joseh Druet, Denis Erley, Antoine Ferron, Noémie Gantier, Carine Goron, Alexandre Lecroc-Lecerf, Caroline Mounier, Victoria Quesnel, Geraldine Roguez, Maxence Vandervelde.

Visto al Teatro Vascello di Roma per Romaeuropa Festival.

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Le particelle elementari a Roma
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Un Galileo diviso nella Milano del boom

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Nella pedagogia progressista degli anni Settanta era quasi inevitabile che genitori e insegnanti ci spedissero ad assistere a uno spettacolo del Piccolo Teatro. Si cominciava alle elementari con l’Arlecchino servitore di due padroni a cui seguiva, più grandicelli, La tempesta o I giganti della montagna piuttosto che un Brecht a scelta. Per noi il Piccolo era, con una crescente insofferenza, “il” teatro della città, anche se l’attesa per la nuova sede – i lavori durarono quasi vent’anni – fu il simbolo di un periodo di declino della città. Nel frattempo avevano fatto in tempo a morire Paolo Grassi (1919-1981) e Giorgio Strehler (1921-1997), i dioscuri che avevano fondato il teatro nel 1947, mettendo in scena L’albergo dei poveri di Massimo Gor’kij nel fervore della Milano che rinasceva dalle macerie. Erano entrambi giovanissimi, ma non privi di esperienza. Strehler aveva cominciato negli anni di guerra e nell’esilio svizzero a scrivere di teatro e a proporre gli spettacoli dei nuovi autori della drammaturgia internazionale.

 

Antonio Greppi, il sindaco socialista della Liberazione di Milano, aveva invece incaricato Grassi, critico teatrale de «L’Avanti», di celebrare il 14 luglio 1945, anniversario della Bastiglia, con una grande festa popolare. Questi allestì al Parco Sempione sette piste da ballo, convocò nove orchestre e disseminò per i cortili della città decine di orchestrine amatoriali. Cominciò così la sua carriera di manager culturale, forse il migliore che l’Italia abbia mai avuto. I due, accomunati dalla militanza nel Partito Socialista, erano candidati credibili e autorevoli per aprire un teatro che offrisse alla città un luogo dove mettere in scena i nuovi autori della scena internazionale (Brecht, Töller, Thorton Wilder, Camus), rinfrescare i classici, far debuttare una nuova leva di attori, ma a entrambi era chiaro fin dall’inizio che non solo di questo si trattava, come dichiarò anni dopo Grassi: “ci pare di aver fatto opera appunto non soltanto teatrale ma ben più ampia… è un po’ una battaglia comune che tutti combattiamo per dare un vero senso a questa nostra società e a questo momento storico”. Greppi assegnò loro il cinema-teatro Broletto in via Rovello, nel cuore della città, dove c’era stata la sede, durante la guerra, dell’efferata legione repubblichina Ettore Muti. Strehler ricordò poi le “macchie di sangue” che trovarono sulle pareti, a testimonianza delle sevizie nei giorni della R.S.I.

 

L’opera di Grassi e Strehler, il ruolo che attribuivano al teatro nella società, fu opera riformatrice o rivoluzionaria? È quello che ho chiesto a Massimo Bucciantini, autore di Un Galileo a Milano (Einaudi), il giorno della presentazione nella vecchia sede del Piccolo di via Rovello. Erano presenti reduci gloriosi come Umberto Ceriani e Giulia Lazzarini del Galileo di Brecht che Strehler fece debuttare il 22 aprile 1963 nella Milano del boom. Bucciantini, uno tra i nostri massimi storici, autore di libri fondamentali su Galileo, si è occupato negli ultimi anni della memoria laica del nostro paese e in questo libro prosegue le riflessioni cominciate con Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto (Einaudi, 2015; vedi la recensione di Mario Porro). 

 

La sua è la ‘biografia di uno spettacolo’, ma è soprattutto la storia di una ricerca appassionata e appassionante che prende le mosse dalla prima versione del Galileo di Brecht, scritta negli anni dell’hitlerismo imperante, imperniata sul rapporto tra verità e potere, e prosegue seguendo il drammaturgo tedesco nel suo esilio hollywoodiano. Qui Brecht incontra Charles Laughton e, nella versione in inglese, il senso del dramma si sposta, dopo Hiroshima e Nagasaki, sul rapporto tra scienza e potere e sulle responsabilità della scienza. Per la regia pensarono in un primo tempo a Orson Welles, poi la scelta cadde su Joseph Losey, ma lo spettacolo, messo in scena nel 1947, fu accolto freddamente negli Stati Uniti che si apprestavano a diventare maccartisti. Il 1947 è anche l’anno in cui Brecht torna in Europa. Ha già contatti con l’Italia: la casa editrice Einaudi è interessata a tradurlo, anche se Pavese lo trova “troppo sperimentale”. Saranno i buoni uffici di Vito Pandolfi, importante figura del teatro italiano del dopoguerra, a far approdare Brecht nel catalogo Einaudi. Il Piccolo Teatro nasce con uno spirito ‘ciellenistico’, ma è chiaro che negli anni della Guerra fredda e dell’Italia di Pio XII, l’azione di Grassi e Strehler, per natura portati allo sfondamento, ha perimetri abbastanza precisi. Il Piccolo del dopoguerra suscita tanti ricordi nei milanesi che allora avevano vent’anni: non solo passarono grandi attori e furono rappresentati spettacoli memorabili, ma fu anche, dopo il ventennio fascista, una scuola di democrazia e di parola, un luogo, insieme alla Casa della Cultura (nata nel 1945) e al Centro San Fedele, sede dei gesuiti milanesi, dove le diverse anime della città potevano confrontarsi, dove i più giovani misurarono la diversa educazione rispetto a quella ricevuta dai genitori. Una consacrazione fu, nel 1956, la visita di Bertolt Brecht per la prima dell’Opera da tre soldi. I biglietti di congratulazioni che scrisse tornato a Berlino valsero come un’esclusiva per il Piccolo. Altri registi, altre compagnie, volevano mettere in scena Brecht in Italia, ma Grassi e Strehler furono intransigenti nel rivendicare un monopolio scalfito da altre compagnie solo verso la fine degli anni Sessanta. 

 

Col nuovo decennio il clima stava cambiando. Fondamentale per il teatro fu l’abolizione del visto di censura nel 1962. Strehler pensò che era giunto il momento di mettere in scena il Galileo di Brecht. Quello che succede prima, durante e dopo lo spettacolo è il cuore del libro. L’attesa è lunghissima, esasperante. Mentre il teatro è chiuso, Strehler si rifugia a Venezia, in casa di Wally Toscanini, figlia di Arturo, l’eroe della Milano antifascista (forse una proiezione dello stesso Strehler), per preparare le scenografie dello spettacolo. Dai pochi reperti filmati, dalle fotografie di scena, appare evidente che il lavoro dello scenografo Luciano Damiani, allievo di Giorgio Morandi all’Accademia di Bologna, è fondamentale per dare il tono al Galileo. Col regista pensa a un Brecht ‘bianco’, dopo il nero degli anni dell’esistenzialismo e della stessa mise di Strehler (pantalone e dolcevita nero come Fo e Pannella, gli altri Grandi Vanitosi di quegli anni). Damiani schizza uno spazio scenico scientifico, prendendo ispirazione dal Codice Atlantico leonardesco, ma anche dai bianchi e dai grigi di Mondrian (e forse dello stesso Morandi). Il risultato è di grande suggestione, ma nel frattempo l’assenza di Strehler da Milano sta suscitando grande nervosismo. Bucciantini offre un campionario rivelatore e spassoso del rapporto tra il regista e l’impresario. È Grassi a scrivere che non sente più la fiducia reciproca di un tempo, che si lamenta per gli eterni ritardi, ma vale la pena trascrivere per intero la reazione di Grassi quando apprende che Strehler si è comprato un Alfa Romeo Giulietta Spider: “Per carità, Giorgio, fai tu ciò che vuoi e ovviamente comperi la macchina che vuoi. Io però posso dirti che NON DOVEVI prendere una macchina così vistosa, così appariscente, così da pescecane, così poco «marxista», così capricciosa, così di lusso. C’era bisogno di scegliere quel colore? Anche qui mi hai mentito, non dicendomi prima nulla e poi alla mia domanda un’auto una Giulietta normale che sarebbe arrivata e che… c’era già! Sia chiaro, sei padronissimo di fare quello che vuoi. Ma allora non parliamo di fraternità». Tu sai benissimo che QUELLA auto non mi sarebbe piaciuta”.

 

Giorgio Strehler.


Non era quello il momento in cui dividersi tra i due e forse mai lo fu. Per interpretare Galileo Strehler scelse, a scapito di Tino Carraro, Tino Buazzelli che ricordava nel fisico possente Charles Laughton. In teatro, ma anche nelle conferenze di presentazione in giro per la città, promosse da Grassi e tenute dai giovani Veca, Rovatti e da altri giovani studiosi di filosofia, si presentava la figura di Galileo attraverso le monografie di recente pubblicazione di Antonio Banfi e di Ludovico Geymonat. L’oscurantismo clericale, nonostante le aperture del Concilio Vaticano II, le responsabilità dello scienziato – Bucciantini non lo nomina, ma viene in mente la parabola di Robert Oppenheimer, fisico tra i padri della bomba atomica, poi allontanato dal progetto per sospetto di simpatie comuniste e riabilitato, proprio nel 1963, col premio internazionale dedicato a Enrico Fermi –, il sempiterno problema tra individuo e potere, rendevano il Galileo attualissimo. La giunta di centro-sinistra milanese (sindaco il socialdemocratico Gino Cassinis, peraltro valente matematico) era il primo tentativo di laicizzazione della società italiana. Erano anni in cui in città c’erano ancora processioni cittadine, prime comunioni di massa, funerali che interrompevano il fluire della vita quotidiana, figure pubbliche come don Ernesto Pisoni, direttore del quotidiano cattolico «L’Italia» ed erede di don Gnocchi come artefice di un cattolicesimo sociale ‘integralista’. Sopra tutto e tutti governava Giovan Battista Montini, cardinale della città, destinato a diventare Papa proprio nel giugno di quell’anno. Alla Curia milanese la posta in gioco era chiarissima.

 

Lo spettacolo fu un enorme successo: chi nella notte del 22 aprile usciva dal Piccolo Teatro aveva la sensazione di aver assistito a qualcosa di epocale. Ma non fu un successo netto. Lo spettacolo non piacque a Flaiano, Chiaromonte, al giovane Arbasino, a Franco Fortini. Critiche acuminate il cui tratto comune era il fastidio verso la ieraticità, verso la solennità, che indebolivano, secondo loro, la corrosività del Brecht critico sociale. Il vero scontro non fu però con gli intellettuali, ma tra la Milano laica e quella cattolica e avrà conseguenze che si protrarranno nei decenni successivi, una divisione anche geografica tra la Milano del Centro e quella più ‘bianca’ dell’ex contado. La contestazione allo spettacolo, orchestrata dalla Curia milanese e spalleggiata dal vicesindaco democristiano Luigi Meda, trova ampia eco tre le colonne del giornale di Gioventù Studentesca che l’insegnante di religione del Liceo Classico Berchet, don Luigi Giussani, ha fondato con i suoi studenti. Il Galileo di Strehler, seguendo l’interpretazione di Geymonat, è un rivoluzionario a metà, che si arrende alle ragioni della Chiesa. Il regista non può naturalmente alterare il testo di Brecht, ma ne modifica il ritmo. Due sono le scene che, discusse in infuocati consigli comunali, divengono la pietra dello scandalo: la scena del Carnevale e la vestizione del Papa. Meda, figlio di Filippo, uno dei fondatori del Partito Popolare nel primo dopoguerra, si fa portavoce di chi vede nelle due scene – la prima una forma di ribellione alle autorità costituite, la seconda della nefasta simbologia del potere ecclesiastico – un insulto ai valori dei credenti. In ballo ci sono i finanziamenti della nuova stagione del teatro e la decisione di trovare una nuova sede, più consona a un teatro che sta diventando, insieme alla società, di massa. Sullo sfondo ci sono le elezioni politiche del 1963 che attestarono un significativo arretramento della DC e un’avanzata dei partiti laici, le condizioni necessarie per varare il primo governo di centrosinistra. Meda nella seduta decisiva del consiglio comunale fece un discorso che scontentò tutti, ma il risultato fu quello a cui mirava: raddoppiare il finanziamento al Teatro, rimandare sine die la questione della nuova sede. Un esempio di liturgia democristiana da manuale (sia detto con una certa ammirazione).

 

Milano continuò a essere governata dal centro-sinistra, ma Bucciantini offre giustamente un epilogo alla vicenda nel 1968, quando il Movimento Studentesco contestò il Piccolo in nome del nuovo teatro di Carmelo Bene, di Grotowski, del Living Theatre. Commentò poi Strehler: “Una terribile lezione. Scoprirsi un mattino di essere a destra, di essere di retroguardia per tanti, mentre la sera prima ti sentivi a sinistra e all’avanguardia. E non capire come una simile trasformazione fosse avvenuta in ventiquattr’ore”. Lo choc fu fortissimo e Strehler lasciò il Piccolo per qualche anno, senza però abbandonare le sue idee, le sue convinzioni.

Oggi il Piccolo è, insieme alla Scala, il vanto della città, e la fonte a cui sono destinati gran parte dei finanziamenti pubblici, ma nella ricostruzione oleografica di quella storia non si ricordano le morti amare – avvenute entrambe all’estero – di Grassi e di Strehler, estranei ormai a una società che avevano contribuito a formare. Tra i tanti meriti di questo bellissimo libro è di aver aperto archivi, di aver fatto parlare le carte. Scriveva Strehler a Grassi nell’infuocato ’68: “Ogni giorno che passerà il teatro a gestione pubblica troverà sempre maggiori limiti sempre più angusti, in un continuo gioco e peso della politica di corridoio, nelle remore delle amministrazioni locali e statali. A tal punto di impedire ogni azione veramente rivoluzionaria”.

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Massimo Bucciantini
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Come opporsi a uno stato di smemoratezza

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L’11 maggio scorso il quadro Le donne di Algeri, dipinto da Picasso nel 1955 (sessant’anni fa), è stato venduto per centottanta milioni di dollari a un’asta di Christie’s. Per Picasso la decisione di dipingerlo fu, in parte, ispirata dal desiderio di annunciare che sosteneva il popolo algerino nella sua lotta e nella guerra, iniziata l’anno prima, contro il colonialismo francese. 

 

 

La festa dell’Ascensione, che cade quaranta giorni dopo Pasqua, è passata. Secondo i Vangeli, fu allora che Cristo, come è testimoniato dai suoi discepoli, ascese al cielo, al paradiso. Sulla terra, adesso, dovevano cavarsela da soli.

Nel corso delle ultime settimane ho disegnato, perlopiù fiori, spinto da una curiosità che ha poco a che vedere con la botanica o con l’estetica. La domanda che mi assillava era se le forme naturali – un albero, una nuvola, un fiume, un sasso, un fiore – possano essere considerati e percepiti come messaggi. Messaggi – inutile dirlo – non verbalizzabili, né indirizzati specificamente a noi. È possibile ‘leggere’ le apparenze naturali come testi? 

Per me non c’è niente di mistico in questo esercizio. Si tratta di un esercizio gestuale, il cui intento è rispondere a ritmi e forme di energia diversi, che mi piace immaginare come testi da una lingua che non ci è dato leggere. Eppure, mentre delineo il testo, mi identifico fisicamente con la cosa che sto disegnando e con la lingua madre sconfinata e ignota in cui è scritto. 

 


 

Nell’ordine globale totalitario del capitalismo finanziario speculativo sotto cui viviamo, i media ci bombardano senza posa di informazioni, ma di solito queste informazioni sono una manovra diversiva pianificata per distogliere la nostra attenzione da ciò che è vero, essenziale e urgente. 

 

 

Il più delle volte le informazioni riguardano quella che un tempo era chiamata politica, ma la politica è stata soppiantata dalla dittatura globale del capitalismo speculativo con i suoi operatori e le sue lobby bancarie. 

I politici, di sinistra o di destra che siano, continuano a dibattere, votare, deliberare, come se le cose non stessero così. Il risultato è che i loro discorsi non si riferiscono a nulla e sono ininfluenti. Le parole e i termini che usano di continuo – per esempio terrorismo, democrazia, flessibilità – sono stati svuotati di ogni significato. Le platee di tutto il mondo seguono le loro teste parlanti come se stessero dando un’occhiata a un interminabile esercizio scolastico o a una lezione di retorica per principianti! Cazzate. 

Un altro capitolo dell’informazione con cui ci bombardano è dedicato allo spettacolare, agli eventi violenti e scioccanti, in qualsiasi parte del mondo essi si verifichino. Rapine, terremoti, imbarcazioni capovolte, insurrezioni, massacri. Una volta mostrato, uno spettacolo lascia il posto all’altro, decontestualizzato, in una successione anestetizzante. Rari le spiegazioni pazienti o gli approfondimenti. Arrivano come mazzate, non come storie. Sono promemoria dell’imprevedibilità di quel che può succedere. Illustrano i fattori di rischio della vita.

 

Si aggiunga a questo la consuetudine linguistica in uso nei media per presentare e descrivere il mondo. È molto simile al gergo e alla logica degli esperti di management. Quantifica tutto e fa raramente riferimento alla sostanza o qualità. Si occupa di percentuali, oscillazioni nei sondaggi d’opinione, tassi di disoccupazione, tassi di crescita, aumento del debito, stima delle emissioni di anidride carbonica, e via dicendo. Si tratta di una voce a proprio agio con le cifre, ma non con i corpi viventi o sofferenti. Non parla né di rimpianti né di speranze. 

 

 

E così quel che si dice pubblicamente e il modo in cui lo si dice favoriscono una specie di amnesia civica e storica. L’esperienza è spazzata via. Gli orizzonti del passato e del futuro si sfocano. Siamo condizionati a vivere un presente interminabile e incerto, ridotti a una cittadinanza senza memoria. 

Nel frattempo, intorno a noi, la terra si sta surriscaldando. Le ricchezze del pianeta si stanno concentrando in un numero sempre più esiguo di mani, mentre i più sono sottonutriti, malnutriti o alla fame. Milioni e milioni di persone sono costrette a migrare, mentre le loro speranze di sopravvivere si fanno sempre più tenui. Le condizioni lavorative stanno diventando viepiù disumane. 

Le donne e gli uomini pronti a protestare e a opporsi a quel che sta accadendo sono legioni, ma gli strumenti politici per farlo sono per il momento vaghi o assenti. Hanno bisogno di tempo per svilupparsi. Perciò dobbiamo aspettare. Ma come si fa ad aspettare in condizioni simili? Come si fa ad aspettare in questo stato di smemoratezza?

 

 

Ricordiamoci che il tempo, come Einstein e altri fisici hanno spiegato, non è lineare, bensì circolare. La nostra vita non è un punto su una linea – una linea che oggi viene amputata dall’avidità istantanea di un ordine capitalista globale senza precedenti – noi non siamo un punto su una linea: siamo il centro di un cerchio. 

 

 

Tutt’intorno a noi ci sono i testamenti che i nostri predecessori ci hanno lasciato a partire dall’età della pietra, e testi che non sono rivolti a noi, ma di cui noi possiamo essere testimoni. Testi che ci arrivano dalla natura, dall’universo, a ricordarci che la simmetria convive con il caos, che l’ingegnosità supera la fatalità, che ciò che desideriamo è più rassicurante di ciò che ci viene promesso.

Allora, sostenuti da quanto abbiamo ereditato dal passato e dalle cose di cui siamo testimoni, avremo il coraggio di resistere e di continuare a resistere in condizioni fino ad ora inimmaginabili. Impareremo ad aspettare in modo solidale. 

 

 

Proprio come continueremo per sempre a elogiare, imprecare e maledire in tutte le lingue che conosciamo.

 

(Antony, giugno 2015)

 

Da John Berger, Confabulazioni, trad. it. Maria Nadotti, Neri Pozza Editore,Vicenza 2017.

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Schumann in manicomio

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Incipit “Nel 1845, il dottor Richarz elabora una terapia per la cura della psicosi-schizofrenica basata sull’isolamento.” (da Alessandro Zignani, Il richiamo dell’angelo. Cinque pezzi fantastici sulla follia di Robert Schumann, p. 7)

 

Come raccontare la storia della follia di Schumann? Un importante contributo arriva dalla pubblicazione italiana delle lettere tra la moglie Clara e Robert (1854-1856) e dalla memoria di Clara. Clara Schumann (1819-1896), notissima concertista, che sopravvivrà di cinquant’anni al marito, scrive di quei momenti:

Sabato, il 4 arrivò! Oh Dio, la carrozza era di fronte alla nostra porta. Robert si vestì con molta fretta, entrò nella carrozza con Hasenclever (il medico) e i suoi due infermieri, non chiese di me, né dei bambini, e io me ne stavo seduta vicino alla signorina Leser immobile dal dolore e pensavo, ora soccomberò! Il tempo era splendido, almeno il sole l’ha accompagnato! Avevo consegnato al dottor Hasenclever un bouquet di fiori per lui, che poi gli diede in viaggio; l’ha tenuto a lungo in mano, senza pensarci, poi d’improvviso ne ha annusato il profumo e sorridendo ha stretto la mano al dottor Hasenclever! Più tardi ha regalato a ciascuno nella carrozza un fiore. Hasenclever mi portò il suo – con il cuore sanguinante, l’ho conservato! (p.35)

 

Il testo, Lettere da Endenich, curato da Filippo Tuena, tradotto da Anna Costalonga – per le edizioni ITALOSVEVO di Trieste – raccoglie gli epistolari  e altri documenti relativi a Schumann prima della morte presso il manicomio di Endenich, dove fu ricoverato e dove morì dopo due anni di internamento, all’età di quarantasei anni. 

Le parole di Clara raccontano con precisione l’evento della partenza di Robert per il manicomio. Il medico che accompagna Schumann le riferisce gli eventi del viaggio, lei esprime il dolore che prova. Ma la tenerezza dello sguardo verso il marito lenisce la pena. Lui “non chiese” di lei e dei bambini, ma, durante il viaggio, stringe il bouquet, lo annusa e regala a ciascuno un fiore. Il medico, al rientro darà a Clara il fiore di Robert, lei lo conserverà con il cuore sanguinante. 

 

Fino a quando la psichiatria e la psicologia sono state considerate scienze “esatte”, i biografi davano per scontato il verbo scientifico, la diagnosi psichiatrica era come il calcolo dei cementi armati per l’ingegneria. La “dementia praecox”, poi ribattezzata “schizofrenia” era un dato, non una valutazione discutibile. Unico paziente che, a fine Ottocento, era riuscito a ottenere il proprio riscatto, riacquistando  diritti civili e cittadinanza, fu Daniel Paul Schreber (1842-1911); malato di nervi – come si autodefinisce attraverso le sue memorie – ma fine giurista, che riscatta la sua posizione di cittadino. 

Bisognerà attendere gli anni Sessanta del Novecento perché qualcosa cambi nel mondo della salute mentale. Qualcuno si accorge che il manicomio, anziché “curare i malati di mente”, produce malattie mentali e riduce la speranza di vita delle persone rinchiuse. Ancora dobbiamo riabilitare molte figure di intellettuali, artisti e scienziati finiti in manicomio. La figlia di James Joyce, Lucia (1907-1982) morta dopo 48 anni di ritiro manicomiale, la scultrice Camille Claudel (1864-1943), il matematico Georg Cantor (1845-1918) e molte, molte altre persone. 

 

Come mai una persona mite, taciturna come Schumann viene ricoverata? Bastano i suoi incerti tentativi di suicidio? Franz Richarz, lo psichiatra che internò Schumann, era un “degenerazionista”, uno di quegli scienziati sicuri che l’arte e la cultura siano fenomeni degenerativi. Conosciamo bene la teoria biologica della degenerazione, sappiamo da quali teorie creazioniste deriva e a quale mondo totalitario approda. La scienza degenerazionista si basa sulla teoria che gli artisti e gli uomini di genio siano destinati alla follia. 

A differenza di Lucia Joyce e Camille Claudel, che sopravvivono al manicomio per oltre quarant’anni, a differenza di Schreber, Antonin Artaud (1896-1948) e Luis Wolfson (1931), che incontrano strategie creative per sottrarvisi, Schumann dura poco, muore dopo due anni d’internamento. Non è l’unico, il manicomio uccide in vari modi, produce catatonie, aumenta i tentativi di suicidio, è crogiolo di infezioni, è universo concentrazionario e violento. Il manicomio riduce la speranza di vita dei pazienti. In questo senso, la vera storia della follia di Robert Schumann è raccontata da Peter Oswald (1928-1996) in Schumann, Music and Madness e in alcune pagine della Storia sociale della psichiatria di Roy Porter (1946-2002).

 

 

Vera storia perché smaschera l’ipocrisia di chi vede il soggetto patologico rinchiuso dentro le macerie del proprio Ego, come se queste macerie fossero espressione della mancata identità del soggetto. Considerazioni vuote, al di fuori di ogni contesto sociale e culturale, come se la follia fosse un fenomeno di fatiscenza dissociato e indipendente dalla relazione con l’altro. Schumann soggetto distrutto? Basta ascoltare poche note del suo monumentale lavoro di composizione per dire: no! L’uomo che ha scritto questa musica ha una forza espressiva grandiosa, non può essere una persona distrutta, semmai appartiene a una specie che deve ancora venire, come avrebbero sostenuto Frederich William Myers (1843-1901) e Friedrich Nietzsche (1844-1900). Schumann dunque diventa soggetto collettivo, creatore, nonostante il divieto, imposto a familiari e amici, di vederlo, nonostante l’isolamento, le repressioni e le interdizioni del regime manicomiale, questa la crudeltà psichiatrica.

La confusione psichiatrica a cavallo tra i due secoli è disarmante. Neurosifilide? Molti storici della medicina hanno rilevato che un gran numero di persone, a cavallo tra i secoli Diciannove e Venti, altro non avevano che una delle possibili conseguenze della sifilide. La “dementia praecox” e una serie di malattie neurologiche, a quell’epoca, si confondevano in un unico insieme poco distinto: Parkinson, Alzheimer, pellagra, lesioni focali e altre forme neurologiche. I discorsi psichiatrici erano (e spesso sono ancora) confusi, generici, poco medici. Nei tentativi di scimmiottare la medicina, psichiatri e psicologi spesso non si accorgono di avere a che fare con un soggetto intero, competente riguardo alla propria vita, tutti presi dal furore diagnostico. 

 

I discorsi psichiatrici dell’epoca, ma anche quelli contemporanei, ci appaiono confusi e contraddittori per una disciplina che pretende di essere riconosciuta come scientifica. Se considerassimo il delirio psichiatrico come parte di un sistema delirante complessivo, ci troveremmo di fronte a una sorta di ripetizione generale e generica del delirio dei folli: demenza, idiozia, mania, imbecillità, cretinismo sono sempre stati termini a cavallo tra diagnosi e insulto. Una descrizione completa di questo fenomeno “scientifico” si trova nel libro di Mary Boyle (1949) Schizofrenia, un delirio scientifico, uscito nel 1994 per Astrolabio.

Schumann non aveva alcun deterioramento mentale, aveva attraversato un periodo di confusione, che stava superando. Pochi anni prima era capitato a un altro grande esponente del Romanticismo, Friedrich Hölderlin (1770-1843), che aveva trovato il suo doppio Reale nel nome di Scardanelli. Hölderlin produce la sua poetica migliore nei momenti più acuti della schizofrenia, come sostiene Roman Jakobson (1896-1982).

 

Ciò che inquieta, in chi ode le voci, è il ritiro dalla relazione con gli altri in carne ed ossa, che stanno intorno al soggetto, il suo volgersi a un altro fantasmatico, a una identità inesistente, a un doppio. Accede anche a noi durante il sonno, quando si sogna, tuttavia questo è proprio il momento della creazione. Individuare una voce nell’indistinto della “cosa in sé” costituisce ciò che Louis Sass (1949) ha definito “apofania”, un gesto tutt’altro che irriflessivo, un gesto iper-riflessivo, conseguente a un’esperienza di frammentazione che ricompone i frammenti in forme impreviste. È forse questo che perturba l’altro: “non sei più tu”, la tua identità è sfumata, come fossi “posseduto da un demone”.

Oggi Schumann sarebbe, oltre che un grande musicista, un uditore di voci. Il suo percorso di individuazione delle voci è terapeutico; Luigi Boscolo aiutava i pazienti che sentivano voci confuse e non bene individuate ad ascoltarle meglio, per individuarle, distinguerle, renderle singolari. Nel far questo, le voci diventano diplofonie, triplofonie, polifonie. Ciascuna delle melodie vocali assume un timbro e un carattere che segnano la differenza e la relazione tra loro e il soggetto uditore.  Questa transizione dagli acufeni, ai rumori, all’indistinzione delle voci, Schumann l’aveva compiuta da sé. Florestano, la voce di un doppio ottimista, ed Eusebio, la voce del suo doppio femminile, gli dettano alcune delle composizioni, come l’Ouverture del Manfred o la Sinfonia di primavera

 

Non c’è dubbio che le voci di Schumann lo spingano verso la creazione di nuove composizioni, tra le più felici. Non c’è dubbio che lo portino nel panico della perdita del principium individuationis, il dionisiaco, di cui scriverà, una generazione dopo, un suo conterraneo. Nessuno però si accorge di come queste dimensioni della sua “dementia praecox” in realtà siano l’espressione più alta dell’attività artistica del musicista. La scienza degenerazionista dell’epoca, quella scienza che parla di ciò che poi verrà chiamata schizofrenia, quella scienza che è assolutamente sicura che la follia sia un fenomeno degenerativo, decide che i pazienti, per la loro cura, vanno isolati e trattati come soggetti che marciscono in manicomio. L’Ego diventa fatiscente, si decompone, si riduce a frammenti, ma accade quando è in manicomio, accade quando viene legato, quando le relazioni con familiari e amici vengono precluse; accade quando all’Ego viene “forclusa” (per usare i termini lacaniani) la relazione con l’altro, ma non è il soggetto a essere “forcluso”, è l’istituzione che lo forclude, non è lui che abdica alla responsabilità, è il contesto totalitario che gliela toglie, anche sul piano giuridico.

 

Schumann soffriva forse di acufeni (rumori uditivi fastidiosi) che possono trasformarsi in vere e proprie voci. Schuman aveva momenti di afasia. I suoi sintomi potrebbero avere avuto molteplici origini di ordine acustico o neurologico, temporanei o definitivi. Qui si tratta di valutare sintomi medici. Ma se Schumann ha cercato di combinare “strutture musicali non compatibili”, ciò è ben altra cosa. Le sue esplorazioni compositive, hanno anticipato il futuro della musica contemporanea. Se aveva problemi di ordine medico, avrebbe dovuto esser curato in medicina, se aveva problemi di ordine psicologico, avrebbe dovuto trovare accoglienza e ospitalità terapeutica. In questi casi è bene ribadire: tertium non datur.

Solo chi ha il coraggio di immergersi nelle perturbazioni della vita, chi entra nell’ignoto, chi soffre nell’attraversare la vita può creare. Schumann creò meravigliosi deliri musicali. Degenerato, ergo progenerato.

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Della crudeltà clinica
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Viaggio in Italia: 1200 km di bellezza

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Italo Moscati è intervenuto al Collegio Ghislieri di Pavia, nel seminario internazionale dal titolo Percorsi della memoria. Immagini, idee, linguaggi, che conclude l'edizione 2017 dei Seminari Ghisleriani di Psicoanalisi Apriamo (con) un libro. Parliamone con un film. Il seminario, che ne ha visto tra gli altri la partecipazione di Remo Bodei, ha proposto la proiezione del suo film 1200 km di bellezza, prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà: un coinvolgente spaccato di Italia che si presenta come un vero e proprio archivio della memoria nazionale ma che è anche allo stesso tempo un documento di protesta e di denuncia.

(Lucia Zaietta)

 

Moscati, lei definisce questo suo film un "GRAND TOUR". Un'espressione che suggerisce viaggio, meraviglia, tanta bellezza in poco tempo: è di questo che parliamo?

 

Il film è un “Grande Viaggio” speciale, ricostruito con pazienza; è un racconto ispirato al “Grand Tour” fatto da nobili, ricchi signori, filosofi, scrittori, artisti, diplomatici, turisti famosi, che si è svolto lungo tre secoli dal Seicento alla fine dell’Ottocento. Qualcosa di estremo interesse. Materiali di documentazione fatta di racconti, lettere, testimonianze, diari. Quando ho proposto a IstitutoLuce-Cinecittà, diretto da Roberto Cicutto, avevo fatto sempre per il Luce sedici dvd su una cronologia storica dell’Italia dai primi del Novecento. Lavorandoci avevo scoperto che, al di là delle immagini senza sonoro e poi con il sonoro, c’era il Paese dei mari, delle campagne, dei monti, degli “italiani” dell’Italia Unita, una intensa storia visiva. Ho pensato che potesse essere qualcosa di nuovo da scegliere e selezionare per recuperare scene reali, quindi l’Italia che solo gli abbienti avevano visto e raccontato. Ma non poteva bastare. Le immagini nuove, frutto del primo cinema del Novecento (nascita da cinque anni, 1895), erano un’altra cosa dagli acquarelli, dai disegni, pitture creati dai viaggiatori del Grand Tour e dai loro accompagnatori. Era solo una premessa rispetto al lavoro delle cineprese che era iniziato e stava crescendo da quando il Luce, creato dal fascismo nel 1924, cominciò a occuparsi di documenti educativi, diventando subito il luogo delle produzioni del Cinegiornali Luce: notiziari, informazione controllata dal regime. Mentre nascevano, uno dopo l’altro, nei campi della periferia romana, ancora campagna, Cinecittà nel 1936, il Centro sperimentale e la Cineteca Nazionale.

 

Migliaia e migliaia di metri di pellicola. Scoprii che i notiziari includevano immagini molto ben girate che facevano da fondali, riprese da bravi operatori. Ecco lo spunto per prendere questi fondali, questi scenari di campagna, paesi, città con reperti del passato, costruzioni antiche, monumenti; volti di persone non solo delle città. Ho quindi selezionato immagini e sonori, ho girato riprese originali con tecniche moderne, il colore, l’HD, droni; allo scopo di cambiare spazi e profondità, inserire in un nuovo racconto una lunga storia, la storia della bellezza nel nostro Paese, mostrando come si è salvata ma anche come è stata aggredita, di un Paese che cambiava velocemente, a volte troppo velocemente, un Paese che continua a resistere a fatica. È in corso un ripensamento dopo anni di distruzioni (la seconda guerra mondiale), di trascuratezza e di abbandono. Il film, “1200 KM DI BELLEZZA” illumina un secolo e la storia che cambia. Il vecchio “Grand Tour” era un diario scritto da Goethe, Stendhal, Nietzsche e da tanti altri che parlavano di Eden e di Paradiso Perduto, anche se c’era una miseria spesso atroce. Il film narra e ragiona sui cambiamenti: un amore, una voglia di Bellezza dalle molte facce. Ecco il senso di citare il vecchio “GRAND TOUR” come confronto colmo di emozioni e di sentimenti, per proteggere l’Italia di oggi e di domani. Viaggi ancora bellissimi, con un pathos che non poteva, non può essere quello di illustri signori dei secoli scorsi.

 

I ricordi, nella nostra mente, ce li immaginiamo come video sequenze. Come pellicole. Scene dal nostro passato, che hanno un contenuto di insegnamento e un contenuto emotivo. C'è qualcosa di simile in questo suo film?

 

Il film è fatto di pellicola e di nastri elettronici (il materiale di oggi). Il mio lavoro è stato soprattutto quello di comporre con pazienza, anche e soprattutto col montaggio, qualcosa di nuovo servendosi di un confronto incalzante e continuo tra presente e passato, mostrando il passato, lasciando a Goethe e agli altri viaggiatori il compito di aiutarmi come se fossero “inviati speciali” in viaggio nel tempo. Ho scelto frasi che fossero concrete, ad esempio con Guy de Maupassant che descriveva la Napoli di metà Ottocento già aggredita dalla “monnezza” come è capitato nei nostri anni. Ma ricordare anche la Napoli amata, bella, romantica, chiassosa e allegra. Quindi emozioni che oscillano speditamente, scorrono nel tempo e ci raggiugono suscitando molte reazioni. Emozioni e ragionamenti. Mai immagini e parole abbandonate a se stesse, visioni utili per raccogliere attraverso una sorpresa dopo l’altra una forma di conoscenza. Il mio testo, discreto e suadente, deciso, polemico quando era giusto di fronte alle distruzioni per volgarità e incuria, è al servizio di situazioni da “storicizzare”, lasciando al pubblico la possibilità di una reazione non imposta ma offerta come documento non sterilizzato nella cronaca. Una memoria da costruire insieme. Alla ricerca di identità diverse, in divenire, dai primi del Novecento a oggi. L’adesione del pubblico l’ho percepita nettamente, come se esso stesso sentisse il bisogno a fare i conti con un Paese che sta facendo bilanci difficili e che sforza di andare oltre. E, senza sognare, confermare questa esigenza vitale.

 

Ancora sulla memoria: in che senso questo è un film per il presente?

 

Il film è tutto sul presente, basato su quel che ho scoperto nei poderosi archivi del Luce, in cui ho lavorato per anni, imparando che l’uso dei documenti nel cinema è delicatissimo. Troppo spesso i documenti sono sottoposti a stesure di torrenziali copioni che inventano commenti inappropriati, badando poco alle immagini (sempre da rispettare) e le soffocano con scritture che tendono a sottovalutarle o addirittura a travolgerle. Ho notato che nelle molte proiezioni gli spettatori apprezzano nel film la semplicità, il modo diretto di proporle, il “bisogno” di capire. Gli spettatori più diversi gradiscono testi brevi, chiari, rapidi, non amano le immagini che facciano da “tappezzeria”, sanno ormai molto bene che sono “sprecate” come avviene in televisione. Il cinema non spreca, inventa. La televisione è un finto “presente” che condanna le immagini, i montaggi e i sonori a una quotidiana e abitudinaria livellazione. Le immagini e le parole, i documenti, muoiono; vanno invece rigenerati da uno sguardo più acuto, capace di scegliere e di mostrare con il gusto della curiosità e della scoperta. Quelle del film “1200 KM DI BELLEZZA” sembrano nuove, nel contatto con le immagini e i montaggi nuovi. La proposta quindi è doppia: il romanticismo di visitatori che erano letterati e filosofi, la loro acutezza e i loro sentimenti, si intrecciano con gli sguardi inquieti e interrogativi della modernità. Modelli di ieri e di oggi che s’intrecciano svelando prospettive inedite, scoprendo le differenze, sollecitando il dramma dei racconti della storia, della cultura e dell’arte. Uno spettacolo all’altezza delle esigenze di chi vuol conoscere, sapere, oltre che godere la potenza dei viaggi.

 

 

"E sì che l'Italia sembrava un sogno / steso per lungo ad asciugare / sembrava una donna fin troppo bella / che stesse lì per farsi amare" (Ivano Fossati, Pane e coraggio - Lampo Viaggiatore, 2003). Il suo viaggio in Italia è da sud a nord: perché questa scelta? Cambia lo sguardo sulla Penisola, ripercorrendo le rotte dei migranti?

 

Sì, “una donna fin troppo bella/ che stesse lì per farsi amare”, come canta Fossati. Ma il mio film non canta o fa cantare, soltanto; fa ridere e piangere, commuove e irrita, cerca vie diverse, legate ai fatti, fatti spesso inconcepibili. Il vecchio, caro Grand Tour partiva del Nord perché i ricchi visitatori venivano dall’Europa potente e ricca. Il mio Grande Viaggio comincia dal Sud e va verso le Alpi perché il mondo e i percorsi sono cambiati. Gente africana, e non solo, immigrati dai continenti del Sud immenso, approdano, se approdano, nella lingua di terra italiana, e non solo italiana. Cosa cercano? Ieri gli italiani che partivano per cercare risorse di vita andavano in scassati bastimenti verso gli Stati Uniti e la Statua della Libertà, tra sogni e sofferenze. Oggi popoli smarriti cercano nei barconi e a nuoto una terra che scivola via e guarda interdetta a destini spesso senza speranza, con poche o nessuna statua delle libertà. Da qui parte il mio film e rovescia l’ottimismo, il romanticismo del Grand Tour dei signori e dei colti.

 

Qual è la frase di Vittorio Sereni a cui si ispira il titolo del film? Per Sereni, prigioniero in tempo di guerra, la memoria è sofferenza, ma anche testimonianza e impegno civile. Si riconosce in questa impostazione?

 

Ho citato Sereni perché ha scritto qualcosa sul nostro Paese, una riflessione sul tema della “bellezza”. L’ho trovata nel primo verso di una sua poesia intitolata “Il sonno”, eccolo: “L’Italia, una sterminata domenica…”; in cui descrive una Milano immaginata nella seconda metà degli anni Cinquanta, in una domenica quasi estiva e “sterminata” di bellezza, di silenzi e di serenità. Però con tanti rimorsi per quello che poteva essere l’Italia dopo la Resistenza e non è stato. Quello che poteva essere l’Italia, dopo la Resistenza… Non una nostalgia per ciò che non è accaduto ma per una “sterminata” bellezza capace di uscire dalle pigrizie dolci della domenica, capace di diventare smagliante in un Paese libero dalla dittatura e dalle guerre, dall’inefficacia nelle scelte civili, tra cui l’ambiente, la vita da vivere. Ecco il senso del film. Uno sterminato viaggio nel tempo per vedere, tra gli anni della speranza e gli anni delle delusioni, le rappresentazioni del Paese e degli italiani, entrambi molto amati ma anche delusi, in attesa continua, tra entusiasmo e delusioni. Appunto: i ricordi come forme di impegno civile, in uno scenario molto cambiato, molto compromesso per inerzie, incapacità, mancanza di reagire.

 

Ci sono molte voci nel film, e molte lingue: si tratta di voler cambiare angolo visuale, oppure c'è un motivo?

 

Le voci sono molte, ci sono molte lingue, ma soprattutto c’è la nostra lingua. C’è quella del racconto da me scritto che include i ricordi e le espressioni dei grandi viaggiatori. Ad esempio, le parole di Stendhal che sta per lasciare l’Italia del Lago di Garda e dice che “che si va verso il brutto”, ovvero il Centro e il Nord Europa dove la bellezza è meno forte, vibrante, concreta, non come in Italia dove la bellezza è spesso trionfante, esplicita, tenerissima nelle campagne e nell’arte, carica di provocazioni nostalgiche, seducenti. Voci di viaggiatori come Maupassant per Napoli, come abbiamo visto, o come Goethe, incantato da Roma ma anche di fronte a una città che lo conquista e lo spaventa. Nel film, il tessuto dell’elogio e dei miracoli della bellezza dell’Eden o del Paradiso Perduto, come ripetono i grandi viaggiatori, entra nelle lingue e vi si confonde nella spettacolarità, quando l’arte e la natura portano a linguaggi alti, esplosione di utopie e sogni ad occhi aperti. È stato facile contrapporvi altri “spettacoli”, citando le lingue dei contadini e delle persone che hanno spesso creato la bellezza (negli ambienti, nei territori con il lavoro per una grande bellezza diffusa), ricordandone il suono, il gusto della spontaneità, la cura nelle cose semplici; con brevi citazioni o personificazioni tratte da rapidi documenti filmati o film in cui si affacciano dialetti e voci popolari. 

 

C'è tanta bellezza, in questa Italia della memoria: intendendo per bello ciò che ha valore, ciò che commuove, ciò che insegna. Che cosa invece è "brutto" per lei, in termini assoluti? C'è qualcosa che, per l'occhio del regista, veramente non vale la pena di far vedere, in un film?

 

Tutto vale la pena di vedere e far vedere. Il bello e il brutto nel cinema, e non solo nel cinema, sono i “materiali” con cui lavorare per creare un necessario rapporto non solo di contrasti, ma per capire suggerimenti, idee, contenuti, proteste, denunce. Non si può prescinderne. Nel mio film accade. Basta ricordare con una immagine gli effetti delle diverse forme di distruzione negli ambienti violati ed ecco emergere subito un terribile vuoto, un desolante spettacolo. Ecco che con poco si crea un vuoto che diventa “il” discorso, ovvero il mezzo per stabilire la storia e le storie che il nostro Paese offre a piene mani ai nostri occhi. Le città e i panorami contrastanti sono drammatici, tra violenza e incuria; in molte città e soprattutto nelle periferie o nei paesi abbandonati a un’incuria inarrestabile. Il “brutto” si vede forse più del “bello”, in Italia e nel mondo, a causa della pianificazione spesso invisibile e continua, nelle distruzioni non solo del gusto ma dell’ambiente in cui viviamo. Lo scrive James Hillman che addirittura osserva che ci siamo abituati, anche noi, al “brutto” e non ce ne liberiamo. “1200 KM DI BELLEZZA” è costellato da scene di questo tema. Il tema dello spregio del “bello” soffocato dal “brutto” sistematico. Nel film ci sono riprese girate appositamente in luoghi come L’Aquila in cui i terremoti hanno lasciato impronte drammatiche: una bella e grande città ingabbiata dai tubi innocenti, tubi colpevoli di ricordare troppo a lungo dolori e sofferenze. Gabbie che ci sono, ma che spesso non vediamo. Liberare la bellezza, ecco lo scopo del film.

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Caravaggio contemporaneo

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Mai come oggi tanto attuale, Caravaggio. Ben più che attuale, se con questo termine si intende semplicemente “corrente”: contemporaneo. Per contare gli eventi dedicati, solo nel corso degli ultimi anni, al pittore di origine lombarda, non basterebbe un articolo intero. Di sicuro, non bastano tutte le dita delle mani che si trovano nei suoi dipinti, del resto quasi sempre impegnate a stringere un corpo, a sperimentare i limiti del senso del tatto, oppure a indicare qualcosa di indeterminato, qualcosa di ambiguo, presente, da qualche parte, nel visibile o nell’invisibile. 

 

Caravaggio, La madonna del rosario, dettaglio.


Limitandoci a due esempi recenti, si pensa prima di tutto alla mostra Dentro Caravaggio, inaugurata il 29 settembre a Palazzo Reale di Milano, dove dipinti come Salomé con la testa del Battista (1607 o 1610) e San Francesco in estasi (1597) sono esposti fianco a fianco con le loro radiografie, che invitano lo spettatore a scoprire la stratigrafia creativa dell’opera d’arte. In secondo luogo, si può ricordare la serie di dodici puntate, trasmessa su Rai 5, La vera natura di Caravaggio (2017), ideata e condotta da Tomaso Montanari: una puntuale ricostruzione del percorso artistico del Merisi e della traccia incisiva lasciata nella tradizione visiva seicentesca. Ma, a ben vedere, neppure una grande mostra come quella milanese e neppure un moderno “critofilm” sembrano sufficienti a contenere un’attualità che esorbita dai confini della storia dell’arte e si impone nel di scorso mediatico contemporaneo. 

 

Rintracciamo citazioni di Caravaggio e forme di caravaggismo dappertutto: nei chiaroscuri delle drammatiche foto che ogni anno vincono il World Press o altri premi, scattate in luoghi lontani del mondo; nei gesti incarnati che hanno caratterizzano il salvataggio del piccolo Pasquale, intrappolato nelle macerie di una palazzina di Casamicciola, durante il terremoto di Ischia dell’agosto appena passato. Addirittura, si fa ricorso all’opera di Caravaggio per ironici quanto discutibili accostamenti con la cronaca politica italiana.

 

È così che, mentre Caravaggio “esce dalla storia dell’arte”, la storia dell’arte si arricchisce di strumenti teorici e metodologici per indagare le questioni di carattere estetico, sociale e politico implicate nella pittura. Non che i due fenomeni siano in un rapporto di causa effetto l’uno con l’altro, non che gli aneddoti sopra riportati abbiano avuto un’esplicita influenza sul campo della ricerca: si tratta piuttosto di una felice concomitanza.

 

Caravaggio, L'incredulità di San Tommaso.


L’uscita per Jaca Book del libro di Giovanni Careri Caravaggio. La fabbrica dello spettatore, già pubblicato in Francia per Citadelles & Mazenod, mette a disposizione dei lettori italiani una ricerca che si confronta con l’intero corpus pittorico caravaggesco, entrando in dialogo con le fonti seicentesche e con i principali studi di carattere storico e iconologico maturati negli ultimi anni, a livello internazionale: da Pamela Askew a Michael Fried, da Lorenzo Pericolo a Wolfram Pichler. Un libro che, pur restituendo l’opera di Caravaggio al contesto storico e culturale della Controriforma, sembra andare al cuore delle ragioni teoriche della sua attualità nella cultura visuale contemporanea.

Strutturato in dieci capitoli, comprensivi di introduzione ed epilogo, il libro pone infatti al centro l’analisi dei singoli dipinti mediante i quali il Merisi è stato capace di produrre effetti emotivi, cognitivi e sensibili inediti nel contesto pittorico del XVI secolo. Effetti tuttora capaci di esercitare una profonda fascinazione, se non una specifica efficacia, sugli spettatori. 

 

Il capitolo di apertura costituisce una dettagliata analisi dell’Incredulità di san Tommaso (1601-1602) che spinge la ricerca storico-artistica a confrontarsi con la teologia dell’epoca: dalle omelie di Carlo Borromeo, nella Milano di fine Cinquecento, agli esercizi spirituali di Loyola. Una caratteristica, quella di far lavorare insieme l’analisi dell’immagine, la ricostruzione storica e la riflessione teologica, che si ritrova anche nelle precedenti ricerche di Careri, principalmente dedicate a Bernini e a Michelangelo, e che sembra definire l’originalità del suo metodo. 

 

In particolare, quello “spettatore” del quale si parla fin dal titolo viene indagato su vari livelli, come una figura complessa e stratificata: in primis, lo spettatore come istanza semiotica, risultante dalle coordinate aspettuali dell’opera stessa; in secondo luogo, uno spettatore che potremmo definire “estetico” e “fenomenologico”, un soggetto della percezione e della sensazione; in terza battuta, uno spettatore ermeneutico e storico, dotato di competenze e di  attese, culturali e religiose; in fine, lo spettatore empirico, portatore di uno sguardo inevitabilmente e irriverentemente contemporaneo. Si tratta di un approccio ereditato da studiosi come Louis Marin e Hubert Damisch, fondatori della scuola parigina di teoria dell’arte, ma sul quale Careri innesta strumenti e competenze di carattere multidisciplinare che rendono possibile studiare le modalità di costruzione – la fabbrica– dello spettatore come il risultato di un dispositivo complesso.

 

L’analisi dell’Incredulità di san Tommaso mette dunque da subito in evidenza come le diverse  accezioni dello “spettatore” sopra elencate siano pur sempre derivate, per estensione, dalla prima: la “posizione” che il quadro assegna allo spettatore e dunque il “lavoro” che gli viene proposto di fare, spingendolo a farsi spettatore amante, nel primo gruppo di pitture affrontate nel libro, poi spettatore invitato alla conversione attraverso una pratica di “conformazione” e, infine, scomodo testimone dell’atto violento.

 

Caravaggio, Ragazzo morso da un ramarro.


Tale approccio guida infatti il passaggio da un’opera all’altra, da un capitolo all’altro, nell’identificazione di tematiche trasversali alla pittura di Caravaggio: il rapporto tra autoritratto e riflesso, la relazione con se stessi e quella con il divino (capitoli IV e V), la messa in crisi delle norme iconografiche a vantaggio dell’osservazione dal naturale e di un nuova concezione dell’evento pittorico (capitoli VI e VII). Ma man mano che la lettura procede, si incontrano interpretazioni sorprendenti e sorprendentemente contemporanee. Tale effetto non è tanto dovuto all’intenzione di “attualizzare Caravaggio”, quanto alla volontà di mettere in rilievo, mediante l’analisi, la capacità stessa del Merisi di precorrere i tempi o, meglio, di dare forma visiva a problemi che la filosofia e le scienze umane e naturali avrebbero affrontato solamente nei secoli successivi.

 

È questo il caso del terzo capitolo, dedicato alle due opere di Caravaggio che portano il titolo Ragazzo morso dal ramarro (1593-1594 e 1596 circa). Un capitolo che costituisce l’occasione per immergersi nel problema estetico della stimolazione sensoriale dello spettatore. L’analisi dei due dipinti di Caravaggio non costituisce dunque un’esegesi dei significati simbolici del lucertolone che spunta dalle foglie, ma è piuttosto un invito a osservare l’espressione del ragazzo, la smorfia che affiora sul suo volto e il brivido che scuote tutto il suo corpo come qualcosa di assolutamente rivoluzionario. «Nel Ragazzo morso dal ramarro– scrive l’autore – la coincidenza tra il corpo e la carne è scossa e disfatta, poiché il sostrato carnale impone il suo spasmo a un corpo che viene a trovarsi “in ritardo” e a un soggetto che non riesce né a controllarlo né a comporlo in un pensiero» (p. 90). E, ancora, prosegue, esplicitando la cogenza di tale aspetto della pittura caravaggesca in relazione all’estetica e alle “retoriche della sensazione” che sembrano quanto mai attuali nelle arti e nei media contemporanei: «L’intuizione del giovane Caravaggio appare allora nella sua stupefacente modernità, esplorando in questo quadro un territorio del “sentire senza concetto” che nessun artista aveva scoperto prima di lui e che la filosofia della percezione scoprirà solo nel XX secolo» (Ibidem).

 

Caravaggio, La cena in Emmaus.


Un luogo comune vuole che i grandi libri illustrati siano portatori di scarso approfondimento storico e teorico, a vantaggio della spettacolarizzazione della dimensione visiva. Una sorta di “blockbuster” dell’editoria. Contro questa diceria, la composizione grafica delle moltissime immagini che accompagnano lo scritto sembra in alcuni passaggi assumere un valore teorico in sé. Sottraendosi pienamente a quella concezione che vorrebbe subordinare l’immagine al testo verbale, alcune pagine del libro sembrano farsi tavole di un atlante dei gesti e delle posture (il riferimento a Warburg è più volte esplicitato) che circolano all’interno del corpus caravaggesco, assumendo funzioni e significati diversi. Si tratta di pagine nelle quali si suggeriscono possibili accostamenti o, quantomeno, rime visive e concettuali che il discorso verbale sembra poter riferire con minore leggerezza e incisività, non senza incappare nei limiti stessi dell’ekphrasis e non senza scontrarsi con l’ordine del discorso che, inevitabilmente, inquadra una disciplina. È questo ad esempio il caso delle pagine dedicate al confronto tra la postura del Narciso (1597-1598), la cui paternità è ampiamente discussa da parte degli storici dell’arte, e quella dell’Apostolo dei Gentili nella Conversione di san Paolo (1602).

 

Ma la parte che suscita maggiore curiosità del lettore – e, soprattutto, di quanti avranno modo di sfogliare velocemente il libro dopo aver tolto guardinghi il cellophane, all’interno di una libreria – è senza dubbio quella centrale. Quelle pagine del capitolo VIII nelle quali si cerca di andare al cuore del “realismo cristiano” di Caravaggio, effettuando – questa volta sì – un esplicito montaggio anacronistico con il cinema di Pier Paolo Pasolini. Proprio accanto alle riproduzioni di altissima qualità della Deposizione dalla croce del 1602-1603 di Caravaggio, troviamo dunque una serie di fotogrammi tratti da La rabbia (1963) e da La ricotta (1963) di Pasolini. Si tratta di un accostamento che trova del resto una piena legittimazione in seno alla filmologia novecentesca, se si considera l’esplicita influenza esercitata dall’insegnamento di Roberto Longhi sullo studente di storia dell’arte Pasolini all’Università di Bologna. 

 

In prima battuta, vengono dunque ripresi alcuni dei passi in cui Longhi descrive il carattere mondano, incarnato e umile delle figure sacre dipinte da Caravaggio e, in particolare, quel passo in cui suggerisce l’idea che il Merisi abbia messo in scena la Deposizione come un incidente minerario, con esplicito riferimento a quelli che sconvolsero l’Europa nel corso del Novecento: «quasi che dopo un crollo del cunicolo della cava – scrive Longhi – esso riemerga sulla plancia oscillante della pietra tombale recando in salvo almeno il corpo del più forte». Dopodiché, proponendo un’osservazione incrociata di pittura e cinema – di quadro e schermo–, Careri si spinge a formulare un’esplicita ipotesi interpretativa: che nella produzione del film di montaggio del 1963, Pasolini «avesse in mente le pagine longhiane relative alla Deposizione di Caravaggio: le si sente risuonare nella poesia che accompagna la sequenza, letta da Giorgio Bassani, mentre sfilano le immagini documentarie del dolore delle famiglie dei minatori» (p. 259).

 

Svelando e dando nuova vita agli anacronismi lessicali – l’ampio uso di metafore cinematografiche – e contestuali presenti negli stessi scritti di Longhi su Caravaggio, il libro non si limita dunque a mettere a fuoco le forme di rappresentazione del messaggio evangelico da parte del pittore, ma si spinge a indagarne le possibili forme di sopravvivenza all’interno dello scenario mediatico e politico contemporaneo.

 

Un’ultima serie pittorica che vale la pena di ricordare è quella sviluppata nel capitolo IX, riguardante le forme di rappresentazione della violenza. Il capitolo si concentra su dipinti come Giuditta e Oloferne (1598-1599), il Sacrificio di Isacco (1602-1603), la Decapitazione di san Giovanni battista (1607-1608), la Flagellazione di Cristo (1607) e Davide e Golia (1609-1610). Anche in questo caso il metodo iconologico, attento alle configurazioni piuttosto che al riconoscimento delle singole figure, si intreccia con la ricostruzione storica.

 

Ma, in una recensione che prende le mosse dall’“attualità di Caravaggio” all’interno del discorso mediatico contemporaneo non può sfuggire il continuo ricorso – «se si può riferire questa nozione anacronica alla pittura» (p. 337) – al concetto cinematografico di “fuoricampo” per descrivere la qualità specifica della luce in Caravaggio, che scende sui corpi da un altrove trascendente e immanente al contempo, oppure per analizzare le forme di coinvolgimento dello spettatore di fronte a scene di estrema violenza.

 

Piuttosto che nell’“attualità” della violenza e dei gesti che cercano di impedirla, rifuggirla o contenerla – come se quest’ultima avesse mai smesso di essere attuale –, è dunque l’idea di “fuoricampo” della pittura a offrire un prezioso spunto – eventualmente da approfondire – per ritornare con un rinnovato sguardo agli aneddoti proposti in apertura e alla “contemporaneità” dell’estetica del Merisi. È nella suggestione teorica di qualcosa come un pensiero del fuori all’interno della pittura di Caravaggio che si rintraccia una questione teorica di grande importanza per poter aprire consapevolmente – e senza rischi di forzature e derive interpretative – la riflessione storico artistica e il patrimonio del quale questa si prende cura, a un dibattito civile e politico che riguarda il tempo presente.

 

Giovanni Careri, Caravaggio. La fabbrica dello spettatore (Jaca Book 2017, pp. 383).

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Fuoricampo
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Primo Levi

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Settanta anni fa usciva a Torino presso un piccolo editore, De Silva, il primo libro di un giovane chimico. S’intitolava, come tutti oramai sanno, Se questo è un uomo. Era l’opera di uno sconosciuto aspirante scrittore, che raccontava agli italiani la vicenda dei campi di sterminio nazisti dove erano morti milioni di persone: ebrei, antifascisti, zingari, omosessuali, militari; uomini, donne e bambini, sterminati dalla macchina tedesca con metodo industriale. In questi sette decenni trascorsi da allora questo libro si è trasformato in un classico della nostra letteratura, uno dei libri più letti, commentati e amati dai lettori, tradotto in innumerevoli lingue. E dire che Primo Levi aveva esordito con fatica, respinto da alcuni importanti editori, come racconterà molto dopo, tra cui Einaudi, la casa editrice che l’annovera oggi tra i suoi autori maggiori. Com’è potuto accadere che questo volume, riprodotto su una carta povera del Dopoguerra – era il 1947 – sia divenuto un testo fondamentale? Lo racconta qui «Riga» ripubblicando le più importanti recensioni uscite da quell’anno al 1988, poco dopo la scomparsa di Primo Levi e la pubblicazione di un altro libro fondamentale, I sommersi e i salvati (1986). Si tratta di una scelta dei pezzi dedicati ai libri dello scrittore torinese nell’arco di quarant’anni, tanto è durata la complicata carriera di Levi: dalla testimonianza alla considerazione della sua importanza come scrittore tout court. Non certo un passaggio facile o agevole, anzi, spesso contrastato; solo all’inizio degli anni Ottanta del XX secolo Primo Levi sarà considerato a pieno uno scrittore dalla critica italiana e poi internazionale, dopo essere stato schiacciato sull’immagine del testimone dell’Olocausto. Ma come documentano alcune delle recensioni che qui abbiamo raccolto – recensioni in positivo –, la valutazione e la comprensione del suo lavoro letterario è stata patrimonio di un piccolo novero di lettori specialistici, di scrittori e saggisti, che ne hanno riconosciuto da subito, si veda Italo Calvino, il valore. Queste recensioni aiutano anche a entrare nei libri di Levi, scrittore poliedrico e complesso. Così si spiega anche la difficoltà che ha incontrato a essere pienamente valutato come autore.

 

Il volume si apre con un contributo narrativo inedito dello scrittore ebreo torinese Aldo Zargani, lettore ma soprattutto amico di Primo Levi. Seguono due testi dispersi e poco noti del chimico scrittore: un’autobiografia scritta per un’intervistatrice, Vanna Nocerino, e una conferenza sulla conservazione dei cibi, trascritta da un nastro registrato. Due esempi della sua multiforme attività. Seguono tredici interviste apparse su giornali o registrate nel corso di varie trasmissioni televisive, dal 1963, anno in cui vince con La tregua, al 1986. Tra queste spicca una lunga intervista inedita del 1984 rilasciata a Pier Mario Fasanotti e Massimo Dini per un volume mai pubblicato: Levi ripercorre la sua vita e ne racconta dettagli e episodi sconosciuti, compresa la deportazione da Fossoli. Nel numero sono incluse anche dichiarazioni rilasciate da Levi dal 1965 al 1987 su argomenti vari, quali le letture estive, giudizi su avvenimenti storici, vicende della deportazione, feste ebraiche; si tratta di brevi testi tratti da giornali e riviste raccolti qui per la prima volta. La parte centrale del volume riproduce molti dei saggi inclusi nel volume di «Riga», esaurito da tempo, dedicato allo scrittore torinese uscito nel 1997, in occasione del ventennale della sua morte, una sorta di dizionario redatto da alcuni dei più importanti studiosi dello scrittore, che intendevano illuminare allora alcuni aspetti della sua attività letteraria; si tratta di testi diventati a loro modo dei piccoli classici nella bibliografia critica su Primo Levi. A questi si aggiunge un saggio dedicato al rapporto tra l’ebreo torinese e Israele, che raccoglie anche i diversi appelli sottoscritti da Levi sulle vicende di quel paese, e la traduzione di un testo di Robert Weil apparso nell’edizione americana delle opere complete dedicato al rapporto tra Primo Levi e l’America e alla sua ricezione e consacrazione come scrittore. Una sezione riguarda invece i testi del convegno Primo Levi antropologo ed etologo, tenutosi nel 2016 all’Università di Bergamo e all’Università Milano-Bicocca, in cui i testi dell’autore vengono considerati sotto questa duplice prospettiva: un modo per ampliare il campo della conoscenza della sua opera grazie anche al diverso sguardo dei suoi lettori uomini e donne di scienza. I disegni e gli schizzi di Pietro Scarnera, autore del volume Una stella tranquilla con cui ha vinto il premio Angoulême – una delle manifestazioni più importanti al mondo per la graphic novel – accompagnano questo numero a partire dalla copertina. Scarnera, cultore dell’opera e della vita dello scrittore torinese, ne fornisce una ulteriore lettura per brevi tratti.

 

Siamo convinti che l’importanza di questo scrittore, saggista, poeta, testimone, intellettuale, sia destinata ad aumentare. Due avvenimenti importanti precedono l’uscita di questo corposo volume, che nel 1997 segnò un punto decisivo nella lettura dello scrittore torinese: la pubblicazione in America, nel corso del 2015, delle sue opere, The Complete Works, presso la casa editrice Liveright, a cura di Robert Weil e con le traduzioni curate da Ann Goldstein; l’edizione nel 2016 presso Einaudi delle Opere complete in due volumi, a cura di Marco Belpoliti, edizione accresciuta rispetto alla stessa pubblicazione americana. Il prossimo anno uscirà poi il terzo volume delle Opere Complete, Conversazioni, interviste e dichiarazioni, che raccoglie un’ampia scelta delle sue interviste. Questo volume, che ripercorre alcune delle parti di quello edito nel 1997, fornisce un ulteriore contributo alla scoperta e riscoperta di uno scrittore decisivo per la nostra epoca. Questa opera consentirà a lettori comuni, studenti, studiosi, semplici curiosi, di conoscere meglio l’attività poliedrica del chimico torinese, illuminando aspetti ancora in ombra della sua personalità letteraria e umana. Un lavoro che si è avvalso del contributo di un notevole numero di persone, della collaborazione dell’Università di Bergamo e di Milano-Bicocca che hanno sostenuto questo sforzo editoriale e che qui ringraziamo.

 

Leggere Levi per capirlo meglio, ma anche per capire il suo e il nostro tempo: uno scrittore per il XXI secolo, e oltre.

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Volume numero 38
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Gli alter ego

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Nell’abisso dei pensieri privati di ciascuno di noi si è immaginato un alter ego, un solo “altro me stesso”, e invece nella nostra mente abita una folla di alter ego, numerosi come gli dei dell’Olimpo, i semidei delle leggende pagane, e oggi dei romanzi saga, dei serial TV, dei fotoromanzi, dei fumetti...

 

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Per un’arte radicale

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Fred Moten e Stefano Harney nel libro The undercommons (2013) sostengono che nelle democrazie occidentali neoliberiste lo “studio”, inteso come istruzione impartita da un’istituzione, è un atto individualistico e performativo che mira a mantenere invariate le classi sociali esistenti.

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The Handmaid’s Tale: Non consentire che i bastardi ti annientino

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Siamo nella parte finale del ventiduesimo libro dell’Odissea: dopo aver fatto strage dei Proci che in sua assenza avevano occupato la Reggia, Ulisse manda il figlio Telemaco a svegliare l’anziana Euriclea, la sorvegliante delle ancelle. Giunta nella sala, allo spettacolo della carneficina la vecchia vorrebbe gridare di gioia, ma il suo padrone le intima il silenzio, e, mentre Penelope dorme ancora, le ordina di far venire le ancelle infedeli: coloro che si son «macchiate di colpa» invece di rimanere «intatte» – dodici su cinquanta, secondo quanto dichiara Euriclea. Prima di farle morire, Ulisse ordina che le donne trascinino nell’atrio tutti i cadaveri, e lavino la sala dove si è consumato il massacro. Anche gli altri traditori di corte saranno sottoposti a sevizie terribili, eppure la punizione delle ancelle si distingue per un sovrappiù di crudeltà simbolica, grazie alla doppia aggiunta di una drammatizzazione rituale dell’espiazione e di una esibizione spettacolare dei loro corpi giustiziati. Prima di essere uccise, infatti, saranno costrette a pulire la sala; dopodiché, su iniziativa di Telemaco, non verranno semplicemente trafitte dalla spada, come inizialmente aveva chiesto Ulisse, ma saranno appese, «coi capi in fila» e un nastro al collo come una dozzina di tordi, alla fune di una nave messa in sospensione tra una colonna di marmo e una torre: «guizzarono coi piedi, ma guizzarono per poco» – dice il testo. 

 

Questi eventi e personaggi minori del mito del ritorno a Itaca erano stati abbastanza trascurati, finché non gli è stata data nuova visibilità da un libro di Margaret Atwood, The Penelopiad (2005), pubblicato in Italia nel medesimo anno da Rizzoli (Il canto di Penelope), dove si riprende la vicenda di Odisseo facendo però parlare, stavolta, Penelope: che, dall’Ade, ci narra del suo destino, accompagnata dal coro delle sue dodici ancelle giustiziate.

 

 

La scelta di decostruire un grande mito “dando voce” a chi non aveva potuto raccontare in prima persona la propria storia; l’uso dell’“ancella” come motivo emblematico, figura chiave della vicenda; e la messa in scena, da una prospettiva esterna e straniante, di un eroismo maschile violento che si afferma anche attraverso lo spettacolo della sottomissione del femminile: ciascuno di questi tre motivi era già stato trattato in uno dei romanzi più letti di Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale, 1985; appena ripubblicato da Ponte alle Grazie, nella traduzione di Camillo Pennati). Un’opera famosa, ma non così tanto finché, dopo vari adattamenti teatrali e persino un (brutto) film, il testo è diventata una serie tv statunitense in dieci episodi per piattaforme on demand, ideata da Bruce Miller, interpretata da Elisabeth Moss; pluripremiata, e trasmessa nel 2017 (in Italia da fine settembre).

 

 

Dialogando con codici e temi che attraversano tutta l’opera di Atwood – di cui si può trovare un’accurata presentazione in un articolo di Gaja Cenciarelli uscito sul numero di novembre di Nuovi ArgomentiIl racconto dell’ancella allestisce una distopia, vale a dire una narrazione che sfrutta l’immaginazione per portare una situazione fino ai suoi esiti negativi più estremi. Siamo alla fine del ventesimo secolo (il libro era uscito nel 1985), e il mondo occidentale è devastato da guerre, inquinamento e sterilità. Per mantenere il controllo della situazione, le grandi potenze siglano un “accordo sulle sfere di influenza”, ossia un impegno reciproco di non interferenza sui modi e le soluzioni con cui i singoli governi terranno a bada la crisi. In Nord America si insedia di forza un regime di ispirazione veterotestamentaria, la Repubblica di Galaad, che dichiara illegali le altre religioni, i secondi matrimoni e le coppie non maritali (dunque tutte le unioni non celebrate dalla Chiesa di Stato), le relazioni omosessuali e la lettura. Le donne sono asservite di forza a un sistema che le irreggimenta e le riconosce unicamente secondo criteri di dominio maschile, con gerarchie regolate dalla capacità riproduttiva e che si ispirano al passo biblico (Genesi, 30; 1-3) in cui si dice che Rachele, non potendo procreare, fece fecondare da Giacobbe la sua serva, Bilha. 

 

Attraverso gli occhi, i pensieri, i ricordi e le azioni della protagonista, Il racconto dell’ancella descrive l’esperienza di questo nuovo mondo, completamente organizzato secondo una logica militare e antiindividualista. Ci sono le “Mogli” dei Comandanti, vestite di verde intenso; le “Ancelle”, in rosso: sono le donne fertili strappate alla loro vita precedente e sottomesse alla Repubblica per essere fecondate dai Comandanti; le “Marte”, in verde smorto: le donne sterili e attempate che svolgono i servizi domestici; le “Zie”, in marrone spento, che si occupano di educare, sorvegliare e punire le Ancelle, addestrandole presso il “Centro di Rieducazione Rachele e Lia” – dal nome delle due sorelle sposate da Giacobbe (Genesi, 29). Le donne ormai troppo anziane per essere fertili o non più utili anche nei lavori umili sono dichiarate “Nondonne” e fatte fuori. Chi si ribella, se è un’ancella viene sottoposta a una punizione corporale, quando va bene; altrimenti viene ucciso, o esiliato nelle Colonie, a svolgere lavoro forzato di trattamento e smaltimento dei rifiuti tossici. 

 

 

Come sarà spiegato alla fine del libro Il racconto dell’ancellaè un titolo doppio, in realtà, perché è sia il titolo del libro di Atwood, sia il titolo che, secondo la finzione, è stato assegnato alla trascrizione di una trentina di antiquate cassette stereo a cui un’Ancella in contatto con il “Mayday” (un movimento clandestino di resistenza) ha affidato la propria testimonianza, e che sono stati ritrovati molto tempo dopo, quando la Repubblica di Galaad è ormai un sistema scomparso. Non si sa che fine abbia fatto l’Ancella che narra la storia: se sia stata liberata dai rivoluzionari, o se sia stata mandata nelle Colonie. Come tutte le altre Ancelle, il suo nome è andato perduto quando è entrata nel Centro, e sostituito da un patronimico composto dalla preposizione con valore possessivo (“Di”) e dal nome di battesimo del Comandante a cui è stata assegnata. “Difred”, nel nostro caso; ma nella traduzione si perde la polisemia della versione originale, perché l’inglese “Offred” (: Of Fred), come ricorda anche Cenciarelli, coincide quasi con “offered”, e, al tempo stesso, evoca la tinta dell’uniforme rossa (“of red”) che tutte le ancelle indossano, portando in testa una cuffia e sopra di essa un copricapo a calotta che impedisca di alzare o volgere liberamente lo sguardo:

 

 

Svolgendo il filo della suggestione cromatica, sia nel romanzo che nella serie, ecco che subito arriva, proprio come una visione, la figura e dietro di lei l’opera con cui più di tutte sembra dialogare il libro di Atwood, vale a dire The Scarlet Letter (1850).

 

Demi Moore ne “La lettera scarlatta” (“The Scarlet Letter”, Roland Joffé, 1995).


Dalla Lettera scarlatta a Il racconto dell’ancella ritorna non solo il motivo letterale del corpo femminile come corpo peccaminoso, impuro, e da stigmatizzare attraverso l’imposizione di un abito (la lettera scarlatta, la veste rossa); non solo l’espediente del manoscritto ritrovato; ma, soprattutto, direi, l’idea di mettere in scena (in Hawthorne con un romanzo ambientato nel Seicento, in Atwood con una distopia proiettata in un futuro prossimo) una società completamente ispirata non a un capitolo qualunque, ma a uno dei miti fondativi dell’identità e della storia americane, vale a dire il puritanesimo. Che, così, da leggenda “edificante” e mappa di valori si trasforma, in entrambi i libri, in grande narrazione repressiva, fanatica e punitiva attraverso la quale è passata, anche impercettibilmente e fino alla contemporaneità, una cultura che si legittima usando come campo di definizione e di battaglia il corpo delle donne, mettendole via via sotto processo, punendole e disciplinandole: un tempo per stregoneria, poi per adulterio, poi, nel presente, per una presunta libertà “incontrollata” rispetto all’istruzione, alla sessualità e alla riproduzione.

 

Ecco allora che la distopia, come genere di discorso spesso ripreso nell’opera di Atwood, funziona, qui come anche in altri casi, come dispositivo straniante di un esperimento speculativo: perché parte dal principio che se la “normalità” è, e può diventare, tutto ciò a cui siamo abituati, e se, allo stesso modo, è “strano” e rapidamente può diventare o tornare a essere strano tutto ciò a cui non siamo abituati, allora la scrittura di un romanzo può valere come invenzione sperimentale di un mondo narrativo che, attraverso la lettura, ci faccia abituare a qualcosa che è strano e che progressivamente, attraverso la storia, diventa sempre più normale. Stiamo indugiando su questo punto, che funziona sia come principio estetico che come procedimento tecnico, perché è un passaggio importante, fondamentale, per capire il libro, come pure per spiegare la capacità che ha avuto la serie di sfruttare, come non era mai accaduto prima, il progetto di spaesamento e riambientazione messo in atto dalla scrittura del Racconto dell’ancella: un romanzo completamente organizzato, fino alle pagine finali delle fittizie Note storiche, secondo una sintassi dei capitoli (sette su quindici intitolati “Notte”) e una trama onirica e quasi ipnotica, fatta di frammenti appartenenti a stati temporali e emotivi diversi, dove si alternano, attraverso il resoconto in prima persona, momenti di confusa coscienza di quanto sta accadendo, di perdita del sentimento di sé legato alla vita precedente, di flashback e di messe a fuoco della nuova vita da schiava. 

 

Diversamente dal film del 1990 diretto da Volker Schlöndorff e sceneggiato da Harold Pinter, dove la creazione di uno stile composito e la forza visionaria del romanzo di Atwood diventavano materiali inerti rimescolati in un racconto drammatico a tinte forti, la serie The Handmaid’s Taleè, nel suo genere, una delle opere più belle degli ultimi anni; e questo accade anche, e forse soprattutto, per come è riuscita a riattivare e potenziare i punti di forza della storia inventata dal libro. La narrazione del Racconto dell’ancella, infatti, era già, per molti aspetti, un progetto visionario in senso non solo mentale e letterario, ma visuale, da quanto sa lavorare, a molti livelli, sui tanti piani relativi alle azioni e alle funzioni simboliche legate alla situazione di vedere e essere visti. In particolare, e per senso della sintesi, credo che questa capacità di restituzione e moltiplicazione della forza visiva del testo di partenza operata dalla serie possa essere fissata almeno in quattro momenti principali.

 

In primo luogo, la serie valorizza il dinamismo narrativo del libro – un’opera visionaria che procedeva da un futuro distopico, intersecando la percezione del presente (ora registrato passivamente ora commentato da frammenti di coscienza) con proiezioni nel passato della vita precedente. La condizione di Offred (Difred) è narrata attraverso la sua prospettiva, ma questo non significa che il lettore sappia vedere e capire fino in fondo cosa ci sia nella sua mente. Questo nervosismo, sia interno che esterno al racconto, ritrova una sua centralità espressiva grazie al montaggio – che alterna i diversi piani narrativi; alla fotografia, che crea continuamente effetti di sovraesposizione iperrealistica; all’uso della macchina da presa, che alterna campi lunghi o vedute aeree, usati per lo più nelle situazioni corali, a primi piani che indugiano sul volto della protagonista: particolarmente intenso e talentuoso, come era già accaduto nelle interpretazioni precedenti di Mad Men o in Top of the Lake, nell’espressione di stati d’animo opachi, indecifrabili:

 

 

 

Un secondo aspetto messo a frutto creativamente è il motivo dello sguardo come dispositivo forte di controllo: attraverso l’uso delle inquadrature, che continuamente mettono i personaggi, e noi con loro, in una posizione di sorveglianza subita (tra le guardie si nascondono agenti speciali indicati come “Occhi”), o pure di spionaggio continuo del mondo; attraverso la postura corporea delle ancelle, costrette a non guardare e a essere continuamente sorvegliate. L’insistita ripetizione di scene in cui le donne si scambiano, secondo la prescrizione, la formula di saluto: «Under His eye» (oltre a «Blessed be the fruit / May the Lord open») accresce l’effetto sonoro e visivo del cerchio di controllo dentro il quale sono chiuse le ancelle. 

 

 

A questa situazione si attacca anche il terzo motivo che nel passaggio dal libro alla serie lavora produttivamente, vale a dire la capacità di raccontare e rappresentare, facendolo accadere in termini narrativi e visivi, l’annullamento delle individualità – sancito del resto dalla stessa sostituzione del nome proprio con la definizione di appartenenza. Questo stato di costrizione via via si normalizza: da esterno diventa, progressivamente, anche uno stato interno attraverso la relazione stretta che la successione della storia produce – raccontandola e facendola vedere – tra stereotipo e gruppo. La forza espressiva delle uniformi, messe spesso accanto a contrasto, e gli effetti di stereotipizzazione sono il risultato di un lavoro sulla forma, anche attraverso i costumi, che si è trasformato in stile: le ancelle di The Handmaid’s Tale non sono più, come ancora accadeva nel primo adattamento cinematografico, figure “vestite da” ma sono, alla lettera e a colpo d’occhio, corpi azzerati dall’habitus. Come le Mogli, le Marte, le Zie, le Ancelle sono unicamente e completamente quello che sono costrette a apparire. Non più soggetti, ma riflessi, personae di una drammaturgia che ha bisogno di una ritualità organizzata in ogni dettaglio per essere assoluta. La vita di gruppo e l’uniforme non sono soltanto descritte, ma sono fatte vivere e agire in senso cinematografico: oltre che grazie alla fotografia, attraverso una scenografia che di continuo, come un’incancellabile vergogna, fa risaltare il rosso come una macchia di sangue che sbalza da uno sfondo virato sui gialli autunnali, sugli interni beige, o sui grigi, trasformando le differenze cromatiche in una sorta di bussola morale del mondo:

 

 

L’uso statico della macchina da presa, che di continuo compone delle scene che sembrano tableaux vivants, e le emozioni compresse dai dialoghi perfezionano il senso di questo imprigionamento e silenziamento del femminile eletto a sistema totale:

 


Siamo arrivati al quarto motivo che rende la serie Il racconto dell’ancella un esempio non comune di valorizzazione reciproca tra un’opera di partenza e il suo riadattamento. È l’aspetto più scabroso e che più turba, in un certo senso, tant’è vero che è anche il tema che più “impressiona” – ma che si tende a discutere meno, perché riguarda l’invenzione terribile per cui le figure portatrici e esecutrici più spietate di una cultura misogina e di una supremazia del maschile fondata sul controllo della fertilità possono provenire non dalla casta dei dominatori, ma dalla classe delle dominate, vale a dire proprio le donne stesse: le “Mogli” dei comandanti, sulle ginocchia delle quali le ancelle saranno tenute per i polsi e inseminate; le “Marte”, addette al controllo e alla pulizia della casa; e, infine, più spietate e fanatiche di tutte, le “Zie” (che ricordano, nella loro persuasione di agire nel bene, la spietata tenerezza della vecchia serva di Odisseo):

 

 


 

Ciascuna di queste figure del femminile incarna una condizione coatta – propria cioè di chi sorvegliando l’altra sorveglia anche sé stessa. È una forma di vita talmente feroce da essere quasi innominabile, tant’è vero che nel passo biblico messo in epigrafe nel Racconto dell’ancella (p. 5) si usa una parola che forse nella traduzione italiana non è resa con il termine più adatto, quando per spiegare la decisione di Rachele di chiedere a Giacobbe di ingravidare Bilha, si dice che Rachele «divenne gelosa di sua sorella». Rachele, a esser più precisi, e come dice il testo originale di Atwood («Rachel envied her sister»), non è gelosa, bensì “invidiosa” di sua sorella – e vale la pena di ricordare che la parola deriva da in-videre: guardare male, implicando, dunque, una situazione legata alla vista. Rachele, infatti, non desidera avere soltanto per sé la sorella (sarebbe gelosa), ma desidera, non avendolo, quello che la sorella ha: ecco l’innominabile, ecco l’invidia. Tutto il romanzo di Atwood, e tutta la serie, è una specie di vertiginosa macchina di segni ispirata all’espressione del dominio dell’occhio e dello sguardo: anche tra le Ancelle («Non esiste l’amicizia qui. La verità è che ci controlliamo l’una con l’altra. Lei è la mia spia e io la sua»). Tanto il racconto di parole quanto la serie trasformano il motivo profondo dell’invidia e del controllo reciproco tra donne nella sottotraccia simbolica della storia – contenendo anche spunti possibili di riflessione estremamente complessi sulle discussioni contemporanee in tema di maternità surrogata. 

 

Ma l’invenzione di Margaret Atwood, come la serie che ne è stata tratta, ha conquistato così tante letture e visioni perché non è mai didascalica, bensì confonde e scambia bene e male; e così riesce a contenere, affascinandoci, sia il veleno che il contravveleno, perché l’invidia tra le donne, la mancanza di solidarietà, diversamente da come raccontano i miti patriarcali, tutti fondati sulla competizione tra donne (belle e brutte, brave e incapaci, buone e cattive, fertili e sterili, miti e arrabbiate) per la conquista del maschio, questa invidia può essere decostruita, “tagliata” dalla narrazione, e dunque può smettere di essere assoluta. 

 

Sono tre i tipi di varco attraverso i quali, nel corso di The Handmaid’s Tale, si insinua la possibilità di un mondo altro. Il primo caso è quello delle spaccature che via via il racconto insinua, in questo sistema assoluto e concentrazionario, attraverso un sistema compositivo fatto per parti che si intrecciano e collidono, man mano che il tessuto del racconto dell’orrore presente si squarcia per lasciar spazio, in flashback, alle memorie del passato. In questo senso, è fondamentale l’uso della musica in The Handmaid’s Tale, perché è proprio la musica che spesso serve a restituire al racconto la possibilità di una memoria epica, cioè di un tessuto capace di raccogliere le singole vite in un progetto comune. Ripenso, per limitarsi a tre esempi particolari, alle canzoni messe al termine degli episodi – che facendo parte di una serie funzionano anche come finali momentanei, promesse di un proseguimento. You Don’t Own Me, alla fine del primo episodio, Don’t You Forget About Me, alla fine del secondo; Waiting For Something, in chiusura del terzo: qui, come tutte le altre volte, le canzoni, usate in forma extradiegetica, sfondano il muro del silenzio, diventando tracce, grida della felicità della vita precedente, che come lame tagliano l’orrore normalizzato, e restituiscono, alle esistenze così annientate delle Ancelle, la promessa di un nuovo inizio.

 

Il secondo varco da cui passano sintomi e segnali di una vita altra, dove sia possibile dire «Noi siamo ancelle», riguarda il mondo disperatamente vitale di relazioni che la protagonista stabilisce con le altre ancelle: Moira, la migliore amica del college, Ofglen, Janine. Nel medesimo tempo, la ricerca della figlia, che le è stata sottratta quando Offred è stata sequestrata alla sua vita precedente, funziona, nel corso del racconto, anche come atto simbolico di resistenza alla perdita completa di sé. 

 

E infine, ma certo non perché sia meno importante degli altri, un ulteriore motivo attraverso il quale le protagoniste del Racconto dell’ancella, e noi con loro, possono, se non sperare, almeno immaginare una via d’uscita, consiste nella possibilità di rientrare in contatto con il mondo della scrittura e, per via di essa, con il potere della parola. Tutta la narrazione di The Handmaid’s Tale– un mondo dove le donne sono state e si sono ridotte in schiavitù abolendo l’esperienza della lettura (perfino dalle insegne dei negozi) – è costellata di parole scritte (graffiate sui muri di un bagno, sulla parete di un armadio, in biglietti clandestini, in lettere):

 

 

 

 

Sono tutti semi nascosti, impercepibili ma persistenti, che possono far rifiorire, sia pure debolmente, un racconto, e dunque, simbolicamente, un’identità. 

L’uso stesso del latino maccheronico nella scritta incisa sul muro dalla precedente ancella e trovata da Offred “Nolite te bastardes carborundorum” (“Non consentire che i bastardi ti annientino”), in una frase che a pensarci suona anche comica, in una certa misura costruisce una pista umoristica che del resto si era già insinuata sulla soglia del romanzo, attraverso una delle tre epigrafi scelte da Atwood – quella dal pamphlet satirico di Swift Una modesta proposta per impedire che i bambini della povera gente siano di peso per i loro genitori o per il Paese, e per renderli utili alla comunità (1729). Così come è stata espropriata da sé stessa, anche Offred, forse, può imparare, attraverso la scrittura, a espropriare le parole dal potere che le ha riempite di significato, per restituire loro un nuovo senso, perfino una nuova ironica, autoironica e liberatoria leggerezza: «C’era un’altra Offred prima di me. Mi ha aiutato a trovare una via d’uscita. È morta. È viva. È me. Noi siamo ancelle. Nolite te bastardes carborundorum, stronzette» (The Handmaid’s Tale, Stagione 1, episodio 4: finale). 

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Ilya and Emilia Kabakov. Not Everyone Will Be Taken Into the Future

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A cento anni dalla Rivoluzione Russa, la mostra di Ilya ed Emilia Kabakov invita a riflettere sui concetti di storia, di autorialità, sulle speranze così come sul fallimento e chiede: può l’arte con le sue potenzialità evocare un cambiamento e un miglioramento della società in cui viviamo? Dalla realtà dell’Unione Sovietica, dalle asperità, dalle oppressioni del regime dittatoriale, l’opera dei Kabakov si permea di una dimensione poetica, a tratti malinconica, a tratti fantastica, capace di comunicare significati condivisi e universali.

Juliet Bingham, curatore di Arte Internazionale alla Tate Modern, nel catalogo della mostra, riporta le parole di Emilia Kabakov: “Il mondo e il lavoro di Ilya sono costruiti sulla fantasia e sulla storia dell’arte. Io, d’altro canto, molto presto nella mia vita, ho imparato a combinare realtà e fantasia e a vivere entrambe. La nostra vita si basa molto su questa combinazione (…) La nostra vita consiste del nostro lavoro, sogni e discussioni. Siamo fortunati: siamo riusciti a trasformare la realtà in fantasia e a risiedervi in modo permanente”.

La mostra alla Tate Modern, visitabile fino al 28 gennaio 2018, si dispiega in dieci sale che attraversano la produzione degli artisti dai primi lavori di Ilya Kabakov degli anni Sessanta fino alle opere realizzate in collaborazione con Emilia dalla fine degli anni Ottanta ad oggi, consentendo al visitatore di immergersi in un percorso che si snoda tra il mondo degli artisti e le tematiche da loro poste in discussione. 

 

Ilya Kabakov, Soccer Player, 1964 Olio e smalto su masonite, 560 x 700 mm, Private collection © Ilya & Emilia Kabakov.


Nato nel 1933 a Dnepropetrovsk, Ilya Kabakov studia alla Scuola d’Arte di Mosca e al V.I. Surikov Art Institute dove si specializza in Graphic design e illustrazione. A metà degli anni Cinquanta inizia a lavorare come illustratore di libri per bambini e in parallelo sviluppa un discorso artistico lontano dai canoni e dalle censure imposte all’arte ufficiale dal regime. 

I dipinti nella prima sala espositiva ammiccano con ironia sovversiva allo stile dominante del Realismo Socialista che Ilya Kabakov rielabora in modo concettuale, mescolando diverse influenze artistiche del passato e delle avanguardie con tratti tipici dell’illustrazione.

 

In The Soccer Player (1964) la figura stilizzata di un calciatore si staglia sopra un fondale azzurro, dove compare scritto in Cirillico “Uglich”. All’interno della sagoma s’intravede un paesaggio agreste, apparentemente idillico, vicino alla cittadina di Uglich, dove sorge una centrale idroelettrica costruita dai prigionieri dei Gulag, mentre in The Queen Fly (1965) una mosca nobilmente ritratta diventa simbolo del volo e della possibilità di evasione.

Elementi tridimensionali affiorano sulla superficie dipinta così da formare “oggetti-immagine” realizzati con materiali crudi, poveri, comuni, disponibili nella quotidianità della vita sotto il regime. Il fallimento di una società utopica affiora emblematicamente nel dittico By 25 December 1979 in our district will be constructed… raffigurante un centro urbano in costruzione in cui due vanghe apposte sulla superficie accrescono il senso della manodopera di un lavoro forzato. La parola scritta mescola l’invenzione fantastica con la denuncia del reale: sul pannello sinistro sono elencate case, scuole, centri sportivi, cinema, biblioteche e altri servizi per i cittadini, la cui costruzione prevista entro il 25 dicembre 1979 non è ancora realizzata nel 1983, anno in cui è datato il dipinto. 

 

Ilya Kabakov, The Queen Fly, 1965, Olio e smalto su masonite, su legno, Oil paint and enamel on Masonite and wood, 485 x 600 x 60 mm, Private collection, Switzerland, © Ilya & Emilia Kabakov.


Nel 1972 Ilya Kabakov è tra i fondatori del Stretenski Boulevard Group, così chiamato perché gli studi dei membri si trovano nello stesso quartiere di Mosca. Tra i partecipanti vi sono il poeta Dmitri Pgorov, gli artisti Bulatov, Vassiliev, Victor Pivovarov, e successivamente il critico e storico dell’arte Boris Groys. Nel frattempo, nel 1973 Emilia Lekach (1945) diplomata al conservatorio di musica a Dnepropetrovsk, dopo avere studiato Lingua e Letteratura Spagnola all’Università di Mosca, ottiene un visto e parte per gli Stati Uniti. 

Tra gli anni settanta e gli anni ottanta Ilya Kabakov inizia a realizzare opere che si configurano come installazioni ambientali e immersive. Il suo lavoro ottiene riconoscimenti oltre i confini sovietici, ed è invitato a partecipare a mostre internazionali ed europee. Tuttavia solo nel 1987, all’età di 54 anni, può lasciare per la prima volta l’Unione Sovietica. 

 

Ilya Kabakov, The Queen Fly, 1965 Olio e smalto su masonite, su legno, Oil paint and enamel on Masonite and wood, 485 x 600 x 60 mm, Private collection, Switzerland © Ilya & Emilia Kabakov.


Ilya Kabakov inventa artisti e personaggi aprendo una riflessione sul concetto di autorialità e d’identità. In mostra si susseguono tre installazioni The Man Who Flew into the Space Form His Apartment (1985) Incident in the Corridor Near the Kitchen (1989) e The Man Who Never Trew Anything Away (1988) ambientate in appartamenti comunali sovietici che suggeriscono le storie di personaggi, la cui presenza è percepita tramite oggetti, arredamenti domestici, indumenti, ombre. Il visitatore è invitato a osservare la scena dall’esterno, sulla soglia, come a spiare l’intimità di queste figure drammatiche dalla finestra o attraverso una porta semi-aperta. Si percepisce l’atmosfera malinconica delle case comuni, contenitori di una e molte vite insieme, con la pittura murale che percorre i corridoi, e le lampadine dalla luce fioca che lasciano in penombra le stanze. Vicende surreali avvolgono i loro abitanti come il protagonista dell’opera The Man Who Flew into the Space Form His Apartment (1985), inspiegabilmente scomparso nello spazio. Una stanza poveramente adorna con manifesti propagandistici e una brandina; al centro una catapulta costruita artigianalmente circondata da macerie cadute dal soffitto dove è visibile un buco. Accompagnano l’opera testimonianze redatte dalla polizia che interroga gli inquilini dell’appartamento in seguito all’esplosione notturna. Dai racconti si desume che il protagonista aveva studiato teorie fisiche per cui, attraversando l’universo in un determinato momento, avrebbe potuto viaggiare seguendo un flusso di onde energetiche. 

 

Ilya Kabakov, The Man Who Flew Into Space From His Apartment, 1985, Sei pannelli, manifesti, collage, Centre Georges Pompidou, Paris. Musée national d’art moderne/Centre de Création industrielle. Purchased 1990. © Ilya & Emilia Kabakov.


La mostra prende il titolo dall’installazione Not Everyone Will Be Taken Into the Future esposta per la prima volta nel 2001 alla Biennale di Venezia, concepita in relazione a un testo scritto da Ilya Kabakov nel 1983 sul numero della rivista A-YA dedicato a Kasimir Malevich. Nel suo contributo Kabakov immagina uno scenario in cui artisti, compositori e scrittori russi sono sottomessi a un processo di selezione per il campo estivo del regime alludendo al destino di chi è omesso dalla storia dell’arte ufficiale perché il suo lavoro è stato represso. Nel racconto metaforico scrive “…se tu non hai fatto quello che loro dicevano o raccomandavano, resterai qui”. 

 

L’installazione riproduce i binari di una stazione sui quali sono abbandonati alcuni dipinti mentre la locomotiva di un treno è sul punto di partire e la scritta luminosa in testa ripete l’avviso “Non tutti saranno portati nel futuro”. L’opera apre molteplici interrogativi sull’autorialità degli artisti e sul riconoscimento della loro ricerca. Chi possiede il diritto di selezione, l’autorità di redigere una storia dell’arte ufficiale? La selezione implica una perdita di memoria e Ilya Kabakov chiede “Come si può entrare nella selezione? Come si può comprare il biglietto per il treno in partenza?”.

I temi della memoria e della storia sono centrali anche nei dipinti realizzati dagli anni 2000 fino ad oggi. In Under the Snow #2 (2004) e Kanon #4 (2007) spazi vuoti o cancellati da pittura bianca sono un riferimento alla censura durante il regime, alla rimozione di eventi della storia, così come alla funzione della mente che cancella l’esperienza traumatica dal ricordo. Altri dipinti mostrano diverse scene e riquadri sovrapposti sulla tela, come fogli strappati appoggiati uno sopra l’altro. Lo stile e l’immaginario del Realismo Sovietico e della propaganda politica si mescolano con citazioni tratte da maestri della storia dell’arte tra i quali Rubens, Caravaggio e Tintoretto; quest’ultimo in particolare come riferimento per la composizione concettuale dell’opera che presenta molteplici narrazioni all’interno di un unico dipinto. 

 

Ilya Kabakov and Emilia Kabakov, Not Everyone Will Be Taken into The Future, 200 Strutture in legno, frammento di locomotiva, display luminoso, dipinti MAK - Austrian Museum of Applied Arts / Contemporary Art, Vienna © Ilya & Emilia Kabakov.


The Labyrinth (My Mother’s Album) (1990), al centro della mostra, si dispiega in un’installazione totale attraverso cui il visitatore è guidato in un percorso secondo precise condizioni spaziali, di luce e suono. Un corridoio di un appartamento comunale si svolge in forma labirintica per circa cinquanta metri. Sopra la fascia di colore bordò che scorre lungo le pareti, sono disposti settantasei collage incorniciati in modo identico: ciascuno sopra una carta da parati mostra uno scritto in cirillico della madre e una fotografia scattata dallo zio dell’artista. Come un diario spaginato, le opere riportano la narrazione in prima persona di Bertha Urievna Soludukhina al figlio Ilya Kabakov “Caro figlio! Mi hai chiesto di scriverti la storia della mia vita. Ho deciso di assecondare la tua richiesta. Inizio il 22 gennaio 1982. Ho ottant’anni”. La madre racconta una vita dedicata alla famiglia e al proprio paese, dall’infanzia agli studi, alle ambizioni e speranze continuamente infrante in un periodo di conflitti, di povertà, di costrizioni fino alla nascita del figlio e ai sacrifici per farlo studiare alla scuola d’arte di Mosca continuando a stargli accanto. Il ricordo personale e la memoria collettiva si sovrappongono nell’installazione, al centro della quale la voce dell’artista risuona all’interno di una piccola stanza piena di macerie: canzoni d’amore nostalgiche si diffondono lungo il corridoio articolato dall’uniformità e la ripetizione dei collage alle pareti. Diventa quasi impossibile soffermarsi a leggere tutte le traduzioni in inglese apposte sopra le cornici; una sensazione di disagio, arrendevolezza, impotenza sorprende il visitatore costretto nel percorso predefinito e controllato. 

 

Soludukhina muore nel 1987 quando Ylya Kabakov, a 54 anni, parte per i suoi primi viaggi a Occidente e riprende la sua amicizia con Emilia Lekach Kanevski con cui inizia collaborare e che successivamente sposa nel 1992. Kate Fowl, capo curatore di Garage Museum of Contemporary Art, nel suo contributo in catalogo, racconta di avere discusso la diversità di quest’opera biografica rispetto alle installazioni dominate da personaggi inventati, e di avere chiesto a Ilya Kabakov perché abbia considerato a lungo se stesso un personaggio: “Alla fine, finché vivevo in Unione Sovietica, non sapevo chi ero. Anche quando partii, continuavo a recitare alcuni personaggi, finché Emilia mi diede la possibilità di essere chi sono”.

 

Ilya Kabakov ed Emilia Kabakov, Under the Snow #2, 2004, Olio su tela 1600 x 2490 mm, Private Collection. Courtesy Galerie Thaddaeus Ropac, London – Paris - Salzburg Photo Credit: Courtesy Biblio Fine Art © Ilya & Emilia Kabakov.


Il labirinto si affaccia sulla sala dedicata all’opera Ten Characters, dieci album di disegni che costituiscono i primi personaggi fittizi inventati da Ilya Kabakov, realizzati tra il 1970 e il 1974 e mostrati nello studio di Mosca negli stessi anni. Alla Tate, i visitatori sono invitati a voltare le pagine e a leggere i racconti che sovvertono la realtà ordinaria e spezzano la routine della quotidianità attraverso elementi fantastici.

 

Il volo, che attraversa l’intera produzione artistica dei Kabakov, conclude il percorso espositivo. L’ultima sala è dominata dall’opera How to Meet an Angel (2002) che esemplifica visivamente le istruzioni per incontrare un angelo, simbolo di libertà da qualsiasi costrizione terrena e da vincoli burocratici. “È necessario costruire con materiali facilmente reperibili ma resistenti una scala che raggiunga 1.100 metri di altezza. La persona che intende salire la scala dovrà attrezzarsi con abbigliamento adeguato per affrontare il freddo, il vento e il tempo inclemente dell’altitudine tra le nuvole. In cima, nel momento di difficoltà e di urgenza, basterà chiedere aiuto e l’apparizione di un angelo sarà inevitabile”. 

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Alla Tate Modern fino al 28 gennaio 2018
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Il filosofo fa il giro del mondo tre volte

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Per diventare filosofi non basta l’abilitazione, bisogna compiere tre giri del mondo. Ne è convinto Michel Serres, l’accademico di Francia, che, sulla soglia dei novant’anni, si entusiasma tanto per il giro del mondo compiuto, di recente, in solitaria, da Thomas Coville in 49 giorni, quanto per le prodezze da cybernauti e creativi digitali compiute dalla generazione dello smartphone che, ribattezzata da lui la generazione di “Pollicina”, a suo dire, “tiene il mondo in mano”. I tre giri del mondo che egli raccomanda e prescrive al filosofo, senza i quali egli non potrebbe parlare con saggezza del mondo stesso, sono imprese ai limiti dell’impossibile, sono imprese erculee, soprattutto nell’arco breve della vita, ma vanno comunque tentate fino alla fine. Si tratta del giro del mondo fisico, terrestre; il giro del sapere, in tutta la sua globalità enciclopedica; il giro degli uomini e delle culture che hanno prodotto. Lo stesso Serres si è lanciato nell’avventura. Ha potuto compiere il primo mediante la sua attività di ufficiale di Marina, nella seconda metà degli anni Cinquanta, prima di intraprendere la carriera accademica. Poi si è lanciato nel secondo giro del mondo, terminato nella stesura del “Grande Racconto” (dell’universo, dell’inerte, del vivente, dell’umano), coniugando le scienze naturali, storiche e sociali del suo tempo.

 

E, infine, ha ammesso di aver potuto compiere il terzo giro grazie all’antropologia di Philippe Descola, l’epigono di Claude Lévi-Strauss al Collège de France, che ha proposto un nuovo principio di classificazione di tutte le culture umane in quattro categorie, in base alle continuità e discontinuità tra umani e non-umani rappresentate all’interno di una cultura. In un volume della collana “Riga” di Marcos y Marcos è stato di recente presentato il pensiero complessivo di questo straordinario maître à penser, ancora prolifico, che con l’avanzare della vecchiaia entra nella giovinezza della filosofia, come ha detto in un libro dedicato a Jules Verne. Presentiamo questo testo in cui Serres racconta il modo in cui ha effettuato la sua traversata del mare, dei saperi e delle civiltà, tratto da un libro ancora inedito in Italia: (Ecrivains, savants et philosophes font le tour du monde, Le Pommier, 2009).

 

Francesco Bellusci

 

 

«Da giovane, avevo deciso, follemente, che la vita del filosofo dovesse cominciare con tre necessità impossibili, tre giri da compiere per intero. Prima di accedere a una saggezza rinviata in un tempo più lontano, l’apprendista doveva, almeno così pensavo, fare prima il giro del mondo: visitare banchisa polare e Pacifico, vedere andare alla deriva iceberg e le balene tirare il fiato, attraversare i deserti, issarsi in alto sulle vette delle montagne, senza trascurare sismi e vulcani, navigare al largo, affrontare cicloni, esplorare le isole e i continenti, per farla breve ingozzarsi della bellezza del pianeta. Vagabondare. Al limite della fatica muscolare, del tempo corto della breve vita e dell’entusiasmo pieno di ammirazione, nessuno può vedere tutto. Restava la malinconia di sfogliare mappamondi.

 

Per fortuna, venne una sorta di accerchiamento. Infatti, per una disgrazia inattesa, benché preparata da fonte lontana, la Guerra mondiale, quella che conduciamo contro il mondo, s’imbatte oggi nella sua potenza globale, immanente, tangibile, calcolabile e minacciosa, che ci obbliga a firmare, pena un rischio maggiore e con la forza, un Contratto naturale di simbiosi. Così, in modo singolare, chiudiamo la navigazione milionaria di Sapiens, fermi tutti insieme di fronte a questa nuova integrazione, davanti a questa fusione che s’impone. Questo non vuol dire, e da tempo, che ho visto tutto e saputo tutto sul nostro pianeta blu, ma che faccio finalmente, in compagnia di tutti, un’esperienza che ci dà accesso alla totalità. L’insieme dei nostri interventi finisce per risvegliare, per rivelare il tutto del mondo, in realtà una Mano, non più invisibile e trascendente come quella del mercato, ma immanente e minacciosa. Credevamo di manipolare il mondo, esso finisce per manipolarci.

 

L’apprendista deve fare, poi, il giro del sapere. Questo secondo viaggio ingiunge un’altra impossibile necessità. Allora, disperato ma paziente, il suddetto aspirante assorbe matematiche e scienze dure associate, dalla cosmologia alla biochimica, più alcuni saperi umani, sociali e politici. Poiché questo giro circolare enciclopedico ha il suo centro dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, la buona volontà vi smarrisce ogni visione d’insieme.

Ora, per un caso impensabile e una fortuna inaspettata, il Grande Racconto, in fin di vita, chiude diverse volte questo percorso interminabile. Il ciclo dei miei quattro libri che comincia con Hominescence ne riferisce ampiamente. Con questa cartografia del tempo, con questo mappamondo cronologico, la navigazione cognitiva si completa o integra un progetto che la navigazione mondiale precedente non ha potuto prima portare a termine, ma che oggi la forza delle cose impone. Questo non vuol dire, e da tempo, che so finalmente tutto, e nel dettaglio, ma che dispongo, come tutti, attraverso questa totalità temporalmente dispiegata, di un numero infinito di porte di accesso facile a tutto il sapere possibile.

 

Il mio programma di preparazione alla filosofia doveva prolungare questi due incantesimi con il giro degli uomini. Ma, di nuovo, quante culture, lingue, religioni e costumi, quanti individui, soprattutto, di cui ognuno costituisce, preso a se stante, quasi una specie, erigevano, di fronte al mio coraggio insensato, un ostacolo insormontabile? Qui, ancora meno congiunzioni o integrazioni possibili di quante ce ne fossero nei due progetti precedenti.

Ora e di nuovo alla fine della mia esistenza, ricevo dal destino una terza fortuna. Delineando quattro arcipelaghi, Philippe Descola ha classificato di recente le culture umane. Così, egli ha reso possibile la mia ultima follia: potevo immaginare di fare il giro degli uomini. 

Eccomi finalmente pronto a diventare filosofo.

 

Figlio di contadino e di marinaio, capace di parlare la langue d’oc, consapevole di portare in me una cultura differente da quella che ho ricevuto al liceo, all’università o con la lettura dei principali testi che vi si insegnavano, m’indignavo spesso del fatto che gli stessi esseri umani, sempre allo stesso modo provenienti dagli stessi luoghi, studiassero sempre certi altri esseri umani. Abbiamo mai visto un gruppo di pastori dei Pirenei o di pastori mongoli recarsi al College de France, alla Cornell o Oxford University per osservare i costumi politici, sessuali e religiosi dei professori e ricercatori, frequentando queste persone piene di alterigia? Certe scienze umane funzionano come semiconduttori.

Noi che le dividiamo in poesia, romanzo, scienza o filosofia, possiamo leggere, per esempio, le opere occidentali, antiche, medievali, moderne o contemporanee, come se ascoltassimo le parole di Kwakiutl o di Inuit, di Achuar o di Dogon? Possiamo invertire abbastanza la nostra posizione per vedere la nostra cultura come un terreno di studio etnologico? Il Parigino di Montesquieu si chiedeva: «Come si può essere Persiani?». Io sognavo di esclamare: come si può scrivere, percepire e pensare Occidentale? Aver vissuto e pensato come Gascone non basta per realizzare questo progetto. Questa località, stretta, il sapere che l’accompagnava, limitato, non gli dava una base sufficiente. Occorreva un punto di vista tanto ampio quanto l’oggetto da rovesciare da cima a fondo. 

 

Un punto di vista, un punto di osservazione, il vertice di un cono visivo… rilasciano, su di un oggetto parziale o grande, un profilo obliquo, ecco tutto. I classici chiamavano questa prospettiva una scenografia, in altri termini una scena paesaggistica che si delinea quindi sulla sezione del cono visivo. Vedevo, dunque, la cultura che diciamo occidentale dal mio punto di vista limitato di Occitano contadino, scenografia singolare, angusta, parziale, poca cosa, insomma. Ora, la classificazione richiamata prima disegna, per le culture del mondo, ciò che l’epoca classica chiama un’iconografia o un geometrile. Dio solo, diceva Leibniz, può vedere qualsiasi cosa o il mondo intero, a partire contemporaneamente da tutti i punti di vista, poiché onora, nello stesso tempo, della sua presenza ubiqua, tutti i luoghi possibili. Egli solamente può vantarsi di vedere la cosa tale quale, integrando effettivamente la somma di tutte le scenografie. Ora la classificazione si dedica a questa somma, ne integra il calcolo, ne raggruppa le relazioni: universalità relativa, dice l’autore. Possiamo ormai vedere tutte le culture, una ad una, a partire da questa nuova postazione, che credevo inaccessibile, salvo al Dio onnisciente dell’età moderna. Di conseguenza, perché non guardare anche la nostra? Vedevo il mio sogno virtualmente realizzato.

 

Quattro sono le visioni del mondo estrapolate dalla suddetta classificazione, che essa applica alle tribù dell’Amazzonia, dell’Australia o del Polo Nord. Perché non dire piuttosto religione, visto che si tratta, infatti, di classificare delle relazioni?

L’una, animista, vede la stessa anima in tutti gli esseri, ciascuno vestito di un corpo originale. Il naturalismo, vede tutti i corpi formati dagli stessi ingredienti, molecole e atomi, mentre le anime, dotate d’interiorità, animano unicamente gli esseri umani, diversi per personalità e per culture e società; questa seconda visione caratterizzerebbe piuttosto l’Occidente recente. Un’altra, totemista, comprende le differenze tra gli esseri umani grazie a quelle che mostrano le specie animali o floreali e fa corrispondere, talvolta, un essere umano ad una bestia o ad una pianta. Agli occhi, infine, dell’analogista, tutto ciò che esiste differisce e si sfinisce nello scoprire relazioni possibili in questo contrasto in disordine. 

Il giro del mondo solleva allora una carta differente dal mappamondo fisico e politico e la ritaglia nuovamente, a seconda che la tale cultura si affidi alla tale visione; al posto dei cinque continenti limitati dai mari, questa classificazione ricostituisce quattro arcipelaghi dove società, geograficamente lontane, di raggruppano. Mi servo di questa carta per spostarmi nella mia cultura.

 

Ho dunque potuto fare il mio giro del mondo, senza lasciare il mio habitat. Infatti, un tempo e fino a poco fa, noi, Occidentali, fummo e restiamo, ancora oggi, animistici, totemici… sì, noi abbiamo composto e seguiamo ancora queste visioni, meno distanti e più prossime a noi. Meraviglia: la nostra antica eredità e i nostri formati culturali contemporanei si suddividerebbero, quindi, come le culture classificate dall’etnologia? Il solo sforzo che dobbiamo fare per comprendere questa contaminazione consiste nel non esporre sul tempo della storia, per pretendere, come Comte e altri, che fummo una volta feticisti, per esempio, e che il progresso ci ha condotto oggi ad una visione del mondo infine veridica ed epurata da questi vecchi errori. Generalmente alimentato da un’ideologia ingenua o, peggio, vendicativa nei confronti dei suoi predecessori, questo tipo di racconto proietta nel tempo e nel presente che chiude tutti i centrismi che condanna nello spazio. 

 

Come quest’arcipelago reincollato, il mio nuovo “portolano” raggruppa spazi occupati da persone e opere di scrittori, poeti o romanzieri, storici, filosofi, scienziati distribuiti in tutti i campi: matematiche, biochimica, religioni, teologia… Il continente totemico, l’isola animistica… riuniscono, a turno, e senza notevole distinzione, l’insieme delle popolazioni, dei pensieri o degli atti che le nostre culture separano con piacere. Per la prima volta, posso senza difficoltà realizzare un secondo sogno, quello di parlare a più voci, di enunciare, in una lingua comune, «generi», discorsi, pratiche, teorie che amiamo considerare differenti gli uni dagli altri. Gioisco di poter dire, con l’emissione di una sola frase, kèrigma e teorema, novella e poema, storia e sistema. Detto in altro modo: sulla nuova carta etnologica si avvicinano isole lontane nello spazio terrestre come la Siberia, l’America centrale e il Mali; in questo libro, un’altra carta riavvicina regioni estranee nella nostra cultura quanto i riti e le ballate, i numeri e i romani. 

Come Arlecchino dal mantello variegato potrebbe diventare un Pierrot lunare, bianco, il nuovo arcipelago potrebbe disseminarsi, poi tendere ad una sorta di continente o di compendio in grisaglia: di ceppo

Mi piacerebbe che emergesse questa metafisica totipotente, abbastanza flessibile da lasciare altrettanta spazio alla libera invenzione e alla novità.

Così, con le cellule, si formò la vita, variamente differenziata, a partire dalle cellule staminali.» 

 

Traduzione di Francesco Bellusci.

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Nespolo

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«Poi quando viene l’autunno, l’ultimo profumo è quello dolce e amaro dei nespoli giapponesi» ricorda Giulia, la protagonista femminile del romanzo di Riccardo Bacchelli Una passione coniugale (1930). Chi ha un nespolo del Giappone in giardino (Eriobotrya japonica) sa che questa è una memoria stagionale e olfattiva netta, definita. È quel sentore amarognolo di mandorle che guida le api all’ultimo ricco bottino. 

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Mappare l'universo per resistere al nulla

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Come nasce una nuova teoria scientifica? In che modo si sviluppa e si diffonde fino a essere accolta dalla comunità scientifica anche quando scardina certezze e visioni consolidate del mondo? Sono questi gli interrogativi a cui vuole rispondere l'astrofisica e cosmologa Priyamvada Natarajan, nel saggio L'esplorazione dell'universo (Bollati Boringhieri). Lo fa, avverte, partendo da due osservazioni: la prima è che la più antica tra le discipline scientifiche, la cosmologia, dà forma alla nostra idea del mondo e del posto che occupiamo nell'Universo; la seconda è che, come ogni attività umana, la scienza «non è priva di soggettività», pertanto è soggetta a errori, pregiudizi, ambizioni personali, amicizie e inimicizie. Richard Feynman, Nobel per la fisica nel 1965, affermava che ogni grande scoperta scientifica «comporta sempre una sorpresa filosofica» e per Priyamvada Natarajan questo è vero soprattutto per la cosmologia e le sue scoperte. In poche migliaia di anni, siamo passati dal credere che il mondo poggi su una tartaruga che a sua volta poggia su un'altra tartaruga, e così via all'infinito, a un progetto di mappatura dell'Universo, cui partecipa Priyamvada Natarajan insieme a scienziati di tutto il mondo, allo scopo di «mappare la materia oscura con un livello di accuratezza mai raggiunto prima». Come ci siamo arrivati?

 

Il prezzo da pagare ogni qualvolta la scienza cambia la mappa del cosmo e, di conseguenza, la collocazione e il senso della presenza dell'essere umano nel mondo, è molto alto in termini filosofici e psicologici. Riferendosi al carattere dell'Età Moderna, ad esempio, Sigmund Freud riteneva che fosse il risultato di tre ferite narcisistiche. La prima, è stata la perdita della centralità e immobilità della Terra, intuita da Copernico e confermata da Galileo, dopo quattordici secoli in cui aveva dominato la visione tolemaica con la Terra immobile al centro dell'Universo; fu un tale rivolgimento che da allora l'espressione rivoluzione copernicana definisce, anche nel linguaggio comune, un cambiamento irreversibile e radicale di un sistema consolidato e immutabile. Della seconda ferita, dice Freud, è responsabile Charles Darwin, il quale ci ha spodestati dal vertice della creazione scoprendo che siamo solo una specie tra molte altre (benché, va detto, veramente molto in gamba). Della terza ferita Freud, con autostima invidiabile e non infondata, si riteneva personalmente responsabile poiché la sua scoperta delle pulsioni e del loro ruolo sulla mente ce ne aveva sottratto il pieno controllo. 

 

Seguendo il lungo cammino di alcune idee rivoluzionarie dal primo emergere per la straordinaria immaginazione di un singolo scienziato, al riconoscimento generale, Priyamvada Natarajan racconta una storia in cui tra intuizioni geniali, lavoro collettivo, persecuzioni, entusiasmi, gelosie e trionfi, oltre alle tappe del progresso scientifico emergono gli effetti della dimensione emotiva, psicologica, personale e sociale sulla «pura ricerca intellettuale della conoscenza». I grandi cambiamenti di paradigma e i conseguenti quesiti esistenziali, sono riferiti dall'autrice naturalmente con grande competenza scientifica – Natarajan, tra l'altro, insegna astronomia e fisica alla Yale University ed è esperta sul tema della formazione dei buchi neri supermassicci – ma anche con un'evidente sensibilità per gli aspetti umani delle diverse vicende. Sappiamo, così, quanto sia stato, e sia sempre difficile per chi ha un'idea nuova o compie una nuova scoperta ammetterla, quando comporta un cambiamento radicale di una visione consolidata. E come il peso delle passioni umane, talvolta nobili talaltra meschine, sia stato, e sia fondamentale nel facilitare o ostacolare il riconoscimento di nuove teorie o osservazioni. Ad esempio, Edwin Hubble fu il primo a scoprire che le galassie si allontanano a velocità crescente più sono lontane ma faticò molto ad accettare l'idea, conseguente dalla sua stessa scoperta, di un Universo in espansione. L'idea, in verità, riferisce Natarajan, fu esposta molto tempo prima e da un personaggio insospettabile, lo scrittore Edgar Allan Poe, in una conferenza nel 1848, che non riscosse alcun successo, intitolata Sulla cosmogonia dell'universo, in cui descriveva la sua personale convinzione che l'Universo sia in costante movimento ed evoluzione. Anche Albert Einstein, d'altra parte, lottò parecchio con se stesso prima di rassegnarsi all'idea che il cosmo non fosse immutabile ed eterno. 

 

Priyamvada Natarajan.


A volte, invece, un'idea fatica a trovare consenso semplicemente per l'invidia o la disonestà intellettuale di qualche figura eminente e autorevole del momento. Come fu il caso della teoria sui buchi neri del fisico indiano Chandra, osteggiata in modo scorretto dal famoso Arthur Eddington, lo stesso che aveva dato prova di grande rettitudine e intelligenza comprovando sperimentalmente per la prima volta la teoria della relatività di Einstein. Eddington sostenne Einstein mentre era in corso la prima guerra mondiale, cosa che gli attirò critiche e attacchi molto duri in Inghilterra, il che dimostra la sua integrità scientifica e il suo coraggio (questa storia è raccontata in un bel film, Il mio amico Einstein, in cui emergono molto bene gli aspetti scientifici, politici e psicologici dell'intera vicenda). Ciò nonostante, lo stesso Eddington si comportò in modo meschino nei confronti di un altro scienziato, appunto l'astrofisico indiano Chandra, il quale nel 1930 aveva risvegliato con il suo lavoro l'interesse per i buchi neri. Detto per inciso – e il saggio di Natarajan è molto ricco di informazioni di questo genere che contribuiscono a renderne piacevole la lettura – l'espressione buco nero deriva dal nome di una cella minuscola famosa a Calcutta chiamata appunto black hole, in cui in una notte del 1756 morirono per asfissia 123 prigionieri occidentali. Tornando a Chandra, la sua ipotesi «creava un terribile conflitto d'interessi per Eddington, che aveva sviluppato una propria teoria», per questo lo boicottò pur essendo stato suo esaminatore durante il dottorato a Cambridge e pur avendolo incoraggiato a proseguire il suo lavoro.

 

Eddington contestò duramente e inaspettatamente il collega più giovane in pubblico, durante il convegno annuale della Royal Astronomical Society nel 1935, senza avere mai prima espresso personalmente a Chandra le sue obiezioni e soprattutto senza dargli possibilità di replica. Per Chandra fu un vero colpo, ma nel 1942 la sua tesi fu sostenuta pubblicamente da alcuni tra i più importanti scienziati del tempo, tra i quali Paul Dirac, considerato il più grande genio del Novecento dopo Einstein (si deve a lui l'equazione che ha formalizzato la struttura della meccanica quantistica e previsto l'esistenza dell'antimateria). Nel 1983 Chandra ha vinto il premio Nobel per la fisica. E giustizia è stata fatta.

Mappare l'Universo, adesso che ne conosciamo l'immensità e l'espansione continua, può sembrarci come il tentativo di vuotare l'oceano con un bicchiere. Eppure non possiamo farne a meno, lo abbiamo sempre fatto. Infatti, anche se noi associamo l'idea di mappa ai viaggi per mare e per terra, in realtà, ricorda Natarajan, le prime mappe mai disegnate dall'uomo sono mappe del cielo. E pure oggi scrutiamo il cosmo, percorrendolo con gli occhi di immensi telescopi, come gli esploratori antichi scrutavano l'orizzonte e lo spazio attorno per decifrarlo, per non perdersi.

 

La nostra condizione è la stessa, il nostro oceano è il cosmo, la nostra nave la terra. «Per loro natura i progressi della cosmologia ci lasciano senza ormeggi», afferma Priyamvada Natarajan. Ed è così che siamo, oggi ancor più che nel passato: disancorati, senza un centro fuori di noi e forse neppure più dentro di noi – ma questo non è colpa dell'Universo. Ad ogni modo, conclude, «Negli ultimi cento anni la nostra visione del mondo è cambiata drasticamente, riscrivendo il senso stesso di chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo». 

Oggi sappiamo di vivere in un Universo meraviglioso, ma non eterno. È nato in un certo momento e in un altro che non sappiamo, e in un modo che non sappiamo ma siamo in grado di ipotizzare, finirà o diventerà qualcosa di totalmente diverso. Un Universo, ha affermato Carlo Tonelli, fisico del Cern e grande divulgatore scientifico, fragile e precario, come ha rivelato la scoperta del bosone di Higgs – la particella che tiene insieme la materia ma di cui nulla ci può garantire che continuerà a farlo –, che condivide in qualche modo la nostra stessa situazione di fragilità. Col che, negli ultimi tempi, è stato scardinato ogni appiglio, fino all'ultimo, fino all'idea che almeno l'Universo potesse costituire una certezza, qualcosa che si poteva immaginare sarebbe durato per sempre. Insomma, un posto in cui la vita avrebbe sempre avuto una possibilità. 

 

La situazione in cui ci ha messi la conoscenza è duplice e ambigua, eccitante, ma disorienta e confonde, perché ci insegna che siamo allo stesso tempo unici, grandiosi e insignificanti. Siamo riusciti a scoprire le dinamiche che governano il mondo, persino le più contro-intuitive, dall'infinitamente piccolo all'incommensurabilmente grande, e abbiamo capito di essere un nulla rispetto all'immensità che ci circonda. Siamo costretti a rimettere in discussione concetti sui quali per migliaia di anni abbiamo costruito civiltà ed elaborato filosofie e religioni: il tempo, l'eternità, la distinzione tra spirito e materia… Dobbiamo ripensare molte cose per trovare nuove risposte a domande antiche e ineludibili: chi siamo, dove andiamo e, soprattutto, perché. Per la prima volta nella storia umana sappiamo con certezza che, a prescindere da noi, l'esistenza della Terra, dell'intero sistema solare e dell'Universo, forse l'esistenza in se stessa finirà, e tutto questo, anche se non ce ne accorgiamo, segna lo spirito del nostro tempo e noi stessi. La morte di Dio aveva aperto la strada alle utopie escatologiche laiche, come il marxismo, lasciando intatta la speranza che l'umanità potesse realizzare con le sue forze e i suoi progressi una società e una vita migliori per tutti. Ma il limite che le scienze ci fanno intravedere, per quanto lontano, rende il sogno una sorta di palliativo per combattere un'insensatezza che si è insinuata come una nebbia a offuscare il sole di qualunque avvenire. E così la metafisica e le sue domande sull'essere, il nulla e il senso del mondo che le scoperte scientifiche avrebbero dovuto – pensavano alcuni – mettere a tacere per sempre, proprio grazie alla scienza si stanno pian piano riaffacciando sulla scena del pensiero.

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Conza ci insegna il vuoto

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Intorno al mio paese ci sono paesi che il tempo si sta mangiando e c’è Conza. Non so bene che gli sta succedendo a questo paese dove c’è solo un ristorante e un paio di case dove vivono i migranti. Stamattina sono venuto a Conza, ma non ho fatto quello che faccio sempre, non ho scavalcato il cancello, non sono andato verso la cima del paese dove c’è il campo sportivo. Mi sono fermato sotto, dove hanno speso dei soldi per mettere lampioni e panchine. E ho fatto una cosa molto poco paesologica: sono stato qui sempre al telefono, come se un medico visitasse un paziente mentre fa una telefonata. Ma si può essere scorretti col proprio mestiere, almeno ogni tanto. E nonostante le due lunghe telefonate, io Conza l’ho vista bene pure oggi. E ho avuto pure la fortuna di fare una bella foto. Quando si entra nelle vecchie case abbandonate si può sempre fare qualche bella foto. Oggi un lembo di tenda, con gli stessi colori degli alberi dietro la finestra. E poi la luce del sole al punto giusto. Se una giornata fosse una fotografia, questo è il punctum della giornata. 

 

A un certo punto mi sono messo su una delle panchine nuove e ho deciso di starmene lì piuttosto che andare a vedere Conza Nuova o qualche altro paese. È bello stare seduti in un paese dove non c’è nessuno, ma mentre lo pensavo è spuntato un giovane migrante che pure lui parlava al telefono come me. Io a parlare di libri e di editori, lui non so. Io spaventato da un poco di mal di gola e lui coi sandali ai piedi anche se oggi è il dieci novembre. 

 

 

Tornato a casa ho messo in rete il testo che avevo scritto molti anni fa su uno dei miei viaggi a Conza. Io ora non potrei scrivere come scrivevo allora. Succedono delle cose al nostro corpo e dunque anche alla nostra lingua. Allora avevo solo lo scrivere per vendicarmi del mondo che mi vedeva poco e male. Ora mi sembra di avere più frecce, ma forse ho perso l’arco. Allora la mia vita era tutta nell’amaro, ma era una vita, era un lamento sincero. Ora quando mi lamento mi sembra di fingere. La paura della morte non è cambiata, ma ora può sembrare un commercio. E non penso a quello che pensano gli altri. Penso a quello che penso io. È rimasta la scontentezza, ma allora era una scontentezza furiosa, ora sembra una posa. Prima ero un film, ora sono un album di fotografie. Mi alzavo e stavo tutto il giorno nell’ira. Prendevo a pugni l’aria, ogni respiro era far saltare un tappo che mi opprimeva. Ora sembra che sono nato, le donne più degli uomini mi pensano come si pensa un poeta, c’è chi mi crede puro, innocente. 

 

Oggi a Conza ho guardato la diga, ho camminato dieci minuti, mi sono steso sulla panchina, ho pensato al mal di gola, mi sono raccontato, ho ascoltato chi mi ascoltava. E ora sono qui, con il rumore del computer davanti a me, il sapore di cioccolata sulla lingua. A casa c’è solo Manfredi, io sto aspettando che la scrittura faccia un salto, mi porti a vedere qualcosa. Lo scrittore è un neonato, uno che deve ancora stendersi nel mondo. Puoi solo stare in braccio a te stesso se non trovi altre braccia. Scrivere è cercare una mano che ti prenda e ti porti da qualche parte. Per me scrivere è cercare una madre: ho bisogno di essere allattato, accudito. E ho bisogno di urlare. Urlare e andare a Conza. La paesologia non è un suolo da occupare. È una cosa che riguarda l’aria. Le nuvole sono paesologiche e pure la neve. Tutte le cose che stanno nell’aria, anche noi siamo paesologici quando vaghiamo nell’aria, quando non siamo conficcati nella nostra testa. 

 

Conza è un posto bellissimo, è la dimostrazione che un paese rimane vivo anche quando viene tutto svuotato, anche quando è lacerato, rotto, spogliato. Qui possono portare via tutto, ma il paese non se ne va. E io fino a quando sarò vivo avrò un posto dove passare un’ora da solo o in compagnia, un posto sicuro, che non mi delude mai. Fino a quando esiste un posto come questo la mia terra ha un senso. La terra ha senso grazie agli angoli non abitati. Il mondo è abitabile perché non è tutto abitato. E bisogna capirlo subito e bene questo fatto. Bisogna capire che un sentiero è tale perché non ha alberi in mezzo, non crescono rovi in mezzo a un sentiero. Il vuoto è la cosa più preziosa che abbiamo. Dobbiamo preservarlo in tutti i modi in noi stessi e nel mondo. È ora di farla finita con questa congiura del riempirsi e del riempire.

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Andrés Felipe Solano. Cementerios de neón

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Quando, nella seconda metà degli anni Quaranta, gli Stati Uniti iniziarono a perimetrare il pianeta segnando il confine tra il bene e il male, tra la democrazia e il comunismo, la Colombia stava già sprofondando in uno dei periodi peggiori della storia del Paese, la cosiddetta Violencia, il decennio lungo che si chiuse, nel 1957, con l’estromissione dal potere del generale Rojas Pinilla da parte della giunta militare che costituì un governo di transizione. 

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Alessandro Leogrande, scrittore che amava gli ultimi

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Aveva solo quarant’anni, Alessandro Leogrande. È scomparso all’improvviso a Roma. Un comunicato parla di aneurisma. Era un intellettuale finissimo, di quelli che guardano la realtà, specie quella sociale, e sono capaci di raccontarci come funziona, cosa nasconde e cosa rivela. Trovavo in lui una somiglianza fisica con Piero Gobetti, e una statura intellettuale che mi richiamava il grande intellettuale torinese: interessi vasti, prima di tutto politici, sociali, sociologici, una capacità unica di analizzare, scrivere, rintracciare tendenze sotto i fatti. Come Gobetti era innamorato del teatro, che recensiva, occasionalmente, sempre attento a cogliere i risvolti politici e sociali degli spettacoli. Di recente questa passione lo aveva portato a scrivere testi per la scena, in un attivismo che era dialogo, dal vivo, con i fenomeni, con le persone, con i movimenti.

 

Era nato a Taranto quaranta anni fa. Si era formato nell’ambiente cattolico, come scrive in un pacato e commovente ricordo il padre; era stato scout da giovanissimo, poi impegnato nella Caritas della città dei due mari, poi in Albania. Scrive ancora Stefano Leogrande: “come giornalista e scrittore si è impegnato in difesa degli ultimi e dei ferocemente sfruttati nei più diversi contesti: nell’ambito del caporalato, degli immigrati, dei desaparecidos in Argentina, e ovunque ci sia stato un sopruso”.

Si era trasferito a Roma dove aveva iniziato a collaborare allo “Straniero” di Goffredo Fofi, prima come redattore, poi come caporedattore, infine come vicedirettore. Sulle pagine di quella rivista, che cercava sempre di fare il contropelo alle convinzioni dominanti, andando a scavare nelle cose, nei fenomeni, nei fatti sociali, ha scritto articoli illuminanti che poi sono diventati libri. Ha parlato a lungo della sua città, avvolta nei fumi del grande impianto siderurgico prima di stato poi privatizzato, micidiale per la salute, l’Ilva, e dei fumi di una politica populista e mistificatoria degli anni di Giancarlo Cito. Ha reso, tra i primi, un caso nazionale una città “singolare laboratorio urbano, stretto tra le ciminiere dell’Ilva e il mare che si apre davanti ai suoi palazzi, emblema dello sviluppo novecentesco e del suo rifluire verso una crisi profonda”, come scriveva in Fumo sulla città, pubblicato da Fandango nel 2013, raccogliendo pensieri, osservazioni, dati, dialoghi accumulati negli anni.

 

Quando ritornava a Taranto era possibile incontrarlo in libreria, alla Dickens di Tonino De Giorgi: e lì, l’intellettuale penetrante diventava un ragazzo sorridente, ironico ma senza il sarcasmo a volte cinico e distruttivo della sua terra offesa. Era sempre dolce, sempre disposto al dialogo, al contraddittorio e soprattutto ad ascoltare. In queste ore, in cui chi lo ha conosciuto è frastornato e sconvolto dalla notizia della sua assenza, si moltiplicano in rete i messaggi che mettono in luce la sua personalità instancabile, curiosa, aperta al dialogo, alla ricerca continua. Scrive Bianca Laterza, della famiglia di editori e librai, allegando su Facebook l’immagine che segue: “Questa è stata l'ultima volta che ho visto Alessandro Leogrande. Qui stava parlando con i ragazzi delle scuole di Bari; mi raccontava che il giorno dopo sarebbe stato di nuovo in altre scuole, in giro per tutta la Puglia. Era generoso, brillante, impegnato, allegro. Credeva nel suo lavoro. Se ci parlavi, avevi voglia di parlarci ancora e ancora”.

 

 

Era appena tornato a Roma, proveniente da un incontro della rassegna “Città del libro" insieme a Tahar Ben Jelloun e Massimo Bray a Campi Salentina. Per la sua Puglia, pur vivendo lontano, si spendeva tantissimo, intervenendo anche sulle pagine del “Corriere del Mezzogiorno”, il dorso locale del “Corriere della Sera”. Scriveva per “Minima Moralia”, per “l’Internazionale” e collaborava con RadioRai3.

I suoi libri erano appassionanti come romanzi, documentati, pungenti, vere mappe per rovistare in angoli nascosti all’attenzione dei media ma nodali nel nostro paese, dalle mafie tra le due sponde dell’Adriatico, alla condizione dei nuovi schiavi del caporalato in Puglia, alla tragedia dei migranti. Ricordiamo Un mare nascosto, Napoli, L'ancora del Mediterraneo, 2000; Le male vite: storie di contrabbando e di multinazionali, Napoli, L'ancora del Mediterraneo, 2003 (poi, Roma, Fandango Libri, 2010); Nel paese dei viceré: l'Italia tra pace e guerra, Napoli, L'ancora del Mediterraneo, 2006; Uomini e caporali: viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Milano, Mondadori, 2008, poi, Milano, Feltrinelli, 2016; Il naufragio: morte nel Mediterraneo, Milano, Feltrinelli, 2011; il recente La frontiera, Milano, Feltrinelli, 2015, Premio Pozzale Luigi Russo. Inizia, quest’ultimo, con un’emozionate scena di recupero di cadaveri da un peschereccio affondato nel mare di Lampedusa. Continua con storie, tante storie svoltesi in quel mare Mediterraneo, in quella “ferita non chiusa, luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente è parte: è la frontiera che separa e unisce il Nord del mondo, democratico e civilizzato, e il Sud, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico”.

A questi temi aveva dedicato anche due libretti d’opera, Katër i Radës. Il Naufragio, scritto per i Cantieri Teatrali Koreja di Lecce, e Haye: le parole, la notte, rappresentato di recente con la musica di Mauro Montalbetti al Festival Aperto di Reggio Emilia. Su quest’ultimo testo avevamo discusso al telefono, e sull’altro scritto, incrociando caporalato in Capitanata e Ilva di Taranto per Ritratto di una nazione rappresentato al Teatro di Roma in settembre. Avevo accusato quest’ultimo testo di essere molto meno incisivo rispetto ai suoi libri d’inchiesta e narrativi, di semplificare la questione. Ci eravamo ripromessi di vederci, di discutere. Lui, con la sua gentilezza, profonda, la sua umiltà, pur essendo forse uno dei massimi esperti di queste questioni, era interessato a pareri “tecnici”, teatrali, e dichiarava che si stava avventurando in un campo che non conosceva bene, quello della drammaturgia, per il quale aveva bisogno di confronto, di consigli… Era così ed è triste non poter fare quella discussione, non poter accalorarci, dividerci magari, ma con grande stima, con forte affetto.

 

Questo era Alessandro Leogrande, per come l’ho conosciuto io. E questo ricordo scritto facendo andare le dita sui tasti mentre solo la commozione vorrebbe esprimersi è imperfetto, parziale, come tutti i maledetti necrologi, che provano a dare confini a una personalità che continuamente si espandeva, guardandosi intorno, mutando, con curiosità disposta a farsi sorprendere. Ci mancherai, giovane intellettuale sempre desideroso di dialogare. Mancherai a questa Italia che di sguardi acuminati e appassionati, guidati da un’etica profonda, ha bisogno come il pane.

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La gloria di Giuseppe Berto e il trauma del tradimento

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Nel suo romanzo più conosciuto e fortunato, titolato Il male oscuro, pubblicato nel 1964, Giuseppe Berto, scrittore scomodo e scontroso, pone al centro della scena della sua tormentata autobiografia psicoanalitica, come si legge sin dalle prime righe, la sua “lunga lotta con il padre”. Un padre esigente e padronale, espressione di una Legge sacrificale e inflessibile, schiaccia il figlio sotto il peso di una colpa antica: quella di non aver mai corrisposto alle sue attese, di essere stato una delusione cocente, un figlio deludente. Il corteo di sintomi che invade il corpo del soggetto traduce questa sentenza paterna in sofferenza: infiammazioni delle vertebre, disturbi gastrico-intestinali di ogni genere, nausea, angoscia, depressione, emicranie pervicaci. Questa colpa è destinata a dilatarsi smisuratamente quando il figlio, diventato ormai un uomo adulto, abbandona il padre ammalato di un tumore allo stomaco (“tremenda montagna di morte”) e in preda ad atroci dolori che lo condurranno presto alla morte.

 

Diversamente dal mito di Enea, qui il figlio non solo non soccorre il padre morente, ma latita, si rende assente, pensa solo a se stesso. Di fronte all’odore acre della morte che sta per sopraggiungere e colpire il padre tanto amato quanto temuto, il figlio sceglie la via della fuga. In primo piano è qui una scena di tradimento che costituisce il cuore di Il male oscuro. Anchise è abbandonato al suo destino mortale, è lasciato cadere a terra. Il padre non è più il tiranno che delude l’amore infantile e idealizzato del figlio abbandonandolo senza alcuna cura alla sua insufficienza. Questo padre morente appare ora nella sua castrazione reale. Adesso è il figlio che abbandona il padre nel momento più grave. E non è affatto casuale che sia proprio da questa drammatica scena di tradimento che sembra ricominciare l’ultima opera di Berto, La gloria, pubblicata nel 1978, l’anno della sua morte, al cui centro c’è una rilettura visionaria della figura di Giuda, il discepolo che tradisce Gesù – il suo Rabbi –, consegnandolo cinicamente al supplizio della croce. Come non vedere qui dipanarsi una prima fondamentale identificazione? Berto non è forse Giuda, il figlio che tradisce il proprio padre? Non è forse Giuda il discepolo che, anziché accompagnare fedelmente il maestro al suo destino cruento, lo abbandona cospirando attivamente per la sua morte? Non è lui il discepolo che riconosce sì il maestro, ma solo per consegnarlo ai suoi carnefici? 

Il Giuda di Berto guarda sempre Gesù con sospetto. Nel suo sguardo ritroviamo quello del bambino di fronte alla sagoma pesante del padre.

 

Ph Aaron Siskind.

 

Il dubbio lo attanaglia, lo frusta, lo domina: è davvero il figlio di Dio o è solamente un orribile mentitore? La promessa della vita eterna è una grazia autentica o una semplice impostura? Questo Giuda, come il protagonista del Male oscuro, è una figura umanissima del tormento. Innanzitutto il suo dubbio inquieto corrode il mistero della fede: non esiste fede capace di fare esistere una Verità assoluta, priva di incertezze e tentennamenti. Nessuna ideologia può risparmiarci il tarlo laico del dubbio. È il dramma che attraversa anche Young Pope di Sorrentino nel cuore stesso della cristianità. “Cos’è Dio? Dov’è Dio? Chi è Dio?”, si chiede con struggimento Lenny Belardo. “Dove è l’Eterno, c’è davvero un Eterno o c’è solo un infinito vuoto?...”, si chiede il Giuda di Berto. Ma, per entrambi, Dio non risponde, Dio tace. È il dramma profondo che attraversa anche il recente Silence di Scorsese: Dio invocato dalla preghiera e dalla fede più tenace, resta nel più assoluto silenzio. “L’Eterno – dichiara il Giuda di Berto – non può che insistere che nel suo smisurato silenzio…”. Il suo tormento dubbioso incenerisce il rapporto che unisce il figlio al padre. La domanda su Dio, in fondo, come ha spiegato Freud, almeno per un verso, non è altro che il rinnovamento della domanda originaria sul padre. Chi è un padre? Cos’è un padre? Dov’è un padre? Qual è la verità della sua Legge? Ecco le domande che dal Male oscuro discendono – martellanti – sino a La gloria

 

Nello sguardo di ogni bambino, come scriveva freudianamente Berto nell’opera del ‘64, “il padre era stato una divinità onnipotente e lontana e in seguito diviene un poveraccio che mi rompeva l’anima con le sue pretese”. Nell’ultimo e testamentario romanzo questo disincanto ritorna intatto attraverso Giuda travolgendo la figura di Gesù. Anche Giuda, come il bambino che giocava teneramente sulle gambe del suo adorato papà, viene in un primo tempo catturato dal carisma di Gesù. È il tempo dell’idealizzazione: “aveva qualcosa che partiva più lontano di lui e arrivava più lontano di noi”. La devozione del discepolo maledetto a Cristo è però solo una prima faccia – quella non ostile – del complesso edipico che anima l’amore infantile per il padre. Si tratta di un amore assoluto, che non si risparmia: “m’ero offerto di morire per Te, in qualsiasi momento Tu me l’avessi chiesto avrei mantenuto, spesso sognavo che me lo chiedessi all’istante per provarTi la mia dedizione…”. Eppure – ed ecco apparire la seconda faccia, quella aspramente negativa, della medaglia dell’Edipo – Giuda non può resistere alle insinuazioni del dubbio. E se fosse un narcisista, qualcuno che pensa più alla propria luce che a quella del mondo? Se i suoi prodigi non fossero altro che trucchi? Se fosse solo un uomo come tutti noi?

 

Agli occhi di questo Giuda dilaniato anche la resurrezione di Lazzaro “fu una ponderata, fredda, scenografica ciurmeria”. Se, dunque, Gesù non rilascia quei segni che il discepolo ricerca ansiosamente, segni che scongiurerebbero il terrore della vacuità del mondo, se – come accade al più contemporaneo ma non meno tragico Young Pope – la domanda “dov’è Dio, dov’è l’Eterno?” resta senza risposta, allora è meglio morire che vivere. È la seconda grande identificazione, quella finale e più perturbante. Non più quella che lega Berto a Giuda nell’amore risentito verso il padre-maestro, ma quella che unisce Giuda e Gesù: il figlio della perdizione, il figlio colpevole, non è, in fondo, affatto diverso dal suo maestro. Questo è il punto estremo verso il quale si spinge Berto. Gesù è davvero differente da Giuda? Se invece non fossero che due teste di una sola persona? Non è questo che definisce la condizione umana? Essere, insieme, il tradito e il traditore, l’innocente e il colpevole, l’assassinato e l’assassino. “Morimmo alla stessa ora, Tu crocifisso sul Golgota, io poco lontano, impiccandomi, dicono, a un albero di fico”. Non la luce di Gesù – il salvatore – contrapposta gnosticamente alle tenebre di Giuda – il traditore. Piuttosto una convergenza abissale, una comunione disperata. È la scoperta traumatica di Berto scrittore e uomo: il Nome del padre contiene un destino.

 

I figli sono assai più simili a quel “peggio” che tendono invece ad attribuire unilateralmente ai loro padri. Il loro giudizio sprezzante verso i padri rivela la loro identità coi padri. Più l’odio interviene a dissolvere il legame più il legame si rafforza. È quella stessa mimesi sorprendente che colpisce lo scrittore nelle pagine finali del Male oscuro. Il figlio ormai anziano, separato dalla moglie e lontano da sua figlia, senza più nessuno al suo fianco, si accorge di assomigliare nel corpo e nello spirito al padre odiato: la stessa calvizie, la stessa melanconia, lo stesso sentimento di isolamento. Una mimesi che ritroviamo intatta anche nel finale di La gloria che non a caso è il finale, dal carattere fatalmente testamentario, di tutta la produzione letteraria di Berto e della sua stessa vita.

 

Il connubio impensabile di Gesù e Giuda ci consegna un enigma. Quale? “Essi vogliono solo morire”, scrive Berto. Anche Gesù, come il bambino del Male oscuro disperato nella solitudine del Collegio che invoca la risposta salvifica del padre imbattendosi però solo in un muro sordo al suo lamento, vive l’esperienza dell’abbandono e della caduta. Ma in Berto questo abbandono si inscrive come una marca indelebile e traumatica che tende alla sua ripetizione ostinata, mentre in Gesù è un passaggio necessario per cogliere il vero senso della Legge che è quello, come direbbe Lacan, di non cedere sul proprio desiderio. È questo il limite (ma anche la forza scabrosa) al quale la narrazione bertiana del Vangelo resta totalmente asservita: riportare Gesù a Giuda significa non riuscire ad accedere all’idea che la Legge del padre non sia fatta per assoggettare sadicamente l’uomo, ma solo per liberarlo dal sadismo di ogni Legge; significa non riuscire a sottrarsi dall’ombra spessa della melanconia del figlio che, secondo il suo Giuda, non a caso affliggerebbe da sempre, come un punto interrogativo, lo sguardo di Gesù.  

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