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Artisti contemporanei al Quirinale

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Luca Vitone (Genova 1964), «Panorama (Roma)», 2006, tre cannocchiali con diapositiva, pedana in legno; veduta dell’installazione a Frascati, Roma.


Mi colpisce che i pezzi che vado scrivendo sugli artisti, su Alias, inizino con la menzione della città visitata: come fossi un inviato speciale in terra straniera. Perché tale sono, per costituzione, a scrivere del “mondo dell’arte”: con la speranza – o l’illusione – di recarvi lo sguardo impregiudicato, da outsider, del Persiano di Montesquieu. Imperdibile, allora, la mostra curata da Anna Mattirolo (Da io a noi. La città senza confini, fino al 17 dicembre) al Quirinale, per la Direzione generale arte e architettura contemporanee e Periferie urbane del MIBACT. Per almeno due ragioni: la prima, che vale per tutti, è che in assoluto è la prima volta, questa, che uno spazio così istituzionale si “apre” a quello che i francesi chiamano extrême contemporain (cioè ad artisti di una generazione non ancora canonizzata, o sull’orlo di esserlo: si va da Alfredo Jaar, del ’56, ai gemelli De Serio, del ’78, più due o tre fuori quota come Jimmie Durham e Alberto Garutti).

 

Non è un’esperienza banale vedere gli interni del Quirinale (io per esempio non l’avevo mai fatta), e com’è ovvio ne vale la pena. La seconda risponde invece a una mia rivalsa personale: per i nati e cresciuti nell’estrema periferia, più prestigio e bellezza vanta il centro di una città e più questa si trasforma, per loro, in un supplizio di Tantalo (a Roma, per esempio, il divide della ZTL, e dello sfacelo dei trasporti pubblici, contrappone due fasce urbane incomunicabili; gli imprigionati nella parte maledetta, della città-museo, vivono unicamente gli svantaggi). Tale da ispirare ai forclusi, quorum ego, un risentimento – nei confronti dei soggiornanti nel centro storico, beatamente ignari del magma urbanistico-sociale che fermenta a una decina di chilometri da loro – che giustamente un’amica artista, una volta, mi ha contestato come razzista. L’estraneo, quieto Persiano si trasforma, a quel punto, in un Calibano gonfio di risentito sarcasmo: come quello che schiuma Sangue cattivo nella Stagione all’inferno di Rimbaud. Ma ognuno, si sa, è il terrone di qualcun altro. E allora la rivalsa prelibata dell’outsider consiste nel fare la fila per l’identificazione, fuori del Palazzo, con una sfilza di persone di norma aduse a muoversi, ovunque, con magica souplesse. Ovunque ma non al Quirinale. Il Centro che più Centro non si può, con (è il caso di dire) sovrana equità, ci tratta tutti come meteci della medesima, infima Suburra. 

 

Maurizio Cattelan (Padova 1960), «Turisti»,  1997, piccioni imbalsamati, dimensioni variabili, foto Delfino Sisto Legnani.


Più che giusto, allora, che all’immaginario delle periferie sia appunto dedicata la mostra che ha trovato una così simbolica cornice. Un cortocircuito esplicito, nelle parole della curatrice, illustra i Turisti di Maurizio Cattelan: una serie di piccioni, raggelati nella consueta tassidermia illusionistica, appollaiati con quieta minaccia hitchcockiana sulle opere degli altri artisti (in origine erano esposti alla Biennale del ’97), nonché su marmi stucchi e pannelli dorati della Sala di Augusto (quella del Trono, cioè, di Papi e Re). «Con questa semplice dislocazione», scrive appunto Mattirolo, «la solennità dello spazio espositivo viene violata, annullando i confini fra interno ed esterno». Ma questo, diciamo “metafisico”, è lo spiazzamento che all’intera mostra dà una coerenza tutt’altro che banale – in diversi momenti, anzi, non meno che esilarante.

 

Vedovamazzei (duo nato nel 1991 da Simeone Crispino e Stella Scala), «My Weakness», 2000, materassi, bicicletta, cristall & mill.


Nella stessa sala figurano anche due delle installazioni più efficaci: My weakness di Vedovamazzei (al secolo Stella Scala e Simeone Crispino) è una pila di materassi attempati e forse lerci – giacigli da clochards che vantano però, da Rauschenberg a Tracey Emin, una loro specifica nobiltà d’en bas– in cima alla quale troneggia, come su un altare, la Bianchi miracolistica dell’eroe popolare Fausto Coppi. Seconda chanceè invece il titolo di un lavoro di Eugenio Tibaldi: una struttura in tubi Innocenti raccolti in varie locations del disagio contemporaneo, dai paesini lucani alle industrie dismesse nelle Marche (vi campeggiano incollati, come in un’edicola di ex voto, messaggi scritti a stampatello, in italiano incerto, da persone che commentano il senso del loro risiedere ). 

 

Eugenio Tibaldi (Alba 1977), «Seconda chance», 2017.


Non può mancare il tema dell’immigrazione: è nel concreto campo di battaglia delle periferie, infatti, che vengono alla prova gli stereotipi della correctness, e i non meno stucchevoli cattivismi, dello showbiz politicien. Sulla pelle delle persone reali, cioè (e dunque negli occhi, difficili da dimenticare, della siriana Rasha, microzavattinianamente “pedinata” dal video omonimo di Adrian Paci – albanese del 1969, a Milano dal 2000). Bellissimo il lavoro di Mona Hatoum (palestinese trapiantata a Londra nel ’75): un tappeto dalla struttura ortogonale, composto da un intreccio di fili elettrici che, verso la “periferia” del disegno, si aggrumano in viluppi sempre più caotici, terminando in lampadine la cui luminosità cresce, e decresce, come al ritmo di un respiro vitale. Luccica pure, in rosso, la scritta al neon di Alfredo Jaar. È una frase di Gramsci: «IL VECCHIO MONDO STA MORENDO. QUELLO NUOVO TARDA A COMPARIRE. E IN QUESTO CHIAROSCURO NASCONO I MOSTRI». Questa la sigla decisiva della mostra: che vale negli anni Trenta del secolo scorso, si capisce, quanto nei nostri Dieci di ri-fascismi insorgenti.

 

Mona Hatoum (Beirut 1962), «Undercurrent (Red)», 2008, cavo elettrico rivestito, lampadine, variatore d’intensità.


Non è un caso, forse, che alla stessa Mattirolo (insieme a Gabriele Guercio) si debba una raccolta di saggi (uscita da Electa nel 2010) il cui titolo suonava Il confine evanescente. Il «confine», allora, era quello che «permetteva di posizionare l’identità di “arte italiana 1960-2010” in un luogo indefinito tra affermazione e negazione, tra l’Europa e l’America, l’Italia e il resto del mondo». Un confine appunto evanescenteè quello che pretende di dividere identità artificialmente irrigidite, Centri e Periferie. Che nel concreto storico delle arti, nella modernità e post-, si sono scambiati di posto più spesso di quanto, ideologicamente, si sia voluto ammettere. E se c’è un artista che oggi lavora sulla fluttuazione dei bordi, sull’ambiguità dei dentro e fuori, questo è Flavio Favelli. Grande Galleriaè il titolo ironico, ma anche no, di una luminaria di paese, proveniente dalla Puglia: un’efflorescenza di umili, candidi legni da sagra patronale, culminanti in fioche lampadine che si sovrappongono, non senza fierezza, a quelle obese che gravano sui lampadari opulenti della Sala d’Ercole (il lavoro, poeticissimo, è messo in gioco con le balle di coriandoli, la festa pietrificata di The Man Who Fell to Earth di Lara Favaretto, e con le candide montagne russe di una delle Eterotopie fotografiche di Francesco Jodice). Quasi nascosto, nella più raccolta Sala del Balcone, Panorama di Luca Vitone: l’artista della sua generazione, cioè, che (come si vede anche nella bella personale Io, Luca Vitone, in corso al PAC di Milano sino al 3 dicembre) più si prenda il partito di piegare in direzione “civile” il proprio background concettuale. Tre cannocchiali puntati sulla città, su uno dei suoi panorami più lussuosi, anziché le cupole languide e scipionesche che ti aspetti, rinviano ai terrapieni sconvolti dell’Accattone di Pasolini. Centro e Periferia, davvero, sono solo punti di vista.   

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita il 12 novembre su «Alias».

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Christian Raimo. Tutti i banchi sono uguali

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Criticando i programmi di ‘educazione compensatoria’ apparsi nel secondo dopoguerra con l’obiettivo di sostenere gli studenti ‘culturalmente deprivati’ attraverso interventi di ‘arricchimento culturale’, il sociologo dell’educazione britannico Basil Bernstein titolava un suo articolo apparso sulla rivista New Society in questo modo: Education cannot compensate for society. La sua posizione può essere sintetizzata all’estremo in due punti. Uno. I promotori di questi programmi sorvolano sul fatto che gli studenti considerati ‘deficitari’ frequentano spesso scuole incapaci di garantire loro un ambiente d’apprendimento paragonabile a quello di cui possono godere gli studenti provenienti dai ceti più abbienti. Due. Questi programmi assumono che l’uso della lingua e della cultura dei ceti dominanti sia l’unico criterio valido per valutare gli studenti. Bernstein, e con lui Michael Young – a cui si deve l’invenzione del termine ‘meritocrazia’ con cui titolava un suo saggio satirico-distopico, nel 1958 –, così come Pierre Bourdieu in Francia, sollecitavano dunque a ragionare sulle disuguaglianze di istruzione attraverso una riflessione sui modi attraverso cui le strutture sociali definiscono gerarchie di tipo linguistico-culturale e su come il sistema scolastico si presti, in modi più o meno consapevoli, a renderle legittime. 

 

Per chi lavora nella scuola, o per chi se ne occupa dal punto di vista delle politiche scolastiche, chiedersi ‘quale scuola? per quale società?’ è una domanda cruciale per orientare i modi attraverso cui socializzare le nuove generazioni a immagini di un futuro possibile, a schemi cognitivi e pratiche in grado di incidere sulla realtà sociale e sulle sue diseguaglianze. Ma si tratta di una domanda che non va posta in modo ingenuo. Scuola e società sono infatti due termini che si trovano in un rapporto di complicità ontologica. Un rapporto che si esprime nei processi – sempre attraversati da tensioni e potenzialmente capaci di ri-definirne la natura – di reciproco modellamento.  

La sfida di chi fa scuola oggi è allora quella di immaginare in che modo promuovere giustizia sociale e pluralismo democratico dentro un sistema scolastico che viene fagocitato da un sistema sociale profondamente ingiusto. Viviamo in uno scenario post-crisi in cui cresce vertiginosamente la polarizzazione sociale, vengono progressivamente smantellati tutti i dispositivi di protezione sociale costruiti nei decenni del secondo dopoguerra, povertà e marginalizzazione (crescenti) vengono sempre più declinate nei termini di problemi da affrontare attraverso soluzioni tecniche (fallimentari) miranti all’attivazione e alla responsabilizzazione individuale. La costruzione ideologica del ‘deficit’ (culturale, linguistico, morale) come causa del fallimento educativo e sociale, criticata da Bernstein nel 1970, è più attuale che mai. 

 

In questo quadro, la sfida di chi crede nella scuola come incubatore di democrazia è dunque quella di saper cogliere gli spazi per praticare, parafrasando Gramsci, un ottimismo della volontà pur all’interno di una lettura rigorosa, realistica e inevitabilmente pessimistica delle dinamiche che coinvolgono, intersecandosi, l’istituzione scolastica e la struttura sociale contemporanea. In questi spazi angusti sembra muoversi Christian Raimo nel suo ultimo libro, Tutti i banchi sono uguali. La scuola e l’uguaglianza che non c’è (Einaudi 2017). Un volume ricco e ben documentato, che, oltre a fornire alcuni spunti di riflessione su possibili modi per pensare ‘altrimenti’ il processo pedagogico, riesce nel suo intento di divulgare una parte della ricerca sulla scuola che è stata prodotta in questi anni in questo paese: quella che si è occupata di mostrare che la scuola di oggi non è più giusta o equa di quella aspramente criticata dagli studenti di Barbiana; e quella che si è soffermata sull’introduzione più recente di nuovi dispositivi che rendono più sottili i meccanismi di riproduzione della disuguaglianza sociale attraverso l’istruzione. Provo, per punti, a toccare alcuni spunti di riflessione suggeriti dalla lettura del volume. 

 

Se c’è un campo in cui la statistica e i dati quantitativi sono utili a sviluppare un ragionamento che trascenda il senso comune e l’esperienza empirica necessariamente limitata a cui ciascuno di noi può aver accesso, è quello della stratificazione sociale. Al di là delle singole storie di successo, sempre più riportate da tutta una pubblicistica in espansione su cui occorrerebbe condurre qualche riflessione, la ricerca statistica ripropone inesorabilmente questa scomoda verità: le disuguaglianze sociali nel campo dell’istruzione sono persistenti e l’avvento dell’istruzione di massa non ha modificato il vantaggio relativo dei figli di famiglie istruite o benestanti nell’accesso a un’istruzione più alta e di qualità più elevata. Questo è un dato oggettivo. L’altro dato oggettivo è che più alta e di qualità è l’istruzione conseguita, più è probabile accedere nel tempo a posizioni occupazionali remunerative e prestigiose. Chi usa storielle tratte dalla propria esperienza quotidiana per smentire la tesi del persistente classismo della scuola italiana, corre il rischio di prestarsi a un’operazione di tipo ideologico che oscura l’incapacità del sistema scolastico di far fronte al suo mandato costituzionale (art. 3 e art. 34).

 

 

Fa bene quindi Raimo ad affrontare fin da subito il tema della critica al ‘donmilanismo’: costruzione retorica di un soggetto – la scuola ‘facile’ immaginata da Don Lorenzo Milani– a cui imputare il presunto degrado linguistico degli adolescenti contemporanei. Una posizione espressa con forza da personalità autorevoli che si fonda su argomentazioni a dir poco semplicistiche. Non è il ritorno ‘al tempo che fu’ e a una scuola dell’obbligo più selettiva che migliorerà le competenze linguistiche degli italiani, ma un radicale cambiamento nella formazione degli insegnanti e nei metodi di insegnamento della grammatica e della lingua italiana.

 

La lingua è uno straordinario strumento di esclusione sociale. Insegnarla a partire da basi scientifiche solide – che in Italia si sono sviluppate almeno a partire dagli anni Ottanta proprio su impulso di chi (come Don Milani) immaginava la scuola come un’istituzione volta a realizzare una società più giusta – non può che essere cruciale per far sì che si colmino i gap linguistici tra chi ha il privilegio di accedere a un uso ‘corretto’ dell’italiano in famiglia e chi no. Quando si parla di lotta contro l’abbandono scolastico o della necessità di incrementare il numero di laureati (su questi indicatori l’Italia fa sempre una pessima figura nei confronti internazionali, per cui se ne parla molto), non ci si può esimere dal confrontarsi con il tema centrale del rapporto tra sistema scolastico (la sua specifica cultura e struttura, i suoi specifici meccanismi di funzionamento) e quel multiforme insieme di vincoli e opportunità, materiali e immateriali, a cui gli studenti e le famiglie possono accedere in virtù della posizione sociale occupata. Anche la nota questione dei divari Nord/Sud, che è esplosa soprattutto da quando sono cominciati a essere implementati e discussi i processi di valutazione quantitativa standardizzata (si veda l’indagine Ocse-Pisa), va letta in questi termini e non, semplicisticamente, dentro uno schema che imputa gli scarsi risultati degli studenti meridionali ai ‘malfunzionamenti’ delle scuole del mezzogiorno. Un tipo di analisi che è completamente assente dal discorso ufficiale – non ve n’è traccia ad es. nel documento ‘la Buona Scuola’ così come nella legge 107 – e che viene sempre più tenuto ai margini dal discorso prodotto quotidianamente all’interno delle scuole. 

 

Per diversi motivi in Italia, più che altrove, il censo di nascita risulta cruciale nella determinazione dei percorsi scolastici. Certamente, la biforcazione dei percorsi scolastici al termine della scuola media – che non ha alcun senso pedagogico e che per precocità e rigidità rappresenta ormai quasi un unicum nel panorama scolastico occidentale – è il primo fattore a dover essere posto sul banco degli imputati. Questa architettura di origine gentiliana, che si innesta su un processo di progressiva istituzionalizzazione della gerarchizzazione sociale tra i vari tipi di istruzione secondaria superiore, costituisce infatti l’orizzonte di possibilità per studenti e famiglie quando si trovano a dover scegliere in quale tipo di istruzione spendere i prossimi anni. Un orizzonte di possibilità che dipende dalla posizione sociale delle famiglie e che spinge anche chi fa orientamento scolastico (gli insegnanti in primis) a incoraggiare scelte che finiscono per riprodurre le disuguaglianze di partenza. 

Naturalmente, accanto a questo e in termini ancora più generali, bisognerebbe (ri)discutere della ‘forma scolastica’ dominante e della presunta neutralità degli schemi di valutazione usati nelle aule scolastiche. Su questo valga l’accenno alla riflessione di Bernstein fatta in precedenza. La valutazione abilita operazioni di (auto)classificazione (‘essere portato per…’, ‘avere testa’, ‘essere sveglio’ ‘lento’ ‘piatto’, ecc.) che legittimano le disuguaglianze esistenti naturalizzando la subalternità sociale degli studenti che provengono da contesti poco abbienti e poco istruiti. 

 

Fin qui, nulla di nuovo, tranne il rinnovamento inesorabile delle logiche che producono le disuguaglianze di generazione in generazione. Ma dalla fine degli anni settanta a oggi, e con un’accelerazione straordinaria a partire dagli anni 2000, si è assistito a un processo di trasformazione e rimodellamento del rapporto tra società e sistema di istruzione che può essere descritto nei termini di una crescente pervasività e capillarità di una razionalità economico-politica di tipo neoliberale. 

Questo cambiamento, tuttora in corso, si innesta su una ‘forma scolastica’ rimasta sostanzialmente inalterata, introducendo nuovi adempimenti, sistemi di regolazione e obiettivi, volti a trasformare la vita quotidiana del sistema scolastico al fine di rispondere alle esigenze date dalle nuove condizioni di accumulazione del capitale. Si pensi a quanto il discorso sulla didattica per competenze sia stato trainato essenzialmente da organismi che dovrebbero occuparsi di economia (l’Ocse) e, come mostra bene Raimo (cap. 15), da tutta una serie di produttori di sapere che immaginano la scuola in una prospettiva sincronica e non diacronica: ‘la scuola deve servire alla società e all’economia di oggi’ e non a immaginarne una nuova. Deve, in altri termini, servire il sistema economico per come esso è strutturato oggi (ovvero diseguale e finanziarizzato a livelli crescenti). 

 

Questo percorso di trasformazione in senso neoliberale della scuola italiana, può essere identificato attraverso alcuni passaggi cruciali. Primo, le politiche connesse al decentramento, alla decentralizzazione e all’autonomia scolastica che hanno avuto un ruolo fondamentale nella creazione di un quasi-mercato dell’istruzione attraverso la creazione di un’ossatura in grado di abilitare processi di concorrenza tra scuole. Secondo, le spinte alla valutazione a fini comparativi provenienti da attori sovranazionali (in particolare l’Ocse, attraverso le indagini PISA) e nazionali (l’Invalsi), che con il loro corollario quantofrenico hanno motivato e legittimato politiche scolastiche volte alla massimizzazione dell’efficacia e alla identificazione di obiettivi (pedagogici?) misurabili. Terzo, il depauperamento e la delegittimazione del corpo docente e dei contenuti disciplinari in favore della didattica per competenze più in grado di rispondere alle esigenze del mercato del lavoro attuale. Su questo si pensi anche al progetto dell’alternanza-scuola lavoro e alla sua ambizione di funzionare come un dispositivo di innovazione didattica (ma in che modo? e in quale direzione?). Quarto, la creazione di un discorso che enfatizza la libertà di scelta delle famiglie e che trasforma gli studenti in ‘clienti’ che possono fondare le loro scelte sulla base di indicatori sempre più ‘oggettivi’ costruiti da nuove ed emergenti agenzie di ranking. Quinto, la riduzione complessiva della spesa pubblica nel comparto dell’istruzione che apre importanti spazi di azione per emergenti attività for-profit in grado di sopperire alle carenze del sistema pubblico e di incontrare le aspirazioni dei nuovi e competitivi ‘clienti’ del sistema scolastico (si veda l’interessante indagine sul business dei centri-studio privati condotta da Raimo nel cap. 10). 

 

È evidente che gli esiti di questi processi, e delle politiche che li hanno sostenuti, approfondiscono le dinamiche competitive– tra scuole, tra studenti, tra insegnanti (si pensi al bonus premiale) – dentro un nuovo meccanismo di regolazione preso a prestito dai manuali di management aziendale. Si tratta di politiche che disegnano scenari lontani anni luce da quello che secondo la carta costituzionale dovrebbe essere il ruolo della scuola pubblica in questo paese. Dentro il mercato – e con sempre meno risorse a disposizione per operare dei correttivi (si pensi tra le altre cose all’esiguità dei fondi destinati al diritto allo studio) – le disuguaglianze di partenza non possono che rafforzarsi. Lo dimostra tutta la ricerca condotta in paesi che si sono incamminati su questo tipo di percorso prima di noi. Inoltre, più competizione e più disuguaglianza sono il binomio perfetto per far crescere una generazione atomizzata, incapace di trovare spazi per prendersi cura dei legami sociali, e dunque di costruire ogni giorno le condizioni di possibilità del processo democratico: Sulla ‘crisi della cura’ associata ai processi di neoliberalizzazione si veda l’interessante saggio di Nancy Fraser (2017) La fine della cura. Le contraddizioni sociali del capitalismo contemporaneo, edito da Mimesis.

 

Fortunatamente si aprono varchi di contestazione più o meno esplicita, e più o meno sotterranea, alle politiche in corso. Raimo ci racconta del potenziale connesso all’uso eterodosso dei voti come leve per ottenere migliori performance piuttosto che come certificazione dei risultati ottenuti, così come ci racconta di tutto un movimento di riflessione critica sulla scuola delle competenze. Le contestazioni nei confronti della legge 107 e le recenti manifestazioni degli studenti nei confronti dell’alternanza scuola-lavoro, meritano una grande attenzione. Alcuni movimenti, quello che si è coagulato attorno alla legge di iniziativa popolare (LIP) per una scuola della Costituzione, quello di cooperazione educativa, alcune reti di associazioni studentesche e molte iniziative locali più o meno recenti, testimoniano come nonostante siano all’opera dispositivi in grado di controllare sempre più capillarmente il lavoro scolastico e di orientarlo in un senso efficientista appiattito sulle necessità attuali del sistema economico, sia ancora possibile fare una ricerca didattica orientata agli ideali di giustizia sociale e formulare modalità di pensiero e azione alternativi a quelli dominanti. Di fronte alla miopia di chi immagina di plasmare il mondo scolastico su una razionalità politico-economica che mostra ogni giorno il fallimento delle sue stesse promesse, forse troviamo qui alcuni spiragli di luce. Una scuola in tensione e in ricerca, capace di aprire spazi che si aprono verso l’ignoto, verso modalità creative e critiche di immaginare il rapporto pedagogico. Quel rapporto che fonda i processi di socializzazione delle nuove generazioni e le modalità attraverso cui queste ultime sapranno affrontare le sfide (si pensi a quella ambientale, oltre che a quella economica e tecnologica) che il futuro riserverà loro.

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Esilio e ospitalità

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Nel 1974 avevo vent'anni. Ho fatto il servizio militare di leva, allora era obbligatorio, e ricordo, durante quei giorni di silenzio e assenza – avevo un incarico che mi permetteva di restare quasi tutto il tempo inerme, escluse le marcette mattutine – la lettura di una quantità di romanzi e racconti. 

Mi identificai con Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi, che parlava di esilio e ospitalità. L'esilio fascista e l'ospitalità dei contadini lucani.

Ero di stanza a Foggia, non lontano da quelle zone, anzi ci andammo a fare un campo. Ospitalità, perché Carlo Levi fu ospitato, come noi soldati, durante il campo, da quei contadini poveri, gentili, che non erano cambiati dagli anni Trenta fino agli anni Settanta e forse il progresso li sta ancora lasciando in pace. Ma che significa ospitalità? Agire sui minuti particolari, non guardare chi arriva, offrirgli quel che hai, dividerlo, chiunque sia.

Il libro che ho letto adesso invece si intitola Chroniques d'exile et d'hospitalité - vies de migrants, ici et ailleurs, di Olivier Favier, edizioni Le passager clandestin. 

Favier rievoca i tempi della gioventù, quando, in condizioni migliori, anch'io vivevo un anno e mezzo di separazione dalla famiglia, dagli amici, dal mondo. Il nonno materno di Olivier Favier, arrivato in Francia nel 1924, a 16 anni, oggi sarebbe un minore straniero non accompagnato:

“... osservo questo adolescente dagli occhi malinconici e i capelli all'indietro, mentre contempla un futuro incerto”. 

 

Quegli occhi del giovane nonno, in fotografia, appartengono alla prima pagina del libro, ma ritornano ancora e ancora in Mamadou, Mohamed e tutte le persone che Favier incontra durante il suo tragitto e la sua ricerca. Persone che raccontano il viaggio, giovani esuli, in un tempo che non è di guerra, ma è lontano dalla pace, il tempo che stiamo trascorrendo ora nel mondo, tempo minaccioso. Un viaggio supposto essere dalla morte alla vita, dalla guerra alla pace, dalla povertà alla ricchezza, dalla dittatura alla democrazia. Quel viaggio che smaschera definitivamente i conclamati principi umanitari europei: libertà, uguaglianza, fraternità. In Chroniques d'exile et d'hospitalité si parla del nomadismo contemporaneo, del ripudio, da parte dell'animale uomo, delle sue origini, della sua specificità. 

Uomo: animale nomade. Animale delirante che, a un certo punto, molto recente, della sua esistenza come specie, ha dichiarato che chi vive in una certa parte del territorio della Terra ne è proprietario e ha creato confini che giustificano l'assassinio, la guerra, l'oppressione, l'ostilità. Un animale stupido, l'unico animale stupido, e ostinato, che produce migranti, esuli, esiliati, richiedenti asilo, rifugiati, deportati, come nella canzone di Woody Guthrie

 

 

 

 

Dopo alcune pagine di ricordi delle origini, l'autore racconta la storia nascosta del colonialismo, quel sotto-testo che si legge solo nei libri di storia universitari, in modo freddo, e che va supplementato con i pochi articoli, in gran parte nascosti, dei quotidiani italiani. Infatti la storia dell'emigrazione italiana all'estero si intreccia con la storia del colonialismo italiano.

L'Italia, paese doppio, paese di emigranti e potenza coloniale, ha sempre mantenuto questa doppiezza, anche in casa propria. Il Sud colonia del Nord, l'immigrazione interna per sopravvivere. Ma anche i rapporti “diplomatici” con la Libia, l'Eritrea, la Somalia, rapporti coloniali che perdurano ben oltre il secondo dopoguerra, fino agli anni Settanta e oltre, fino ai tempi recenti.

 

 

Poi arriva l'immigrazione in Italia e il nostro paese si trasforma da paese di emigrazione in paese di immigrazione. Arriva dopo, dopo la Francia, la Germania, la Svizzera, il Belgio, il Regno Unito. 

Mi accade di ascoltare, da un'angolatura clinica, storie uguali a quelle raccontate da Favier. 

Alcuni media scriteriati stanno già facendo lo schema narrativo degli esuli. Per costoro, si tratta di impostori che cercano di venire in Europa a “rubare” il lavoro. Questi scriteriati sono spesso gli stessi che hanno i loro rappresentanti nelle commissioni per il rilascio dell'asilo politico, che impongono di raccontare storie convincenti alle commissioni, che possono conferire il diritto di asilo. Come un gatto che si morde la coda, in un imbroglio. Gli operatori che assistono i richiedenti asilo cercano di aiutarli a rendere “coerente” il racconto per avere un minimo di speranza di essere almeno ascoltati dai burocrati, e i burocrati raccontano che le storie sono poco credibili perché sono tutte uguali. 

 

Che triste storia sta attraversando l'Europa! È questa l'Europa? Allora, se è questa, l'Europa è un insieme di dichiarazioni fasulle: non rispetta le leggi dell'ospitalità, respinge nella clandestinità la gran parte dei richiedenti asilo e mostra solo stupidità. La clandestinità – per una persona che, se torna indietro, rischia di essere linciata, nuovamente torturata, braccata, in preda a terribili sortilegi, imprigionata, uccisa – è il minore dei mali, e la clandestinità produce manovalanza per la criminalità organizzata. L'imbroglio delle commissioni che rilasciano l'asilo politico si ritorce contro l'Europa. L'Europa sta diventando sempre più un fenomeno di dittatura burocratica.

Questi burocrati europei sono uomini tutti d'un pezzo, come avrebbe detto Mussolini, si dichiarano “liberali” solo perché non sparano, non danno manganellate, non uccidono. Usano le norme, in questo caso le norme per il respingimento.

Il testo di Favier racconta tutto ciò, dopo le premesse storiche; racconta quanto è accaduto tra il 2013 e il 2016, anno di uscita del libro. Dalla Libia, dal Marocco, giungono migliaia di persone. Anche dopo la pubblicazione di questo libro, i morti affogati nel mediterraneo sono aumentati; i racconti clandestini dei richiedenti asilo, che soffrono in misura crescente del trauma del viaggio, parlano di trenta salvagenti per trecento persone, di naufragi in cui donne e bambini muoiono in modo spietato, riemergono sulle spiagge come cadaveri. Chi riesce ad arrivare soffre di incubi notturni, deliri, dolori in tutto il corpo. Spera di rivedere i propri figli, senza sapere dove sono, se sono vivi o morti. 

 

Anche questo è parte di una società psicotica, parcellizzata, priva di connessioni, di governi e burocrazie incapaci di provare vergogna. Tra le famiglie italiane che vanno in rovina per le protezioni governative al gioco d'azzardo, la tratta della prostituzione delle donne africane da parte della criminalità organizzata, gli imbrogli continui da parte del marketing delle compagnie telefoniche e delle multinazionali, l'uso smodato dei farmaci per l'arricchimento di big-pharma, la propaganda sciovinista e nazionalista in politica, e tanti altri eventi terribili che accadono nel mondo, non c'è separazione, si tratta di una struttura che connette, che prepara la fine del Mondo, di Gaia. 

 

Benché non ci sia un grande fratello consapevole, c'è uno “spirito del tempo” (Zeitgeist) distruttivo. Contrastarlo senza riprodurre la stupidità dell'antagonismo, che è parte di questo Zeitgeist, è difficile, ma non impossibile. Si tratta di far riemergere il valore etico della disobbedienza e del dissenso. Si tratta di riprendere le parole di Willam Blake: “To Generalize is to be an Idiot. To Particularize is the Alone Distinction of Merit — General Knowledges are those Knowledges that Idiots possess”, che tradurrei sostituendo il termine “idiota” col termine “stupido”, perché oggi si tratta di stupidità, più che di idiozia: “Generalizzare è essere stupidi. Seguire il particolare è la sola distinzione di merito – La conoscenza generale è l'unica conoscenza che possiedono gli stupidi”.

Ci vuole la fiducia che dal basso, dentro i meandri e le porosità di questo “spirito del tempo” burocratizzato e distruttivo, riemerga l'esperienza della solidarietà e della tenerezza. Questo è il messaggio che questo libro intorno alle vite dei migranti di oggi e di allora ci invia, almeno così l'ho raccolto io, in questo breve scritto.

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Chi scrive è un maschio

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Questione “Weinstein”

Chi scrive è un maschio, bianco, occidentale, anzi peggio, europeo, non indigeno, non appartenente a fedi religiose orientali, di mezza età, single, con un’educazione occidentale, anzi classica, – che altro devo dire per anticipare con i distinguo le classificazioni bio-politiche senza le quali non ho diritto a parlare di questa faccenda? – ho varie tessere, arci, feltrinelli, amici della musica, palestra e piscina, sono abbonato ad alcuni quotidiani cartacei e online oltre che alla metro milanese.

 

Ecco la tiritera delle appartenenze che mi rendono inadeguato a parlare di cose che hanno a che fare con l’affettività e con il sesso. Ancora una volta Simone De Beauvoir, che sostiene che non esistono uomini capaci di parlare di se stessi come appartenenti a un sesso. Ho scritto sulla questione una risposta proprio alla De Beauvoir in forma di libro, Modi Bruschi, antropologia del maschio (Eleuthera) e un altro qualche anno dopo Il punto G dell’uomo, desiderio al maschile (Nottetempo).

 

Eppure nella contingenza post-weinstein, com’è stata battezzata, ho molto ritegno a parlare. Ho dietro le spalle una vita affettiva e sessuale di quattro decadi e quindi sono a rischio perché dal passato può emergere qualunque presenza che ho sicuramente in un modo o nell’altro fatto soffrire. Ho lasciato male, sono stato lasciato male, ho corteggiato e sono stato corteggiato, ho sedotto e sono stato sedotto, ho desiderato e sono stato desiderato con successo e infelicità da entrambe le parti, ripeto ho vissuto e vivo sapendo che sentimenti e sessualità non sono un campo semplice e lineare, ma pieno di malintesi, fraintendimenti, singulti e ripicche. E non è un caso che una delle scrittrici femministe più interessanti di questi anni, Eva Illouz, abbia scritto un libro che si chiama Perché l’amore fa male (Il Mulino). Eh sì, l’amore, il sesso, soprattutto il desiderio fanno male. Solo una stupida letteratura online e i film di Hollywood possono permettersi di raccontare il contrario. E questi dolori non datano da ieri, ma da sempre, pare, se un’altra scrittrice come Martha Nussbaum ha scritto vari volumi sulla terapia dal desiderio nel mondo classico.

 

E poi lo sappiamo tutti, no?, quanto sia difficile essere corrisposti nei propri amori e desideri e quanto nell’incontro tra esseri desideranti, che siano uomini e donne, uomini e uomini o donne e donne, ci sia una sperequazione che produce frizioni, lacerazioni e dolori, insieme a qualche felicità però. Solo una concezione all’americana dei rapporti tra sessi, una concezione alla “Tinder” e alla “Ok Cupid”, può credere che si tratti di un innocuo “compagnonnage”, di un “agreement” tra amici. L’idea della coppia come una compagnia amicale è tutta della spaventosa trasformazione dell’amore in coppia produttiva negli anni ‘50 del Novecento, quella che viene creata per consumare elettrodomestici, alloggi e ascensori. Il desiderio c’entra poco con la democratica trattativa sul desiderio.

 

Lo dice anche Eva Illouz, che dopo avere parlato dell’importanza del sesso consensuale si chiede se questo “dire” e “pre-dire” cautelativamente tutto ciò che si vorrebbe fare e che l’altro vorrebbe aver fatto, si domanda se tutto ciò non spenga il desiderio. Proprio perché chi trasforma il desiderio in “detto” si rende subito conto che buona parte di esso non può essere espresso. Lo diceva anche Freud, un ributtante maschio europeo: “Il desiderio è un eccesso”, qualcosa di molto poco realistico che va molto al di là della possibile soddisfazione e dell’oggetto stesso del desiderio. 

 

Ph Ren Hang.


La questione “Weinstein” ha scatenato giustamente uno sdegno collettivo, incanalato nelle casse di risonanza apparentemente neutre di Facebook, dei Social e nelle casse più segrete degli avvocati.  Lui o quelli come lui che vogliono sesso in cambio o nella promessa di favori. O che si servono del proprio potere per ottenerli. È stato l’inizio delle denunce di massa da parte delle donne, anche se subito dopo sono emerse quelle da parte di uomini nei confronti di altri uomini e di uomini nei confronti di donne (ad es.Mariah Carey che chiede sesso al suo bodyguard). Le denunce fanno sospettare che non basti il maschilismo e il patriarcato, ma che ci sia una questione più generale di potere, forse anche nei sacrosanti LGBT ci sono questioni simili.

Sacrosanta crociata per donne e uomini (lo dico sapendo che non ho il diritto di dirlo, ma dovrei dirlo per dovere). Perché le donne che vengono umiliate sono oggetto di violenza e gli uomini vengono trascinati da questo malcostume nella veste di complici.

 

Il problema con Weinstein, con Berlusconi, con Trump e chiunque altro somigli loro, è che se la sessualità viene misurata con il loro livello criminale, se essa viene cioè confrontata con questi comportamenti, è l’insieme della sessualità che viene messo in gioco. Una certa linea femminista radicale lo dice chiaramente: “Dietro ogni donna c’è un possibile stupratore”, o meglio “Ogni donna è oppressa da un uomo che potrebbe trasformarsi in stupratore”. E recentemente un articolo su “The Guardian” di Laura Penny, ripreso da “Internazionale”, metteva in guardia proprio le donne rispetto al proprio consenso, invitandole a dubitare della loro sessualità, del loro stesso desiderio. Una certa linea simile a questa vuole che sulla sessualità in generale si stenda un velo di dubbio. Essa è “sbagliata” sia quella maschile che quella femminile. Con modi che somigliano alle battaglie degli Ugonotti o alle prediche puritane del 1600. La Chiesa, le chiese, hanno sempre invitato i propri fedeli ad avere in sospetto le proprie istintive emozioni e soprattutto il campo del desiderio. Se il desiderio maschile è qui alla sbarra, vergognoso, impudico, porco, incapace di contenersi, quello femminile è altrettanto in crisi perché si fida o si abbandona troppo. Ce n’è per rovinare la sessualità alle prossime due generazioni. Tutta la sessualità è abbassata al livello di Weinstein. Di questo pericolo si rendono conto moltissime donne che stanno intervenendo in queste settimane nel dibattito, che è molto più articolato di quello che i media presentano. Anche se le donne che non “ci stanno” alla radicalità femminista di ultimo grido vengono additate come traditrici, e quindi non veramente donne. 

 

Nella civilissima Francia qualcuno vuole introdurre il “reato di sguardo per strada”. Un certo “eye contact” sarebbe automaticamente considerato al pari di una molestia. Qualcosa che arriva direttamente dagli Stati Uniti e dal puritanesimo sempre riemergente, anche se travestito da femminismo o da correttezza politica. Ce lo ha raccontato vent’anni fa Human Stain (La macchia umana), il romanzo di Philip Roth (un maschio, ahinoi e quindi non qualificato a parlare) che racconta la storia di un professore universitario che viene espulso dall’accademia per avere usato un aggettivo per nominare studenti che non si erano mai presentati, aggettivo che significa fantasma, ma anche “nero”. E ha la sfortuna che gli assenti sono degli studenti neri. Ritiratosi viene perseguitato perché ha una storia d’amore con una ragazza nera più giovane di lui e che viene da un modesto ambiente – è chiaramente un uso che lui fa di lei agli occhi di tutti. 

È Le efferatezze nei confronti della vita di molte persone si contano a migliaia e oggi continuano a perpetuarsi con la scusa che “la rivoluzione è in corso” e ovviamente ci sono vittime innocenti, ma la causa deve prevalere, un ragionamento tipicamente stalinista o se volete cattolico-missionario.

 

Una delle cose che però comincia a emergere dal dibattito negli Stati Uniti e da noi è che c’è qualcosa di losco nell’uso che di questa crociata viene fatto: che sia Facebook, la fogna che ha portato Trump al potere, a essere il canale della crociata, che siano le Iene (mai nome fu più autogol) e che sia il mondo dei lawyers, il mondo del business giuridico, a essere quello che per primo si giova della crociata. La rivoluzione sembra essere affidata alle vie legali e in questo, come ogni campagna, somiglia al maccartismo o a qualunque tipo di santa inquisizione. In fin dei conti i processi agli eretici erano pur sempre processi, e alla loro base stava l’abitudine alla delazione, la lotta per il potere travestita da religione, denunciare chi è più potente, più attraente, chi ha fatto successo o soldi, chi è emerso dalla massa sconosciuta. Non è un caso che l’accanimento delle denunce di molestie è sempre fatto nei confronti di chi ce l’ha fatta, ha avuto successo – salvo poter infierire proprio quando ha un rovescio economico e da lui non si può ottenere più nulla. 

 

Nel meccanismo della delazione si nasconde qualcosa di ancora più sottile. La violenza di chi vuole sesso in cambio di posti di lavoro, di parti in film o nell’arte, corrisponde al ricatto di chi minaccia di denunciare di molestie chi questi favori non li concede. E nei mondi del potere accademico una buona denuncia per molestie leva di mezzo un concorrente scomodo: una famosa antropologa indiana che insegna in un’università scandinava ha usato questo metodo per fare ostracizzare qualcuno che non voleva nel proprio dipartimento.

 

Giustamente una parte del dibattito femminile ha cominciato a fare i distinguo. Un conto è un’accusa di stupro (che è un’accusa, non una condanna provata da un processo, anche se l’accusa da sola è infamante, come lo era essere accusato di comunismo negli anni ’50), un conto è un’accusa di molestie, la cui definizione è molto vaga, ampia e varia da cultura a cultura. Ripeto, per fortuna c’è un grande distinguo che si sta profilando. Però è l’effetto generale che ha ben poco a che fare con i singoli casi. Ed è la criminalizzazione del sesso, non solo di quello maschile, ma anche quello femminile, ma anche gay o transgender.

 

La criminalizzazione del sesso è qualcosa che, anticipato da Foucault, oggi si profila all’orizzonte. La sua dissezione da parte dei media e degli avvocati, la voglia ossessiva con cui me-too ha scatenato una specie di voyerismo al contrario, come se in faccende simili non fosse importantissimo in mano a chi tu metti il racconto della tua intimità. Viene il sospetto che questa non sia già più una battaglia femminista o femminile, ma una resa dei conti di altro tipo, una rivoluzione per la presa del potere biopolitico. Il sesso è diventato tutto intriso di violenza reale o potenziale e quindi tutto strumento per il potere. Il sesso è diventato l’arma del ricatto e non solo il sesso, ma anche il campo delle molestie e il campo del desiderio – che può essere denunciato come molestia; il solo fatto di essere oggetto del desiderio di qualcuno diventa una molestia. 

 

È questa “volontà di sapere” che sembra si sia scatenata come un’isteria collettiva, questa volontà di dissezionare la vita sessuale propria e di tutti. Nel fatto stesso di avere una vita sessuale c’è qualcosa di sospetto, perché il desiderio non è mai innocente, soprattutto se è maschile, ma è complice se è femminile, perché si fa irretire da qualcosa che non gli appartiene. Ne viene fuori un’immagine di santità femminile, di esclusione delle donne dalla sfera dell’interazione con gli uomini. Come se il mondo fosse tutto fatto e deciso dagli uomini e le donne fossero solo “oggetto”, una delle più grandi mistificazioni del desiderio, come se il desiderio femminile per un uomo non avesse gli stessi caratteri oggettivanti. Qui è messa in discussione tutta la costellazione delle attrazioni e le donne trasformate in vergini anziane che ragionano come nonne senza più desideri. A meno che i desideri non siano solo tra donne e come se questo tipo di desiderio non fosse altrettanto oggettivante. C’è una mescolanza di puritanesimo, cattolicesimo pietistico e impero avvocatizio, tutto il contrario di una rivoluzione progressista.

 

Ph Ren Hang.


Lo fa notare in un articolo Slavoj Žižek, un altro maschio che non avrebbe diritto a parlare (i maschi possono parlare solo se si allineano alla crociata). C’è nella costruzione del vittimismo – di una metà del mondo, quella rappresentata dalle donne, la dimissione totale di soggettività, di essere agenti della storia, il trasformare le donne in oggetto passivo della storia, il non capire che le società si fanno con una negoziazione continua tra uomini e donne. Il vittimismo è la tentazione di trasformarsi in “minoranza” quando si è invece maggioranza. 

 

“La caratteristica fondamentale della soggettività di oggi è proprio la bizzarra combinazione del soggetto libero che si ritiene responsabile ultimo del suo destino e del soggetto che fonda l’autorità del suo discorso sul proprio status di vittima di circostanze fuori del suo controllo. Ogni contatto con ogni essere umano viene vissuto come una potenziale minaccia: se l’altro fuma, se l’altro mi lancia uno sguardo carico di desiderio mi sta già facendo male” (Žižek).

 

Nell’idea dell’universale dominazione maschile c’è una forma di essenzialismo che proprio il mondo dei women’s studies americano aveva rifiutato (Susan Carol Rogers: se pensiamo che la dominazione maschile sia un universale finiamo in una specie di legge naturale) ci sono società in cui la dominazione maschile non c’è – molte società polinesiane ad es. – e ce ne sono altre in cui c’è una fluttuazione tra i poteri dei domini maschili e di quelli femminili. Il matriarcato ad esempio è una forma di potere femminile potentissimo delle generazioni anziane di donne nei confronti di quelle più giovani e delle donne più giovani in particolare: l’escissione in molti paesi islamici e africani è praticata dalle mamme sulle figlie.

 

Žižek lo dice con chiarezza: è il campo del potere che qui è in gioco e nulla come la sessualità ha a che fare con esso, dall’appuntamento a cui la desiderata non si presenta dando buca (era un esempio di Foucault), al bonding al sado-masochismo. 

 

“Alcune femministe hanno osservato parecchio tempo fa che se cerchiamo di immaginare un corteggiamento in tutto e per tutto politicamente corretto arriviamo curiosamente vicini a un normale contratto commerciale” (Žižek).

 

Quello che in questa crociata viene spazzato via dalla vita delle persone – quelle che non fanno parte del campo del potere mediatico – è proprio l’ambito magnificamente fluttuante del desiderio, del corteggiamento, della seduzione. Infatti questi campi non hanno proprio spazio di fronte alle urla e alle annotazioni dell’avvocato o del cronista.

 

Viene il dubbio che quello che sta avvenendo sia il trionfo di un politically correct proprio come ideologia di un nuovo regime, di un’ideologia delle nuove classi dominanti. Già i Social sono diventati questo: uno se ne rende conto sempre di più nell’impossibile coda da impeachment di Trump. I Social sono la trasformazione della chat in pensiero dominante. Lo racconta magistralmente Jonathan Friedman in un testo che sarà nelle nostre librerie tra qualche giorno 

Politicamente Corretto, il conformismo morale come regime (Meltemi ed.).

Qui quello che è in ballo è una trasformazione dei rapporti umani in cui entra ben poco la voglia sacrosanta di giustizia delle violentate. È strumentalizzandola che si fa avanti un nuovo regime morale. 

 

Osservo con molta preoccupazione la deriva sempre meno critica di persone rispettabilissime come Rebecca Solnit – qualche giorno fa su “The Guardian”, una giornalista recensiva il suo Gli uomini mi spiegano le cose (Ponte alle Grazie) come un libro interessante, ma molto superficiale proprio perché spinto dall’urgenza della “lotta”. La Solnit da qualche tempo è diventata una bandiera per il nuovo femminismo radicale. Ha lanciato una campagna contro la letteratura che secondo lei incita alla violenza di genere e ha proposto di proscrivere Lolita di Nabokov. E il suo Gli uomini mi spiegano le cose, parte dall’assunto che tutti gli uomini si comportano con le donne come chi debba spiegar loro le cose. Certamente ha ragione per la sua esperienza, ma nel suo ragionamento c’è una forma di essenzialismo, cioè di idea che le identità siano fisse, la stessa per cui i tedeschi sono tutti potenzialmente nazisti, cioè una forma di razzismo, se questo significa attribuire a una parte dell’umanità un’attitudine fissa e costante. 

 

Quello che sul fondo si muove è il pericolo di essere sprofondati in una sabbia mobile che ci risucchierà tutti, che mescolerà colpevoli e vittime e che cancellerà la magnifica costellazione del desiderio di cui è fatta l’umanità. Pensavo qualche giorno fa a un collega che insegna, e che è un uomo molto bello, giovane e simpatico. Le sue studentesse nel proporgli delle tesine di ricerca gli portano (è una istituzione dedita all’arte e alla comunicazione) dei portfolio con delle foto di sé piuttosto spinte e soprattutto gli chiedono degli appuntamenti per approfondire gli spunti di ricerca. Il mio collega è per fortuna felicemente fidanzato, sicuro di sé e prende queste avances con molta ironia. Cosa dovrebbe fare? La sua ironia dimostra che il campo dell’attrazione tra uomini e donne è un campo scivoloso, ma che se lo si trasforma in un’aula di tribunale la vita prende tutto un altro colore, diventa un radicalismo islamico della sessualità. 

 

Abbiamo bisogno di essere liberati da uno sguardo che criminalizza ed espropria la sessualità come ambito prezioso e fluttuante (chi decide cosa è una perversione? A leggere alcune di queste accuse di perversione viene da pensare che la battaglia di quel maschio bruto che era Freud per liberare le perversioni e farle comprendere come parte di un’ampia sessualità sia stata tempo perso). Stiamo regredendo di un secolo e più e qualcuno parla di rivoluzione.

 

I moralismi, il puritanesimo, le inquisizioni non hanno mai fatto progredire l’umanità. Hanno solo sostituito al desiderio la paura. È questo che vogliono le donne oggi, essere temute al punto da non essere più desiderate o essere desiderate in quanto temute, un tipico escamotage di chi ha il potere (cioè i maschi)? È questo che vogliono gli uomini di oggi che non hanno smesso di pensare che il proprio compimento fisico sta nell’incontro con la fisicità e la profondità del mondo femminile?

 

Ecco, ho detto cose chiaramente fuori dal corretto, mi sono esposto a tutti i possibili attacchi, alla furia di questi giorni. Lo faccio perché c’è bisogno di rimpolpare il dibattito, di arricchirlo di voci e di contradditori. Mi sono permesso di farlo da maschio, occidentale, single se volete la mia definizione biopolitica. Se questa vi sta stretta allora diciamo che mi sono permesso di farlo in quanto testimone di un’epoca, come soggetto desiderante e come studioso della magnifica fenomenologia sessuale umana.  

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Trailer e film: strategie di seduzione cinematografica

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Michel Piccoli e Brigitte Bardot snocciolano gli ingredienti uno a uno: ci sono, in ordine di apparizione, la femme, l'homme, l'Italia (con una bella vista di Capri), amanti, pistole, starlette, baci e camere da letto. Il semplice evocare questi stereotipi, mettendoli in fila secondo un ordine preciso, nel caso del trailer del godardiano Le Mépris (1963), sorta di grado zero di ogni trailer degno di questo nome, basterà a rendere l'idea. Le situazioni e i personaggi elencati, infatti, vanno a costituire un filo rosso che funziona, a tutti gli effetti, come una promessa. E proprio ai tanti fili rossi chiamati in causa dai trailer cinematografici che, di volta in volta, su Internet o in televisione, al cinema come alla radio, si contendono la nostra attenzione è dedicato il nuovo Trailer e film. Strategie di seduzione cinematografica nel dialogo tra i due testi di Martina Federico, pubblicato per i tipi di Mimesis. 

 

L'idea alla base del libro è molto semiotica: i trailer vengono dati per scontati, considerati alla stregua di testi promozionali da tenere ben distinti dalla "vera arte" rappresentata dal film e, pertanto, non meritevoli di attenzione critica. Portatore dello stigma del marketing, il trailer agisce, così, silenziosamente, passando inosservato fra i tanti messaggi pubblicitari che circolano nello scenario sociale. Toccherà, manco a dirlo, al semiologo inchiodarlo alle sue responsabilità, facendo emergere dall'ovvio il suo carattere ideologico e culturale, di primo e forse più importante luogo di costruzione di un vero e proprio discorso sul film. 

Riportare la giusta attenzione nei confronti dei trailer si rivela, però, – lo dimostra la leggerezza con cui si legge questo volume – operazione tutt'altro che intellettualistica: ragionare sulle tante strategie di seduzione messe in campo dai trailer può assumere i tratti di un gioco critico intelligente e leggero. I trailer, di regola, infatti, puntano a circuire lo spettatore, suggerendo percorsi interpretativi a discapito di altri, mettendo in luce imprevisti risvolti della trama o, al contrario, confondendo le acque a vantaggio di suspense e sorpresa. Imparare a riconoscere questi scarti, gli stratagemmi sempre diversi attraverso cui, ogni volta, i trailer riescono a convincerci è sicuramente un esercizio stuzzicante oltre che istruttivo. 

Ma quali sono le regole di questo gioco? Guardare il trailer due volte. 

 

Va bene lasciarsi sedurre, così come fan tutti, dalle sue lusinghe prima di andare al cinema. Per capire davvero il senso del trailer, bisogna, però, fare un passo in più e prendersi la briga di tornare a esso di nuovo, a film bell’e che visto. Sarà proprio lo scarto fra le due visioni, quella precedente e quella successiva al film, a rappresentare lo spazio di esistenza del trailer. In questa terra di mezzo, emergono le strategie manipolative più eterodosse. Il trailer di Le Mepris con cui abbiamo aperto, nella sua linearità rappresenterà, per esempio, l'archetipo del cosiddetto trailer narrativo, che fa della messa a fuoco di un'impalcatura narrativa coerente e speculare a quella del film la propria ragion d'essere. All'estremo opposto troviamo, invece, trailer come quello di Arancia Meccanica (1971) che l'autrice definisce "antinarrativo". Il trailer chiama in causa scene di violenza ma assume un tono parodistico, fa costantemente appello a conoscenze pregresse dello spettatore, che complicano il processo di interpretazione. Sarà proprio la discrepanza fra quanto dichiarato nella parte verbale del trailer ("si tratta di un film comico", "di un musical" etc.) e quanto mostrato (scene drammatiche di violenza) a mettere in moto nello spettatore la curiosità di risolvere il rebus, procedendo alla visione del film. 

 

 

A partire dalla tensione fra questi due poli opposti è possibile riconoscere una quantità innumerevole di casi intermedi che costituiscono il "corpus" scelto dall'autrice per analizzare alcuni trailer più recenti. Ognuno di essi viene analizzato in rapporto con il film, prima e dopo la visione. Prendiamo Frances Ha (2012) di Noah Baumbach. Si tratta di una commedia generazionale che affronta il rapporto di amicizia fra due giovani donne alle prese con le scelte legate alla propria carriera lavorativa e, d'altro canto, con il progressivo sfilacciarsi della loro amicizia determinato dal fatto che la loro vita sentimentale diventa sempre più impegnativa.

 

Il film si concentra proprio sulla linea d'ombra che divide la giovinezza dall'età adulta, mettendo in scena, in maniera leggera e minimalista, le difficoltà di prendere in mano le redini della propria vita. Nel film, questi passaggi sono molto sfumati, inseriti in un intreccio senza veri colpi di scena ma ricco di dialoghi e intricate conversazioni. Sintetizzare tutto ciò non è affatto facile. Ecco perché le scelte legate a questo trailer possono essere considerate paradigmatiche. Esso, attraverso il montaggio, sceglie di scardinare i dialoghi e l'ordine delle battute, riconfigurandoli per i propri fini. Così facendo, il trailer "tradisce" il testo di partenza (lo manipola, per essere più precisi) ma, allo stesso tempo, mostra nei suoi confronti una fedeltà più profonda: la visione del film finisce, infatti, per confermare la bontà di questo tradimento, necessario per restituire, in pochi secondi, il senso generale della pellicola. Caso meno riuscito, secondo Federico, è quello di Irrational Man (2015). Stavolta, il trailer sceglie di non rivelare – riservandolo agli spettatori del film al cinema – il motivo per cui un prof. di filosofia, abbastanza esistenzialista e tormentato, ritrovi improvvisamente, grazie a una folgorante intuizione di cui nulla di più si dice, voglia di vivere e buonumore. Quando si scopre, al cinema, il "perché" di un così repentino e radicale cambiamento si rimane, però, perplessi. In questo esempio, il film costituisce un completamento (e non un'evoluzione) della storia evocata dal trailer: il tassello mancante, una volta rivelato, non riesce a convincere completamente lo spettatore, che rimane deluso. 

 

Il libro propone una cinquantina di schede di analisi di trailer di film scelti fra le uscite più interessanti delle ultime stagioni, trasformandosi in un'originale guida cinematografica, una volta tanto, concentrata sul problema della riscrittura, del dire quasi la stessa cosa, come esercizi critici fondamentali. 

Riguardare il trailer dopo avere visto il film che si è scelto di vedere proprio grazie a quello stesso trailer si rivela, così, un ottimo modo per capire meglio il senso del cinema contemporaneo, il suo pubblico e le sue ragioni, superando, confortati dalla migliore pratica semiotica, la sterile distinzione fra testo e paratesto.  

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Gob Squad e gli altri rivoluzionari

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Nella fitta galassia dei teatri milanesi, un polo fa sentire una particolare forza d’attrazione in questa stagione: è il Teatro dell’Arte diretto da Umberto Angelini. Dopo qualche anno di assestamento – dovuto anche alla necessità di integrarsi con il colosso Triennale – oggi il teatro di viale Alemagna (che molti continuano a chiamare Crt) si è imposto come un punto di riferimento per gli spettatori più attenti al nuovo, complice anche la collaborazione con vitali officine creative come Zona K. Il cartellone di quest’anno sembra un vero e proprio corso di aggiornamento sulle tendenze della sperimentazione internazionale: da El Conde de Torrefiel a Agrupación Señor Serrano, da Milo Rau a Amir Reza Koohestani.

 

Umberto Angelini mostra dunque una evidente predilezione per i linguaggi performativi (che non stupirà chi ricorda il Festival Uovo da lui ideato), ma anche per gli spettacoli radicalmente anti-rappresentativi, che sondano gli scivolosi confini realtà/finzione e il rapporto tra il teatro e gli altri media. Al centro di quasi tutte le ricerche sopra citate si colloca, non a caso, il dialogo tra l’immagine mediata dal video e l’immagine in presenza, in un paradossale processo di (de)legittimazione reciproca. La stagione del Teatro dell’Arte si pone dunque come un laboratorio di pensiero sulla realtà, e sulla sua sempre più sfuggente dimensione virtuale; quasi si affermasse che una trasformazione radicale delle modalità comunicative non può che mettere in discussione con altrettanta radicalità le forme della rappresentazione teatrale. 

 


In questo quadro ben si colloca anche la proposta del collettivo anglo-tedesco Gob Squad, con lo spettacolo Revolution Now!, andato in scena negli scorsi 22 e 23 novembre grazie alla riuscita collaborazione Zona K - Triennale. Il dispositivo performativo è dirompente ma semplice: un gruppo di rivoluzionari (gli attori, ovviamente) occupa un teatro e ha come obiettivo quello di coinvolgere adepti nella rivolta. Una bislacca trasmissione live– cioè la ripresa di ciò che accade dentro il teatro – viene proiettata fuori dal teatro, su un piccolo schermo montato sulla strada che diventa un grido rivolto ai passanti, un invito a far parte del movimento sovversivo che sta bruciando dentro le mura. Chi conosce l’area urbana tra Cadorna e Parco Sempione sa quanto possa essere deserta in un’umida serata novembrina; ma l’energia contagiosa dei folli Gob Squad (accompagnati nelle repliche italiane dal valoroso Marco Cavalcoli) finisce per coinvolgere qualche malcapitato e a trasformarlo in un’icona rivoltosa à la Delacroix. Dunque il teatro può scuotere gli animi e generare la scintilla del cambiamento? I creatori hanno un’intelligenza troppo affilata per sostenere fino in fondo questa tesi. Revolution Now! è forse una corrosiva analisi dei meccanismi trita-carne dei media più che un inno alle potenzialità rivoluzionarie dell’arte.

 

 

La drammaturgia, a ben guardare, non veicola nessun contenuto schiettamente politico: si parla genericamente di trasformazione, senza mai dire in quale direzione; non si menziona mai l’obiettivo polemico del moto rivoluzionario; non si fa alcun cenno a quali poteri si vogliano abbattere.

Sotto la lente di ingrandimento, invece, le trappole comunicative che finiscono per soffocare e omologare i (rari) aneliti di ribellione. I ‘rivoluzionari’ vengono immortalati live in foto-icona che sarebbero già pronte da postare su Facebook, e gli attori e il pubblico collaborano per rendere la trasmissione più glamour possibile. L’interazione tra i passanti in strada e gli spettatori in sala – che si gioca attraverso la visione reciproca via video – ricorda da vicino quella dei format in stile Grande Fratello, che stimolano un rapporto di voyerismo dentro e fuori dalla “Casa”. I cittadini disposti a fermarsi, in effetti, sembrano attratti soprattutto dalla visione di un’intera platea che dialoga con loro (con applausi, risate, urli, cartelli) e che concede loro un breve momento di celebrità.

 

La rivoluzione avvenuta, alla fine, si celebra con shot di vodka e un piccolo party condiviso tra le sedie del teatro: uno scenario più adatto a un rassicurante selfie che a un destabilizzante processo di cambiamento. Non sarà difficile, per lo spettatore che colga il fondo amaro della gioiosa performance, pensare alle tante esperienze eversive di questi anni (molte, anche, in ambito teatrale) che hanno finito per essere canalizzate e riassorbite anche per eccesso di aperture dialogiche e comunicative.

Gob Squad consegna così allo spettatore un paradosso: da un lato lo invita a sperimentare l’eccitazione della sovversione, dall’altro a rendersi consapevoli dei processi che la depotenziano.

A Camus, che nell’Uomo in rivolta parlava di rivoluzione come di una “postura metafisica”, la provocazione non sarebbe forse dispiaciuta.

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Primo Levi e Israele

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Conoscere il rapporto tra Primo Levi e lo Stato di Israele a prescindere dall’esperienza tragica e pregnante di Auschwitz è impossibile. Quella che Levi stesso ha definito come l’esperienza della sua vita ha modificato certamente l’opinione dello scrittore, senza tuttavia modificarne la sua natura di uomo mite, pacato e riflessivo.

È interessante allora analizzare l’evoluzione di tale rapporto alla luce del suo essere un ebreo della Diaspora, sopravvissuto ai campi di concentramento e in virtù degli eventi storici che hanno segnato gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del Novecento.  

A partire da tre racconti in particolare del Sistema Periodico: Argon, Zinco e Oro Levi mette in evidenza i primi momenti in cui la componente ebraica ha fatto capolino nella sua vita, designandolo come qualcosa di più rispetto a un italiano, borghese, di professione chimico. 

Determinante sarà poi il periodo vissuto nel campo di concentramento di Auschwitz senza il quale non sarebbe emersa in maniera determinante la coscienza divisa che Levi avrebbe finalmente attribuito non solo a se stesso, ma anche alla moderna identità ebraica nella Diaspora come tale. Durante la sua permanenza tragica nel Lager, Levi avrà modo di entrare in contatto con l’ebraismo come mai lo aveva conosciuto. Un ebraismo diverso da quello occidentale, che va oltre la componente culturale e che, come dice Amos Luzzatto, “aveva caratteri di una congregazione religiosa minoritaria rappresentata soprattutto da un ceto medio commerciale e professionale, che si riconosceva nelle proprie tradizioni e nelle ricorrenze, ma generalmente si assimilava alla maggioranza nella vita di tutti i giorni”. Qui Levi scopre la grande realtà ebraica dell’Europa centro-orientale e con essa tutte le sue sfumature religiose.

Ma gli incontri con il mondo ebraico orientale non si fermano all’inferno concentrazionario. Il più significativo incontro che fece Levi nel suo viaggio di ritorno fu quello con dei giovani sionisti diretti in Palestina che attaccarono il loro vagone al treno di Levi e dei suoi compagni. Questi ventenni, liberi e pieni di speranze verso una Terra Promessa mitica e millenaria, rimasero profondamente impressi nella mente dello scrittore. Non a caso saranno una delle fonti di ispirazione per il suo romanzo sugli ebrei orientali Se non ora, quando? Pubblicato nel 1982.

Certamente Levi conosceva già il sionismo e la propaganda sionista avendola ascoltata in gioventù quando i molti pionieri lasciavano la Palestina per invitare gli ebrei della Diaspora a fare ritorno in Terra Promessa e realizzare il sogno mai sopito dello Stato d’Israele. Secondo il suo stesso resoconto, Levi era stato presto attratto dagli ideali sionisti e tuttavia non provò mai il desiderio di unirsi a loro. Sentiva che, a differenza di molti altri ebrei, lui aveva già un posto da poter chiamare “casa” e aveva in quella terra, l’Italia e più in generale l’Europa occidentale, i padri culturali che contribuirono a formarlo come uomo e poi come scrittore. 

 

Io sono ebreo come anagrafe, vale a dire che sono iscritto alla comunità Israelitica di Torino, ma non sono praticante e neppure sono credente. Sono però consapevole di essere inserito in una tradizione e in una cultura. Io uso dire di sentirmi italiano per tre quarti o per quattro quinti, a seconda dei momenti, ma quella frazione che avanza, per me è piuttosto importante. E so benissimo che esistono infinite altre culture, degne di essere studiate e seguite. Fra queste c'è anche la cultura ebraica, in Italia non molto fiorente, per ragioni numeriche, se non altro, molto fiorente altrove, ed era molto fiorente proprio nell'Europa orientale al tempo dello scatenamento della seconda guerra mondiale. E una delle fonti di questo mio libro Se non ora, quando?, è proprio il desiderio di imparare io stesso a portare davanti al lettore italiano alcuni aspetti meno noti di questa cultura, per esempio l'autoironia; per esempio questo desiderio straordinario di gioia attraverso la miseria, la persecuzione, la strage.

 

Il rapporto che intrattenne Primo Levi con l’ebraismo e con lo Stato d’Israele fu in continuo divenire per tutta la sua vita. Quando dopo la guerra, la prospettiva di uno Stato ebraico si fece sempre più reale, alla luce anche della consapevolezza dell’Olocausto, Levi si mosse in una concezione della Diaspora che sempre aveva sostenuto: l'attaccamento al principio di una patria ebraica che non comportava un impegno a emigrare o vivere lì. È importante ricordare che anche durante il periodo di undici mesi tra la liberazione di Levi dal campo di concentramento di Auschwitz e il suo ritorno a casa, quando ancora ignorava ciò che avrebbe trovato della sua famiglia e della sua casa a Torino, Levi non riferì mai di considerare la Palestina come opzione personale. Questo atteggiamento persistette anche dopo la Guerra d’Indipendenza di Israele del 1948. Quando la prospettiva di uno Stato ebraico diventò reale, Levi si trovò sempre ad agire e pensare all’interno della Diaspora stessa, come se quella fosse la sua vera patria ebraica. Tuttavia, il suo impegno per sostenere il nuovo Stato d’Israele, tra la schiera di personalità ebraiche italiane che si impegnarono in tal senso, non fu minoritario. Si unì infatti a manifestazioni pubbliche di solidarietà a causa della preoccupazione per la prospettiva di una guerra con l’Egitto nella primavera del 1967, che come molti, considerava come una minaccia per l’esistenza di Israele. Il corrispondente senso di sollievo per la vittoria dello Stato ebraico nella Guerra dei Sei giorni culminò nella sua unica visita in quella terra. Durante il suo soggiorno ebbe modo di fare un primo confronto tra la cultura ebraica che conosceva e quella che si stava creando in Israele, un paese molto diverso dalle sue aspettative. La prima impressione che ebbe lo scrittore fu che “Israele non è Europa”. Sebbene avesse raccolto al suo interno tutte le genti che erano sono mosse da quei luoghi dopo la Seconda guerra Mondiale, Israele era uno stato che mancava di quel “sedimento storico che rende una l’Europa da Gibilterra agli Urali”. La natura di questa Israele era duplice: nuovissima e antichissima allo stesso tempo. Ma non poteva essere considerata un baluardo dell’Occidente a Oriente.

 

In ogni caso, dopo la sua visita, Levi non era più incline a considerare l'emigrazione in Israele di quanto lo fosse in precedenza; se non altro, la visita rafforzò la sua visione della vitalità della Diaspora ebraica e anche della sua importanza per sostenere in sé Israele, un ruolo che, agli occhi di Levi, si ribalta a quello previsto dal tradizionale sionismo. Quindi, se da una parte la necessità dello Stato d’Israele è evidente e sotto gli occhi di tutti, dall’altra non va sottostimata l’importanza storica della Diaspora che è densa di storia di persecuzioni ma anche di scambi e rapporti interetnici e rappresenta una scuola di tolleranza. Questa prospettiva della Diaspora non era rara né nel tempo né in quel momento ed è stata intensificata per Levi dai suoi ideali politici generalmente antinazionalisti e dall'umanesimo morale che sentiva sempre più in conflitto con quello che considerava una crescente tendenza nazionalistica in Israele.

L’impegno di Levi nel difendere l’ebraismo e lo Stato ebraico continuarono negli anni ma da una prospettiva diversa. Se prima il pericolo era esterno, a partire dagli anni Settanta Levi vede in Israele il nodo del problema. Levi non esita, insieme ad altri ebrei italiani, a condannare pubblicamente le decisioni prese dal governo israeliano di Menachem Begin che, oltre ad aver perso di vista i principi alla base di Israele, stava trasformando il Paese in uno stato militarista.

 

L’evoluzione del pensiero leviano circa lo stato di Israele e la Diaspora segue di fatto un percorso cronologico ed è strettamente legata alle questioni storiche e politiche che interessarono il mondo ebraico. Dopo la fondazione dello Stato di Israele avvenuta nel 1948 i rapporti tra il giovane stato e i paesi arabi confinanti non furono mai del tutto pacifici. Il problema, agli occhi degli stati arabi del territorio, era che l’Islam aveva sempre tollerato le diversità religiose, ma questo era qualcosa di diverso. Veniva chiesto loro di accettare una sovranità ebraica in pieno territorio islamico. Quando le tensioni scoppiarono e i paesi arabi iniziarono a parlare di “sterminio del nemico” a Primo Levi tornarono in mente le parole usate dai nazisti contro gli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Il 31 maggio 1967 alla Sinagoga di Torino la Comunità Israelitica promosse una manifestazione a cui parteciparono migliaia di persone, ebrei, ortodossi, cattolici, valdesi, cittadini normali e autorità. Durante la manifestazione parlò anche Primo Levi. Il suo intervento ebbe come titolo Più d’ogni altro paese Israele dovrà vivere. In questo discorso, Levi si mostra preoccupato per la situazione in Israele, rifiuta di invocare l’aiuto di Dio per una strage e respinge ogni idea di guerra santa.

 

Nell’intestazione si trova già il primo spunto di riflessione. Perché Levi dice che Israele ha diritto di vivere più di ogni altro paese? Qual è il valore speciale che lo scrittore attribuisce allo Stato ebraico? Israele è nato in un momento storico unico, per cambiare le sorti del popolo ebraico. L’obiettivo era creare un Paese che fosse una zattera di salvataggio, “un santuario a cui avrebbero potuto accorrere gli ebrei minacciati negli altri paesi”. Israele era dunque, agli occhi di Levi il rifugio per eccellenza, un luogo sicuro, lontano dall’odio e dai conflitti. L’azzardo di Levi nell’attribuire un compito così importante a uno Stato così giovane deriva forse dall’ideale millenario di patria di uno stato ebraico che ogni israelita si portava dentro. E sebbene egli non sia mai stato sionista né tantomeno subì il fascino dei primi pionieri che colonizzarono quelle terre e crearono i primi kibbutz, in cuor suo non può far altro che appoggiare quello Stato che per millenni fu solo una chimera e che ora invece stava giungendo a piena realizzazione. Minacciare l’esistenza di Israele voleva quindi dire minacciare l’umanità stessa e i suoi tentativi per superare dispersione, discordia e sofferenze e realizzare una comunità in cui lingue, origini e razze diverse possano infine arrivare a una convivenza civile.

Ma perché Levi si sente così legato ad Israele sebbene non sia sionista? Nell’appello, lo scrittore risponde anche a questa domanda. Come lui, ogni ebreo è legato intimamente allo Stato ebraico perché esso nasce a garanzia e suggello che quanto accaduto non si ripeta mai più. Israele è quindi “il paese del ritorno” unico e insostituibile, nel quale ogni ebreo può trovare un posto da chiamare casa.

Quando il timore di una guerra per Israele si concretizza, Levi interverrà di nuovo. Nei giorni del conflitto che “segnerà lo spartiacque nella coscienza politico culturale della diaspora ebraica”, Levi sarà ancora una volta in prima linea a manifestare il suo sostegno per Israele. Il documento, pubblicato sulla rivista «Il Ponte» è collocabile nell’area di sinistra di cui faceva parte il gruppo di ebrei torinesi firmatari dell’appello. 

 

La difesa che questi intellettuali fanno di Israele è moderata, certamente non oltranzista, che riconosce cautamente la situazione araba così come le responsabilità dell’imperialismo, arrivando anche a menzionare la guerra in Vietnam. Per Levi e gli altri ebrei torinesi, il fatto che Israele fosse alleato degli Stati Uniti non doveva assolutamente essere una giustificazione per l’odio anti-ebraico. Se era vero che gli Usa stavano portando avanti una guerra terribile, condannata da molti, nelle vesti di “superpotenza imperialista”, Israele non ne era responsabile né tantomeno stava partecipando al conflitto e quindi era erroneo definirlo “una pedina dell’imperialismo”.

 

I timori di Levi cambiarono quando, al termine della Guerra dei Sei giorni, fu chiaro ormai a tutto il mondo che Israele era diventato una potenza militare che non solo sapeva difendersi ma anche attaccare e vincere. In una lettera, scritta il 17 giugno 1967 alla bibliotecaria tedesca Hety Schmitt-Maas, lo scrittore espresse un nuovo tipo di timore che, per un attimo, fece passare in secondo piano “i problemi di Auschwitz” nel quale era solito vivere. Certamente Levi non negava che una sconfitta sarebbe stata quanto di più atroce potesse accadere, ma era la guerra in sé che egli rifiutava e detestava. Infatti, dopo una prima sensazione di sollievo alla notizia della vittoria di Israele, Levi rifletté sull’evoluzione che, a vent’anni della sua nascita, Israele aveva subito. Israele non era più, agli occhi di Primo Levi, il paese modello, la terra dell’uguaglianza e della giustizia e del lavoro ma era divenuto un Paese come gli altri “buono a combattere e litigare, incline all’orgoglio nazionale”. Scrisse Levi, nella lettera a Schmitt-Maas “Israele, dal suo inizio, ci ha abituati a tali miracoli che noi speravamo potesse compiere il meglio, il solo vero miracolo, quello di stabilire una pace permanente con i propri vicini”. In quel momento Levi aveva come l’impressione che Israele avesse perso il suo vantaggio morale. Quel vantaggio che portava con sé dai tempi del Nazismo e del Fascismo e che vedeva gli ebrei schierati completamente dalla parte della ragione. Sebbene non avesse grandi colpe, qualche errore, secondo lui, Israele lo aveva commesso. La preghiera di Levi era che il processo di pace, ancora tutto in divenire, avvenisse senza errori.

 

 

 Il sentimento di delusione che visse in Levi dopo la Guerra dei Sei giorni si alimentava anche di un’altra questione, quella degli stati amici e nemici di Israele. L’Unione Sovietica rimase delusa dall’esito della guerra dei Sei giorni: la vittoria di Israele aveva disatteso le speranze di un maggior controllo sull’area araba così ricca di petrolio. Al termine del conflitto si realizzò quindi un’insanabile rottura delle relazioni diplomatiche tra Israele e i paesi del blocco sovietico (fatta eccezione per la Romania). Da quel momento l’Urss cercò con tutti i suoi mezzi politici e diplomatici di isolare Israele mentre il Cremlino ribadiva il suo appoggio al mondo arabo. Parallelamente alla propaganda antisemita e antisionista di Stalin, anche nella sinistra italiana le cose cambiarono. Il Pci fu il primo partito italiano a professare la sua vicinanza al mondo arabo e le motivazioni non erano da ricercare solo nella vicinanza con Mosca. Tra gli intenti vi era anche quello di accentuare le divisioni interne al Psu, il partito rivale nell’area di sinistra che aveva come leader Pietro Nenni, la cui linea filoisraeliana non era pienamente condivisa da tutto il partito. A Israele venne imputata una natura bellicosa che impediva di fatto ogni tipo di coesistenza pacifica con il popolo arabo. L’Unità, il 5 giugno 1968, primo anniversario della guerra dei Sei Giorni, arrivò persino a sostenere che la tesi secondo cui “gli ebrei israeliani hanno rischiato e rischiano lo sterminio” era “un’abile mossa propagandistica”.

 

Levi guardava con grande delusione ai comunisti italiani e a tutti coloro che in gran fretta avevano sentito il desiderio di schierarsi dalla parte dei sovietici e di sposare le loro opinioni in politica estera. Il dolore nasceva dal ricordo di Levi di un’alleanza ormai lontana tra i comunisti e gli ebrei nella Resistenza italiana e ora, sentenzia lo scrittore, “davanti alla ‘Ragione di Stato’ sono pronti a dimenticare i sentimenti umani e anche il buonsenso”.  

L’ebraismo italiano, in virtù delle sue forti tendenze comuniste e socialiste, ebbe reazioni differenti. Alcuni scelsero la strada del socialismo, altri rilanciarono il sionismo socialista, altri ancora scelsero di non rompere con il Pci. A partire dal 1967, con l’obiettivo di mantenere i rapporti tra ebrei e comunisti, si crearono dei gruppi di “ebrei di sinistra” a Roma, Milano e Torino. Gli obiettivi di queste organizzazioni erano diversi, in primo luogo volevano contribuire a diffondere un’informazione corretta nella sinistra sia sugli ebrei che su Israele; secondo obiettivo era quello di favorire sempre il dialogo fra arabi e israeliani; infine, volevano evitare ad ogni costo che gli ebrei della Diaspora si avvicinassero alle posizioni della destra israeliana. La volontà di ogni ebreo di sinistra era quella di evitare uno slittamento a destra dei loro correligionari ma allo stesso tempo si scagliavano con personaggi quali Piero Della Seta e Guido Valabrega che, rimasti nel Pci, assumevano severe posizioni antisraeliane, inaccettabili per molti ebrei. Non mancavano però anche figure come Leo Levi che vedeva questa permanenza nel Pci come una possibilità sia di mantenere aperto il dialogo con i paesi arabi, sia di tenere lontani gli ebrei della Diaspora dai partiti della destra italiana. 

 

Negli anni Settanta, i numerosi eventi che concorsero a “movimentare” la vita della Comunità ebraica italiana e internazionale contribuirono anche ad aprire una nuova fase nel dibattito pubblico in Occidente. Le notizie, che venivano presentate dai Mass-media, sotto la luce a loro più congeniale, altro non fecero se non aumentare i punti di vista sulla questione israeliana. Secondo quanto scrive Matteo Di Figlia, per alcuni, Israele restava il fortino di un mondo anticomunista minacciato dall’avanzata sovietica nei paesi arabi; per altri la questione palestinese permetteva invece di spostare l’interpretazione del conflitto mediorientale dalla cornice della guerra fredda in quella dello scontro fra Nord e Sud del pianeta. L’effetto fu uno stravolgimento degli equilibri dell’ebraismo italiano. All’interno della Comunità si svilupparono due tendenze opposte ma ugualmente problematiche: quella di chi credeva in un ebraismo attivo e dinamico, politicamente impegnato e cosciente della propria ideologia e quella di coloro che invece preferivano un ebraismo più mite per evitare scontri controproducenti. 

Nel decennio in questione si assistette in primo luogo a una recrudescenza dell’antisemitismo comunista. All’interno delle comunità ebraiche italiane la polemica principale che stava alla base di tutte le altre che seguirono era dunque una sola: l’antisionismo era antisemitismo? Tale dibattito coinvolgeva tutte le comunità già a partire dal 1967 ma divenne ancora più sentito negli anni Settanta quando gli ebrei in Europa furono oggetto di sanguinosi attentati per mano di gruppi terroristici arabi e palestinesi. 

 

Durante gli anni Settanta Primo Levi si impegnò attivamente per contrastare questa nuova ondata di antisemitismo. Carole Angier scrive, a proposito dell’esperienza dello scrittore: 

 

all’inizio degli anni Settanta, il pericolo maggiore sembrava chiaro, soprattutto a Primo e a quelli della sua generazione: il fascismo con la sua prepotenza, intolleranza e adorazione della forza fine a se stessa, stava tornando. E non accadeva solo a Milano o in altre città, ma sotto i suoi occhi, a Torino. A partire dal 1969, i fascisti erano ricomparsi, deturpando monumenti e tombe della Resistenza, disturbando incontri di sindacalisti, operai e partiti della sinistra, e prendendo d’assalto con incursioni e bombe le loro sedi. Concentravano poi gran parte dei loro sforzi sui giovani. Gruppi di giovani fascisti aspettavano fuori dalle scuole e distribuivano volantini tra gli studenti; chiunque li rifiutasse veniva subito malmenato. Col passare del tempo le aggressioni crebbero di numero e di intensità (…) Qualcosa era già stato fatto in altre città con problemi simili, a Milano e Roma per esempio. Genitori e professori antifascisti si erano riuniti in un’organizzazione chiamata Cogidas, per aiutare i loro figli a difendersi.

 

La violenza che percorse tutto il decennio in questione arrivò a sfiorare persino un animo mite come quello di Levi. Nell’intervista per Lotta Continua rilasciata a Virgilio Lo Presti, lo scrittore sorprende tutti con un giudizio piuttosto lassista circa i metodi usati nella lotta ai fascismi: “quando si bruciavano le sedi del Msi ero contento…Questo sì, forse non è molto democratico dirlo, però mi sembrava illegale la presenza stessa del Msi…”. Levi più volte durante altre interviste parlò del pericolo di un ritorno al fascismo, non necessariamente identico a quello del passato ma pur sempre un fascismo. Nell’aprile del 1978 inoltre fece sentire la sua voce su «La Stampa» per mettere in guardia contro il pericolo di una nuova violenza di stampo nazista. Sulle pagine del quotidiano torinese denunciò come solo nel 1977 fossero avvenute in Germania ben tre adunate di ex appartenenti ai corpi delle SS; ad allarmare ancora di più lo scrittore fu il fatto che esse non si fossero svolte solo in Germania ma anche in luoghi insanguinati dalle loro gesta come la Francia e l’Italia. Se da una parte, avvertì Levi, il governo tedesco non sembrava essersi accorto dalla pericolosità dei fatti, dall’altra le associazioni antifasciste d’Europa lanciarono da Bruxelles un appello per chiedere lo scioglimento delle associazioni di veterani SS. Levi e gli altri antifascisti non chiedevano sanzioni a carico dei singoli veterani, non era infatti la vendetta che si ricercava, ma una giustizia etica e morale. L’obiettivo era togliere la credibilità e la legittimità della loro voce in modo che il mondo non potesse essere più inquinato dai loro messaggi. Si legge, nell’articolo, anche un certo stupore di Levi per il fatto che in Germania pochi avessero da ridire sulla nascita dell’organo della Hiag, un’organizzazione di Mutuo Soccorso dietro cui si celavano i veterani delle SS. Infatti era da questa organizzazione che pare nascessero iniziative terribili come le profanazioni dei cimiteri ebraici, le minacciose svastiche sui muri e gli attentati alle istituzioni democratiche. Era quindi doveroso, secondo Levi, richiamare il Governo tedesco alle promesse fatte e formulate da tutti i consiglieri, invitando i responsabili as una concreta azione politica e legislativa, in modo da poter scongiurare una rinascita del nazismo proprio in terra tedesca. Come scrive Martina Mengoni, la scrittura di Levi negli anni Settanta risente in pieno degli eventi che lo circondano, compreso quindi anche il rinnovarsi delle ideologie fasciste e naziste in Europa. Levi sente il bisogno forte e persistente di scrivere “come se il fascismo fosse ancora presente”.   

 

E anche per questo motivo la fuga del criminale nazista Herbert Kappler, responsabile delle strage delle Fosse Ardeatine, è stato un evento molto sentito per Primo Levi tanto che intervenne diverse volte sui quotidiani, condannando in particolare il Ministro della Difesa italiano Lattanzio, responsabile primo dell’accaduto e più in generale la Democrazia Cristiana, colpevole di aver portato avanti nel dopoguerra un processo di rimozione del recente passato bellico, convinta che la società preferisse andare oltre e dimenticare. L’obiettivo della DC era riunire i cittadini facendo scordare la grave frattura che si era creata tra chi aveva aderito al regime fascista e chi invece lo aveva combattuto. 

La vicenda di Kappler non fu quindi un caso isolato, ma faceva parte di un quadro antropologico italiano più ampio che Levi non vedeva di buon occhio. I segnali che leggeva erano “ambigui e problematici” e venne messo in evidenza quel senso di mancanza di responsabilità che sottolineava già nell’attacco al Ministro Lattanzio e che si manifestava anche in altri segnali come la delegittimazione della scuola italiana, derivata dalle lotte sessantottine, o l’ondata di violenza degli anni di piombo che terminerà con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro il 9 maggio 1978 per mano delle Brigate Rosse. Levi aveva già condannato duramente le Brigate Rosse nel 1977. In occasione dell’omicidio di un caro amico e collega Carlo Casalegno, firmò con altri esponenti del mondo giornalistico e intellettuale un appello contro il terrorismo. In quell’appello si paragonò l’opposizione alle BR alla Resistenza, suggerendo un binomio terroristi-nazisti supportato dalla Stampa in più occasioni. Non a caso Levi e gli altri appellanti si rivolsero soprattutto agli uomini e alle donne che avevano combattuto il fascismo, come se l’opposizione al terrorismo diventasse una nuova Resistenza.

 

Se gli anni Settanta furono gli anni dello strappo definitivo su base politica tra sinistra ed ebrei, negli anni Ottanta si assistette a un incremento significativo della violenza nei confronti delle Comunità ebraiche della Diaspora in Europa. L’incubo dei crimini commessi da parte dei nazisti nei confronti delle comunità ebraiche europee parve, ai tempi, ritornare più vivo che mai. La matrice degli attacchi era quasi sempre arabo-palestinese. Gli attentatori, una volta giunti in Europa, si legavano ai gruppi eversivi del luogo senza badare all’indirizzo politico. Il loro obiettivo era uno solo: colpire gli ebrei. Nacque all’interno delle comunità ebraiche italiane un ampio dibattito che, come scrive Maurizio Molinari “modifica radicalmente il volto delle Comunità: ne risulta indebolita la tradizionale unità a favore di una frammentazione ideologica” che rispecchia pienamente il panorama politico italiano di quegli anni.

C’era chi, tra gli ebrei italiani, condannava la piega che stava prendendo in Israele il sionismo e chiedeva a gran voce che il popolo palestinese potesse giungere a un’autodeterminazione nazionale. Tale posizione fu abbracciata dal giornale ebraico di Torino Ha-Keilà che, sposando la tesi di Botteghe Oscure, scrisse della necessità di riconoscere l’OLP di Arafat, sebbene quest’ultimo fosse ancora lontano da un’apertura nei confronti di Israele. Quindi, da un lato Ha-Keilà e la Federazione Giovanile Ebraica d’Italia (FGEI) si univano alla sinistra nella condanna al governo israeliano con a capo il conservatore Menachem Begin, dall’altro il MCSE e le comunità di Roma e Milano si mobilitarono contro l’OLP, criticando apertamente la sinistra italiana che dava sostegno al gruppo di Arafat. Quello che molti ebrei, ma anche numerosi cattolici, non capivano era come fosse possibile che una frangia dell’ebraismo chiedesse di riconoscere la Palestina come uno stato-nazione quando uno dei suoi leader stava dando prova di voler sistematicamente attaccare, con atti sanguinosi e violenti, il mondo ebraico. 

 

Se, per la base comunitaria, questi attacchi altro non erano che un antisemitismo mascherato da antisionismo, c’era anche chi, di fronte all’odio palestinese, rimaneva convinto che l’unica soluzione al problema fosse un avvicinamento all’OLP; solo cercando la pace con il mondo arabo si poteva mettere fine al terrorismo di matrice arabo-palestinese. Sulle pagine di Ha-Keilà non erano rari in quei tempi gli attacchi al Primo Ministro israeliano Begin e alle sue crude repressioni di civili in Cisgiordania.

Il dibattito ora si allargava alla centralità morale di Israele per gli ebrei di tutto il mondo. Gli ebrei della Diaspora, come Elena Ottolenghi Vita Finzi, reclamavano a gran voce il loro diritto di criticare Israele “per far vincere la pace in Medio Oriente”. Tale diritto non era scontato visto che molti esponenti dell’ebraismo italiano avevano in passato affermato che Israele era sì criticabile, ma dal suo interno e che nessun ebreo della Diaspora aveva il diritto di rimproverare Israele per la sua politica.

 

Nel corso degli anni Ottanta, scrive Ian Thompson, Levi venne profondamente coinvolto nella situazione ebraica molto più che in ogni altro momento dopo la guerra. Quando Israele mise in atto, nel giugno del 1982, l’operazione “Pace in Galilea” ed entrò in Libano con l’obiettivo dichiarato di distruggere le basi palestinesi dell’OLP, Levi non poté più rimanere in silenzio. Il caso volle che lo scrittore apprese la notizia dell’attacco in Libano proprio mentre era in viaggio verso Auschwitz in qualità di accompagnatore per un gruppo di visitatori. Levi rifletté su Israele e sul suo popolo, un popolo che si era unito ed era divenuto nazione a causa dell’eccidio hitleriano che aveva rinsaldato i legami fra i sopravvissuti. “In Israele” scrive Primo Levi “si sono identificati, in maggiore o minor misura, gli ebrei della Diaspora: era il Paese della Bibbia, l’erede di tutti i filoni della cultura ebraico, la terra redentrice, la patria ideale di tutti gli ebrei”. Furono i decenni successivi ad erodere e distorcere l’immagine di un Paese che era sempre meno Terra Santa e sempre più un paese militare. Fu la violenza con cui gli israeliani condusse l’attacco a spaventare tutto il mondo ma soprattutto a creare una profonda lacerazione nel cuore di ogni ebreo. Levi, come molti altri ebrei, vide in Israele una seconda patria per cui però ora provava vergogna. Assistette sconfortato al venir meno della solidarietà dei Paesi europei ma lui stesso prese le distanze da Israele, “un’Israele diversa, militare e spregiudicata”.

 

Secondo lo scrittore, ciò che non poteva essere perdonato al primo ministro israeliano Begin, oltre alla piega militarista che stava prendendo lo Stato sotto il suo governo, era l’uso del vittimismo e del richiamo costante al nazismo per giustificare l’uso della forza e della sottomissione dei palestinesi. Primo Levi fu quindi tra i promotori del documento firmato da moltissimi democratici italiani, ebrei e non: “Appello affinché Israele si ritiri dal Libano”. All’interno dell’appello si legge come, prima di tutto, si debba garantire a ogni stato “il diritto alla sovranità e alla sicurezza nazionale”. Sono le stesse parole che venivano pubblicate nel 1967 in difesa dello Stato d’Israele. Se allora si doveva difendere lo stato ebraico dalla minaccia degli eserciti arabi e quindi era necessario garantirne la sicurezza, ora tutti coloro che avevano difeso Israele devono “trovare il coraggio e la forza di opporsi al governo Begin e a tutto ciò che rappresenta per i destini democratici dello Stato d’Israele”. Begin era per Levi e gli altri firmatari “quanto di più nefasto per l’assetto democratico della società israeliana” poiché annettere la Cisgiordania, popolata da moltissimi arabi palestinesi, avrebbe minato ogni tentativo di raggiungere la pace tra ebrei e arabi. Palestina e Israele, arabi ed ebrei, dovevano potersi riconoscere reciprocamente: “Il problema palestinese esiste; non lo si può rimuovere. Non lo si può risolvere alla maniera di Arafat, negando ad Israele il diritto di esistere, ma neppure lo si risolve alla maniera di Begin”. Agli occhi di Primo Levi appariva ora un’altra Israele; il sionismo e la fondazione dello Stato di Israele erano una necessità politica ma il sionismo di allora pensava a un paese contadino e non al Paese militare e industriale che era diventato.

 

A meno di due settimane di distanza dalla pubblicazione dell’appello Primo Levi scelse di far sentire ancora la sua voce a livello nazionale e sempre sulle pagine de «la Repubblica». Si trattava di un’intervista condotta da Alberto Stabile dal titolo “Sì, Israele ha passato il segno ma non è giusto parlare di nazismo”. Allo scrittore venne chiesto se fosse possibile paragonare il dramma palestinese di quel periodo con le persecuzioni subite dagli ebrei quarant’anni prima ed egli affermò che, seppur con le dovute differenze, alcune analogie tra le due situazioni erano sotto gli occhi di tutti. In primo luogo i palestinesi erano una “nazione” che si era trovata senza territorio e poi esisteva una diaspora palestinese che un po’ richiamava alla memoria la Diaspora ebraica di duemila anni prima. Tuttavia una differenza sostanziale intercorreva tra le due diaspore e ciò impedì a Levi di assimilare completamente la situazione dei palestinesi a quella degli ebrei sotto il regime nazista: fortunatamente non esisteva nessun piano di sterminio del popolo palestinese e soprattutto “i guerriglieri dell’OLP non vengono uccisi in quanto palestinesi ma, appunto, in quanto guerriglieri”.  La posizione di Levi esprimeva quindi una spaccatura: da un lato ha un atteggiamento critico verso la militarizzazione dello Stato d’Israele voluta da Begin, dall’altra cercava invece delle attenuanti per evitare il diffondersi di un odio indiscriminato contro gli ebrei. Levi non voleva demonizzare Israele e quindi voleva evitare di essere veicolo di idee che potessero portare a tensioni sullo scenario internazionale.

 

Quello che stavano vivendo molti ebrei della Diaspora, ma anche tutti coloro che risiedevano a quell’epoca in Israele e non appoggiavano Begin, era un sentimento di forte lacerazione. Da una parte vi era l’idea di un Israele nato come simbolo di pace, a memoria che quanto accaduto non accedesse mai più, dall’altra la sua evoluzione opposta, fatta di militarismo e aggressività. Quello che mancava, e che invece bisognava recuperare, era un centro geografico dell’ebraismo mondiale per far si che risorgesse il fenomeno cosmopolita dell’ebraismo. In sostanza, Levi aveva l’impressione che Israele si stesse chiudendo al mondo, perdendo quell’aurea di internazionalismo che da sempre aveva caratterizzato l’ebraismo. La conclusione che ne trasse Levi fu semplice: se Israele non poteva più rappresentare, almeno culturalmente, tutti gli ebrei del mondo, allora il baricentro ebraico doveva essersi spostato altrove. Il luogo designato non era l’Italia, bensì un Paese come gli Stati Uniti, dove viveva e si esprimeva un’“intellighenzia ebraica” numerosa e influente. Sono affermazioni forti quelle espresse da Primo Levi. E tuttavia lo scrittore continuerà, anche nelle interviste successive, a parlare di Israele come di un luogo con cui ha un legame emotivo e sentimentale molto forte. Egli non metterà mai in dubbio la legittimità, che definisce “storica” dello stato ebraico. Ma Israele non rappresentava più per lui la Terra Santa, il Paese della Bibbia e della pace. Quelle terre erano divenute un avamposto di guerra e la pace appariva a Primo Levi sempre più lontana. L’amarezza di Levi è comprensibile se si tiene presente l’immagine che si era fatto di Israele dopo la sua esperienza nei Kibbutz nel 1968. L’ideale “tolstoiano e egualitario” e il “senso comunitario utopico” che pervadeva lo Stato ebraico era scomparso. Essere ebrei è sempre stato difficile, dice a Fiona Diwan in un’intervista pubblicata su «Corriere Medico», ma oggi “essere ebrei significa avere la guerra civile in corpo. Significa accorgersi che ci sono spaccature profonde, mentre si fa luce l’idea che Israele non è più – anzi non lo è stato mai – il baricentro dell’ebraismo”. Sono parole dure e sicuramente sofferte ma Levi crede profondamente che il vero centro dell’ebraismo risieda fuori da Israele, nella Diaspora, e non perderà occasioni per esprimere questo suo pensiero. 

 

Primo Levi

 

Le reazioni degli ebrei conservatori all’appello e alle successive dichiarazioni furono durissime. Chi era Levi per giudicare Israele e le sue azioni? Egli non era, secondo loro, abbastanza edotto in materia di politica israeliana e palestinese per poterne parlare in certi toni. Agli amici che scrivono a Levi da Israele, accusandolo di non vedere il sangue israeliano versato in tutti quegli anni, lo scrittore risponde che il dolore che prova di fronte a qualsiasi versamento di sangue umano è doloroso e straziante ma che tale argomento è stato portato da Begin come una giustificazione per compiere ogni atto di guerra e quindi Levi, a tale argomento, nega validità. Bisognava, secondo lo scrittore, provare dolore per ogni goccia di sangue versato, sia esso israeliano o palestinese, poiché anche nel dolore bisognava essere democratici. Nell’intervista a Stafano Jesurum su «Oggi» l’autore di Se questo è un uomo ripete per l’ennesima volta come sia stato difficile per lui assumere certe posizioni, e come il suo legame sentimentale con Israele, un legame mai rinnegato, gli abbia provocato turbamenti e sofferenze. Levi non è esente da dubbi ma ha una convinzione: “penso che se uno è democratico debba esserlo prima di tutto. (…) Ci possono essere alcune attenuanti ma i principi valgono sempre”. Ecco dunque come Levi riesce a superare l’impasse. Il suo essere ebreo, il suo essere un ex deportato, vengono e verranno sempre dopo il suo profondo senso della democrazia e la sua coerenza nei confronti di ciò in cui crede e che rispetta.   

 

Qui l'editoriale e l'indice del volume.

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Forse domani mi innamoro

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I siti di incontri non mi hanno mai convinta, ho sempre pensato che togliessero spontaneità all’incontro tra due persone. Fino a qualche anno fa ricordo che gli amici che usavano Tinder per “rimorchiare” lo dicevano sottovoce, come fosse un segreto, una specie di vergognosa confessione. Oggi i siti di incontri spopolano, sono la normalità anche tra i giovani. Stasera esco con un “tinder” è una frase che si ripete. Tinder è un’applicazione che si scarica sul telefonino, con l’indice si sfogliano i profili degli iscritti all’app. Ognuno si presenta nella sua veste migliore. Gli uomini hanno la singolare abitudine di auto-fotografarsi al volante con gli occhiali da sole. L’indice scorre frenetico e curioso sullo schermo, le facce che non piacciono finiscono, sempre con un agile mossa dell’indice, in un cestino virtuale. 

 

Forse domani mi innamoro non mi ispirava. Non mi piace il titolo e nemmeno la copertina. Ho pensato, superficialmente, che fosse un romanzetto banale e troppo leggero.

Stella Grey, pseudonimo dell’autrice, è una cinquantenne che dopo un felice matrimonio durato anni viene abbandonata dal marito ritrovandosi improvvisamente single. Disperata, decide di scoprire il mondo dei siti di incontri con l’intenzione di trovare un compagno per la vita. Il romanzo racconta il tragicomico susseguirsi delle sue avventure. Tra feticisti, uomini attivi nella monosphere (blog in cui gli uomini parlano della loro condizione di maschi in termini dichiaratamente maschilisti), appuntamenti da incubo e noiose chiacchiere di circostanza, la Gray si racconta con brillante ironia e rivela le dinamiche che si instaurano tra due persone che “escono al buio”. Stella è una donna colta e intelligente ed è fiera dei suoi chiletti di troppo; non è bella e ha cinquant’anni. Con i siti d’appuntamenti scopre che avere cinquant’anni è come soffrire di una  grave malattia. Gli uomini sembrano cercare solo donne più giovani. Donne “femminili”, magre, provocanti, tassativamente sotto i trentacinque. I siti d’incontri sono il paradiso dell’immagine, spesso sono le fotografie a determinare la richiesta di un appuntamento.

Quando un coetaneo conosciuto sul sito le fa notare che le donne della sua età sono viste dagli uomini come trascurate e arrabbiate Stella risponde:

 

Illustrazione di Marion Fayolle.


“Io non vedo perché dovrei sentirmi in dovere di sembrare più giovane di quello che sono. La mia faccia mi piace così com’è, con gli anni scritti sopra; sono i miei anni e ne sono orgogliosa. Ne ho passate tante e sono sopravvissuta, se sembro una reduce non mi dispiace. E nemmeno mi dispiace di essere non magra. Il mio corpo funziona benissimo, e mi sembra che il desiderio di cambiarne dei pezzi, di farsi le labbra più piene, le tette più grosse e quelle strane guance da scoiattolo con la noce in bocca equivalga ad accettare una sorta di schiavitù. Come dire «sono una merce»”

 

Stella è divisa tra lo scoraggiamento personale e il desiderio di comprendere l’inaspettato e curioso fenomeno sociale. Si confronta sull’argomento con un amico e il verdetto non è rassicurante:

 

“gli uomini sono creature estremamente visive; noi reagiamo a quello che vediamo, non possiamo farci niente. Bè, forse potremmo farci qualcosa, ma non vogliamo. […] Gli uomini amano la gioventù. Amano i capelli lunghi, amano il colore. E amano anche le magre. Mi dispiace.”

 

Forse domani mi innamoro, a dispetto del titolo da harmony rosa, è un romanzo ironico e acuto. Uno di quei rari libri che ti fa ridere rumorosamente mentre lo leggi grazie allo strepitoso humor inglese della scrittrice che spesso riporta alla cinica ironia dei personaggi di Nick Hornby.

Tolte le avvincenti avventure della Gray e qualche caduta nello stereotipo – trattando un tema come questo qualche luogo comune è inevitabile – ciò che ho trovato davvero interessante è come viene descritto il fenomeno del catalogo. Racconta chi sei, cosa ami fare, che taglia porti di reggiseno, qual è il tuo piatto preferito e quali sono le tue preferenze sessuali. Le persone iscritte al sito si auto-espongono nella vetrina virtuale, mettono in luce quelle che credono essere le proprie caratteristiche migliori (vedi uomini al volante su tinder) e si mettono sul “mercato”. L’idea del catalogo raggiunge l’apoteosi nei siti porno con le celebri categorie. Che cosa ti eccita di più? La donna formosa? Depilata? Orientale, gonzo, milf?

 

L’essere umano diventa bene di consumo, si hanno necessità specifiche, e si cerca qualcuno (o meglio, qualcosa) in grado di soddisfarle. La maturità o, se si vuole essere diretti, la vecchiaia, è una caratteristica scomoda. In un contesto culturale che mette al primo posto giovinezza e bellezza fisica, la saggezza e tutte gli aspetti affascinanti della maturità perdono di valore. In una società divorata dal terrore della morte la vecchiaia è un argomento scomodo; si inneggia al “vivere la vita al massimo”, a scrivere liste di cose da fare prima di morire, lanci dal paracadute, sesso estremo, isterici carpe diem che farebbero rivoltare Orazio nella tomba. Vi è una sorta di mercificazione dell’esperienza in cui la vita diventa un frenetico accumulo di sensazioni imperdibili. Tendiamo tutti ad un artificiale ringiovanimento poiché ci illude di essere lontani dalla morte, di avere ancora molto tempo davanti da riempire con un caotico accumulo di esperienze. Vogue Italia nel mese di ottobre ha interamente dedicato la rivista alla vecchiaia della donna. C’è una bellissima intervista a Robert Pogue Harrison, docente di letteratura e di storia culturale alla Stanford, che ha scritto nel 2015 un saggio dal titolo L’era della giovinezza. Quando il giornalista domanda se vivere nell’era della giovinezza significa contemporaneamente invecchiare di meno, Harrison risponde:

 

Illustrazione di Marion Fayolle.


Ciascuno di noi sperimenta a modo suo l’invecchiamento del proprio corpo; eppure oggi tutti noi, anziani e giovani, invecchiamo in modo diverso rispetto ai nostri antenati. Siamo sotto molti punti di vista una versione “ringiovanita” della nostra specie. Intendo ringiovanita nell’aspetto, nei comportamenti e nella mentalità. Una trentenne di oggi nelle vie di Parigi sembra più la figlia che la sorella di La donna di trent’anni di Balzac.

 

Stella Grey nel suo romanzo racconta il meccanismo di consumo che si è espanso anche alle relazioni tra esseri umani. Non è una condanna ai siti di incontri ovviamente, ma l’analisi di questa recente tendenza che porta le persone, in questo caso soprattutto i soggetti femminili, a dover essere sempre all’altezza di un canone, di un’aspettativa che è in qualche modo indotta dal contesto sociale.

Non voglio dare voce al perpetuo e immortale dibattito sugli uomini e le donne che alla lunga risulta piuttosto noioso e scontato, credo che non sia una questione di genere, ma una tendenza che riguarda il mondo globalizzato.

Di recente mi è capitato di sentire frasi come: “lavora in una grandissima città e lavora così tanto che non ha tempo per conoscere persone, è obbligato/a ad usare le app di incontri”, come se l’uso dei siti d’appuntamento fosse una peculiarità delle persone vincenti e ben inserite nella società. Manager, carrieristi, gente che non ha tempo da perdere. Il fatto che questo modello si stia imponendo in maniera sempre più marcata porta inevitabilmente a cambiare le proprie abitudini riservando alla sfera sentimental/sessuale un altro valore e un modo diverso di relazionarcisi.

 

Perché sprecare tempo a conoscere un altro essere umano nelle tempistiche che impone la vita e non con la fulminea rapidità tecnologica? Non voglio condannare i siti di incontri, poiché ritengo ottuse le condanne a priori, credo però che la riflessione debba vertere su questo punto, vale a dire se siamo davvero disposti a incasellare anche i rapporti (e i sentimenti che possono conseguirne) nella sfera del consumo, della velocità, dell’utilitarismo. Sembra che sia diventato inutile passare del tempo a conoscere una persona nel mondo reale, riconoscerne l’odore, conoscerne i difetti, scoprire che alcuni difetti sono irresistibili, sviluppare su quella persona un immaginario erotico, avere il timore di un rifiuto, di un fraintendimento, restare delusi e imparare che delusioni e sofferenza fanno parte del gioco così come ne fanno parte stupore e felicità. Vogliamo tutto e subito, vogliamo “parlare chiaro” su quelle che sono le nostre esigenze, vogliamo che un algoritmo calcoli il livello di compatibilità tra due persone, che una fotografia mostri chiaramente l’aspetto dell’altro. Vogliamo la performance perfetta e vogliamo cancellare qualsiasi forma di imbarazzo. Non dovremmo proteggere ancora qualche aspetto della vita da questa contemporanea furia accumulatoria? Accettare l’esistenza di una sana futilità, della noia e dell’attesa scevre da qualunque ritorno pratico?

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Iconologie del tatuaggio

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Una breve di cronaca ci colpisce. Sembra che in una città italiana di provincia un topo d’appartamenti sia stato beccato dalla polizia grazie a un tatuaggio che ornava la sua gamba destra. Nei mesi estivi svaligiava decine di case a capo coperto ma, dato il caldo, stava in bermuda: e a un certo punto le telecamere di una di queste abitazioni gli hanno inquadrato il polpaccio decorato con un segno, ahilui, indelebile che ha ne permesso il riconoscimento trascinandolo dritto in galera.

 

Apparentemente banale, come tutti i faits divers, l’accaduto conserva invece tracce residue di antiche credenze e antiche abitudini che pescano nel profondo dell’antropologia umana e sociale. Cozzando un po’ con credenze e abitudini della contemporaneità. Da una parte, ecco confermata l’ideologia stereotipa, di lombrosiana memoria, che associa tatuaggi a malavita. In una società come l’attuale, dove il cosiddetto segno tegumentario è una moda straripante per grandi e piccini di ogni ordine e grado, pura estetica interclassista pressoché priva di significazione, sentire di un ladro tatuato per certi versi commuove. Sa tanto di vintage. Mette le cose a posto: e rassicura. Sembra fra l’altro che il tipo in questione un po’ d’annetti in galera li avesse già scontati. Fantastico: il tatuaggio dei carcerati! Ed eccoci proiettati in un libro di antropologia criminale, o in una serie tivvù piena di machi cattivoni. 

 

Tatuaggio maori.


D’altra parte, dei rituali e delle poetiche del tatuaggio – d’antan e no – la nostra storiella riprende altri tratti fondamentali: come quello del gioco fra coperture e scoperture del corpo, vestiti e pelli decorate, pudori esibiti e nudità da celare. Il poveruomo – consideriamolo per un poco così – a suo modo stava lavorando bene: s’era coperto accuratamente il viso per evitare d’essere identificato, agendo su quel tratto somatico che tradizionalmente funziona da segno di riconoscimento: la fisiognomica facciale. Ma nella scheda che lo riguardava conservata dalla polizia c’era dell’altro a cui lui, stolto, non aveva pensato: e cioè proprio quel tatuaggio nel polpaccio che ci piacerebbe immaginare gli anni di reclusione gli avevano lasciato in eterna eredità. Il segno tegumentario, indizio tradizionale per l’identificazione dei malviventi, si dimostra ironicamente efficace: e il ladro viene acciuffato. Ancora di più tutto sembra tornare a posto: lasciando l’estetica frivola dei milioni e milioni di corpi tatuati che oggi circolano per il mondo priva d’ogni funzione sociale e d’ogni valore culturale. Che ne è del mondo pazzo e variegato di tatuati e tatuatori, cataloghi d’immagini più o meno simboliche e di inchiostri più o meno indelebili, rassicurazioni dermatologiche e ispezioni psicologiche per adolescenti, riviste di settore e trasmissioni televisive, fiere e concorsi, siti web e chiacchiere sui social, brand di moda e mostre d’arte intorno a questa pratica che sino a pochi decenni fa sembrava sparita dall’orizzonte della storia, e che invece ha invaso ogni meandro della socialità contemporanea? Siamo certi che la notizia in questione ne sia esente?

 

Se ci attrae, allora, questa breve di cronaca, è proprio perché con un avvitamento di centottanta gradi non rimette per niente le cose a posto: fa semplicemente tornare la storia come farsa, parla di un tatuaggio che non c’è più e che pure c’è di nuovo, nonostante tutto quel che intorno a esso sta succedendo dentro e fuori i media, ma, appunto, in un faits divers, in un tipo di discorso che mira tra il serioso e il sarcastico a sottolineare la stranezza delle situazioni, il colmo che separa, producendoli in un sol colpo, il fondo di normalità e il primo piano di notiziabilità. Alla fine resta un vuoto, un interrogativo pressante e sfuggente insieme: come intendere la moda del tatuaggio di massa, che quasi sicuramente avrà preso anche il nostro sfigato topo d’appartamenti, ma che, ritirandosi, lo ha poi costretto in galera? Il nostro immaginario fa fatica a pensare a una casualità imprevedibile, e si bea di un frame riconosciuto: il malavitoso tatuato, il tatuaggio come segno di identificazione, l’apprendistato tegumentario in prigione, il polpaccio al posto del viso, come dire la trasgressione dans tous ses états.

 

Barbie tatuata.


Ma dobbiamo rassegnarci a vederla diversamente, e capire che il ladro, quasi sicuramente, è stato catturato non per essersi sottoposto a un oscuro rito iniziatico ma per aver ceduto alle sirene, ormai senza voce, della voga arrivata in provincia, al trickle down della tendenza che, eclissandosi, si spande alla periferia dell’impero, là dove lui usava fare, da parecchio tempo, il secondo mestiere più antico del mondo: quello del ladruncolo recidivo. 

Di solito, a proposito dell’ironico confondersi delle assiologie – etica, estetica, religiosa, sessuale, politica… – nella liquidità sociale che dovrebbe contraddistinguerci, si cita il caso delle ragazzine occidentali metropolitane che si fanno tatuare il lobo alla maniera delle antiche donne indiane, ignorando il fatto che quel segno lì, nel contesto d’origine, era indicatore di sottomissione al marito: altro che ornamento estetico più o meno sexy. Come dire, perdita del senso e assunzione blasé del significante fine a se stesso. Ma se mettiamo per una volta da canto l’origine, e guardiamo piuttosto al filo d’erba che sta in mezzo fra le radici e il fiore, la questione può assumere un tono in primo luogo quantitativo: i portatori di tatuaggio sono uno su dieci in Europa, Italia compresa, uno su quattro in Nuova Zelanda e Canada – ossia in paesi che vengono definiti del primo mondo, quello sedicente civilizzato. Altro che esotici samoani – involontari ideatori del termine – o gladiatori in catene dell’età che fu.

 

Protagonisti della trasmissione tv Tattoo Fixers.


Altro che segno maledetto d’infamia o marchio dell’eroe mitico. Se tutto è immagine, simulacro, visibilità esteriore, come si dice da troppo tempo, è innanzitutto il corpo a esporsi come tale, mettersi in vetrina, un corpo che si presta a essere supporto di un’immagine qualsiasi purché ce ne sia una o, meglio, ce ne siano tante accatastate alla rinfusa, in un sincretismo culturale imbarazzante, con un bricolage di simboli tutt’affatto individuale, intimo, segreto: da esibire comunque alla bisogna. È l’invenzione della tradizione ad hoc. Da qui le profonde analogie fra il mondo del tatuaggio e le pratiche di street art, dove scrivere e fregiare il corpo proprio sembra essere omologo allo scrivere e inzaccherare il corpo della città.

La prima considerazione che se ne ricava è che tutto ciò sembra fare sistema, ma in termini d’opposizione più che di complementarietà, con quell’universo del post-umano, della perdita di fisicità, di smaterializzazione ultratecnologica che si dice caratterizzi il nostro presente: più flussi di informazione presunta pura circolano nelle autostrade virtuali, più si risponde con corpi istoriati, feriti, cicatrizzati, fonte di dolori inenarrabili di cui pure si racconta di tutto e di più. Perduto il senso dei grandi riti antropologici di iniziazione (fra primitivi e selvaggi, marinai, carcerati e altri tipacci virili d’ogni forma e natura), ecco tanti minuscoli riti di passaggio – giovanili e non – dove l’azione del tatuatore e la pazienza del tatuato si configurano comunque come prove eroiche, degne appunto d’essere rivendicate e raccontate. Ognuno è logo di se stesso, dal calciatore al cantante, dalla pornostar allo strafatto di periferia, dall’influencer superfigo al palestrato della porta accanto. 

 

In secondo luogo, al di là delle prevedibili – e difatti previste – riappropriazioni di queste pratiche basse da parte del mondo del marketing e della società dei consumi, che le rilanciano ai propri fini commerciali, si pone il problema del tipo di estetica che con tutto ciò viene a crearsi o, forse, a ricrearsi. Da una parte le creazioni della moda, che sanno giocare molto bene il gioco dell’esibizione e del nascondimento, del vedere e dell’intravedere, nonché le procedure di artificazione da parte di musei e gallerie, cataloghi di body art e performance spesso irrisorie e violente. Dall’altra la rinascita del Kitsch, mai sparito del resto nella paccottiglia turistica e religiosa, che si trova adesso raddoppiato nelle innumerevoli pin up, cuori sacri, dragoni, armature, damine, orologi, stelle e strisce, uccellacci e uccellini, spirali e triangoli, merletti e infiorescenze, grafemi e dentiere che troviamo stampigliati dappertutto su glutei e bicipiti, avambracci e polpacci, toraci e addominali, colli e mani, giù giù sino a seni e genitali d’ogni sesso e sembianza. 

Infine, ma giusto per fermarsi a riflettere, se e come coniugare queste pratiche antropologiche che qualcuno (forse frettolosamente) ha chiamato neotribali, di possibile ispirazione animista, con lo spalmarsi euforico del naturalismo nei nostri saperi umanistici e non?

 

Genitali istoriati.

Appare chiaro una volta di più come nella cultura contemporanea si intreccino quelle che alcuni antropologi chiamano diverse ‘ontologie’, ossia diversi modi di concepire la nostra relazione con la realtà, ivi compreso il nostro corpo. Al naturalismo, che impregna il senso comune oltre che i saperi istituzionali, si sovrappongono credenze e rituali che non lo sono affatto, e che sembrano rimandare a culture animiste solo apparentemente dimenticate. Lo sa bene il nostro ladruncolo, vittima inconsapevole di questa sorta di internaturalità: la polizia ha ragionato in termini scientifici, ma lui s’era istoriato di confusi simboli di tutt’altro stile di pensiero. E l’ha pagata.

 

Questo articolo è la sintesi della relazione introduttiva al convegno “Iconologie del tatuaggio. Scritture del corpo e oscillazioni identitarie” che si tiene a Palermo l’1 e il 2 dicembre prossimi. Sono previste una cinquantina di relazioni di semiologi, antropologi, esperti d’arte e di immagine, studiosi di letteratura e di folklore provenienti da mezzo mondo (dal Brasile alla Russia, dagli Stati Uniti alla Germania). Qui tutte le informazioni.

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Radio Ghetto

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1540. Lo spagnolo Hernán Cortés rientra in patria portando con sé alcuni esemplari di xitomatl (grande tomatl), pianta integrante della cultura azteca. 

 

Uomini aztechi a un banchetto. Codice fiorentino, tardo XVI secolo.

 

La pianta viene inizialmente impiegata in Spagna e a Napoli, possedimento spagnolo, per scopi ornamentali in orti e giardini. Pietro Andrea Mattioli (1501-1578), umanista e medico italiano, classifica nel 1544 la specie di Solanum lycopersicum come velenosa, pur ammettendo che in talune regioni i suoi frutti vengano mangiati dopo essere stati fritti nell’olio. Gli alchimisti nel Cinquecento e Seicento gli attribuiscono misteriosi poteri afrodisiaci. È all’amore che fa riferimento la declinazione di nomi che gli vengono attribuiti in diverse lingue europee: love apple in inglese, pomme d’amour in francese, libesapfel in tedesco e pomo d’oro in italiano. Chissà come si dice pomodoro in Chad, Costa d’Avorio, Nigeria, Burkina Faso, Benin, Mali e Senegal? Tamatim? Tomate? Tomati? Kamaate? Tamaate?

 

Cirio Tomatoes. Always imitated. Never Equalled.


2012

A marzo nelle campagne foggiane ha inizio la semina dei pomodori. A maggio insieme al raccolto inizierà anche una rodata routine di sfruttamento di decine di immigrati pagati 5 € circa per ogni cassa di pomodori da 350 Kg pagata quasi sempre in nero [di questi, il caporale trattiene al bracciante una tangente che va da 1 a 2 € a cassone, come benefit per l’intermediazione di manodopera]. Il contraltare architettonico della “cappa di complicità sugli schiavi della raccolta” di ventiquattromila micro-aziende agricole nel solo foggiano è la nascita di una costellazione di ghetti, aree in cui vivono i braccianti operanti in Puglia. Gli architetti beneficiari di questa gestione neo-coloniale e para-carceraria del lavoro bracciantile sono le organizzazioni dei produttori (O.P.) e i grandi consorzi, che ovviamente sono legati a doppio filo con la grande distribuzione organizzata (G.D.O.). Nei campi tra San Severo, Rignano Garganico e Foggia nasceva verso la fine degli anni Novanta il ‘Grande Ghetto’ in seguito allo sgombero di uno zuccherificio abbandonato, dimora anch’essa di braccianti stranieri operanti nei campi limitrofi. Il Grande Ghetto ospitava, sino allo sgombero nel marzo di questo anno, circa tremila lavoratori stagionali all’interno di baracche provvisorie. Era in questo non luogo, o spazio invisibile nella geografia dello Stato italiano, che, su impulso della Rete Campagne in Lotta, nel 2012 nasceva Radio Ghetto, un progetto di radio partecipata che dà voce alla comunità che vive nel ghetto ogni estate da fine luglio a inizio settembre. In seguito allo sgombero e all’incendio del Grande Ghetto (in cui morirono due braccianti del Mali), la strumentazione necessaria per le trasmissioni radiofoniche è stata spostata sulla pista di Borgo Mezzanone, la quale faceva parte di un aeroporto militare utilizzato dagli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale. La baraccopoli sorge a fianco del Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo, il cui recinto è oltrepassato da cavi di elettricità e acqua che vanno verso la baraccopoli.

 

Radio Ghetto a Rignano Garganico. © Ginevra Sammartino.


Radio Ghetto ha trasmesso sino al 2016 principalmente all’interno del Gran Ghetto di Rignano Garganico e con il tempo ha cercato di aprirsi un varco verso la società italiana tramite Radio Ghetto Italia, un estratto settimanale della programmazione trasmesso da piccole radio dislocate in diverse regioni italiane e nel web (RadioBarrio), e verso l’Africa tramite Radio Ghetto Africa, un programma di mezz’ora in francese, che fa luce sull’Europa di oggi e che viene trasmesso in Marocco, Burkina Faso, Benin e Senegal.

Il contenuto mediato dalla lingua italiana e francese non è il medesimo: c’è uno sguardo a confini e prospettive più ampie nel passaggio alla seconda lingua. Inglese, wolof e barambà fanno capolino fra questi codici, colmando o aprendo lacune tra i microfoni e l’ascolto. Mentre opera una rottura di confini culturali netti, la radio porta nelle case degli ascoltatori una voce che qui viene ospitata. Byung-Chu Han ne L’espulsione dell’Altro immagina un futuro in cui potrebbe nascere il mestiere dell’ascoltatore, una figura che dietro compenso offrirà ascolto all’Altro. Per ora il capitalismo non ci ha ancora regalato questa gioia e Radio Ghetto si può ascoltare liberamente, ma certo senza essere pagati. Porta con sé uno scarto di comfort e un senso di comunità differente rispetto a quello a cui ci ha abituato la cosiddetta società civile.

 

Durante le trasmissioni radio, curate direttamente da chi abita le comunità della Capitanata, si discute delle condizioni di vita e delle difficoltà del lavoro agricolo. Si informa chi è appena arrivato su leggi e diritti italiani. Si discute del caporalato, si registrano voci, si ascoltano musica e radio-giornali e si svolgono contest per rapper che vivono nei ghetti. È condivisa la storia quotidiana degli speaker, dalle problematiche relative al proprio percorso migratorio alla quotidianità della provincia, sino a che i generatori elettrici si fermano.

 

Il fare di Radio Pomodoro rompe la spettacolarizzazione televisiva/giornalistica dei ‘ghetti neri’ come emergenza (un fare che ha anche la colpa di occultare la massa di lavoratori/trici dell’Est Europa), un mantra che ha il potere di rinvigorire le ragioni d’essere della nuda vita esclusa dalle regole della cittadinanza, ovvero delle persone illegali.

 

Eppure il concetto di “campo” di Agamben, che il filosofo presenta quale nomos della società moderna, è qui come nel resto d’Italia già ibridato e in trasformazione. Accanto alla nuova shoah (la “Auschwitz on the beach“ per cui Franco Bifo Berardi è stato messo alla gogna nell’estate della indebitatissima Documenta 14) ci sono, infatti, le seconde e le terze generazioni a rompere questa struttura. Ci sono studenti universitari di colore che vanno in Puglia a lavorare per la stagione, c’è chi ha perso il posto di lavoro e che deve scendere a compromessi con il mercato del lavoro, pur avendo i documenti di soggiorno. I negri che accompagnavano Otto Penzig sul Monte Sabber, meno esotici di una Dodonaea viscosa, ora sono i nostri vicini di casa. Tra le rovine del Sud Europa però si possono rivivere ancora scene di pioneristico colonialismo, come un mesetto fa mentre risalivo le scale mobili della Stazione Centrale e guardavo Valeria Marini insultare il suo portaborse negro.

 

Chissà se nelle scuole elementari dello stivale dei figli di Minniti si cominceranno a insegnare la storia e la geografia d’Africa e perché there’s “No life in Lybia”, magari con un ritratto di Enrico Mattei appesa sopra la lavagna. Gabriele del Grande ne Il mare di mezzo racconta nel novembre 2009 di Abdu Wali, prigioniero somalo nel carcere di Gatrun dopo essere stato intercettato dalla “barca degli italiani”. Tutti gli uomini sul gommone fermati dalla barca italiana erano somali. “Tre parlavano in inglese e facevano da interpreti con gli italiani. “No life in Libya” dicevano. Gli abbiamo spiegato che siamo somali, che in Somalia c’è la guerra e che in Libia ci avrebbero arrestati. Chiedevamo asilo politico…”.

 

Chissà perché appoggiata a un calorifero spento nei primi freddi di questo autunno rincorro la storia fra Eni e National Oil Company per lo sfruttamento di giacimenti di gas in Libia. Chissà se nel 2047, quando questo accordo vedrà la sua scadenza, nella gara di velocità mediterranea fra gas e barconi il metano arriverà ancora per primo. Mentre navi di turisti andranno a zonzo nello stesso tratto di mare servendo pasta al pomodoro.

 

28 ottobre 2002. Il leader libico Muammar Gheddafi regala a Berlusconi l’ultimo fucile italiano rimasto in terra libica, Tripoli (Ansa).


Una delle puntate di Radio Ghetto Africa del 2016, trasmessa dentro il Gran Ghetto di Rignano Garganico in francese nel 2016, era dedicata a L’illusion de L’Europe, ovvero al momento in cui l’ideale rappresentato dal raggiungimento del vecchio continente può divenire delusione per chi lascia l’Africa per raggiungere l’Eldorado del Nord. Tra gli ospiti intervistati, Sissoko e Ibrahim, entrambi provenienti dal Mali, sono parte del flusso di vita che attraversa il campo. Le loro storie mettono a nudo e sovvertono, per orecchie che abitano entrambe le sponde del Mediterraneo, lo sfruttamento e l’isolamento di chi ha raggiunto il Sud Europa. 

 

Radio Ghetto trasmette e archivia una piccola parte della politica dello sfruttamento, degli affari mafiosi e della criminalità nelle campagne foggiane. Lo fa grazie all’impegno e al sostegno di tutti gli abitanti dei ghetti e di attivisti, volontari e giornalisti che hanno scelto di dedicare il proprio “tempo libero” a una esperienza di registrazione di testimonianze delle geometrie invisibili degli stati di esclusione.

 

Radio Ghetto Italia viene trasmessa da:

Radio Black Out (Torino, 105.25 FM): giovedì 10.00
Radio Beckwith (Piemonte, per le frequenze visita il sito): lunedì 19.00
Radio Fragola (Trieste, 104.5 – 104.8 FM): giovedì 14.00
Radio Cooperativa (Veneto e Friuli Venezia Giulia, per le frequenze visita il sito)
Radio Città del Capo (Bologna, 94.7 – 96.25 FM): venerdì 20.00
Radio Città Aperta (Roma, 88.9 FM): venerdì 13.00
Radio Ciroma (Cosenza, 105.7 FM)
Radio Barrio (WEB): martedì 10.00

 

Radio Ghetto Africa viene trasmessa da:

Radio Beckwith (Piemonte, per le frequenze visita il sito): martedì 14.30
Radio Barrio (WEB): mercoledì 10.00
Air Du Mboa (Marocco, Webradio): mercoledì 20.00 in replica domenica 20.00
–La Voix des Balé (Bale – Burkina Faso, 103.6 FM): giovedì 16.00
Omega (Ouagadougou – Burkina Faso, 103.9 FM): sabato 13.30
Ouaga FM (Ouagadougou – Burkina Faso, 105.2 FM): dal 5 Ottobre
Lafia FM (Timbuctù – Mali, 94.6 FM): domenica 16.00
Fraternité FM (Parakou – Benin, 96.5 FM): mercoledì 22.30 – 23.00
–Nafoore.fm (Kolda – Senegal, 89.7 FM): sabato 17.00 – 18.00
Seneweb (Senegal)

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Sfruttamento
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Bestiale

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Il titolo della mostra torinese sugli animali nella storia del cinema colpisce per la sua disarmante immediatezza: ‘bestiale’ non è un aggettivo come gli altri, non indica una qualità del nome a cui si accompagna, ha una sua sonora e potente autonomia, è un’esclamazione che dice stupore, meraviglia, sorpresa ma può anche venire impiegato per indicare un livello estremo di degradazione dell’umano. L’animale, per consolidata tradizione filosofica e dottrina religiosa, almeno fino ad anni recenti, è stato considerato come un essere senziente sprovvisto di logos, quindi inferiore. E proprio perciò lo si è anche considerato come un essere enigmatico, talora pericoloso con cui non è possibile intrattenere una relazione attraverso il linguaggio. Per lo meno non nel modo in cui comunicano gli umani. Ma questo limite si è sempre rivelato un formidabile volano di emozioni e di meraviglie: l’animale, proprio in virtù di tale carenza, comunica in forme diverse: usando il corpo, emettendo suoni che dobbiamo interpretare, esprimendo la sua relazione con noi attraverso lo sguardo.

 

 

Questa strana polarità della nostra relazione con il mondo animale, fatta di vicinanza e distanza, di empatia e paura ha acceso l’immaginazione probabilmente dalle più remote origini dell’umanità.

E qui siamo già nel centro dell’ideazione di una mostra che non è solo un omaggio scontato a una presenza, che fin dalle sue origini ha caratterizzato il cinema e le sue numerose stagioni. 

L’animale davanti alla camera da presa, ma assai prima nella letteratura, è soprattutto una proiezione dell’umano, metafora delle sue emozioni, del suo modo di comunicare con il mondo, delle sue virtù e dei suoi vizi, in una parola del suo essere uomo.

Di questa complessa e affascinante macchina metaforica gli organizzatori della mostra torinese hanno esplorato con grande intelligenza le sue molte diramazioni storiche dalle origini ancora ottocentesche – si comincia con l’esperimento precinematografico di Eadweard Muybridge del 1878 che tentò di riprendere la corsa di un cavallo – fino a Adieu au language, l’ultimo film di Jan-Luc Godard del 2014, dove nella generalizzata catastrofe della comunicazione umana un cane sa esprimere ciò che le parole non sanno più dire.

 

Le dieci sezioni tematiche in cui è suddivisa la mostra – dalla recitazione animale all’animale antropomorfo, dall’amico dell’uomo all’animale come minaccia, (Gli uccelli di Hitchcock e lo Squalo di Spielberg) – si snodano lungo un percorso espositivo a salire all’interno della Mole antonelliana. Un percorso che dopo le prime presenze animali nel cinema osserva cosa accade al personaggio animale con l’avvento del sonoro, nel 1929, per poi passare attraverso tappe intermedie alla nascita della grande cinematografia holliwoodiana con i suoi colossal, primo tra tutti il mitico King Kong o Cheeta, la scimmia di Tarzan, fino alle fortunate serie televisive degli anni del secondo dopoguerra. Questo viaggio a ritroso nel tempo, che si avvale, è bene sottolinearlo, di una ricchezza straordinaria di sequenze tratte da pellicole celebri, di fotografie e manifesti d’epoca, di backstage e macchine di scena, è un viaggio nella nostra memoria che ci riporta agli anni di infanzia o alle molte infanzie che la mostra ha messo in scena e di cui gli animali presentati sono state le icone che ancora oggi giganteggiano nei nostri ricordi. 

La mostra torinese, vista da questa prospettiva, è una potente macchina della memoria individuale e collettiva in cui noi tutti finiamo per riconoscere presenze fondamentali del nostro immaginario. 

 

C’è però anche un’attenta e avvincente filologia in questa topografia di pellicole animali allestita da Davide Ferrario e Donata Pesenti Campagnoni. Così scopriamo come sono state fatte le celebri riprese di Rin Tin Tin che vediamo fotografato sulla scena con il suo proprietario e addestratore Lee Duncan. Oppure vediamo l’attore Marco Paolini insieme al gigantesco Brumi sul set de La pelle dell’orso assistito dall’animal trainer. Si scopre infatti che molte sequenze, quelle che ci hanno lasciati ammirati e stupefatti quando le abbiamo viste da bambini ma anche da adulti, sono il risultato di un lavoro di mesi e anni per trasformare l’animale in attore. Non si è trattato di addestrarlo soltanto ma di trasformarlo appunto in interprete, anzi in protagonista abituandolo ai ritmi talvolta sfibranti delle riprese e delle loro molte ripetizioni.

Impossibile non vedere in questa mappa della memoria cinematografica in versione animale la mano di un regista come Davide Ferrario, che non solo sa come si gira un film ma che sa scoprire in ogni film la storia del cinema. Una storia in perenne oscillazione tra immedesimazione simpatetica e straniamento. Si sa che nel caso soprattutto di film famosi il vedere la macchina da presa, il set con gli allestimenti di scena, gli attori in attesa del ciack produce inevitabilmente un effetto di disincanto. Ma nel caso della recitazione animale, forse perché l’espressione delle loro emozioni tocca in noi corde affettive profonde, questo effetto è moltiplicato. 

 

È su questa geografia sentimentale che i curatori della mostra hanno costruito le loro prospettive di lettura di un secolo e più di cinema all’insegna del protagonismo animale. Il percorso che propongono ci fa ad esempio riflettere sui diversi gradi di finzione che la recitazione animale comporta fino ad assorbire totalmente l’essere fisico nel personaggio e nel ruolo che esso interpreta. Cani, gatti, cavalli, scimmie o bestie feroci perdono così i loro connotati reali ed acquistano una valenza simbolica che non dice soltanto della loro metamorfosi ma mostra in filigrana la metamorfosi che il cinema tutto, anche quello più dichiaratamente realistico, opera da sempre sul ‘personaggio uomo’ e su come egli vive la sua vita. La storia degli animali nel cinema finisce così per essere una storia delle strategie con cui noi spettatori inconsapevolmente abbiamo addomesticato la diversità animale rendendola parte integrante delle nostre relazioni affettive.

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Gli animali nella storia del cinema
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Fantascienza sino-giapponese in Italia

La fantascienza sino-giapponese è un oceano vasto, ricco di mari, insenature, profondità lontane dalla costa. Chi non sa nuotare, chi non conosce le lingue in cui è scritta, vede affiorare sopra il pelo dell'acqua creature mitiche e meravigliose, consapevole che sotto la superficie si cela un intero mondo di testi da esplorare. I rari curatori editoriali e traduttori che offrono versioni italiane sono esploratori generosi, che mettono a disposizione di noi lettori della Penisola i loro vascelli e batiscafi, accompagnandoci alla scoperta di rotte altrimenti inaccessibili.

Negli ultimi decenni le traduzioni di fantascienza giapponese e cinese in Italia hanno rappresentato rare e benvenute eccezioni entro uno spazio editoriale dominato dalle traduzioni di autori anglo-americani. In un mercato librario (non solo fantascientifico e non solo italiano) largamente dominato dall'inglese come lingua fonte (si vedano le statistiche dell'Unesco index translatiorum), la scarsità di traduzioni di fantascienza dall'estremo oriente si può ricondurre a una molteplicità di concause specifiche, dagli orizzonti d'attesa che gli editori principali sono ormai abituati a immaginare presso i loro lettori, al numero relativamente ristretto di traduttori professionisti specializzati nelle lingue di interesse e al contempo in grado di tradurre fantascienza, un genere che – con il suo grado di invenzione e rifunzionalizzazione linguistica e il fitto intertesto di riferimento, i relativi protocolli di lettura che da questi derivano – richiede competenze peculiari, a mezza via tra la traduzione di narrativa e la specializzazione richiesta da quella poetica.

 

Lo scuso dell'illusione. Racconti fantastici della letteratura giapponese moderna, a cura e con traduzioni di Massimo Soumaré, Roma, Atmosphere libri, 2017.


Il 2017 si avvia però a conclusione come un'annata che ha arricchito i nostri scaffali di due antologie importanti: Lo scudo dell'illusione. Racconti fantastici della letteratura giapponese moderna, curata e tradotta da Massimo Soumaré e pubblicata nella collana Asia Sphere per i tipi della romana Atmosphere libri, e Nebula. Fantascienza contemporanea cinese / curata da Francesco Verso ed edita da Future Fiction, anch'essa con base a Roma.

Con la prima, Lo scudo dell'illusione, Soumaré continua la sua opera di presentazione dell'arcipelago letterario del fantastico nipponico in Italia. Tappe fondamentali di questa opera sono state ad esempio le sezioni e i volumi dedicati al Giappone della serie antologia Alia (pubblicata dalla sigla torinese CS_Libri tra 2003 e 2011, e ripresa nel 2014 in versione elettronica), e Onryo, avatar di morte, curato con Danilo Arona nel 2012 (uscito nella mondadoriana Urania) che ha affiancato storie horror nipponico e nostrano, oltre alle molte collaborazioni saggistiche e traduttive con riviste e sedi non specializzate in senso di genere.

 

Questo Scudo giunge come un'acquisizione significativa per i lettori, tanto più entro il megatesto globale dei generi speculativi in cui lo spazio del Giappone è stato caratterizzato da una ricezione euro-americana che ne ha fatto a lungo l'immagine di un'alterità radicale e aliena, e/o una riduzione a elementi esotici, affascinanti ma poco o per nulla in dialogo intertestuale con quanto scritto in giapponese – un japanesque di maniera, talvolta supportato da poca sostanza culturale. Della fortuna delle immagini fantascientifiche del Giappone e di Tokyo sono testimonianze opere miliari del genere, un esempio per tutti Neuromancer di William Gibson, romanzo che nel 1984 ha contribuito in modo fondamentale alla codificazione del repertorio cyberpunk, il cui incipit, forse il più celebre della fantascienza contemporanea, è dedicato al cielo sopra Tokyo – “The sky above the port was the color of television, tuned to a dead channel” – e preannuncia l'impronta del Giappone sullo scenario globalizzato e iper-tecnologizzato del futuro immaginato dall'autore di origini statunitensi.

 

In quest'ottica appaiono significative e tutt'altro che casuali le scelte di Soumaré: i due racconti  di Natsume Sōseki (1884-1924) che aprono la raccolta, “La torre di Londra” (1905) e “Lo scudo dell'illusione” che dà il titolo al volume (1905) restituiscono l'immagine di un occidente europeo visto da est, in cui la sanguinaria storia stratificatasi nei muri della London Tower e il ciclo bretone di Artù sono le fonti di ispirazione di un fantastico popolato di inquietanti spettri e che trasfigura la cultura cortese con onirico romanticismo. La storia e la cultura inglese, bretone, italiana, note all'autore che aveva soggiornato a Londra alcuni anni all'inizio del secolo e le cui conoscenze spaziavano dalla Canzone dei Nibelunghi al De amore di Cappellano, alla Commedia dantesca (di cui nei testi si leggono echi e citazioni), dovevano certo essere elementi lontani e misteriosi per i lettori giapponesi pochi anni dopo l'estinguersi dell'isolazionismo dell'ultimo periodo Edo. Il lettore e la lettrice italiani di oggi sono dunque invitati a un esercizio di doppio straniamento: quello tipicamente fantastico, di uscita dal paradigma consueto di percezione e interpretazione della realtà fenomenica, e quello interculturale, che scoprendo nello sguardo di un “altro” una sconosciuta immagine di sé, favorisce la relativizzazione del proprio posizionamento entro un più ampio quadro di relazioni di natura (inter)culturale e linguistica. Su un invito analogo la raccolta si chiude, con le ambientazioni mediterranee e le riscritture mitologiche ed evangeliche nei racconti di Dazai Osamu (1909-1948): “Corri Melos!” (1940) e “L'accusa affrettata” (1940).

 

Lo scrittore Natsume Sōseki ritratto sulla banconota da 1000 yen.


 L'antologia prosegue e arricchisce il sofisticato sguardo alle origini del fantastico nipponico degli ultimi due secoli, che Soumaré ha già coltivato in precedenti sedi. Si pensi anche all'inclusione di Yamamura Bochō (1884-1924), la cui raccolta Chiruchiru-michiru (1920) tradotta integralmente include una serie di brevi favole, dominate da elementi naturali che prendono vita e parola (una vita fantastica, lontana da apologhi e allegorie) e da una vena liricamente malinconica.

Il percorso giunge a metà del 1900 attraverso racconti di Yumeno Kyūsaku (1889-1936), Miyazawa Kenji (1896-1933), Unno Jūza (1897-1949) e il già citato Dazai, ciascuno con due, tre o quattro storie. Si tratta di autori solo occasionalmente tradotti in italiano, talvolta con racconti brevi in riviste specializzate, raramente con raccolte o romanzi (tra cui ad esempio l'antologia di racconti di Miyazawa Una notte sul treno della Via Lattea e altri racconti curata da Giorgio Amitrano per Marsilio nel 1994).

Le opere incluse ne Lo scudo offrono esempi di un fantastico incline alla fiaba (es. “Negli occhi del maestro”, 1924, di Yumeno), a una rarefazione di ispirazione buddhista (es.Il fanciullo oca”, 1932, di Miyazawa), ad alterazioni dello stato di coscienza ordinario riconducibili a insanità mentale o a leggendarie sostanze psicotrope (i due irridenti e deliranti monologhi tratti da I pazzi ridono, 1932, di Yumeno). Si nota dunque l'ispirazione più spiccatamente fantascientifico-tecnologia dei due racconti di Unno, “Il caso dell'omicidio del robot” (1931) e “Il mondo dopo mille anni” (1939).

 

Nel saggio di apertura il traduttore ci avverte dell'approccio adottato per rendere in italiano il lessico scientifico impiegato dall'autore negli anni Trenta (es. congelamento anziché l'ora invalso ibernazione), privilegiando una versione conforme agli usi coevi. E al saggio introduttivo i lettori possono guardare anche per un aiuto nella collocazione dei racconti all'interno del complesso della produzione di ciascun autore, e di questi ultimi nella storia della letteratura (non solo fantastica) nipponica, riletta in chiave comparatistica e internazionale.

 

Yasutaro Mitsui con il suo robot umanoide in acciaio in una foto del 1932. Fonte: http://cyberneticzoo.com.


Da un'operazione affatto diversa nasce Nebula, antologia bilingue che propone in cinese e in italiano quattro racconti di tre autori e un’autrice contemporanei, nati negli anni tra Sessanta e Ottanta del Novecento e tutt'ora attivi. Le voci di Chen Qiufan, Xia Jia, Wu Yan e Liu Cixin aggiornano il panorama della fantascienza cinese in traduzione italiana, che sino ad adesso aveva incluso due soli precedenti. Il primo, L’onda misteriosa, era uscito nella serie mondadoriana da edicola Urania nel 2006, versione italiana realizzata da Roberto Marini dell'inglese Science fiction from China. Quest'ultima, curata da Wu Dingbo e Patrick D. Murphy ed uscita in lingua inglese nel 1989, includeva storie pubblicate tra 1978 e 1987 da autori cinesi di Cina e della diaspora, da Tong Enzheng a Ye Yonglie, da Wang Xiaoda a Zheng Wenguang, molti dei quali mai apparsi né italiano né in inglese prima di allora. Nel 2010 gli aveva fatto seguito, sempre in Urania, Shi Kong: China Futures, curata e tradotta da Lorenzo Andolfatto dal cinese direttamente in italiano, che aveva offerto un'ampia panoramica di storie brevi uscite tra 1980 e 2006 sulla rivista Kehuan Shijie. Anche in questo caso diversi degli autori inclusi comparivano in italiano per la prima volta, come Jin Tao, Liu Wenyang, Wang Jinkang, Liu Cixin e He Xi, in tempi in cui il successo internazionale della trilogia di The Three-Body Problem di Liu (scritta a partire dal 2006 ma tradotta in inglese a partire dal 2014) non poteva ancora fungere da traino.

 

Nebulaè ora frutto di una collaborazione della sigla Future Fiction (già collana dell'editore Mincione, ora sigla autonoma) guidata dal curatore Francesco Verso, con l’azienda cinese Storycom, l'Istituto Confucio di Milano, e la Scuola Internazionale di Comics di Roma (e quest'ultima frutta al volume quattro lussuose illustrazioni dedicate ciascuna ad uno dei racconti). 

La prefazione di Wu Yan, anche autore incluso con un racconto oltre che professore alla Normale di Pechino, offre una fotografia di quanto della narrativa fantastica e fantascientifica italiana è stato tradotto ed è conosciuto in Cina, da Ermanno Libenzi a Italo Calvino, passando per Tommaso Landolfi e Anna Rinonapoli, e tratteggia un'affascinante immagine riflessa della cultura italiana, a partire dalle tre corone della letteratura, e da un Marco Polo immaginato e favoleggiato.

I quattro racconti che seguono costituiscono nel complesso una delle letture più piacevoli e stimolanti di questa annata fantascientifica. All'ordine del giorno diverse declinazioni di una tecno-scienza pienamente calata nel presente in grado di dirci moltissimo delle sfide e dei percorsi culturali dell'odierna Cina, e al contempo in grado di toccare temi caldi a livello globale.

 

Il management e la protezione della proprietà intellettuale per mezzo di trademarks elettronici sempre più sofisticati acquisisce un inusitato fascino in “Buddhagram” di Chen Qiufan (prima edizione cinese 2015), coniugandosi ad elementi di un buddhismo zen visto sia nelle declinazioni esornative e popolareggianti di una religiosità consumata dalla gente, sia in quelle filosofiche di un'escatologia già influente sulla produzione europea – si pensi a “The Nine Billion Names of God” di Arthur Clarke (1953), o al concetto di realtà come illusione che ha fatto la fortuna del franchiseThe Matrix (1999-).

Il pubblicitario Zhou Chongbo escogita un'idea vincente per promuovere il software di un cliente. Il software permette di ricostruire l'originale di un'immagine, quand'anche questa sia stata pesantemente manipolata. La chiave per acquisire grossi clienti nell'industria potrebbe essere avere successo prima di tutto sul mercato del consumo quotidiano, sotto forma di app. Far consacrare questa app da un monaco sembra poi un ottimo modo per sfruttare l'inclinazione religiosa e la credulità dei consumatori cinesi. Né il softwerista né i pubblicitari si aspettano però gli effetti miracolosi che l'app sembra avere su tutto ciò che viene con essa fotografato, e tanto meno che questo possa mettere in moto una catena di eventi che finisce per compromettere la struttura stessa della realtà.

 

Nebula. Fantascienza contemporanea cinese / 星云。中国当代科幻小说, a cura di Francesco Verso, Roma, Future Fiction, 2017.

 

Il maestro buddhista-tecnologista Deta paragona il ruolo di Chongbo a quello di un PNG (personaggio non giocante) in un videogioco: Chongbo ha il compito e la possibilità di porre rimedio all'accaduto. Ma che si tratti di una metafora o che l'universo sia realmente un programma (due letture che solo in fantascienza possono coesistere senza escludersi mutuamente) non ha importanza: forse a causa della moglie che lo tiranneggia (un bug, un difetto nel programma), o semplicemente seguendo il libero arbitrio, che lo porta a spendere gli ultimi momenti di vita col figlio appena nato, Chongbo rifiuta il proprio ruolo e lascia l'universo al suo destino. Convincente in questo senso la narrazione in prima persona, con l'ammiccante numerazione dei capitoli in codice binario, che solo nella chiusa giunge a far coincidere tempo della storia e del discorso nel presente (anche in senso verbale) di una piena realizzazione di ciò che sta per accadere.

 

 Il titolo italiano, con scelta felice, privilegia un fronte ironico e lieve (rispetto alla più compresa attitudine dell'originale, Kaiguang, tenuto letteralmente nell'inglese “Coming of the Light”). E il circolo delle influenze filosofico-letterarie si chiude, con una citazione di Clarke pronunciata dal maestro Deta, quasi ad epitomizzare la natura transnazionale dell'intertesto fantascientifico oggi.

Si passa quindi al tema dell'invecchiamento della popolazione, ai droidi comandati a distanza, e alla logistica delle metropoli ormai congestionate nel commovente “L'estate di Tongtong” di Xia Jia (2014), per poi passare al divertente “Stampare un mondo nuovo” di Wu Yan (2013), in cui un'istituzione universitaria di scarsa fama deve tentare il tutto per tutto per diventare un polo di ricerca di primo piano e salvarsi così dalla chiusura, decretata da imminente riforma del sistema universitario cinese. Il racconto propone un'esilarante parodia delle logiche del mondo universitario, dove la parte scientifica del binomio fantascientifico è data dalle scienze economiche e gestionali, dal management educativo, dalle tecniche di leadership.

 

“Le bolle di Yuanyuan” di Liu Cixin (2004) affronta infine il tema dei cambiamenti climatici e della desertificazione, offrendo, grazie alla fissazione della giovane protagonista per le bolle di sapone, una sequenza di immagini poetiche; il racconto sembra così voler tornare alle origini della fantascienza come immaginazione applicata a una tecno-scienza svincolata dall'uso utilitaristico, per poi riportare invece la nostra attenzione all'impellenza molto pratica dei problemi che affliggono l'ecosistema in cui viviamo in misura sempre più drammatica.

Questi temi non rappresentano certo nuove acquisizioni per la fantascienza corrente, ma non è tanto l'originalità assoluta delle questioni poste, quanto l'intelligenza nel ri-uso del repertorio a fare l'interesse dei racconti. I lettori fuori dalla Cina godranno inoltre con curiosità i riferimenti al presente della Repubblica, alla cultura tradizionale, al recente passato e all'eredità della rivoluzione culturale.

I casi de Lo scudo dell'illusione e di Nebula confermano dunque alcuni elementi degni di nota del campo editoriale italiano: l'iniziativa di cui sono capaci attori di piccole dimensioni, in grado di conservare una forte vocazione progettuale e alla proposta letteraria e culturale, nonché l'estremo interesse delle letterature speculative prodotte in altre lingue, e dei generi fantastici come osservatorio privilegiato sul costituirsi e mutare di intertesto pienamente globale.

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Foreign fighters

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L'espressione foreign fightersè da qualche tempo piuttosto chiacchierata, evoca un fenomeno nuovo, si dice, e allarmante. Di per sé, tuttavia, niente di più antico dello straniero che allarma, specie se tiene le armi in pugno, clave, sciabole o kalashnikov. Esso non ha alcun legame, culturale o sentimentale, con noi, e può dunque risultare spietato come una belva anche verso i più inermi, donne o bambini per esempio. La presenza di combattenti stranieri ha dato luogo agli originali modelli del raid e dell'anabasi in terre lontane.

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Il lieto fine di Michael Haneke

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Quando mesi fa è iniziata a circolare la notizia che il nuovo film di Michael Haneke sarebbe stato una storia ambientata tra i migranti di Calais e che si sarebbe chiamato Happy End non si poteva non pensare a un’astuta forma di presa in giro. Temi sociali e finali accomodanti sono forse due tra le cose più lontane che si possa immaginare appartengano all’universo filmico di Haneke. E infatti anche questo Happy End– sorta di sintesi filosofica del pensiero del registra austriaco – non fa eccezione. Il film inizia con delle stranissime immagini di pessima qualità riprese da uno smartphone da parte di quella che scopriremo essere una delle protagoniste del film, l’adolescente Eve: vediamo la madre che si lava i denti e che va in bagno e la figlia che la riprende commentando la stanca routine del genitore con cinismo e distacco; poi vediamo un criceto in gabbia a cui Eve somministra dei medicinali che lo fanno rimanere stecchito; e infine la madre – sempre filtrata attraverso uno smartphone – “finalmente zittita” a causa di un avvelenamento, sdraiata su un divano con la figlia che commenta: “ora chiamo un’ambulanza”. È uno sguardo quello del mondo dello smartphone di Eve che non vede le cose passivamente, ma in un certo senso le anticipa e le determina. Ne è sempre in qualche modo responsabile anche in una forma crudele e cinica, dove nemmeno la madre e il proprio animale domestico – normalmente parte dell’universo affettivo di un’adolescente della sua età – vengono risparmiati. 

 

 

Da sempre un cinema del disincanto com’è quello di Haneke – un cinema cioè che non crede nelle possibilità dell’immagine di esprimere una verità, ma che anzi ne vuole sempre sottolineare impossibilità e mancanze – si deve misurare con una delle domande più insidiose delle propria filosofia implicita: se davvero lo sguardo non può mai essere innocente, chi ne è dunque il colpevole? Chi ne è il responsabile? Molti critici si limitano a ridurre il cinema di Haneke a una sorta di generalizzazione cinica della colpa e della responsabilità con il rischio di liquidare un pensiero rigorosissimo del cinema in una sorta di blanda sociologia del contemporaneo. Haneke è regista troppo colto e troppo raffinato per potere cadere in una trappola del genere, e niente come questo film all’interno della sua filmografia lo mostra in modo così chiaro. Quando in una delle prime sequenze del film noi vediamo un cantiere edile dove improvvisamente avviene un crollo che uccide – poi sapremo – un operaio e ne ferisce diversi altri, il problema è proprio stabilire la posizionesoggettiva di questo campo visivo. Chi è che sta guardando la catastrofe che abbiamo di fronte agli occhi? La macchina da presa attraverso cui vediamo la scena è una telecamera a circuito chiuso: è cioè un punto di vista vuoto che non viene occupato da nessuno. Chi ne è dunque il responsabile? Non siamo forse ormai giunti a un regime dell’immagine dove le immagini “si guardano” senza che vi sia più nessuno che se ne possa assumere davvero la responsabilità? 

 

Lo sguardo disincantato del contemporaneo – ci sembra voler dire Haneke – non ha ormai più alcun soggetto. E infatti il film è letteralmente popolato da personaggi morti o che sono sull’orlo del suicido, anche quando sono ancora temporaneamente in vita. La famiglia attorno a cui ruotano gli eventi di Happy Endè composta da una donna in carriera (interpretata da Isabelle Huppert) che sta per vendere l’azienda famigliare decaduta a delle banche inglesi (che segue il cinismo della decadenza economica capitalistica), un fratello medico (Mathieu Kassovitz) che invece è preso da tre donne che non ama – una moglie da cui si è divorziato e da cui ha avuto una figlia, una compagna attuale che non ama, e un’amante che non è in grado di soddisfare – e poi da un’adolescente come Eve e un vecchio patriarca preso da una demenza senile che sembrano gli unici che riescono davvero a percepire il disincanto brutale del mondo che gli circonda. Non c’è bisogno di aspettare una rivelazione a metà del film per capire che quello che abbiamo di fronte agli occhi è un vero e proprio sequel di Amour, dato che i personaggi sono interpretati dagli stessi attori (Jean-Louis Trintignant e Isabelle Huppert) e che è proprio la generazione di mezzo, quella cioè del fratello e della sorella, che è troppo dentro alla catastrofe per riuscire davvero a “vederla”. Sarà allora una strana alleanza tra il nonno demente e l’adolescente anaffettiva ma nascostamente violenta che mostreranno come l’unica possibile posizione soggettiva sia proprio quella della contemplazione e della consapevolezza della catastrofe. Dall’assunzione definitiva di come ormai non vi sia più alcun soggetto vero e proprio dietro allo sguardo: lo sguardo dello smartphone appunto come testimonianza ormai di una “visione senza soggetto”, o per meglio dire di uno sguardo senza essere umani.

 

Il pessimismo di Haneke non ha allora più nulla della morale, ma è ormai diventato ontologico: il disincanto non appartiene più a una scelta ma a una condizione del nostro stare al mondo dalla quale non possiamo più sfuggire. Si tratterà allora di abbracciarla fino in fondo senza illudersi di essere dei soggetti, ma solo dei supporti di uno sguardo che non ha ormai alcuna agency, esattamente come quello di uno smartphone mentre andiamo lentamente verso la deriva.  

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Capricci di Moda

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Patrizia Cavalli

La moda ha un temperamento incostante, volubile, e averci a che fare vuol dire impelagarsi in una serie di faccende capricciose, le Flighty Matters descritte in versi da Patrizia Cavalli, poetessa alle prese con sei oggetti nel cui nome “c’è il loro destino”.

La moda portata, percepita, incomprensibile, inservibile, trova spazio in sei poesie e un racconto, raccolte in un libro edito per la prima volta nel 2011 su commissione della Deste Foundation for Contemporary Art, ripubblicato in versione economica da Quodlibet nel 2017.

La penna di Patrizia Cavalli incontra, interpreta e circoscrive l’estro degli stilisti Diane de Clerq, Stefan Janson, Nasir Mazhar, Alexander McQueen, Issey Miyake e Victor & Rolf, le cui creazioni sono accomunate da fili conduttori che spaziano dalla dicotomia tra inservibilità e usabilità alla rimediazione del mondo animale.

 

L’opposizione fra inservibile e usabile è rappresentata mediante due paia di scarpe, gli ankle boots Armadillo di McQueen e le stringate di Miyake: le seconde sono così comode ed “estatiche che ballano da ferme”, le prime sembrano chiederci «ma è proprio necessario camminare?», per via dei loro 30cm di tacco, e della tomaia a scaglie dalla forma bombata che esaspera il collo del piede e rimanda agli artigli e alle placche ossee del dorso degli armadilli, nomen omen. Le suggestioni animistiche continuano nella poesia ispirata alla cappa Cerf-volant di Janson, la cui denominazione, in francese, assume il doppio significato di aquilone e cervo volante, la specie più grande di coleottero europeo. La cappa in questione è composta di piume di oca, di fagiano e faraona, le quali compongono un pattern “a righe trasversali” simile a quello impresso sugli aquiloni. In questo caso la poetessa esplicita il desiderio innato dell’essere umano di condividere la forza degli animali, di assorbirne le qualità caratterizzanti, come propugna l’ottica animistica e sciamanica, trasformando gli indumenti a loro immagine e somiglianza, per fare in modo che siano vitali per l'esistenza umana quanto lo sono per uccelli e coleotteri piume e ali, cercando di replicarne anche le funzioni termiche, di protezione e copertura. Cosa accade nell’indossare la cappa di Janson? Cavalli ha la risposta pronta: “scrollo il culo come anatra riemersa: sarò dritta, impermeabile, protetta”.

 

 

Sotto la cappa, la metamorfosi da volatile piumato a robusto coleottero avviene veloce e impercettibile come un battito di ali, o meglio di elitre, che pur se hanno perso la loro ragion d’essere perché indurite, dall’evoluzione della specie o da chissà quale progetto di madre natura, offrono protezione dagli agenti esterni. Le elitre avviluppano il corpo e il capo, come le falde del cappello realizzato da Mazhar con cui si navigano “spazi siderali” tracciando orbite eccentriche come quella di Mercurio, pianeta, ma anche elemento chimico impiegato nella fabbricazione del feltro dai cappellai del Settecento e dell’Ottocento, i quali, a causa del costante contatto con il metallo liquido, spesso finivano per esserne intossicati, sviluppando il disturbo neurologico conosciuto col nome di mad hatter disease, da cui deriva il Cappellaio Matto del romanzo fantastico di Lewis Carroll.

 

Il cappello di Mazhar non copre il capo, fa respirare il cervello, poiché le sue falde avvolgono il capo con volute incostanti, mercuriali (nell’accezione anglosassone del senso), barando sulla sua ragion d’essere, come la giacca di Diane de Clerq che “tra le righe nasconde carte false”. 

Con Victor & Rolf, invece, attraverso un tutù destrutturato, si indossa il distacco che non vuol dire allontanamento spirituale o disinteresse, bensì una scomposizione per pezzi, per tasselli, della realtà, giusto per comprenderne il funzionamento, indagando il suo sostrato emozionale.

Ciò ci porta a riflettere sulle passioni dello shopping, magistralmente narrate da Cavalli riportando un’esperienza sinestetica autobiografica, riguardante l’acquisto delle stringate di Miyake servibili, comode, che obnubilano la mente a prima vista, capaci di far sentire “un brivido aristocratico che dai piedi mi saliva su lungo le gambe, e saliva saliva e raggiungeva le spalle, e poi, trascorrendo sulla nuca, con circonvoluzione della testa, mi scendeva davanti fino a irradiarsi nel cuore. Se delle scarpe riescono a fare un giro simile, non sono certo scarpe qualunque!”. 

 

Cavalli non è una shopaholic soggetta a “incontenibili furori acquisitivi”, bensì una compratrice occasionale, svogliata, che soffre per il distacco provato nel momento dell’imbustamento successivo alla conquista delle cose amate. Già, se si desidera tanto un oggetto di moda – si chiede Cavalli – perché bisogna privarsene subito dopo la congiunzione e aspettare l’occasione giusta per indossarlo? E soprattutto esiste davvero l’occasione perfetta o è soltanto un costrutto mentale? Così facendo si rischia di recludere le cose negli armadi, condannandole a un’esistenza ancor più breve di quella già insita in loro per via dei cicli di vita stabiliti a priori dalla moda, sempre più compressi e volatili. Insomma, le scarpe con cui sembra di galleggiare dovrebbero essere indossate subito, ogni giorno, senza aspettare il momento giusto che potrebbe anche non arrivare. 

 


Flighty Matters non solo è utile a comprendere la passioni della moda, ma anche quelle della scrittura, infatti i testi sono accompagnati da diciotto riproduzioni dei manoscritti originali, ovvero gli appunti della poetessa, in cui sono inglobate le immagini dei capi e delle calzature descritti sinora, che svelano al lettore i passaggi fondamentali della stesura definitiva, in cui sono incisi frammenti di quotidianità frammisti a insight germinali.

 

I manoscritti assurgono a vere e proprie opere, valorizzate, seguendo Schapiro, per “la loro condizione di non finito”, e dunque i fogli con cancellature e sottolineature portano il lettore a ricostruire la genesi del risultato finale in potenza, a partire dall’idea creatrice. Sembra quasi di potersi immedesimare nella circostanze della produzione, in una sorta di simulazione della presa diretta, immaginando Patrizia Cavalli durante la stesura della sua poesia, proiettandosi nel tempo della creazione. Questi appunti, per dirla con Eco, ripercorrono le tappe del processo di produzione e sono da considerare come “discorsi nascosti” a cui generalmente il lettore non dovrebbe mai poter avere libero accesso, perché rientrano nell’ambito di una “intertestualità del profondo” in cui prende forma una focalizzazione interna dell’autore, incentrata sul suo intimo sentire, attraverso cui scaturiscono le associazioni analogiche e le sinestesie per connessione innescate dagli oggetti fonte d’ispirazione.  

 

I manoscritti di Patrizia Cavalli rappresentano il nucleo dell’intenzionalità autoriale, la traccia delle sue ricerche stilistiche e della sua partecipazione emotiva nella redazione dei testi, dove l’opera finale emerge per sottrazione, la colonna portante della creazione dei suoi testi, decisamente più brevi delle versioni embrionali tratteggiate penna su carta. E qui la scrittura a mano contribuisce a sottolineare la presa di coscienza di un processo passionale in fieri, atto a rappresentare il ciclo di vita di un sentire lessicalizzato, di uno stato d’animo che sorge nel soggetto, poi riconosciuto, compreso, nominato e ratificato rispetto alle categorie culturali di riferimento.

Se le poesie di Cavalli colpiscono all’istante per via della loro brevità, il lettore attento dovrà impiegare più tempo e fatica a leggere le parti manoscritte, decifrando la calligrafia tipica degli appunti scritti di getto, grazie a cui l’opacità del senso diviene trasparente, visto che la sua generazione è resa esplicita, sic et simpliciter. 

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Patrizia Cavalli
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"Stucchevole” e “melenso”

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Tra le parole che oggi non ricorrono tanto quanto dovrebbero o che non ricorrono abbastanza dove forse dovrebbero, ci sono gli aggettivi “stucchevole” e “melenso”. Il secondo specificamente in quel suo valore, venuto alla luce, a quanto pare, ora è poco più di un secolo, che lo avvicina, senza renderlo identico, a “lezioso”, “sdolcinato”, “caramelloso”, “svenevole”.

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Paul Auster, 4 3 2 1

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Solo un altro romanzo famigliare americano?

Quando all’età di settant’anni uno scrittore newyorchese (affermato e di talento) pubblica un romanzo atteso (da sette anni almeno) che supera le novecento pagine (ottocentosessanta in lingua originale), è inevitabile che ci si figuri l’avvento di un mastodontico testamento letterario. Eccola, la summa di una carriera quasi cinquantennale, costellata di successi, esperimenti e cambi di direzione anche coraggiosi. (S)fortunatamente, non va sempre così. Di fronte a qualche novità letteraria di alcuni ‘mostri sacri’ della letteratura contemporanea, il lettore si ritrova come Gatsby, barca controcorrente, incessantemente risospinto nel passato; nel passato dell’autore, è chiaro, verso le prime luci di opere meno ambiziose, meno roboanti, forse; ma nel cui ricordo e nelle cui pagine è ancora dolce il naufragare. 

 

Così, durante la lettura di 4 3 2 1 (Einaudi, 2017), non può non venire in mente per ossimoro lo sfrontato sperimentalismo del Paul Auster della Trilogia di New York, l’antipatia felice di quella scrittura anticomunicativa che resisteva ai gusti canonici del pubblico, alle convenzioni del genere spy, alle tentazioni e alle trappole del linguaggio quotidiano, alle utopie della chiarezza e della comprensibilità a ogni costo. Stile limpido, inconfondibile; tuttavia impenetrabile. Primo paradosso. Scrittura che si impose, trovò la propria collocazione, scavò la propria nicchia, a voler minimizzare la sua influenza. Scrittura che ha esaurito la sua carica vitale, che non parla più alla contemporaneità, che si rivelerebbe improponibile nel 2017? Forse, non è detto; certo è che la Trilogia resta ancora insuperata, se messa a confronto con la produzione successiva dell’autore. Scrittura superata, ma insuperata: secondo paradosso.      

 

Di Auster, tutto si può dire tranne che non abbia scritto abbastanza, o non si sia cimentato nei generi più diversi. Per lo scrittore americano, però, la scrittura non è in fondo altro che una forma di autoterapia, una cura necessaria per la vita con cui sanare delusioni e amarezze; strumento sul quale occorre fare cieco affidamento, se si ha a cuore la propria sopravvivenza terrena. L’idea (che proprio gli anglosassoni hanno provveduto a istituzionalizzare persino nell’ingessato mondo dell’accademia) delle humanities come farmaco ha una sua gloriosa tradizione e Auster ne è certamente un esemplare emblematico. Egli è innanzitutto questo: uno scrittore esistenziale, che ha fatto dell’esistenza e dei suoi paradossi la materia prima della propria letteratura; per lenire innanzitutto le proprie ferite, prima che quelle del lettore.

 

Difficile, difficilissimo tratteggiare i passaggi fondamentali della produzione narrativa di Auster. Una mole enorme di libri, una folla sterminata di personaggi; tonnellate di pagine che ricordano la bulimia creativa degli scrittori di feuilletons ottocenteschi. E oltre alla narrativa c’è molto di più: poesie, saggi, epistolari, sceneggiature. Mi limito a ricordare alcuni elementi che mi paiono fondamentali, anche se spesso tralasciati, della sua lunga, inesausta battaglia corpo a corpo con il mondo della parola. 

 

C’è stato l’Auster del cinema, esperienza sulla quale manca ancora un’indagine all’altezza, benché il confronto molteplice con la macchina da presa, nelle vesti di sceneggiatore, attore e regista, sia sorprendente quantomeno a livello quantitativo. Il valore e l’impatto sul piano esistenziale e creativo di ciò non devono certo esser stati nulli, anche se è complesso, allo stato attuale dell’arte, valutarne l’effettiva rilevanza. Giunse poi l’Auster introspettivo ma ‘impegnato’, post-9/11, del Libro delle illusioni, delle Follie di Brooklyn, dell’Uomo nel buio; carico anche di tematiche sociali e risvolti politici, il suo stile si è man mano ‘depurato’, si è fatto meno oscuro e decisamente più permeabile a un linguaggio semplice, quotidiano, limpido. Rigettati definitivamente gli eccessi e il presunto elitarismo della metanarrazione postmoderna, Auster è ormai divenuto uno scrittore ‘per tutti’. Con meno ambiguità del passato si è concentrato, tout court, sulla realtà del suo Paese e dei suoi simili, sulle orme di un percorso che mi pare essere molto simile a quello intrapreso da Don DeLillo a partire almeno da Underworld

 

Frutto diretto di questa ‘democratizzazione’ e di questa svolta realistica nella scrittura di Auster è lo stesso 4 3 2 1. Romanzo famigliare e Bildungsroman al tempo stesso, presenta una trama strutturata attraverso l’accostamento di quattro sliding doors aventi per protagonista Archie Ferguson e le peripezie dei suoi famigliari. Figlio di Stanley e Rose e nipote di emigrati ebrei, Archie vive quattro possibili vite, le cui reciproche differenze dipendono in prima istanza dal successo lavorativo del padre. Novello Highlander, anche degli Archie(s) ne rimarrà in piedi solo uno, come il titolo suggerisce fin dall’inizio. I quattro Archie(s) sono fortemente diversi fra di loro e avranno destini assai divergenti; alcune somiglianze e costanti (come la presenza e l’influenza ossessiva, pur in vesti diverse, del doppio femminile Amy Schneidermann, l’amore per la parola e la scrittura, la rilevanza della figura materna) costituiscono il trait d’union delle diverse identità e il banco di prova delle loro scelte. 

 

Il romanzo non rinuncia a un tocco metanarrativo (il cui effetto si intensifica in chiusura di libro, in conclusione della vicenda di Archie4): Auster gioca con la forma-libro e con la sua materialità, oltre che con le possibilità formali del genere. 4 3 2 1 presenta al suo interno quattro trame parallele, nonché cinque differenti possibilità di lettura. Una lettura lineare dell’opera restituisce le quattro esperienze del protagonista per blocchi cronologici sostanzialmente paralleli; è tuttavia anche possibile leggere singolarmente le quattro storie dei vari Archie(s), procedendo a balzi in avanti nella consultazione del libro.

 

(Breve nota per gli addetti ai lavori: in 4 3 2 1 si parla molto di letteratura ed è forse uno degli aspetti più interessanti dell’opera, insieme con la sua numerosissima serie di riferimenti intertestuali. Lunghi elenchi di scrittori preferiti e di brani tratti da opere del passato vengono riportati nelle pagine di Auster, mentre gli Archie(s) divorano grandi classici e si ispirano al nouveau roman francese. Per chi fosse interessato a una lista piuttosto esaustiva delle influenze e dei maestri di Auster, 4 3 2 1 si rivela una lettura fondamentale e molto, molto esplicita.)

 

 

Auster ammicca spesso al lettore con effetti di mise en abyme e di storie nelle storie; nel corso della vicenda di Archie2 scrive per esempio:

 

Il fascino dei giornali era del tutto diverso dal fascino dei libri. I libri erano solidi e permanenti, i giornali fragili ed effimeri, prodotti usa e getta che venivano buttati via non appena erano stati letti, per essere sostituiti la mattina dopo, ogni mattina un giornale fresco per il giorno dopo. I libri procedevano dall’inizio alla fine in linea retta, mentre i giornali erano sempre in vari posti contemporaneamente, un guazzabuglio di simultaneità e contraddizione, storie multiple che convivevano sulla stessa pagina, ognuna specchio di una faccia diversa del mondo, ognuna espressione di un’idea o di un fatto completamente slegato da quello accanto, una guerra a destra, una corsa coi sacchi a sinistra […], il giornale del mattino contava inevitabilmente ciascuno di questi fatti tra le sue colonne di inchiostro nero sbaffato, e ogni mattina Ferguson esultava davanti a quel calderone, perché il mondo era così, secondo lui, ribolliva come un calderone, con dentro milioni di cose diverse che succedevano nello stesso momento. (pp. 167-168)

 

Non molto diversa è anche una riflessione successiva di Archie3:

 

Ferguson si era sempre sentito dire da tutti che la vita somigliava a un libro, una storia che cominciava a pagina 1 e andava avanti finché l’eroe non moriva a pagina 204 o 926, ma ora che il futuro immaginato per se stesso stava cambiando, stava cambiando anche la sua percezione del tempo. Il tempo, si rese conto, andava sia avanti sia indietro, e siccome nei libri le storie potevano solo andare avanti, la metafora del libro non stava in piedi. Al limite, la vita era più simile alla struttura di un rotocalco, con i fatti salienti, come per esempio lo scoppio di una guerra o una strage di malavitosi in prima pagina, e le notizie meno importanti nelle pagine successive, […]. Il tempo si muoveva in due direzioni perché ogni passo nel futuro si portava dietro un ricordo del passato, e anche se non aveva ancora compiuto quindici anni, Ferguson aveva accumulato abbastanza ricordi per sapere che il mondo intorno a lui veniva plasmato di continuo dal suo mondo interiore, così come ogni altra persona plasmava con i ricordi la propria esperienza del mondo, e anche se tutte le persone erano collegate dallo spazio comune che occupavano, i loro viaggi nel tempo erano tutti diversi, ragion per cui ognuno viveva in un mondo diverso. La domanda era: Qual era il mondo abitato da Ferguson in quel momento, e in che modo era cambiato quel mondo? (pp. 378-379) 

 

In 4 3 2 1, infatti, più o meno come in un quotidiano, osserviamo dal buco della serratura tutte le crisi e i momenti fondamentali della storia recente statunitense: dall’omicidio Kennedy al Vietnam, dalle questioni razziali alla caccia alle streghe, Auster passa in rassegna più di mezzo secolo della storia americana attraverso le avventure di una famiglia di emigrati. Viene in mente in prima battuta la Pastorale americana di Philip Roth (o anche il Tamburo di latta di Günther Grass, volendo); ma in 4 3 2 1 non potremmo essere più lontani da quel genere di scrittura romanzesca in cui la storia si fa carne viva e deflagra nella pagina, mentre la letteratura spazzola la storia contropelo e la rende oggetto di critica. La scrittura di Auster in 4 3 2 1 è al limite esornativa, mai critica. Gli eventi storici più dirimenti della storia americana e mondiale restano senza eccezione alcuna sullo sfondo; vengono riportati, quasi per dovere di cronaca o per mera occasione di spunto tematico (è questo il caso dell’omicidio Kennedy per Archie1), ma non fanno mai un reale ingresso nel racconto. Quando si parla di storia, il lettore di 4 3 2 1 ha l’impressione di scorrere un bollettino o un atlante cronologico del secondo novecento americano, piuttosto che di leggere un romanzo. La storia non è protagonista e nemmeno comparsa, in 4 3 2 1; è pura tappezzeria.

 

Amore, amicizia, passioni, famiglia, storia, letteratura, scrittura, esordio nella metropoli: 4 3 2 1è un minestrone in cui si rimesta ogni tipo di tematica e di topos letterario, tradizionale e non; insieme con molte delle ossessioni tematiche tipiche di Auster: il caso, il destino, le coincidenze, l’ironia della sorte. Omosessualità, impegno politico, esperienze accademiche di altissimo livello: l’insieme degli Archie(s) quasi esaurisce l’intero spettro delle emozioni umane e delle avventure esistenziali sostenibili in una vita standard di un membro della middle class bianca statunitense. La trama suscita qualche curiosità, è vero. Eppure: in 939 pagine assai raramente si sonda la profondità delle questioni che affiorano. Tutto resta in superficie: traumi psichici, scoperta della sessualità, formazione intellettuale, vengono spesso presentati nella maniera più trita e stereotipata. Emergono e svaniscono quasi senza lasciare traccia. In 4 3 2 1 traspare una vertigine dell’infinito, la smania di voler esaurire il mondo e le sue infinite possibilità attraverso la narrazione; ma anche l’effettiva irrealizzabilità di tale utopia, insieme con tutti i difetti di un racconto che non sembra essere del tutto consapevole di tale meravigliosa limitatezza.

 

4 3 2 1, in poche parole, annoia; ed è questo uno dei suoi difetti principali (la narrazione onnisciente in terza persona, tradizionale, tradizionalissima, non aiuta affatto da questo punto di vista). È troppo, in tutti i sensi: troppo lungo, troppo ricco di troppi argomenti; spesso, troppo banale. Difetta di pulizia, esattezza, concisione. Non richiede granché sforzo da parte del lettore, ma d’altro canto non lo intrattiene nemmeno. È insipido, ridondante, verboso. Non mancano, certo, lampi di bellezza limpida, del tutto austeriani, come il meraviglioso apologo del paio di scarpe (pp. 276-289) o dettagli come il seguente: 

 

[…] notò che Amy non aveva la risata stridula e inconsulta da bambina, ma emetteva una serie di sghignazzi sonori dal profondo – guaiti allegri, certo, ma al contempo pensierosi, come se capisse perché stava ridendo, e questo rendeva la sua risata intelligente, una risata che rideva di se stessa proprio mentre rideva di ciò di cui stava ridendo. (p. 251) 

 

Ma sono bagliori brevi, rari, nascosti. Allora mega biblìon, mega kakòn? Troppo facile, appellarsi al motto neoterico. Per Auster, mi auguro e sono certo, in primis come suo lettore affezionato, che ci saranno altre opportunità; la lunghezza di un libro non è certo il metro più esatto per misurare un capolavoro. Callimaco docet

 

In un’intervista, Auster ha metaforicamente definito 4 3 2 1 uno “sprinting elephant”, intendendo così ironizzare sulla ponderosità del volume e sul suo stile autoriale che consente di dare ritmo e velocità alla lettura del libro; operazione che in effetti non risulta affatto difficile o eccessivamente lunga (in termini strettamente temporali), come ci si potrebbe attendere a prima vista. 4 3 2 1è una sorta di ‘mattone di gommapiuma’, o qualcosa del genere. 

 

Auster ha pienamente ragione: sulle pagine di 4 3 2 1 si viaggia alla velocità della luce. Le parole si sorvolano elegantemente, senza eccessive esitazioni, senza perdite di tempo; tutto è apparentemente semplice, il linguaggio è a dir poco scorrevole. Auster è un maestro della parola e riesce perfettamente nel difficile compito di ‘motorizzare’ il suo elefante per farlo correre quantomeno alla velocità di un ghepardo. Non è poco: solo un grande artigiano della téchne letteraria potrebbe essere in grado di riuscire in cotanto obbiettivo. Eppure, ciò che dovrebbe rivelarsi un punto di forza del libro si dimostra l’opposto. Terzo e ultimo paradosso.

 

Un elefante che corre travolge tutto quello che incontra e al suo passaggio non restano che le macerie di un paesaggio devastato. Per qualche modesto lettore (non è solo una posa), assai più importante di correre è indugiare sulle parole. Per fare jogging sul linguaggio esistono già i social-network, i memes e le chiacchiere da ascensore o da bar. È l’opportunità di una tregua, simultaneamente da e con le parole, che si richiede a un buon romanzo; una pausa per riflettere, per osservare da vicino o da lontano questi compagni di viaggio spesso traditori e sconosciuti che ci ostiniamo ad appellare parole. In definitiva, è questo che davvero manca a 4 3 2 1: uno spiraglio per quel ‘surplus che non è consumato dall’istante dell’azione’ e che l’Adorno di uno dei più esatti paragrafi di Minima Moralia riteneva essere il nocciolo dell’esperienza. Anche letteraria, è lecito aggiungere.  

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Donne, interdetti e prese di parola

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Lasciata brutalmente per mail da un signore che la liquidava esortandola a “prendersi cura di sé”, l’artista francese Sophie Calle ha chiesto a centosette altre donne, più giovani e più vecchie, più e meno amiche, di comprendere per lei che non ne era in grado, di parlare al suo posto, rifacendo quel messaggio come meglio lo suggeriva la professione di ognuna di loro. Da quelle lettere Calle ha creato un’opera, esposta al pubblico alla Biennale di Venezia del 2007: Prenez soin de vous il titolo. L’invito offensivo era stato cambiato di segno, reso corale e rivolto amicalmente a noi tutte.

Sulla presa di parola pubblica da parte delle donne cade uno dei grandi interdetti della nostra cultura. Si comincia con Telemaco che zittisce Penelope: torna nei tuoi appartamenti madre, qui si fanno discorsi da uomini, racconta Omero. Oggi si chiama mansplaining il modo condiscendente e paternalistico con cui un uomo ci spiega qualcosa senza prenderci sul serio. La sostanza è la medesima. #metoo sarebbe finalmente l’occasione per far uscire la nostra parola dai tinelli, dalla posta del cuore, dal salottino dello psicologo, dal cerchio delle amiche in cui viene per lo più spesa, facendo diventare questione pubblica quella prevaricazione sessuale che moltissime di noi hanno conosciuto spesso tacendola, qualche volta confidandola, senza che però mai la privatezza dello sfogo traducesse l’offesa da fatto personale in questione collettiva. Il discorso sulle molestie si riduce infatti tradizionalmente alla casistica delle rivelazioni individuali.

 

Il numero di post e tweet ha reso la denuncia dei soprusi subiti da donne una denuncia di genere che dovrebbe aiutare a riscattare la biografia di ciascuna di noi, guadagnando tutte in autorevolezza. Che stia accadendo proprio questo è però dubbio. Molte delle riflessioni in corso riguardano il carattere prevaricatore di orribili Barbablù: i clichés sono rispettati, la trama è abbastanza nuova. Un ottimo soggetto per un’altra produzione hollywoodiana.

Sotto #metoo sono raccolte le accuse pubbliche di molestie fisiche o psicologiche legate a comportamenti sessuali che vanno dalle avances allo stupro. La ragione di questo discutibile amalgama è che tutti, in scala diversa, mettono la donna nella condizione di essere colei che subisce. Di essere vittima. Questa debolezza è il presupposto da cui partono i corsi contro il sexual harassment che le università americane rendono obbligatori. La loro prima parte è spesso di fenomenologia applicata: è vivamente sconsigliato a un uomo guardare negli occhi chicchessia, ma soprattutto una donna, ed è anche molto sconveniente guardarla dal petto in giù. Da preferire la zona guancia-spalla, garante della pudicizia della conversazione. Segue una parte sulla presa di coscienza dell’abuso: la molestia conta, ma conta di più il tuo stato d’animo. Se tu hai paura, vuol dire che l’altro te l'ha trasmessa. Che il tuo sentire sia compreso istituzionalmente sembra la risposta più degna alla litania dei “Cosa vuoi che sia mai, non ti ha mica fatto niente di speciale!”, prima complice del sopruso. Viene infatti riconosciuto il diritto di temere la prevaricazione che il buon senso ti ha abituato a prevedere, a prescindere dalle intenzioni di chi la eserciterebbe. È però esattamente questa la ragione per cui tale comprensione è più infida di quel che non sembri a prima vista a una schiera di potenziali soccombenti: riconoscere il mio diritto alla paura implica riconoscere che la mia prima condizione di fronte a un uomo è quella di vittima possibile. Peraltro, le ragioni della paura hanno fatto anch’esse morti e feriti: molti erano terrorizzati dalle streghe, che notoriamente non esistono e ciò nonostante sono state mandate al rogo sul serio, e sempre dopo regolare processo. 

 

L’istituzione universitaria si tutela insomma legalmente potendo dire che fa tutto quel che è in suo potere per difendere le componenti apparentemente deboli del suo corpo accademico, le donne, perfino educandole. Avrei preferito facesse presente che non occorre precipitarsi dal superiore a confidare imbarazzi, ma comunicare che si può essere ironiche, imprevedibili e soprattutto intelligenti prima di essere fragili. Prendere la parola, appunto; non: cercare tutela. E però, questa stessa istituzione che mi inchioda al mio stato di minorità proprio nel momento in cui mi vuole difendere, termina il suo corso mostrando l’immagine di una docente in piedi che appoggia in modo paternalistico una mano sulla spalla di un ragazzo, seduto, che le dà la schiena lavorando chino al computer. Una nota a piè di pagina spiega che con l’aumento del numero di donne ai vertici della scala gerarchica è aumentato il numero di denunce di giovani uomini, e di più se ne aspettano negli anni a venire. Me too, dunque, perché la questione non è il genere del potere ma il codice di questo potere, che non è essenzialmente maschile ma nasce maschile perché – come Françoise Héritier ha mostrato – si è configurato storicamente per contenere quello vitale della procreazione, tutt’ora al centro di contrastanti ambizioni di controllo come ha ben descritto Emmanuel Betta nel suo L’altra genesi. Storia della fecondazione artificiale (Carocci, 2012): “sul mio corpo faccio da sola perché posso”, “sul tuo corpo intervengo io perché so”.

 

 

Il machismo come forma di potere che si esprime attraverso l’assoggettamento dei corpi è agito democraticamente dalle une come dagli altri, e coerentemente molto di più sui poveri, i più sottomessi di tutti, come sono le donne africane che tentano di attraversare il Mediterraneo e, quando possono, prendono la pillola anticoncezionale sapendo che verranno violentate. Il sessismo e il sopruso fisico sono però un sintomo e un modo delle relazioni di potere, non ne sono il motore, a meno che non vogliamo giustificarli come un fatto naturale, e rischiano di fornire a queste seconde una maschera efficace per quanto paradossale. È allora necessario lasciare stare il sesso, e parlare del potere. Lasciare stare la morale sessuale paternalistica e incombente, riconoscere che una donna che ammicca non se la cerca affatto e sta senz’altro facendo delle avances come quel signore sconosciuto che mi guarda e offre un caffè per il piacere di farlo, saluta e se ne va. Se anche mi disturbasse, non confonderei la mia confort zone con la mia inviolabilità di persona. Meglio tenerci stretto il piacere della seduzione, incluse le sue manipolazioni, e denunciare l’abuso di potere.

 

Avere una discussione al contempo più mite e più radicale. Non è vero che lui ti soverchia perché – come stiamo leggendo di nuovo – tu sembri disponibile o lui è un porco, perché alle donne in fondo piace essere vinte, perché l’uomo non deve chiedere mai. Lui ci prova perché pensa di poterlo fare. E lei pure. È perché si tratta di potere che quelle donne che molto hanno fatto per non essere seconde e gareggiare alla pari con colleghi maschi oggi si scagliano irritate contro quelle che “in fondo potevano non darla e cambiare lavoro”: si sentono riportate alla loro condizione originaria di nate per perdere, di deboli, di persone destinate a essere forse straordinarie in privato ma mai in pubblico. La grande donna dietro il grande uomo, al più. 

 

Nell’attuale e liberatoria presa di parola pudica, per cui si può dire anch’io senza soffermarsi per forza sul cosa, il come e il quando, non è ancora in gioco una presa di parola pubblica. Attraverso il coro di denunce di donne (note) contro uomini (in vista), che postano su facebook e twitter prima o al posto di andare a un più modesto commissariato di polizia affinché un processo venga istruito e un colpevole individuato, si avanza innanzitutto una richiesta di riconoscimento. D’altra parte, per le prove è ormai tardi. È la rivincita coram populo per una violenza privata. Reclamare l’abuso è qualcosa, ma è poco. Serve a superare il trauma, forse a incidere nel costume, ma non penso basti a cambiare un tipo di cultura. Si parla a molti, ma si parla ancora da sole per attestare quel che si è state, mentre l’accusato, innocente o colpevole che sia – e la differenza resta dirimente – subisce un’onta globale. Rimuovere il nome di registi da locandine di film realizzati è un gesto di antica iconoclastia. È vendetta. Soprattutto: la ragazza anonima stuprata da un illustre signor nessuno ne ricaverà sostegno, o prevarrà il senso di esclusione dal giro dei vip? Non lo so. La presa di parola attraverso #metoo rivela il sistema del potere attuale che rinvia i deboli alla posizione di vittima, e lì li lascia.

 

Anch’io cosa, dunque? Anch’io vittima come te? Anch’io potente come te? O anch’io capace? Mi si dice che io pure, scalata la gerarchia, rotto il soffitto di cristallo, entrata nel club – secondo le metafore vigenti –, sono destinata a esercitare la sopraffazione. È il potere che ti esclude, è il potere che ti porta. Resto insomma vittima di quella stessa violenza, esercitandola. E se io, però, non volessi? In Women & Power. A Manifesto (Profile Books, 2017), Mary Beard, una delle più autorevoli classiciste del nostro tempo, ripercorre tra gli altri il mito di Medea e afferma che se le donne non sono percepite né si percepiscono come pienamente integrate nella struttura del potere, è il potere che bisogna ridefinire, non le donne. L’idea che i potenti siano i leader politici, gli amministratori delegati, i capitani di industria, rappresenta una concezione molto ristretta di che cosa il potere sia, e lo lega necessariamente alla notorietà e al prestigio pubblico che dipende dal possederlo: il potere è un patrimonio di cui pochi dispongono e che pochi detengono. È selettivo ed escludente. Cosa succede se invece lo pensiamo come svincolato dal carisma, come collaborativo, come dipendente da quello di chi ne è incluso e non solo di chi guida, come una competenza e non come un attributo? La capacità di produrre effetti nel mondo, di incidere e fare la differenza, unito al diritto di essere prese sul serio.

 

 È questo il potere che molte donne sentono di non avere, e vogliono. Quando non partecipiamo alla lotta agonistica, non è per fare la calza con animo rinunciatario, ma perché non troviamo necessariamente essenziale solo guidare un governo – le deformazioni del cui esercizio non ci è per altro stato possibile cambiare –. Certo è più facile dirlo ora, quando le condizioni di accesso sono ampiamente paritarie, e comunque più paritarie adesso che in un qualsiasi altro momento della storia dell’Occidente. Resta però che abbiamo anche altre, non minori, ambizioni e un diverso senso del fallimento. Conosciamo poi la debolezza del patriarcato per averlo sostenuto tanto a lungo: quel potere è certo che lo devi avere, ma più ancora te lo devono riconoscere e perciò, come la commedia mostra da sempre, impersonato da uomini o donne che esso sia, è fragile. Malgrado questo, e per quanto nel corso lungo della storia si sia cercato di ripartire i centri di comando a costo di guerre e rivoluzioni, esso è immodificabile nella sua forma. La presa di parola corale di queste settimane potrà portare, e sarebbe bene lo facesse, a più precise prassi di selezione del personale – che di attrici o dipendenti statali si tratti – e a più corretti codici di comportamento, e farà forse, finalmente, capire che no è no – non qui, non ora, non ancora, comunque no. Non è più il tempo della virtuosa Lucrezia violentata da Sesto Tarquinio, cui venne concesso il diritto di parola solo per denunciarlo e annunciare il proprio suicidio. Non cambierà però la forma della relazione di potere che attraverso il sopruso fisico si esprime. 

 

Il vantaggio della pratica del potere di cui sentiamo la mancanza è di essere inclusiva – delle vecchie minoranze come delle nuove e molto maschili –, basata sulla delega e non sulla semplice rappresentanza, rispettosa nel merito e non solo del merito, con un senso lungo del tempo. Maria Montessori, la cui grande ambizione era fare il medico, non poté seguire le lezioni di anatomia perché includevano la vista delle pudenda di cadaveri maschili. Le riservarono lo studio della parte alta del corpo, che per accidente include il cervello. Divenne una dei più straordinari neuropsichiatri del suo tempo. Potere di agire, non di essere; di fare della propria biografia storia. Conosco donne e uomini che lo praticano, che lo ignorano, che lo ibridano. Prenons soin de nous.

 

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Ancora attorno al caso Weinstein
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Per scrivere bisogna andare «fuori tema»

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Alfabeto d’origine. È il titolo che la teorica femminista Lea Melandri ha voluto per un piccolo e prezioso libro (Neri Pozza, 2017) in cui ha raccolto le sue riflessioni sul tema della «scrittura d’esperienza», uno dei punti nodali di una ricerca condotta con tenacia su testi propri e altrui. E uno dei vertici del pensiero politico che ha costruito nel tempo, agendo insieme ad altre donne, leggendo, insegnando (dai corsi delle 150 ore negli anni settanta e ottanta, alla scuola di Affori, alla Libera Università delle Donne di Milano), creando riviste (A Zig ZagLapis) e luoghi d’incontro dove scambiare pensieri, esperienze, ricordi, desideri e ripensare collettivamente le idee ricevute che bloccano il pensiero e dunque ogni ipotesi di espressione autentica. 

           

Coesa come una monografia e tuttavia variegatissima, l’antologia di Melandri copre un arco temporale che va dal 1983 al 2017 e si articola in una serie diversificata di interventi liberi o d’occasione. I primi svariano da alcuni appunti estrapolati da un diario poetico tenuto con la fedeltà ossessiva di un cercatore d’oro a esegesi testuali che somigliano a dei veri corpo a corpo con gli scrittori e le scrittrici che Melandri sente più affini. «I fanciulli, poeti, sognatori» che, come lei, non hanno saputo, potuto, voluto scostarsi dalla materia d’origine sublimandola in ragionamento astratto o semplicemente negandola. 

            

A partire, tra gli altri, dagli scritti di Sibilla Aleramo, Franco Matacotta, Franco Rella, Alberto Asor Rosa, ma anche dalle pagine di autrici ‘non professioniste’ che affidano alla pagina scritta il grumo della loro esperienza di vita (si pensi a Smarrirsi in pensieri lunari della fisica Agnese Seranis o a Pensieri vagabondi di Amelia Molinelli, un diario brut dall’impianto e dallo stile originalissimi), Melandri mette a fuoco una strategia critica e espressiva che si fonda sul rimosso o, se preferite, sull’abietto, su ciò che nella ‘cultura alta’ non ha cittadinanza e dunque è condannato a rimanere in ombra, anzi in una sorta di «sostrato fangoso». 

            

Le pagine di diario, collocate non per caso a chiusura del volume, come ad esemplificare concretamente la forma assunta nel lessico dell’autrice dalla scrittura d’esperienza, sono una selezione distillatissima di pensieri-verso limpidi e penetranti, privati e al contempo universali. Vivere, ammalarsi, sentirsi soli, innamorarsi, sconfinare nell’altro, imparare a rimanere in sé riconoscendo all’altro il suo destino inevitabilmente individuale, godere del cielo, del mare, del dono provvisorio del proprio tempo di vita. Sono i temi che affiorano in queste pagine che invitano a praticare quella «mineralogia del pensiero» messa a tema da Asor Rosa, a ripercorrere non solo la propria storia sociale e di genere, ma la preistoria che la precede, quella penombra che tutte e tutti abbiamo attraversato e che spesso non lascia in noi che mute, indecifrabili e tuttavia indelebili tracce. 

            

 

In una delle pagine introduttive del volume, ancorando la propria autorialità a una duplice, scomoda, identità di genere e classe – donna e figlia di contadini –, Lea Melandri ragiona sul «margine che trattiene le donne alla frontiera della ragione sociale…, sulla fantasia che ha costruito le differenze di genere…, sulla segreta volontà delle donne, reazionarie e ribelli, disobbedienti come Antigone, di appartenere a una preistoria mai raccontata». E, più avanti, interrogandosi sulle «radici della scrittura» all’interno di un ordine ‘scolastico’ che non prevede il corpo e le sue vicissitudini e tantomeno il colore e la temperatura reali delle emozioni e dei sentimenti, postula con disadorna schiettezza un teorema inconfutabile: per scrivere bisogna «uscire da sé o uscire dal mondo». La sola alternativa a questa scelta dolorosa, contrabbandata da secoli come la sola possibile, è saper costruire il «ponte di una trama immaginaria», «restituire alle pagine scritte l’odore di terra e di erba tagliata dopo un temporale», dire di sé per dire del mondo.

            

Quel «si può» liberatorio, che permette di «dare corso a pensieri più aderenti al pensiero di ognuno», si esprime in una scrittura che si inventa senza tuttavia partire da zero, che nasce da uno spostamento del baricentro, da un atto di consapevole posizionamento all’interno delle dualità conosciute, perché «è da lì che bisogna districarla per renderla a noi più propria, vicina, somigliante». 

            

«Quando tento di descrivere il farsi della mia scrittura», afferma Melandri, «penso a una traiettoria che partecipa della chiarezza logica, di un lungo lavoro di concettualizzazione, ma che nel momento di divenire scrittura si lascia distrarreaffondareintrigare da un altrove» (il corsivo è mio). Poiché quell’altrove sepolto in ognuna/o di noi rischia, se tacitato, di rendere esangue o totalmente asservito il pensiero e dunque la lingua, perché non dedurne che è proprio l’atto di distrazione o di affondamento a generare la parola che vale la pena di dire?

 

Concludo con uno dei punti più folgoranti dell’intero libro. In una lezione tenuta all’Università di Bologna il 27 settembre 2014 e qui raccolta sotto il titolo “Per un’educazione portata alle radici dell’umano”, l’autrice, consapevole della ‘femminilizzazione’ e della conseguente ‘devalorizzazione’ del sistema scolastico italiano, rivolge alle donne che insegnano una domanda cruciale: «come vivono questo ruolo di madri-maestre, di donne chiamate a trasmettere una cultura che le ha cancellate, di corpi in scena che devono disciplinare altri corpi, renderli invisibili»?

            

Al di là della querelle ideologica che da noi insiste a inchiodare gli individui a una presunta normalità di genere fondata su binarismi friabili quanto indimostrabili, bisognerebbe infatti chiedersi quanto pesi per «un bambino, un adolescente, maschio e femmina, avere sempre di fronte, negli anni più importanti per la sua formazione, una figura femminile ambigua, perché potente e svilita al medesimo tempo».  

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Ultimo Appennino: strade che si perdono nel nulla

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C’è una pagina calabrese che Ernesto De Martino consegna alla prosa intensa di La fine del mondo, il suo saggio sulla perdita della presenza e la fenomenologia delle “apocalissi culturali” che inasprivano la vicenda umana delle plebi rurali del vecchio Sud contadino fino agli anni del secondo dopoguerra: «Ricordo un tramonto, percorrendo in auto qualche solitaria strada della Calabria. Non eravamo sicuri del nostro itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore. Fermammo l’auto e gli chiedemmo le notizie che desideravamo, e poiché le sue indicazioni erano tutt’altro che chiare gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci sino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: poi lo avremmo riportato al punto in cui lo avevamo incontrato. Salì in auto con qualche diffidenza, come se temesse una insidia, e la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro in fretta, secondo l’accordo: e sempre stava con la testa fuori del finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara: finché quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una “patria perduta”».

 

Il campanile di cui scriveva De Martino in realtà a Marcellinara non c’è; non c’era neanche allora. Probabilmente era quello di un’altra qualche piccola contrada sperduta in questa Calabria di mezzo, sepolta tra le montagne e il mare. In posti demartiniani come Marcellinara ci sono andato più volte, anche per controllare i luoghi, i sembianti, le posture di chi vi abita. Per capire, se e quanto resiste al precipizio dei tempi di adesso, la forza rivelativa di quella pagina. Per avere una misura di come stanno le cose adesso bisogna rivedere i paesaggi, occorre geolocalizzare di nuovo i vecchi punti di vista, capire di quanto risultano sbandati i punti archimedici, e poi anche mettere l’orecchio per terra, ascoltare i suoni, le voci, le assenze; rifare la mappa di luoghi e di nature, di tutto un catalogo di oggetti e cose animate, rispetto a com’erano allora, tra le pagine di quei sui libri carichi di ragione acuminata e di umanissimo pathos. Solo così si può restare fedeli allo sguardo che a suo tempo De Martino aveva gettato su queste terre del rimorso. Solo così si può proseguire oggi, qui e altrove, quella ricerca di senso che a partire dalle resistenze e dai residui dell’arcaico che identificavano il vecchio Sud contadino, avrebbe condotto lo studioso napoletano a indagare il tema infinitamente più vasto e precisamente opposto a queste localizzazioni: il rischio costante della crisi, della perdita di senso presente in ogni civilizzazione, e in particolare in quella europea.

 

La lezione di De Martino parte da pochi fatti ordinativi della realtà che restavano immutati sin dall’antichità: mai far finta di allontanarsi dagli apriori della storia, dal peso variabile del paesaggio e della geografia umana, dalla incolmabile dismisura rispetto all’indifferenza soverchiante della natura che nessuna civilizzazione e nessuna scienza e progresso tecnico riuscirà mai a neutralizzare e annichilire del tutto. La nemesi, l’apocalissi culturale temuta da De Martino in La fine del mondo, consisteva esattamente in questo: «L’annientarsi della presenza è la perdita della cultura, è il risommergersi nella natura, nel completo naufragio dell’umano. O anche: è il non esserci più in una storia umana, è la follia». Il Sud irredento, tre le montagne appenniniche e i latifondi, i villaggi e le marine desolate tra Lucania e Calabria interna, le ridotte sperdute di questi ultimi Appennini, erano lì a raccontarlo questo semplice palinsesto, mille volte ripetuto dalla storia del Sud. Ma adesso?, non è forse accaduto il contrario di quel ragionato storicismo demartiniano?: la fine del mondo oggi è la perdita della natura che nega l’integrità stessa di ogni cultura umana; sostituita dall’esorbitanza eterogenea e spaesante di una sorta di alienazione sovra-culturale e materiale. Ma identico è il risultato di queste nuove apocalissi culturali: il naufragio dell’umano, quel non esserci più di una storia, paventato con l’annientarsi della presenza. La follia che avviluppa la realtà. 

 

Una certa idea della Sila 

 

Col tempo ho identificato per me una certa idea di paesaggio. Specie di quello più prossimo, con i luoghi che mi sento più addosso per motivi di lavoro, di azione, di passione, di vita. Sono i luoghi che ho visto e che rivedo, che attraverso nei mille andirivieni quotidiani che accompagnano le mie giornate e la mia solitaria inquietudine. Una piccola geografia domestica che mi entra negli occhi e scava nel cuore un suo nido, ed è per questo più mia, più vicina. Anche se non smette mai di interrogarmi, di mettermi alla prova e di farsi problema. Sono posti della Calabria e del Sud di adesso. Una specie di precipitato di natura e storia, che sempre più si fa fatica a tenere a bada e a circondare con la mente e con gli occhi. Domìni che fino a un tempo non lontano appartenevano intoccati a un regno di natura solare, spodestato in fretta dall’accellerazione brusca della storia e trasformati dalla marcia in folle dalla mobilità generale, adesso invece sempre di più prossimi al caos, all’indistinto, addossati alla vita della gente che li occupa e ci vive come può.

 

 

Rimettendomi in giro per attraversarla come spesso faccio per una sorta di anàbasi dai margini al centro, abbandonando le coste e addentrandomi nelle sue vaste ridotte montane, ho costruito per me anche una certa idea della Sila. La Sila è davvero una specie di acropoli abbandonata, una ridotta – straniante e talvolta ancora piuttosto verace – del continente Europa. Il suo ultimo confine montuoso emerso in una regione del Mediterreno più meridionale, la Calabria, un tempo tutta ritirata verso l’interno appenninico, assediata inutilmente dalla fascinosa ricchezza e vaghezza del mare odisseo, e oggi invece straripante verso il fuori, gettata proprio sulle sponde trafficate e frastornanti di quel Mediterraneo da cui per secoli questa terra si era ritratta e difesa arrampicandosi in montagna. La Sila impone alla Calabria che non ama guardarsi dentro e discutersi, le leggi elementari e rinnegate della dialettica e degli opposti. Reclama intelligenza e comprensione. È uno stato e un luogo, è Factum e Volumen. La Sila è massiccia, reale, sta lì, resiste e si oppone all’ovvio (il turismo, lo sviluppo, i festival, le monoculture, il malgoverno ect). Fa sua la virtù chiarificatrice di ogni dialettica. Distingue. Tra vuoto e pieno, tra antico e (sur)moderno, tra natura e caos, tra silenzio e casino, tra luce e ombra, tra fuoco e neve, tra il dentro e il fuori, tra bellezza e ripugnanza, tra senso e nonsenso. Ma la Sila è ancora molto altro. E una pletora di rappresentazioni, di racconti, di asserti e di stratificazioni sommarie e più o meno vistose. 

 

A cominciare dalle immagini del passato che la precedono, fino a quelle che oggi la svendono come destinazione turistica a prezzi d’infalzione, come “SilAvventura”. È uno dei simboli della Calabria di ieri e di oggi, la Sila. Lo stemma che identifica la Regione – il gonfalone ufficiale della Regione Calabria è stato promulgato e adottato da non molti decenni – con un certo lusso araldico dispone in uno dei suoi quarti principali il pino laricio, l’essenza tipica dei boschi silani. La conifera simbolo diffusa dalle montagne dalla Norvegia sino ai monti dell’Asia minore, di quella Sila che della Calabria dei bei monti e delle belle selve che diedero pace bucolica dagli antichi versi di Ovidio e al «Calabri rapuere», il breve motto che compare nel famoso epitaffio fatale di Virgilio, è (o dovrebbe essere) un identificativo. Un brand come si dice oggi col lessico superabusato e maldestro del marketing territoriale e del turismo facile facile.

Qualche tempo fa ho saputo di questa storia. Wim Wenders aveva un progetto, un film da fare in Calabria. Non quello sui migranti, commissionato e realizzato anni fa per conto dalla Regione. Un altro, molto più alla Wenders. Aveva scelto le montagne. I boschi. Il silenzio dei mistici medievali. Doveva girarsi in Sila, sull’altopiano silano. Certo in Sila si trovano ancora luoghi in cui si respira quella che un altro tedesco innamorato del Mediterraneo come Nietzsche definiva «un’aria delle cime, un’aria forte». La Sila è come un Finis Terrae che scivola ovunque sul bordo improvviso e mozzafiato di un paesaggio che non ha eguali in asprezze e bellezze, che sembrano essere accoppiate e sparse a casaccio dalla mano di un dio generoso e distratto. Da simili altezze «quanta parte del mondo sentiamo sotto di noi!» (Nietzsche). Altri spiriti eletti del Grand Tour e stranieri di passaggio vi scorsero una prova del sublime kantiano, che è insieme religione naturale e percezione estetica di una bellezza non-umana. Oggi, però, è un’altra cosa.

 

Mi hanno raccontato che a Wenders è bastato un sopralluogo, un solo giro di ricognizione dal vero sui posti in cui in Sila aveva progettato di portare il suo set, e avendoli trovati sfregiati e sconvolti senza scampo, ha cambiato idea. Niente più film, subito abortito. 

Un giorno, per conto mio, ho ripreso le tracce di Wim Wenders, che seguendo i passi di san Bruno di Colonia e Gioacchino da Fiore voleva fare questo film sul misticismo della Sila e sulla sacralità dei boschi e delle montagne calabresi. Sono andato in Sila, in auto, a San Giovanni in Fiore, e nei paraggi. Poi di groppa in groppa più a Sud, nel vibonese, fino alle Serre e alla certosa di San Bruno da Colonia. Io non sono un camminatore, un fanatico della moda del naturalismo en plen air. Dopo un po’ a camminare mi stanco, mi annoio. Io preferisco l’automobile. A guidare e a guardare fuori dai finestrini si guadagna spazio e c’è meno pathos, o è solo che il pathos dei luoghi che attraversi passa più in fretta. Poi in Calabria tutto succede per strada, sulla strada. Solo dalla strada capisci che il paesaggio è in rotazione continua. Soprattutto si consuma, la strada stessa è consumo, e la natura è la prima vittima. Il verde, le montagne, la terra, il blu del mare, l’aria anche, tutto quello che viene toccato dalla strada finisce male. La strada è un’addizione costante, è la storia mai più contenuta, il caos sempre eccedente. Sulla strada il presente è continuo, estenuato, de-naturato, anche se effimero, brutto, sconciato quasi sempre.

 

Da strada a strada certe volte si entra in un’altra geografia. Si attraversano mondi. La geografia in Calabria conta molto, ancora oggi, è un apriori della Storia, come ai tempi di De Martino. E la Sila è un uno di questi apriori: è un carattere, una montagna grande, un quadrato compatto, quasi 100 km per lato. Si può aggirare, ma è impossibile evitarla. È al centro della geografia della parte continentale della regione, così come lo Stretto sta lì in fondo a Sud a farne l’orlo prima che l’ultima terra d’Italia si getti nel mare. 

Sono cambiate le immagini. È l’antipodismo del presente, la sua capriola dialettica a farla da padrone. Oggi la Calabria è una regione rivoltata sottosopra. Le strade per la Sila incominciano, al contrario di un tempo, tutte dal mare, da una costa all’altra, dal Tirreno allo Ionio. Un ramo trafficatissimo della SS18 si trasforma nella 107 Silana Crotonese. È una delle strade cardinali della Calabria di oggi, 138 km di superstrada, la 7° per pericolosità tra le 10 più pericolose d’Italia (dati Anas). Comincia all’altezza di Paola sul Tirreno, si inerpica su per la costa ripidissima, valica le prime cime dell’Appennino e della Catena Costiera, scende fino a Cosenza e poi risale fin dentro il cuore verde della Sila, oltrepassa San Giovanni in Fiore – il paesone informe e arroccato come la cittadella di un’utopia malriuscita che della Sila è la capitale – e infine ridiscende verso lo Ionio, finendo proprio davanti alle periferie arruginite della Pertusola di Crotone. Crotone ai piedi della Sila è diventata la città calabrese simbolo dei guasti ambientali e della lunga crisi della chimica industriale, la Crotone millenaria, l’ex Stalingrado del sud, a cui qualche scadente cronista locale ancora affibbia l’altisonante aggettivo di “pitagorica”. 

 

Mentre guido sulle statali che in Calabria corrono sotto il muro incombente dei monti e a filo del mare, spesso mi giro dall’altra parte, per consolarmi, per riprendere fiato. Le montagne dell’Appennino sono ovunque; sono un muro, una vertigine che si spezza solo sotto le spiagge. Non credo che molti lo sappiano ma la Calabria è una regione subalpina scivolata al 38° parallelo: qui in quasi 300 km di costa corrono le cime più alte dell’Appennino dal Gran Sasso all’Etna. In alto l’osso duro dell’Appennino domina sull’orizzonte marino, sempre. La montagna sta su tutto, si ritrae dal mare come un grosso un leone acquattato, con le zampe immerse nella pozzanghera del Mediterraneo. Il profilo dei monti calabri è come scosso da un’onda sismica gigantesca che resta imprigionata per sempre nel soprassalto delle rocce. Come se gli dei in vena di prodezze sovrumane qui si fossero gettati per terra e avessero avuto un amplesso sconvolgente, furioso, con la Calabria. E questo tremore antidiluviano sembra avere impresso a questi luoghi le stimmate di un commercio elettrico con le energie tettoniche che si manifestano intermittenti e incaute. Un disegno provvisorio destinato a restare per sempre anche dopo la furia generativa, un abbandono scomposto. Solo la Sila, la sua remotissima acropoli di granito, si salva e riposa in mezzo a questo caos tellurico. La montagna visitata dagli dei si impenna bruscamente all’altezza del Pollino, subito dopo le coste e risale come un’onda regolare verso l’interno, verso la Sila, la grande selva. La Sila è strana. È diversa dal Pollino, dalla Costiera Tirrenica, dalle Serre, e da tutte le altre montagne più giù, fino all’Aspromonte.

 

Se attraversi al Sila in automobile, se fai le superstrade che fanno i grossi Tir che sciamano da un capo all’altro dei due mari e gli spedizionieri che hanno la fretta delle consegne nei piccoli paesi isolati, le provinciali dei vecchi bus appannati dal fiato degli studenti dei paesi di montagna e dei lavoratori pendolari fuori dal letto alle prime luci del mattino, se eviti la retorica dell’immersione nel naturalismo della domenica dei cittadini, dei viaggi lenti e delle camminate di salute di quelli che riscoprono la montagna e le beatitiduni delle tre giorni paesologiche, vedi che anche la Sila già non c’è più. Al di là del chiacchiericcio dei politici e degli slogan sensazionalistici delle campagne di promozione turistica, oltre le pretese sguaiate del marketing, ne sono rimaste poche solo poche spoglie disintegrate. Il luogocomunismo delle apparenze silvestri e gli scorci da cartolina, il turismo ecologico, tradiscono. Occorre “vedere”, avvicinarsi e zoomare velocemente, stare dentro e fuori contemporaneamente; camminare con lentezza dentro il paesaggio silvestre, rintanarsi nel folto di un bosco, stare dentro il recinto dei parchi non basta: il mondo scorre ai lati anche in Sila, e non basta limitarsi a ritagliare qualche bella foto o guardare il verde brillare da lontano. Se stai ai lati, per strada, vedi un’altra Sila. Vedi il compendio sparpagliato di un altro mondo, di un’altra Calabria, di un altro sud. Altra Italia. Troppo cemento in giro, anche tra i monti fitti e nelle aree verdi tutelate dal Parco Nazionale della Sila (che si candida a diventare sito Unesco). Troppe superstrade e stazioni di servizio all’americana, troppi abusi condonati e villette in stile alpino, troppi fast food, e capannoni e stalle industriali tra i pascoli, le radure, i boschi e i campi di patate. 

 

Dopo lo storicismo critico di De Martino, ha forse più ragione l’analitica delle figurazioni alla Wenders. «Le immagini non sono più quelle di un tempo. Impossibile fidarsi di loro. Lo sappiamo tutti, lo sai anche tu. Mentre noi crescevamo, le immagini erano narratrici di storie e rivelatrici di cose. Ora sono tutte in vendita. Con le loro storie e le loro cose. Sono cambiate sotto i nostri occhi. Non sanno più come mostrare nulla. Hanno dimenticato tutto», recita un dialogo di Lisbon Story. Forse un film sui mistici medievali calabresi si potrà girare sull’Atlante in Marocco, o in sui Tatra, sugli Urali o in Romania ancora per un po’, ma qui ormai è impossibile. La Calabria desertica e silvestre dell’Urwald che allevò i mistici e i santi medievali è scomparsa, morta. In ogni luogo di natura annichilito dal raggio di morte della contemporaneità, la realtà del mondo brucia nell’impostura delle sue apparenze. 

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