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M5S e le tre direttrici

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Dove va Grillo e i suoi blog

Quello di Beppe Grillo e della Casaleggio Associati è stato dal 2005 un affascinante laboratorio di marketing politico rivoluzionario. Il Movimento 5 Stelle sta sperimentando da anni forme innovative, in cui il nuovo medium della connessione digitale si intreccia con le forme tradizionali o arcaiche della comunicazione e della rappresentanza. È un terreno inesplorato, dove si possono fare (e si sono fatte) grandi scoperte, e si possono commettere gravi errori. Dalla parabola del Movimento 5 Stelle, come dalle parallele vicende di Wikileaks e Cambridge Analytica, abbiamo ancora molto da imparare sugli intrecci di politica e comunicazione.

Il successo elettorale del 4 marzo 2018 ha radici antiche per i ritmi della rete e una storia brevissima se guardiamo all'orizzonte storico dei movimenti politici. Era il gennaio 2005 quando Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio lanciavano il sito beppegrillo.com, probabilmente senza pensare che 13 anni dopo avrebbe assunto un ruolo politico determinante nella fragile democrazia italiana e nelle traballanti architetture della Comunità Europea. 

 

Nella prima fase, le comunità riflessive dei meet up e la personalità carismatica del comico genovese, con il supporto tecnologico e di marketing della Casaleggio Associati, hanno raccolto e dato forma a un profondo disagio politico. Cinque anni fa, l'imprevisto successo elettorale ha dato al Movimento 5 Stelle responsabilità politiche a livello nazionale. Cinque anni dopo, quello guidato da Di Maio è il primo partito a livello nazionale, indispensabile in qualunque assetto politico. 

Guardando la composizione del Parlamento, l'unica coalizione con qualche prospettiva di stabilità a medio termine sarebbe una alleanza tra il M5S e la Lega. In questa direzione è andata anche l'elezione dei presidenti di Camera e Senato. Ancorare il M5S a sinistra grazie al sostegno del PD è impossibile, considerando anche le faide interne che dilaniano quel che resta del glorioso Partito Comunista da almeno vent'anni e lo rendono inaffidabile.

 

Per capire quello che può succedere, è opportuno ripercorrere le recenti evoluzioni delle piattaforme informatiche sulle quali Grillo & Co. hanno costruito il loro successo. Il blog di Grillo è stato per tredici anni il principale strumento del Movimento. Questo portale che svolgeva diverse funzioni: ufficio marketing e ufficio stampa di un comico di successo, piattaforma comunicativa di un movimento politico emergente, comunità virtuale in cui raccogliere i simpatizzanti del movimento, strumento di consultazione, proposta, discussione attraverso i meet up e i seggi elettorali delle Parlamentarie... E inoltre blog/rivista, aggregatore, archivio... Tutto questo convogliava un forte traffico verso il sito, con un notevole valore economico.

 

 

Tutto questo ora non c'è più. O meglio, questa idra dalle cento teste si è scissa, a partire dal gennaio 2018, lungo tre direttrici che corrispondono ad altrettante diverse forme politiche e impostazioni culturali. 

Il successo elettorale ha proiettato il Movimento 5 Stelle verso la tradizionale rappresentanza politica, con le sue necessità di mediazione e compromesso. I dirigenti del partito, Di Maio in testa, si sono assunti la responsabilità di compiere una serie di scelte (necessarie) anche senza richiedere ogni volta agli iscritti di votare e decidere: una classe dirigente che si è auto selezionata ha rimpiazzato il principio “uno vale uno”, anche perché dopo il 4 marzo in Parlamento il partito non rappresenta solo poche migliaia di attivisti, ma quasi 11 milioni di elettori. Tutto questo trova espressione nel sito ufficiale del movimento, e soprattutto nel blog delle Stelle. Sono canali che comunicano la posizione ufficiale e le iniziative politiche di un partito controllato dal suo gruppo dirigente.

 

Una seconda direttrice riguarda invece la dimensione innovativa del movimento, il tentativo originario di innescare meccanismi di democrazia diretta e non rappresentativa. È un modello che ha mostrato molti limiti, ma lascia anche intuire le potenzialità di una democrazia 2.0. Questo vettore si incarna nella piattaforma Rousseau, inglobata nel blog delle Stelle. Ospita la discussione sulle proposte politiche del movimento, con i progetti di legge in Italia e in Europa; presenta un livello “interno”, riservato agli iscritti ovvero agli attivisti, e un secondo livello “aperto”, consultabile da tutti, dove è possibile esaminare le proposte al termine della discussione.

L'ultima dimensione riguarda il “garante” del Movimento. Con una decisione assai discussa sulla stampa nazionale, all'inizio del 2018 il sito personale di Grillo e quello del Movimento si sono separati, anche dal punto di vista della gestione: il primo, secondo alcuni osservatori economicamente assai appetibile, è gestito da una società di Roma, la happygraphic. Il secondo resta affidato alla Casaleggio Associati, che dunque mantiene anche il controllo della piattaforma Rousseau. Fin dagli inizi, Grillo ha dato al suo blog un'impronta fortemente culturale: oltre che pubblicizzare i suoi show, tiene viva la dimensione utopica del movimento, l'idea che una tecnologia innovativa e “buona” possa garantire un radioso futuro all'umanità, superando i limiti del capitalismo predatorio e miope delle multinazionali.

 

Grillo ha dunque abbandonato la maschera del capo carismatico per tornare a indossare quella del profeta: “Sto inseguendo un po' questo futuro che ogni volta che arrivo lui non c'è, va avanti, va avanti. È l'utopia che ti porta ad andare avanti. E con voi voglio farlo tornando al blog come era, nel senso che facciamo interviste, Mohamed Yonus, Stiglitz, Fo, c'erano premi Nobel che ci scrivevano e adesso abbiamo un sacco di interviste, se vedete qui in basso ci sono le interviste di persone che lavorano nei robot, di qua ci sono persone nel hyper-loop, nell'alta velocità, smart city. Abbiamo sistemi di comunicazione meravigliosi che stanno arrivando, come il Li-Fi. Quindi bisogna capire che bisogna essere sempre curiosi, il mio mantra è questo qui, la vita è essere curiosi”, ha scritto presentando il nuovo progetto.

 

Il primo decennio del Movimento è stato trainato da questi due ultimi vettori. Da un lato il sogno di una democrazia diretta e partecipata, inclusiva. Dall'altro il carisma del leader, in grado di offrire visibilità, riconoscibilità e un punto di convergenza. Con i successi elettorali degli ultimi anni, si sono resi necessari meccanismi di delega e rappresentanza, molto simili a quella delle tradizionali forze politiche, anche se in forme fragili e opache. L'imperativo, nelle prime settimane successive al voto, è stato quello della Realpolitik: occupare maggiori spazi di potere, al di là dei principi fino a quel momento sbandierati come irrinunciabili, costruendo compromessi pragmatici con altri attori politici.

 

A decidere il futuro del Movimento 5 Stelle (e dunque del paese) non saranno tanto le beghe interne dei vari leader, o lo scontro tra le presunte anime “di destra” e “di sinistra”. A determinare la dinamica politica sarà il difficile equilibrio tra tre diversi progetti culturali, ciascuno a sua volta sottoposto alle proprie dinamiche. Per quanto riguarda il confronto-scontro con la Lega, sarà prima di tutto una guerra sul piano culturale. Da un lato il capitalismo “sovranista” e produttivo della Lega, che rimpiange il mondo “prima della globalizzazione” (e della rete, in fondo). Dall'altro il post-capitalismo utopistico di Grillo, emancipato dal lavoro, aperto, partecipato, inclusivo. Con un paradosso: il M5S ha trionfato al Sud, ovvero nelle zone economicamente e tecnologicamente meno avanzate del paese, mentre il Nord più produttivo, prospero e dinamico si è affidato al conservatorismo identitario della Lega. Al Nord domina la paura di perdere precari privilegi, veri o presunti. Al Sud vince la speranza di un messianico riscatto, ma attraverso forme di welfare che promettono consumo senza sviluppo. Ma i due progetti hanno alcuni punti in comune, oltre al rifiuto della casta ormai di prammatica: la denuncia della globalizzazione (e dunque il rifiuto dello straniero), la diffidenza nei confronti dell'euro e dei suoi burocrati, una scarsa attenzione alla sostenibilità (si tratti di flat tax o di reddito di cittadinanza), e la volontà di demolire quello che resta della sinistra. Che nel frattempo si è cancellata da sola e continua nel suo trend autodistruttivo.

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Trieste, le foibe e Quarantotti Gambini

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Una storia che continuiamo a scrivere

Pier Antonio Quarantotti Gambini fu uno degli autori più noti del Dopoguerra, caduto nella dimenticanza qualche anno dopo la morte, avvenuta nel 1965. È stata Bompiani nel 2015 a togliere una polvere spessa di decenni dalle sue opere attraverso una scelta, curata da Mauro Covacich. E oggi Mondadori, riproponendo l’opera politica più cara allo scrittore, Primavera a Trieste (pagg. 344, euro 15), con una prefazione di Claudio Magris e un’introduzione di Elvio Guagnini, tra i maggiori conoscitori del capoluogo giuliano dal punto di vista letterario, storico e umano. 

Nato a Pisino d’Istria nel 1910 da una famiglia irredentista di origini nobili, Quarantotti Gambini godette sin da ragazzo della benevolenza di Umberto Saba, Richard Hughes ed Eugenio Montale, che credettero  da subito nel suo talento letterario. “Tu sei fra i giovani,” gli scrisse Saba nel 1930, “una delle poche persone delle quali è lecito sperare un po’ di bene: e la novella che hai scritta (sic) è di questa speranza un’indimenticabile conferma”. Trasferitosi a Trieste a 19 anni, Q. G., come lo chiamavano gli amici, tra il 1929 e il 1932 pubblicò sulla rivista “Solaria”, dietro la spinta di Eugenio Montale, a sua volta sollecitato da Saba, i racconti I tre crocifissi, Il fante di spade e La casa del melograno, che confluiscono nel suo primo volume, I nostri simili, uscito nella collana delle edizioni di Solaria nel 1932. Montale lo recensì entusiasticamente sulla rivista “Pegaso” nel 1933, decretandone il successo di critica.

 

 

Da allora divenne uno degli autori più contesi dalle case editrici e dai “cinematografari”, come li chiamava Roberto Bazlen, fondatore assieme a Luciano Foà dell’Adelphi, che gli fu amico, nonché editor tutta la vita. L’onda dell’incrociatore, il suo romanzo più famoso, pubblicato per l’Einaudi, vinse nel 1948 il premio Bagutta e numerosi film furono tratti dalle sue opere: Les Régates de San Francisco (1960) diretto da Claude Autant-Lara, liberamente ispirato a L’onda dell’incrociatore, La calda vita (1964) di Florestano Vancini, e La rossa rossa (1973) di Franco Giraldi

Giulio Einaudi era così soddisfatto di L’Onda dell’incrociatore che si propose a Quarantotti Gambini come editore unico, senza essere ricambiato nel suo entusiasmo: “Sento il bisogno per temperamento e per quella tranquillità di spirito che mi è indispensabile per il lavoro artistico di sapermi libero, non vincolato. Non pensi che io voglia usare questa libertà: mi basta averla.” Le condizioni si rovesciarono pochi anni dopo, quando l’Einaudi rifiutò proprio Primavera a Trieste. A Torino non piacque la forma diaristica del libro, o forse la casa editrice non amava una presa di posizione così dura contro il comunismo iugoslavo.

 

Primavera a Trieste parla dei quaranta giorni dell’occupazione della città nel 1945 da parte delle forze titine, partendo dal 29 aprile, la vigilia dell’insurrezione di Trieste, avvenuta cinque giorni dopo quella di Milano e della maggior parte delle città italiane. La rivolta triestina fu organizzata dal Cln locale, composto da antifascisti, ma non dai comunisti, una delle tante anomalie triestine, che invece appoggiavano i compagni iugoslavi. I triestini lottarono per tre giorni dall’alba del 30 aprile senza riuscire a scacciare i nemici, che si arresero ai soldati neozelandesi. Radio Londra annunciò che la città era stata liberata da Tito, nonostante i carri armati iugoslavi fossero entrati, a città già liberata, dalla parte opposta rispetto ai neozelandesi e fossero stati accolti senza entusiasmo dalla popolazione italiana e slovena non comunista. Era il prezzo che l’Italia doveva pagare per aver perso la guerra.

Nei quaranta giorni di “reggenza” iugoslava si verificarono esecuzioni sommarie, la cui stima è molto contestata - tra le tremila e le cinquemila vittime -, molte delle quali assunsero la tragica forma degli “infoibamenti”, in cui le persone vennero gettate nei profondi buchi carsici, spesso anche vive. 

In seguito la città fu affidata per nove anni all’amministrazione angloamericana: tornò italiana solo nel 1954, mentre l’Istria venne assegnata alla Iugoslavia. Ne nacque il doloroso esodo giuliano-istriano-dalmata, iniziato già nel 1943 e raccontato in maniera straziante da Anna Maria Mori e Nelida Milani in Bora, recentemente ripubblicato da Marsilio.

 

In quei 40 giorni anche Quarantotti Gambini fu vittima della Storia. Nel 1942 il Municipio di Trieste gli aveva affidato la direzione dell’antica biblioteca civica e la conservazione dell’archivio diplomatico. Per questo suo incarico, acquisito sotto il fascismo, e per il rifiuto da parte di Quarantotti Gambini di prendere la tessera di mobilitato civile dell’esercito iugoslavo, fu oggetto di un’inchiesta che lo costrinse a fuggire prima a Udine e poi a Venezia. Seppe poi di essere stato licenziato con l’accusa di aver ricoperto quella carica “per meriti fascisti”. A nulla valse la lettera che nel dicembre del 1945 Umberto Saba, Virgilio Giotti, Giani Stuparich e Fabio Cusin inviarono ai quotidiani locali “La Voce libera”, “Il Lavoratore” e “Il Corriere di Trieste” in cui difendevano le qualità letterarie e la fede antifascista dell’amico. A nulla valse dimostrare la reciproca stima con il cosiddetto “principe dell’antifascismo” Giulio Einaudi e l’aiuto che aveva sempre prestato agli studiosi antifascisti e a quelli colpiti dalle leggi razziali, cui permetteva l’accesso alla biblioteca fuori dagli orari canonici. A confermare il suo antifascismo mai nascosto, nel 1941, come Saba e la figlia amavano sempre ricordare, Quarantotti Gambini era rimasto con Linuccia nella libreria del poeta per proteggerla dai saccheggi degli squadristi. L’accusa rimase sempre una ferita interiore lacerante per Quarantotti Gambini che, rifugiatosi a Venezia, dal 3 novembre 1945 al 30 giugno 1949 diresse la clandestina Radio Venezia Giulia assieme al fratello Alvise, alla sorella Nike, al padre Giovanni. Duemila ore di trasmissione, in cui si parlava quotidianamente agli italiani dell’Istria e del Quarnaro. 

 

Primavera a Trieste fu dunque il libro più difficile e straziante per l’autore che ripercorreva un momento della sua vita tragico, in cui fu costretto a fuggire da Trieste e a lasciare definitivamente l’Istria onirica dell’infanzia, di mare e profumi, cantata da Giani Stuparich, con una nostalgia lancinante per la bellezza dei luoghi naturali e architettonici d’impronta romana e veneziana.

La stesura di questo scritto politico impegnò l’autore per molti anni: iniziò negli anni Quaranta per uscire nel 1951 anche allora con Mondadori.

L’enfasi con cui affrontava il tema veniva calibrata dall’amico Bazlen, che cercava di raffreddare la sua passione soprattutto nei passaggi in cui, secondo lui, mancava la “giusta distanza”.

 

Quando nei dialoghi c’erano “certi falsi popolarismi … e un impressionismo sentimentalistico che non sono certamente nelle tue intenzioni”, gli spiegava Bazlen spronandolo: “Indurisci il racconto, tenendolo su un tono di pura cronaca oggettiva”. Gli segnalava i tranelli retorici, le “frasi fatte” usate a volte per enfatizzare le lotte nazionali e l’italianità di Trieste. Bazlen, che era anch’egli triestino, sapeva che per l’amico acquistavano quasi un valore sacrale, ma per i lettori avrebbero avuto il sapore “del provincialismo di ottocento superato”. L’editor lo invitò anche a ponderare le sue valutazioni storiche, cercando di fargli capire il punto di vista della popolazione slovena, che non stava dalla parte di Tito: “Per uno slavo dell’Istria, che viveva indisturbato sotto l’Austria… (dopo n.d.r.) le spedizioni punitive dei seguaci dell’avvocato Giunta, fascisti e italiani sono una cosa sola, e sarebbe inumano voler pretendere una distinzione più raffinata”.

 

Un «tragico, asciutto diario di un’intera collettività» di un poeta del mare e della sensualità: così Claudio Magris considera Primavera a Trieste, mentre Guagnini ricorda la città, che fu “primo terreno di scontro della guerra fredda”, come ebbe a dire Geoffrey Cox. Una lettura non banale per capire dove inizia la storia che continuiamo a scrivere anche oggi che i diplomatici russi sono stati espulsi da America ed Europa.

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La voce in una foresta

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Conversazione con Chiara Guidi

È un prezioso libro rosso quasi quadrato, fuori formato, dal titolo lungo e cantante, incantato: La voce in una foresta di immagini invisibili. Lo ha pubblicato Nottetempo, lo ha scritto Chiara Guidi, che fu una delle anime della Socìetas Raffaello Sanzio, con Romeo Castellucci e con la sorella di lui Claudia. Ora hanno dismesso il nome del pittore dalla provocatoria bellezza e pure l’accento sulla ì: sono una Societas, una società o qualcosa di simile, una ditta (quanto fantastica, però). La vena creativa rimane, nelle tre voci, separate. 

Romeo ha appena firmato una regia a Amsterdam. Claudia e Chiara le abbiamo viste riunite da poco per Xing a Bologna con Il regno profondo. Perché sei qui, due clownesche sentinelle beckettiane su un podio, con la parola che ronza, che disloca, disgiunge, cataloga, incrina, domanda, che prova a scalfire di dubbi metafisici sul destino e la volontà una vita condannata, cui ci si può sottrarre solo con un sommesso sberleffo, un rantolo, un inspessimento vocale, un ghiribizzo fisico, un sospiro che incrini l’ordine del discorso. Claudia cerca i piedi di una danza arcaica, originaria, in scansioni che vengono dai versi classici. Chiara attraversa l’infanzia, il non dicibile, l’orrore di fronte al mondo che toglie la parola e la trasforma in stupore, e ricerca con voce, esperienza, corpo, grana, respiro, attraversamento. Di recente l’abbiamo vista nelle Fiabe giapponesi al Fabbricone di Prato coinvolgere ragazzi, attraversare la platea, sprofondarsi nel buio e nei colori di un’antica sapienza nascosta sotto storie e parole fantastiche, sempre in cerca della matericità di una voce che diventa presenza oltre il senso. E così è stato il concerto con il cello e i suoni elettronici di Francesco Guidi, a Teatri di Vita (ma gli spettacoli sono andati in scena anche dalle Briciole di Parma e al Comandini di Cesena). Ora con una nuova avventura ispirata al Macbeth di Shakespeare, da cui trasse qualche anno fa un lavoro meraviglioso, nero, femminile, dà il via all’edizione 2018 di Puerilia, in scena a Cesena fino al 20 maggio. Lo spettacolo inaugurale, il 25 marzo, si chiamava La pietra dello scandalo e coinvolgeva i ragazzi; il seguito del programma potete leggerlo qui. A maggio uscirà, finalmente, un libro che ripercorre la sua sperimentazione con l’infanzia, dedicato al suo teatro infantile, alla scuola a esso dedicato, al più recente “metodo errante” che crea cortocircuiti tra attori, bambini, adulti che li accompagnano nella didattica e nella vita.

 

Il regno profondo, ph. Luca Ghedini.


Torniamo alla Voce nella foresta, al libro rosso. Come dovrebbero fare i bei volumi, è uno scrigno. Un magico contenitore di esperienze filtrate in scrittura, accompagnate in genere nelle pagine a destra di fogli vergati a mano e fotografati riproducenti gli esercizi di voce che hanno dato vita alle riflessioni, agli appunti, alle conquiste documentate. Come tutti gli ottimi esercizi sono misteriosi e pressoché irriproducibili: vedi la fatica, la ripetizione, l’esplorazione, ma non hai fino in fondo le chiavi per riprodurli; come a dire che un buon metodo deve sempre diventare qualcosa di profondamente personale. Hai davanti come un corpo in azione e capisci che perché ritorni vivo devi filtralo nel tuo corpo, nella tua pratica. 

Chiara Guidi, un pomeriggio in treno, ci ha regalato una lunga conversazione sugli argomenti del libro, che si chiude con una lettera, “A te, povero attore”, segnata a mano su un foglio di quaderno e riprodotta in calce. Un invito che si apre così: “Attore, la mia attenzione va innanzi tutto alla tua voce, perché con il suono che genera il palcoscenico possa predisporre il pubblico all’ascolto e interrogarne lo sguardo. Tu suonala prima di entrare nella dimensione della parola e vedere come si articola e a cosa allude! Non nascondere la tua musica nella massa del testo. Non soffocare l’eco con definizioni e circoscrizioni”.

Suonare la voce. Entrarvi dentro e darle fiato, spazio, dimensione, relazione, profondità. Ma ecco la conversazione.

 

Fiabe giapponesi, ph. N. Gialain.


Cos’è la foresta di immagini invisibili nella quale si muove, per te, la voce?

Nel momento in cui sposti un po’ in là il significato delle parole e cominci a sentire che è la voce che le pronuncia, la voce in quanto strumento musicale, allora questa voce ha bisogno di una partitura che non può essere il significato, proprio perché la parola è spostata un po’ più in là e ha bisogno di una scrittura che non può essere fatta di segni tipo i neumi medievali, ma devono essere immagini. Quando iniziammo, nei primi spettacoli della Raffaello Sanzio, riuscivo a raffigurarmi il cammino della voce attraverso vettori, in alto, in basso, o con piccoli gorghi. Poi con il passare del tempo mi sono resa conto che c’era un’organicità che la voce poteva assumere e anche una forma fisica che poteva rimandare la voce analogamente a forme della realtà… che so, una voce velluto… una voce vetro… Mi sono resa conto che sulle parole che vengono pronunciate si sovrappongono immagini e che la voce cammina appoggiandosi sulle parole, vedendo queste immagini, che costituiscono una foresta. La voce è una foresta di immagini invisibili che la guidano nella pronuncia.

 

Che cosa è? Un fatto di timbro, di tono, di intensità?

È un fatto di timbro, tono, intensità e di spostamento, come il suono di uno strumento musicale. Non dici la parola in base al significato ma in base al suono che la voce pronuncia, perché essa può con la propria inflessione influenzare, cadenzare il significato, sottolinearlo, renderlo ancora più espresso. E questo è proprio del teatro. “Ah, sono morto”: un attore può dirlo in cento modi, è come suonare la parola. Come Rossini, nella Petite messe solennelle, nello Stabat Mater, non è mai troppo cupo.

 

Suonare la parola in questo modo ti porta lontano dal significato puro e semplice? 

Oppure scopri attraverso questo significato musicale della voce l’essenza sonora della parola, che restituisce, poi, un significato. La fatica del libro è il tentativo di spiegare un processo di lavoro personale, intimo, nascosto, che a volte ha bisogno di essere simboleggiato in segni astratti, perché non c’è nessun tipo di relazione tra la voce e i segni per identificarne gli spostamenti. Non è un libro di esercizi: è semplicemente il tentativo di addentrarsi con le parole dentro quel processo che permette alla voce di poter sostenere il peso della parola nella propria bocca e portare quella parola al di fuori del dominio della ragione. La parola è leggibile e illeggibile e la voce con la sua musica trasferisce il concetto non sul piano della rappresentazione ma su quello della manifestazione, perché è musica. La musica non ti fa vedere niente: ti fa piangere. È il gioco dei timbri e dei toni: negli spettacoli spesso cambio timbri e toni e ciò permette di destare l’attenzione con un trabocchetto sonoro.

 

A un certo punto scrivi che la voce è come un vento staccato da te…

Sì, perché la voce mi riconduce continuamente al respiro. Quando recitiamo spesso dimentichiamo che c’è il respiro, che è come un fluido che porta la parola e contiene già una presenza. È come un vento che ti trascina, come quando entri in una partitura, in una sinfonia, e ne esci solo all’ultima nota. Il teatro non è letteratura, non è sudditanza a un testo. Se metti l’accento sulla voce le parole diventano mondi di possibilità interpretativa. Mondi in potenza. La voce suona, è un monstrum, pura come Liszt che suona Petrarca.

 

Tavola del libro La voce in una foresta di immagini invisibili.


Quindi per te l’attore è un musicista?

Mio intento è ricondurre il teatro alla sua identità originaria che è musicale. Il testo come nell’antichità deve essere legato alla metrica, e quindi alla scansione ritmica. Noi di solito eliminiamo un passaggio fondamentale del ritmo, che è il silenzio, la durata del silenzio, che ha un disegno. Come fai a tenere una pausa lunga se non ha un disegno, pari almeno a quello che usi per pronunciare le parole? Io parlo di vento perché ho la sensazione che la voce sposti tra me e il pubblico una massa di aria che prende diversi colori, diverse accentuazioni. Il problema non è spiegare la parola: è suonarla.

 

Mi sembra che a un certo punto parli della voce come di un metodo per domare il teatro.

Il teatro si può affidare non solo alla consolazione di una trama e alla fedeltà a un testo: a esso è chiesto di ritornare a quella preistoria acustica che ha portato lo stesso Shakespeare a comporre le sue opere scegliendo delle parole e componendole in un intreccio. Dante sa bene l’orientamento, dove andare, ma si dà la regola dell’endecasillabo e dentro quella griglia sceglie le parole per la loro preistoria acustica, perché suonano bene là dentro. È un problema di tagli, di cesure, di finire la frase, di completare la metrica, spingerla nella frase successiva... Non c’è il problema della psicologia del personaggio, ma che due personaggi completino l’unità di misura metrica. Perché è poesia. E la poesia non è significato. La voce spinge a vedere in ciò che è leggibile l’illeggibile, perché tu quando stai poco bene cambi il suono di quello che dici e io capisco il tuo malessere dal timbro della tua voce, mi metto in ascolto, suono, capisco. 

 

A proposito di fisicità della voce, nel libro racconti di un urlo che hai sentito sul molo di Cervia, un giorno, un grido di disperazione di una madre che aveva perso la figlia.

È la parte del libro che mette a fuoco alcune scoperte per poter arricchire la gamma sonora dello strumento musicale voce. La bocca dell’attore è caos, è una voragine. A lui spetta la scelta del dire e l’opzione tra un timbro o un altro è una scelta del modo di suonare. Alla fine del libro c’è una lettera all’attore, che prova a mettere a fuoco una visione. Scegliere se essere uno strumento o un altro, o se stare in equilibrio tra varie possibilità è un orientarsi in una gamma espressiva. 

 

Tavola del libro La voce in una foresta di immagini invisibili.


L’attore quindi è un compositore o un esecutore?

Io sono figlia di un teatro di compagnia: ho bisogno di una linea di regia che regga la messinscena di un lavoro, sento la necessità di un attore temperato dalla luce, di una luce temperata dalle azioni, di un’armonia, di un organico. L’imitazione serve all’attore per ampliare la gamma espressiva in modo tale da avere a disposizione più possibilità per la creazione, per il significato.

 

Stiamo parlando di una dissoluzione o di un’amplificazione dei significati?

Forse è più giusto parlare di un segno che non dice né nasconde ma indica, senza spiegare. Opera un silenzio del senso che ti obbliga ad accettarti e ad aspettare che tale senso si manifesti o che tu riesca a coglierlo. Non si appoggia sul riconoscimento della trama. Al pubblico è richiesto di riconoscere quel suono. Non è la voce la musica ma questa connessione, un procedere non per sintonia ma per differenza.

 

Cosa è per te il lavoro su Dante?

Il suo poema non si può toccare, non se ne può sottrarre una parola o una parte. Lo sforzo è trovare il suono della voce unito al suono del verso. L’attore di solito si pone il problema di come interpretare il significato, con quale struttura psichica, con quali sottotesti emotivi. La voce si serve di immagini invisibili rispetto alle parole scritte.

 

Esercizi su Dante, ph. Pietro Castellucci.


Tu dici che la voce diventa catena di consonanti, che un suono viene generato da un altro suono, in una generazione continua, basata sulla pratica, sul farsi risuonare la voce… Il libro è anche un cammino autobiografico nelle tue ricerche sulla voce.

Nasce da un percorso lungo molti anni, attento al processo anziché agli oggetti finali. Gli spettacoli per me sono processi aperti, in un tormento della forma che è esercizio quotidiano, a casa, in ogni ora della giornata, alla ricerca dei suoni nascosti che l’attore deve indossare. La voce è un’ottica. Io guardo il mondo attraverso la voce e l’infanzia, collegate per la loro evanescenza: la voce non ha consistenza, l’infanzia, l’in-fans, non ha linguaggio. Entrambe non stanno sotto i grandi riflettori e non si avvalgono di processi consci. La voce vive nascosta, sotterranea: tu non senti la voce, senti la parola, ma devi lavorare sulla voce per sollevare le parole dal libro e farle camminare. Un altro elemento lega voce e infanzia: la narrazione. Raccontare è come ripetere esperienze, educare. La voce degli insegnanti spesso è al servizio della logica, mentre deve riscoprire la voce e il silenzio. Quando recito cerco di creare il vuoto, uno spazio di assenza per garantire la possibilità di attesa. Se riempi, riempi, non hai più nulla da aspettarti.

 

A te, povero attore!


La lettera agli attori?

L’ho scritta nel marzo del 2015, mentre lavoravo al Macbeth. Chiede all’attore di prendere in mano la propria voce, come il danzatore fa con le parti del proprio corpo. L’attore deve conoscere il proprio corpo e sapere qual è il punto di attacco della propria voce. L’intonazione giusta può derivare da un gesto che nessuno vede. Ecco la foresta di immagini invisibili. Esiste e non si vede. È come un direttore d’orchestra che dà la temperatura giusta, perché la voce riscalda. Come il fiato degli animali riscaldava il piccolo Gesù.

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Conversazione con Chiara Guidi
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Facebook-Cambridge Analytica

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Sul caso Facebook-Cambridge Analytica si è già scritto molto, anche qui su Doppiozero. Giovanni Boccia Artieri in particolare, è intervenuto con un contributo lucido e provocatorio:

 

“In questo senso il caso Facebook-Cambridge Analytica non ci dice che “il Re è nudo” ma ha piuttosto scoperchiato un vaso di Pandora da cui stanno uscendo i mostri che l’accelerazione della vita connessa associata a un’economia neo-liberale ha generato. Un insieme di problemi reali che abbiamo cominciato da poco a trattare come ossessioni collettive di cui parliamo molto ma che non si traducono in comportamenti comuni o in regolamentazioni applicabili”

 

Boccia Artieri coglie giustamente il nodo centrale di questa vicenda, ovvero “l’accelerazione della vita connessa associata ad un’economia neo-liberale”, sul quale torneremo tra poco.

 Se ci fermassimo a ispezionare questa vicenda con una lente micro, coglieremmo soltanto un aspetto minore, ovvero il tentativo di un’agenzia di comunicazione e marketing politico di interferire nei processi democratici di un paese come gli Stati Uniti, usando tecniche “innovative” (in realtà la segmentazione psicografica delle audience risale agli anni settanta, almeno). 

Se rimaniamo su questo piano di analisi, ci troveremmo impantanati a discutere di quanto queste tecniche “innovative” - la segmentazione psicografica degli elettori americani - siano state legittime ed efficaci. Eppure non è questo il dibattito interessante, anche perché sull’efficacia di queste tecniche lo scetticismo è alto (vedere questo articolo di Wired, “The noisy fallacies of psychographic targeting”). 

La narrazione di quanto sia ampia e reale l’interferenza nei processi democratici americani e quale sia il ruolo di Cambridge Analytica e Facebook, non è il dibattito più interessante.

 

Gli Stati Uniti hanno una lunga storia di tentativi di interferenza dei processi democratici di molti paesi (Sudamerica, sud est asiatico...), così come la Russia ai tempi dell'URSS. Tutti questi tentativi, nel corso del tempo, sono sempre passati dall'uso "strategico" dei mezzi di comunicazione (che oggi va sotto la voce "Public Diplomacy"), un tempo analogici ed oggi digitali. Non c'è niente di nuovo in questo. La novità è che questa volta sono gli Stati Uniti a subire un tentativo di interferenza significativo. E Facebook è l'utile idiota di turno attraverso il quale questi tentativi hanno avuto modo di agire. 

 

Il problema delle interferenze semmai è molto più complesso di come lo raccontano da un anno a questa parte i media. Andrew Chadwick, professore di comunicazione politica alla Loughborough University, in un libro che è un capolavoro di profondità analitica sull’effetto congiunto di vecchi e nuovi media sulla politica contemporanea (The Hybrid Media System: Politics and Power), lo riassume così:

“L’opinione pubblica post-elezioni si è convinta che il governo russo ha sviluppato il potere di intervenire in un'elezione americana. Ma quel potere non derivava dalla posizione del governo russo come attore unico che esercitava la sua influenza nel sistema internazionale; né derivava da una diretta infiltrazione del processo elettorale. Invece, il potere di interferire in un processo democratico è emerso diffusamente e indirettamente, da un network di attori con motivazioni diverse, attraverso il quale quel potere poteva fluire ed essere utilizzato per attraversare il confine degli Stati Uniti. Si tratta di un insieme di fattori, che va da sistemi laschi di sicurezza informatica, server di posta elettronica, database, siti web falsi, reti segrete di hacker, fragilità umana, azioni di governi esteri, logiche commerciali dei media. Tutto questa intricata rete di attori ha creato nuove e sorprendenti vulnerabilità per la democrazia americana.”

 

Cambridge Analytica è solo un piccolo pezzo di un puzzle più ampio, che restituisce una nuova configurazione del rapporto tra stati, attori politici, media e potere. Il problema non è Cambridge Analytica in sé, ma, come ricordava Boccia Artieri, “i mostri che l’accelerazione della vita connessa associata a un’economia neo-liberale ha generato”. Tradotto: come è possibile che Cambridge Analytica ha avuto accesso a questi dati? Qual è il contesto politico-economico che ha reso possibile questo leak di dati?

 

 

È questa la lente macro che bisogna applicare a questo caso per comprenderne le conseguenze, che vanno oltre la possibile interferenza delle elezioni del 2016.

Il macro problema che il caso Cambridge Analytica-Facebook ha scoperchiato come un vaso di Pandora, è appunto l'economia politica di Facebook e delle piattaforme digitali di tipo commerciale. Per una volta sono d'accordo con un tweet di Eugeny Morozov: "To think that the problem in this whole debacle is Facebook’s business model is to think that subscription fees - the only non-advertising alternative -would be better. The real problem here is the *absence* of non-corporate, alternative infrastructures for organizing our lives." (“Pensare che il problema in questo dibattito sia il modello di business di Facebook è credere che un modello ad abbonamento – l’unica alternativa alla pubblicità – sarebbe migliore. Il vero problema qui è la totale assenza di infrastrutture alternative a quelle corporate, commerciali, per l’organizzazione delle relazioni sociali”)

 

Il macro tema che questa vicenda porta alla luce è che in un ecosistema digitale in cui le nostre relazioni vengono mediate soltanto tramite piattaforme commerciali proprietarie, che accumulano miliardi di dati personali nelle mani di pochissime persone, cittadini e consumatori non hanno alcun potere di controllare/gestire i propri dati digitali, quegli stessi dati che, come riporta Slate, “erano stati usati da Obama nel 2012 per segmentare i propri potenziali elettori utilizzando software che funzionavano al di fuori di Facebook e che si nutrivano di dati Facebook. Era un problema allora. È un problema ora. Ma nel 2012, la storia di Obama era una storia di speranza, e i modi tecnologicamente avanzati della sua campagna erano oggetto di ammirazione".

 

Quindi ora vi chiedo: cosa non ci piace di questa storia? 1) Che a fare un uso "manipolatorio" dei dati sia stata una potenza straniera o lo stesso Trump? 2) O non ci piace invece l'uso in sé? Se scegliete la prima, allora però vi faccio una domanda ulteriore: se i dati dei cittadini americani su Facebook li usa Obama per la sua campagna va bene, se lo fa Trump no?  Ecco allora che avrete capito da che parte sto. Io direi la seconda.

 

Se siamo d’accordo che Facebook dovrebbe salvaguardare i nostri dati con più cura e non permettere che finiscano nelle mani di governi stranieri, hacker o agenzie di comunicazione, allora saremo d’accordo con il fatto che è giunta l’ora di regolamentare Facebook e le piattaforme simili, perché da sole non lo faranno mai, come sostiene il New York Times: “non possiamo credere che Facebook si auto-regolerà”.

Il vero problema è il monopolio delle piattaforme digitali in sempre più ambiti della vita sociale (questo è il tema di una giornata di studi che, insieme a Che Fare, organizziamo presso l’Università di Siena, il 16 aprile 2018, qui il programma, aperto al pubblico)

Ma da qui discende una domanda complessa: Come regolare Facebook e gli altri? Cosa significa “regolare” Facebook? 

Finalmente, in tutto il mondo, l’opinione che queste piattaforme vadano regolate e non lasciate all’auto-governo, sta diventando sempre più diffusa. Dal 2016 in poi, il partito che chiede una qualche forma di regolamentazione delle piattaforme digitali commerciali si va ingrossando. Eppure quest’onda arriva da lontano. Le tipologie di regolamentazione proposte sono diverse, ma molte si ispirano all’idea che queste piattaforme siano dei monopoli naturali, come l’acqua o le strade, e che debbano essere gestite dallo stato:

 

Già nel 2012 negli Stati Uniti qualche editorialista parlava di nazionalizzare Facebook (Slate, agosto 2012, “Facebook should be nationalized to protect user rights”). 

Su Salon, l’8 luglio del 2014, un altro editorialista proponeva di nazionalizzare Google e Amazon, che si fondavano su tecnologie finanziate tramite fondi statali.

2015 – Su The Week: “Why we should just nationalize Facebook”.

Nel settembre del 2016 Nathan Schneider sul Guardian propone, al posto della nazionalizzazione, la trasformazione di Twitter in cooperativa di proprietà degli utenti e il 4 novembre dello stesso anno lancia una campagna per chiedere a Twitter di trasformarsi in una cooperativa. La campagna riceve una vasta eco globale.

Verso la fine del 2017 esce anche un articolo sul New York Times, “We Can’t Trust Facebook to Regulate Itself”.

Per ultimo arriva Nick Srnicek, ricercatore del King’s College di Londra e autore di Platform Capitalism, che sul Guardian, sostiene che bisogna nazionalizzare Facebook, Google e Amazon.

Come leggiamo da questa breve rassegna cronologica, il tema di come regolamentare le piattaforme è sul tavolo già da qualche anno e solo il caso più recente delle elezioni americane ha spinto l’argomento in cima all’agenda politica internazionale. 

Gli opinionisti si concentrano su Google, Twitter, Facebook, Amazon, ma altre discussioni minori affrontano gli stessi temi per Airbnb, Uber, Spotify.

E le soluzioni proposte oscillano sempre all’interno delle tre dimensioni di cui sopra: media di servizio pubblico (nazionalizzare Facebook); media civici o comunitari (cooperativizzare Twitter) o media privati, ma regolati.

Ma, invece di utopiche nazionalizzazioni di Facebook, propongo di iniziare a parlare di “pluralismo di piattaforma”, un’idea nata da una discussione collettiva sulla “democrazia minima”, un forum organizzato da Fondazione Feltrinelli l’8 marzo 2018 a Milano, il cui tavolo al quale ho partecipato era guidato da Giovanni Boccia Artieri.

 

Cos’è il “pluralismo di piattaforma”?

In un ecosistema dove social media come Facebook e Twitter si estendono così tanto da rappresentare quasi i confini di Internet e dove le persone usano queste piattaforme per crearsi/alimentare opinioni politiche e di consumo, queste piattaforme non possono più nascondersi dietro la scusa di non essere degli editori. L’algoritmo di Facebook svolge ruoli di gatekeeping forse più potenti dei gatekeepers (i giornali) tradizionali e i suoi moderatori precari pagati due lire in giro per il mondo, censurano contenuti sulla base di regole di comportamento che assomigliano più alla gestione di una discoteca che assolda una security privata di buttafuori, piuttosto che a dei giudici imparziali che agiscono secondo regole condivise dalla comunità.

In questo ecosistema, che, come sosteneva il NYT, si regolerà solo se qualcuno gli imporrà di farlo, il pluralismo di piattaforma (platform pluralism, suona meglio) potrebbe essere un principio in grado di ispirare le future forme di regolamentazione delle piattaforme digitali e che potrebbe essere articolato in vari modi. In particolare, potrebbe agire lungo tre direttrici: 1) vincolare le piattaforme commerciali a maggiori vincoli di trasparenza in materia pubblicitaria; 2)  abilitando il più possibile l’emergere di future piattaforme non corporate e 3) regolando fortemente il controllo che i cittadini possono esercitare sui propri dati, una sorta di Habeas Corpus digitale (che il Parlamento Europeo ha già proposto nel 2014) che Stefano Rodotà chiamava “Habeas Data” e che, se fosse stato ancora vivo, avrebbe sicuramente partecipato a questo dibattito con contributi molto più brillanti, lucidi e profondi dei nostri.

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Antonio Machado. Viandante, non c’è cammino

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Caminante no hay camino. Viandante, non c’è cammino […]. Il verso di Antonio Machado ha lasciato la poesia alla quale apparteneva per andarsene nel mondo, insomma per camminare, a sua volta, lungo quei sentieri dove prende forma, e ritmo, un sapere, o una sapienza, della vita: l’esperienza del cammino non come movimento progressivo verso una meta, né come relazione visibile della partenza con l’arrivo, e neppure come piacere per il tratto già compiuto e ansia per quel che resta da percorrere, ma soltanto come esperienza tutta interiore di una condizione, che è insieme uno stato di sospensione e di conoscenza, e dunque come figura dell’esistenza umana stessa. Il verso appartiene a una poesia della raccolta Campos de Castilla, del 1912, in particolare alla sezione Proverbios y cantares (la poesia è indicata con il numero XXIX). Ecco la poesia in spagnolo, seguita da una mia traduzione in italiano:

 

Caminante, son tus huellas

el camino, y nada mas;

caminante, no hay camino,

se hace camino al andar.

Al andar se hace camino, 

y al volver la vista atrás

se ve la senda que nunca

se ha de volver a pisar.

Caminante, no hay camino, 

sino estelas en la mar.

 

Viandante, sono le tue impronte 

il cammino, e niente più, 

viandante, non c’è cammino, 

il cammino si fa andando.

Andando si fa il cammino,

e nel rivolger lo sguardo

ecco il sentiero che mai 

si tornerà a rifare.

Viandante, non c’è cammino, 

soltanto scie sul mare. 

 

“Caminante, non hay camino”. Traducendo, diversi anni fa, ero incerto se rendere quel “caminante” con un’allocuzione: “Tu che sei in cammino, non c’è cammino”. Questo sia per dare rilievo con la voce cammino all’atto stesso del camminare, sia per sottrarre l’immagine alle varie declinazioni romantiche del wanderer, appunto del viandante (ma sul wanderer ci sono le due liriche bellissime di Hölderlin, la seconda rifacimento ampio della prima, versi densi di riverberi e di possibili trasvalutazioni metafisiche, soprattutto nella parte dedicata al tempo del ritorno).

 

Liberare il cammino, come fa Machado, dalla sua dimensione fisica e visiva, per farne una figura precipua dell’interiorità, è possibile proprio in una cultura come quella spagnola che ha nella sua mitografia due grandi rappresentazioni, sorgenti a loro volta di molte interpretazioni e variazioni filosofiche e narrative: l’hidalgo don Chisciotte della Mancia e il pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Il cammino di Alonso Quijano diventato il Cavaliere dalla triste figura, è, di stazione in stazione, di avventura in avventura, l’affermazione di un’alterità fantastica, ideale, irriducibile alla convenzione, che fa deflagrare il sempreguale, la ripetizione, la concretezza del visibile e del tangibile. In quel grande romanzo non è la direzione verso una meta a generare fantasmagorie, ma il cammino stesso, inteso come tempo e spazio dell’accadere. Quanto all’altro cammino, quello verso Santiago, esso era, prima che il costume e il cosiddetto turismo culturale ne dilatasse e disperdesse il senso, un esercizio che univa il percorso sul sentiero e nel paesaggio con l’itinerario spirituale che portava verso la purificazione: figurazione corporea della medievale cristiana peregrinatio. Paradigma che presiede alla Commedia di Dante, il cui verso d’incipit nomina appunto il cammino: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. 

 

Opera di Hiroyuki Masuyama.

 

Del resto, una filigrana di ascesi, un esercizio di distacco dagli affanni del mondo perché lo sguardo possa rivolgersi al teatro della propria interiorità ha a lungo accompagnato la figura del cammino: si pensi alla lettera nella quale Petrarca racconta l’ascensione al monte Ventoux in compagnia del giovane fratello, che è insieme descrizione del cammino e interrogazione di sé (il poeta porta infatti con sé le Confessioni di Agostino, che apre quando giunge in alto). Molteplici sono le connessioni del cammino con la cura di sé o con l’attivazione di un pensare che sia in accordo con il ritmo del passo (quella che Valéry chiama “reciprocità tra la mia andatura e i miei pensieri”): nel mio libro sull’interiorità (Il cielo nascosto) non potevo non dedicare un capitolo alla figura del cammino. 

 

Machado nel verso “Caminante no hay camino” allontana la storia, e le storie, che fioriscono nel tempo e nei luoghi del pellegrinare – il narrare favoloso, dal picaresco al devozionale che nasce proprio nelle soste del viaggio e alimenta il romanzesco occidentale – per dare rilievo a un movimento che è percezione dell’essere in cammino, da sempre e per sempre in cammino, cioè in una condizione che è raffigurabile bene dall’esilio: stato di lontananza anzitutto interiore, di spaesamento e sradicamento, di sospensione e desiderio aperto e incolmato, come quella che sarà nei particolari interrogata da Maria Zambrano (eccoci ancora nella cultura spagnola), o da scrittori dell’esilio come Edmond Jabès. Costui sottrarrà l’erranza sia al rimpianto dell’origine sia alla speranza della meta, per farne invece la soglia di un interrogare incessante: apertura costante della domanda, invece che replica del senso, o quiete di un approdo.

 

Ricordo che quando per Feltrinelli tradussi di Jabès Le livre de la subversion hors de soupçon (Il libro della sovversione non sospetta) la copertina più appropriata – parlandone anche con l’autore – sembrò la riproduzione di un’opera di Antoni Tàpies, l’artista spagnolo che nella sua ricerca ha dato forma alla cancellazione, colore all’abrasione, segno materico alla mancanza e allo spaesamento (molto bello il dialogo che Tàpies ha intrattenuto a lungo con un suo amico, José Ángel Valente, il quale a sua volta, oltre che poeta di grande tensione immaginativa e speculativa, fu il traduttore spagnolo di Jabès). 

A proposito del legame tra il cammino e l’esilio: un bravo interprete musicale di Machado, Joan Manuel Serrat, quando nel 1969 cantò, tra diverse poesie del poeta, i versi di Caminante son tus huellas sopra citati, li unì ad altri versi sull’esilio, in una canzone che comincia: 

 

Todo pasa y todo queda,

Pero lo nuestro es pasar,

Pasar haciendo caminos,

Caminos sobre la mar.

 

Tutto passa, tutto resta, 

ma il nostro è un passare, 

un passare battendo sentieri,

sentieri sopra il mare.

 

Per Serrat dire di Machado e del “caminante” voleva dire pensare all’esilio, a Machado stesso in esilio (il poeta, sostenitore attivo della Repubblica spagnola, dopo la caduta di Barcellona il 26 gennaio del 1939 e la fine dell’esperienza repubblicana, dovette attraversare il confine e andare in terra d’esilio, dove dopo meno di un mese morì). 

 

Potremmo ora sostare un momento sulle huellas, le impronte del verso di apertura, e sulle estelas, le scie del verso di chiusura. Le impronte, nient’altro che le impronte: questo il cammino. Esse dicono il passaggio, ricordano che siamo passaggio, cioè segno che insieme dice quel che è accaduto e annuncia la sparizione di quel che è accaduto. Se di qualcosa le impronte testimoniano, esse testimoniano del transito: esposte al vento della cancellazione, la loro forma è un fragile gioco dell’apparenza, appartengono al mostrarsi e nascondersi della terra. Ma quelle impronte sono le tue impronte. Anche quando sulla sabbia del deserto sono subito cancellate dal vento, esse ti appartengono in quanto già state. Il cammino è questo tuo offrire un segno alla sparizione. Camminare è stare nella bellezza, e nel fuggitivo lampeggiare, della sua apparizione. Delle immagini che nascono da questa consapevolezza, si alimenta la poesia di Machado.

Sulle estelas. Non c’è cammino, soltanto scie sul mare. Anche il mare, come il deserto, più ancora del deserto, si prende il passaggio, lo sottrae alla vista, lo cancella. Ma le scie sono il segno di una presenza: questa presenza è la vita stessa, una scia, una sequenza di scie, che presto si ritrae confondendosi con un’onda più grande. E questo mare che chiude la poesia e che si spalanca dinanzi alla vista interiore – come accade nella più nota poesia leopardiana, L’infinito– invita a spostare lo sguardo verso la lontananza estrema, sul confine tra il visibile e l’invisibile, sull’orizzonte che è oltre il nostro stesso vedere, oltre il nostro cammino. 

 

Dalla soglia del verso “Caminante, no hay camino”, possiamo muovere verso tutta la poesia di Machado, a cominciare da Soledades, seguire il meraviglioso accordo tra il vedere e il sentire, ascoltare le modulazioni pensosamente musicali dei versi, e avvertire come il dolore cerca di salire verso la parola, farsi parola. 

Dopo la lettura di Machado, ciascuno porterà con sé qualche verso che, come accadeva per i detti memorabili presso la sapienza antica, gli farà compagnia lungo il cammino. Tra i versi del poeta che da molti anni mi risuonano spesso nella mente ci sono tre versi pronunciati da un “caminante” nella notte: “Está en la luna /el alma de la tierra /y en los luceros claros”. Versi che ho tradotto, un po’ liberamente, così: “È nella luna l’anima della terra /e nel chiarore delle prime stelle”.

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Intervista a mia madre sul Sessantotto

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Mentre mia sorella, mia moglie, mio cognato e i bambini mangiavano i bignè, a mia madre ho detto: “Sediamoci sul divano”. Glielo avevo preannunciato al telefono: “Ti farò due domande sul Sessantotto, mi racconterai quello che ricordi, niente di impegnativo”. Ma la sola idea l’aveva messa in apprensione. “È passato tanto tempo”, aveva sussurrato. 

Mia madre non era nel movimento, non partecipò alla battaglia di Valle Giulia. Nel 1968 aveva diciotto anni, viveva in un paese a venti chilometri da Roma, aveva lasciato la scuola a quindici e non pensava alla Primavera di Praga né alla rivoluzione culturale cinese. Era l’ultima di sette fratelli, tre maschi e quattro femmine, figli di un fornaciaio e di una materassaia immigrati dall’Abruzzo. 

 

A quel tempo lavorava in un laboratorio farmaceutico come confettatrice. “Iniziamo da questo”, le ho detto, sistemandomi il portatile sulle gambe. “Sai cos’è una confettatrice?”, mi ha chiesto. “È l’operaia che dà il colore alle pastiglie. Le bagnavo tutto il giorno con acqua e zucchero e alla fine aggiungevo il colore”. Sapevo che mia madre, prima che nascessi, aveva lavorato nell’industria farmaceutica, ma non sapevo che fosse una confettatrice. Ho cercato il significato della parola sulla Treccani, c’è scritto: “Macchina con cui si esegue la confettatura”. Mia madre era una macchina. 

 

“Eravamo una cinquantina di operaie, tutte donne. Ci avevano scelto sulla base di un unico criterio: dovevamo essere vedove o nubili, lo stipendio che ci passavano a fine mese doveva essere la nostra unica ragione di vita”, ha rievocato con malcelato rancore. “Lavoravamo dalla mattina alla sera, eravamo ricattabili in qualsiasi momento. In fabbrica non c’era il sindacato, quando cinque di noi presero la tessera della CGIL, ci licenziarono. Facemmo causa e la vincemmo, il giudice ci reintegrò. Ma a quel punto ci rinchiusero tutte e cinque in una stanza, lontano dai laboratori. Avevamo il divieto di avvicinarci agli stabilimenti. Il lavoro che ci affidarono serviva solo a mettere alla prova i nostri nervi: dovevamo staccare le etichette dalle bottiglie vuote”. Ha fatto una pausa e le è venuto in mente un aneddoto: “In quel periodo il direttore fu arrestato perché aveva messo in vendita un farmaco senza l’autorizzazione del ministero. Noi andavamo a lavorare ma restavamo tutto il giorno in sala d’aspetto, gli stabilimenti erano sotto sequestro. Quando il direttore fu rilasciato ci disse: «Ho salito il gradino di Regina Coeli, adesso sono un vero romano». Resistetti ancora per poco, poi quando la sede della società fu spostata a Pomezia mi licenziai. Avevo lavorato lì per nove anni”.

 

Le ho chiesto se, pur facendo quella vita, le arrivasse l’eco del profondo sommovimento che scuoteva la società italiana, la spinta che invocava una radicale modernizzazione del paese. La miccia era stata accesa dagli studenti universitari già nell’autunno del ’67 con le occupazioni degli atenei di tutte le principali città del centro-nord. “Avevi percezione di tutto questo?”.

“Noi volevamo aderire al Sessantotto, certo”, mi ha risposto (come se si possa aderire a un anno, combaciare con esso, come un cerotto sulla pelle, o dichiararsene seguaci o sostenitori, spalleggiare un’idea, un concetto che nella sua intima materialità è fatto dell’immaterialità dei giorni), “ma incontravamo l’ostruzionismo delle più anziane che temevano di perdere il lavoro”. Il Sessantotto visto da una ragazza di provincia era questo: uno tsunami che seduceva e al contempo spaventava. “Una volta partecipammo a una manifestazione a Roma, ci sentivamo come se ci avessero invitato a una festa a cui mai avremmo immaginato di partecipare”.

 

Andare a Roma per quelle ragazze doveva essere come andare verso il sole, mirare al cuore del mondo. “Che il Sessantotto fosse un anno eccezionale lo abbiamo capito dopo. Non era un fatto singolo, un evento che te lo ricordi per tutta la vita. Erano tante cose insieme accadute prima, durante e dopo quell’anno, e che in seguito avremmo racchiuso sotto il nome di Sessantotto. Lo sbarco sulla Luna, avvenuto l’anno dopo, per esempio, me lo ricordo poco. Successe di notte e io andai a dormire perché la mattina dovevo lavorare. Quando nel ’63 morì Kennedy, invece, avevo appena tredici anni ma me la ricordo bene”. 

Ho guardato mia madre per un momento pensandola all’interno di quel flusso storico che sono stati gli anni Sessanta del Novecento. È difficile immaginare una madre nella Storia, collocarla in un tempo extradomestico, perlomeno una madre come la mia, una madre come tante, non una Simone de Beauvoir, ma una confettatrice.

 

Le ho detto di parlarmi della musica. Da bambino mi opprimeva con le canzoni degli anni Sessanta. La mia generazione è cresciuta tutta allo stesso modo, schiacciata da una dittatura musicocratica. “Ascoltavo i Beatles, i Rokes, Gianni Morandi, Mina, Rita Pavone, i Camaleonti, i Dik Dik. Nel tempo libero uscivo poco, mio padre mi costringeva a rientrare al massimo alle diciotto, «quando si fa notte», il che voleva dire che d’estate potevo tirare fino alle ventuno. La domenica pomeriggio andavamo a ballare nelle balere, il Cha cha cha, l’Alligalli, il Ballo della mattonella. In quel periodo iniziavano ad aprire le prime discoteche, come il Piper, dove però non ho mai messo piede perché i miei fratelli non me l’avrebbero permesso”. 

Mia moglie ci ha offerto il vassoio con i bignè. “Ne avete ancora per molto?”. “Abbiamo quasi finito”, le ho risposto. Volevo sentire ancora la voce di mia madre su una questione importante: ciò che è venuto dopo, ossia gli anni di piombo, il terrorismo, la violenza politica, la strategia della tensione, le bombe, la rivoluzione che aveva cambiato aggettivo, e che da culturale era diventata armata. “Nei primi tempi”, ha detto mia madre, “pensavamo che le Brigate Rosse fossero nel giusto, poi abbiamo capito come stavano le cose. La nostra gioventù è finita lì. Nel ’72 mi sono sposata e nel ’73 sei nato tu”. Aveva ventitré anni mia madre quando sono nato io. Mi ha fatto una certa impressione immaginare la mia nascita posta accanto al dilagare della lotta armata, entrambi i fenomeni (privato e pubblico) a suggellare la fine di un’età irripetibile.

 

Dunque, quando il mondo era impegnato a sognare, mia madre lavorava tutto il giorno in una fabbrica. Quante occasioni offre la Storia di avere diciott’anni in un periodo così vivo, pulsante, creativo, luminoso? A quanti, tra tutti gli esseri umani che nei secoli hanno vissuto sulla Terra, è capitato questo? Quanti hanno avuto in sorte di essere giovani quand’era giovane il mondo? Mia madre è stata tra questi, ma mentre la osservavo seduta sull’orlo del divano di casa mia, con le ginocchia strette e le dita intrecciate, cinquant’anni esatti dopo il Sessantotto, ho capito che a lei non è stato concesso di avere sogni, e se li aveva (ma certo che li aveva) era stata educata a svilirli. La Storia spesso è un’astrazione che non coincide con la pratica quotidiana del vivere. Allora mi è tornata in mente una frase di Walter Benjamin: “Gli dica di rispettare i sogni della sua giovinezza quando sarà uomo”. A lei però non l’ho pronunciata quella frase. Ho detto solo: “Va bene, basta così”. Al che mia madre ha sospirato. Poi ci siamo alzati dal divano e siamo tornati a noi.

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Lavoretti. Perché la share economy ci rende più poveri

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Il sociologo Zygmunt Bauman ha coniato anni fa un’etichetta che è riuscita ad ottenere un notevole successo mediatico e sociale: quella di «modernità liquida». Il successo di tale espressione può essere spiegato con la capacità del concetto di liquidità di rappresentare efficacemente quel processo di disgregazione progressiva che è in corso da tempo nelle società occidentali avanzate, le quali vedono indebolirsi e sciogliersi le strutture e le norme di funzionamento su cui avevano costruito la loro lunga storia.

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Le nuvole sopra Buonanotte

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L’incertezza del tempo si insinua già dal giorno prima; sappiamo che durante la camminata potrebbe piovere, ma il rischio meteorologico è una questione secondaria, in questo momento ci interessa l’andare, e l’andare insieme. Domenica la sveglia è alle sette. Sembra che il cielo si sia un po’ aperto. Il monte Bulgheria accompagna quasi tutta la linea dell’orizzonte, senza interruzioni di nubi.

Ci incontriamo alla chiesa dell’Annunziata di Licusati. Sembriamo tutti curiosi di guardarci intorno e capire il contesto, di affacciarci e guardare il Monte. L’Annunziata, infatti, sorge in mezzo all’uliveto millenario, e non lascia immaginare gli sviluppi in verticale del Bulgheria. I tanti che non lo hanno ancora attraversato restano ad osservare a lungo la linea irregolare che separa gli ulivi dalla roccia, che segnava la divisione tra le coltivazioni e i pascoli.

 

 

Agostino prende per primo la parola, e racconta ai presenti il processo e le riflessioni di Jazzi che si sono trasformate, in questa prima fase, nei laboratori camminati di Claudia Losi. Segue Francesco Careri, uno degli ospiti di Stalker insieme a Lorenzo Romito e Giulia Fiocchi, che ci suggerisce di salire in silenzio, in continuità con il primo laboratorio camminato, e di parlare solo quando si vede il mare. Tra gli obiettivi di Stalker, infatti, c’è l’idea di riuscire a costruire una mappatura sensibile, per investigare la relazione tra persone e ambiente. E questo tentativo di mappatura sensibile è uno dei principali scopi dei laboratori camminati.

Vincenzo Abramo – anche lui ospite, rigoroso ricercatore di storia locale – sorride: “per me è difficile stare in silenzio quando ci sono paesaggi così ricchi di racconti, ci proverò, ma appena vedrò il mare voglio raccontarvi questo paesaggio silente”. Infine, prende parola Claudia Losi, che ci racconta il processo del suo progetto artistico e i futuri sviluppi che culmineranno nell’evento di Giugno. Da qui si parte, immaginando il futuro.

 

 

Non c’è fila indiana questa volta, il sentiero è largo, soprattutto prima di salire in quota. Il percorso permette conversazioni laterali tra i tanti venuti da tutta la Campania, dalla Calabria e da Roma. Attraversiamo gli ulivi millenari, nelle giornate di cielo coperto le fronde restituiscono una luce quasi crepuscolare, tanto sono fitti i rami e nodosi i tronchi. Il piccolo Giovanni, 9 anni, figlio di Francesco, varia il percorso; si arrampica sui bordi scoscesi del sentiero, non segue una traiettoria lineare, lo spazio è molto per giocare ed arrampicarsi sugli ulivi.

 

 

Affascina sempre vedere come lo sguardo bambino riesca a immaginare linee, strade, traiettorie e mondi nello stesso spazio fisico, quasi che l’altezza fosse una variabile di prospettiva. I piccoli passi di Giovanni ci insegnano molto sulle mappe possibili, e sui percorsi invisibili che conducono alla vetta.

La prima tappa è lo jazzo Murici. Entriamo all’interno della struttura incastonata tra i tronchi millenari. Qui c’è tempo per raccontare le caratteristiche funzionali ed abitative del ricovero. Immaginiamo insieme nuove soluzioni di abitabilità, e quello che è per Jazzi una riflessione di lungo periodo assume nuove connotazioni nella condivisione con i camminatori e gli ospiti, con i loro sguardi stupiti dal primo incontro con i muretti a secco e gli ulivi. Nei tratti di cammino in cui si vede il mare, Vincenzo racconta il passato e il presente della pastorizia, l’uso e riuso delle risorse naturali. Collocare i racconti negli spazi che li hanno prodotti assume un nuovo senso. Così, le vicende dei pastori trovano una tridimensionalità sotto il tetto spiovente di Murici, assumono un senso le finestre feritoie e il perché la montagna sia così a ridosso delle strutture abitative. La protezione del monte e la protezione delle greggi vanno in parallelo nel paesaggio e nelle parole di Vincenzo.

 

 

Il percorso è lungo circa 4 km, il piccolo Giovanni arriva stanco a Buonanotte, ma è felicissimo perché ha trovato delle pietre preziose, quelle rocce che avevamo imparato a riconoscere nei racconti di Arnaldo qualche settimana fa. La struttura fossile del Bulgheria restituisce sassi levigati dai cammini delle greggi, e gli inserti calcarei e i fori carsici rendono i ciottoli del sentiero frugali souvenir del viaggio.

 

 

Ci accompagna la pioggia negli ultimi metri di cammino, le nubi si mescolano alla cima, ci rifugiamo allo Jazzo Buonanotte per mangiare un panino tutti insieme. Giulia, che nella fascia ha portato la sua bimba di un anno, riesce finalmente a sedersi. Vienna, guida AIGAE, la più esperta del gruppo per le escursioni, ci consiglia di ripartire rapidamente, perché la pioggia sarà in aumento; prima ripartiamo, meno pioggia prendiamo lungo il cammino. Le nubi avvolgono Buonanotte, si muovono rapidissime, fanno apparire e scomparire il Monte in pochi minuti; restiamo tutti ad osservare questo fenomeno localizzato nella piccola conca di Buonanotte. E allora ci rimettiamo in cammino.

 

 

Abbiamo infranto tante regole oggi. La prima è quella di Stalker, “non si ritorna dallo stesso percorso di andata”; sarebbe stato molto difficile fare un tragitto diverso per la discesa: l’unica altra via possibile sarebbe stata salire sul crinale del Monte, ma il tempo materiale e quello meteorologico hanno reso infattibile questo percorso. Il prossimo laboratorio camminato sarà appunto ad anello. La seconda trasgressione è stata rompere il silenzio. Al ritorno c’era molta voglia di conversare, di raccogliere l’un l’altro suggestioni sulla camminata, di fare domande agli ospiti, di suggerire letture e descrivere particolari.

 


A un certo punto del sentiero il gruppo si snoda su strade diverse, per poi ritrovarsi alla stessa destinazione: la casa di Anna e Maurizio, che fanno da ricovero domestico per il gruppo Jazzi. È lì che, davanti al fuoco e intorno al tavolo, mentre si asciugano gli abiti e i pensieri, nasce un’interessante chiacchierata sulla camminata.

 

Francesco e Giulia suggeriscono una nuova lettura, dopo aver ascoltato che il sistema di Jazzi, i sentieri, le colture in quota, ha costituito un insediamento reticolare di una comunità che ora non è più presente, ma che ha abitato e fortemente segnato il Monte Bulgheria: “abbiamo attraversato una città morta, un paesaggio abbandonato”. Questa suggestione evoca subito l’immaginario del film Stalker di Andrej Tarkovskij, e quella desolazione, ma allo stesso tempo quegli spazi da riempire, quelle mappe emozionali da riscrivere, sono elementi di fascino per generare nuovi modi di abitare, e sfida per i prossimi cammini.

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Cronaca del secondo laboratorio camminato
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Una cellula ci sdoppierà

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Lena è una biologa. Ancora una donna che insegna all’Università che dentro di sé porta amore e dolore, come Louise Banks in Arrival. Gli alieni sanno empaticamente che questo è il tipo di umano eccellente, il meglio che il pianeta possa offrire per un incontro, per un affidamento. Come Arrival di Denis Villeneuve deriva creativamente dal racconto di Ted Chiang, Annihilation (Annientamento) di Alex Garland è la sceneggiatura che reinventa il primo capitolo della trilogia Area X di Jeff VanderMeer (pubblicata nel 2014 e tradotta da Cristiana Mennella per Einaudi l’anno dopo). Annientamentoè un film, e lo sceneggiatore e regista inglese avrebbe preferito che potesse essere visto prima nelle sale cinematografiche: è su Netflix dal marzo 2018, in prima televisiva.

 

Il bel personaggio interpretato da Amy Adams era una linguista di fama mondiale, e il militare afroamericano cercava proprio lei per capire che diavolo di lingua parlassero gli eptapodi parcheggiati in mezzo mondo con le loro miti astronavi a forma di mandorla; qui Natalie Portman è una biologa con un passato militare, che pensava di aver perso per sempre l’amato marito, sparito da 12 mesi in una missione militare segreta. Là i continui flashback e flashforward del montaggio ipnotizzante viaggiavano su due piani di narrazione: quello in tempo reale della paura e dell’avvicinamento all’Altro e quello forse reminiscente oppure preveggente in cui la madre dialogava con la figlia prima bambina, poi adolescente, poi morta. Qui flashback e flashforward avventurano l’intelligente, bella, coraggiosa, addolorata umana nell’Area X, “The Shimmer” (proprio per non rifare The Shining), sulle coste di un oceano, intorno a un faro, dove da tre anni stanno accadendo cose molto, molto strane, e dove già undici missioni di “ghostbusters” sono stati inghiottiti da quella specie di persistente alba boreale che è calata sulla natura terrestre a partire da un enigmatico e inquietante faro, disegnata dal production designer Mark Digby sul set dell’inglesissima foresta di Windsor!

 

 

Alex Garland nelle sue conversazioni promozionali per Annihilation, in particolare in quelle con lo scrittore Jeff VanderMeer, dice che il libro – propostogli da un amico producer – lo ha meravigliato perché una volta tanto non era meta-fantascienza, non era meta-qualcosa, ma cristallinamente originale nella concezione. Così originale era anche Storie della tua vita di Ted Chiang, che escogitava due idee suggestive (alieni miti scendono sulla terra per dialogare con noi e proporci un salto in avanti nella nostra concezione temporale; una donna può dopo quell’incontro leggere come una memoria il futuro di madre che la attende). 

 

L’originalità di VanderMeer (una narrazione misteriosa più che un rovello concettuale) nel film di Garland fiorisce in una incantevole, psichedelica, pullulante scena di mutazioni genetiche del creato in quell’area: piante che crescono in forma di umani, daini con corna fiorite, alligatori di palude con denti di squalo, orsi agghiaccianti che sibilano per impasto genetico istantaneo le urla di «Aiuto! Aiuto!» dell’ultima umana sbranata e hanno mascelle e sniffate chiaramente evocatrici di Alien e di un’altra donna molto cazzuta, quella interpretata da Sigourney Weaver nel 1979. Nel faro e intorno al faro tutto sta cambiando: le cellule si clonano e germinano sosia, «echi» come argutamente suggerisce Natalie Portman in una intervista. L’intento ecologista di VanderMeer, la colpa di aver stuprato il pianeta sino a renderlo un mostro genetico, in Garland diventa un trip psichedelico nelle nostre cellule: come Lena, sentiamo ogni singola cellula vivere nel nostro corpo, e speriamo che se qualcuna ha già deciso di farsi cancerogena presto potremmo batterla sul suo stesso terreno di coltura, il nostro enigmatico DNA, così complesso che forse è stato concepito da qualche Grande Psiche Aliena mille e mille anni fa…

Se la trilogia è originalissima, il film quindi rievoca tanti topoi del cinema fantascientifico: dal vortice accelerante e psichedelico di 2001: a space odissey ad Alien, Avatar, in certe notti nell’Area X a Jurassic Park. Di fronte all’Alieno si perde chiaramente il senno, o si diventa superumani, o si muta il DNA della nostra mente.

 

 

Anche qui c’è il Potere che si mobilita per sfidare gli extraterrestri invasori, ma forse in un’aera pre-Trump o post-Trump si affida a una agenzia, la Southern Reach, dove contano più gli psicologi, gli antropologi e i topografi che i militari.

In Annihilation le sequenze di azione in alcune circostanze sono violentissimo fantahorror, ma quel che conta è il lento risucchiarci in questa ipnosi che addormenta la stupida ragionevolezza diurna; poco a poco consideriamo come una nuova Natura l’accelerazione dell’evoluzione genetica, e vediamo proliferare i nostri doppioni, che sono vergini e ci imitano, cercano di apprendere.

 

 

Nelle pagine di VanderMeer sono rare le righe meditative, più angoscianti che poetiche: «Ma la cosa piú inquietante era un lamento profondo, potente, all’imbrunire. Il vento dal mare e la strana immobilità dell’entroterra offuscavano la nostra capacità di calcolare la direzione, e quel rumore sembrava permeare l’acqua nera che bagnava i cipressi. L’acqua era cosí scura che rimandava l’immagine dei nostri volti, e non si increspava mai, inerte come vetro, mentre rifletteva le barbe di muschio grigio che soffocavano i cipressi. Guardando da quella parte, verso l’oceano, si vedeva solo l’acqua nera, il grigio dei tronchi, e la pioggia di muschio che scendeva costante, immobile. Udivi solo quel lamento profondo. È impossibile capire che effetto facesse senza essere lí. È impossibile anche comprenderne la bellezza, e quando vedi la bellezza nella desolazione qualcosa dentro di te cambia. La desolazione cerca di piantare radici nel tuo intimo».  

 

https://youtu.be/kodS7vmLf5Y

 

Nel film non c’è l’enigma apocalittico che un misterioso Scriba predica in forma di licheni multicolore e semoventi sulle pareti, come un Bansky venuto da Orione: «… nell’acqua nera col sole che splende a mezzanotte, quei frutti giungeranno a maturazione e nelle tenebre di ciò che è aureo si schiuderanno per mostrare la rivelazione della fatale morbidezza nella terra…   … le ombre dell’abisso sono come petali di un fiore mostruoso che sboccerà all’interno del cranio e allargherà la mente dell’uomo oltre ogni limite sopportabile… ».

 

 

Nel film non è particolarmente insistito il puzzo di morte e decomposizione: si insiste maggiormente sull’impulso autodistruttivo di ogni umano, che al cospetto del vortice della piccola-stella-buco-nero è sedotto dallo scintillio purificante del fuoco finale.

Echi, quindi di una autodistruzione che al capolinea porta al commissariamento cosmico. Nella colonna sonora si prende la scena un pezzo elettronico allucinato dei Moderat (progetto che a Berlino associa dal 2002 Apparat e i Modeselektor) e nella storia l’amore si incarna nei corpi nudi di Lena e del marito che sta per andare a morire; dopo che lo ha atteso troppo a lungo, la solitudine la porta a letto con il collega di università, ma dopo il sesso le sale la nausea dello squallore. Si presenta volontaria, vuole andare a cercarlo nell’Area X, il suo uomo, e soprattutto vuole andare a riprendersi il rimescolare con lui cellule e empatia, prima che si autogenerino doppelgänger dai due DNA. 

Alla fine riecco quelle dita sfocate dietro il bicchiere di cristallo, la parte scultorea e perfetta di un tutto corrompibile e marcescibile. Intorno alla pupilla, nell’iride iridescente di un arcobaleno di meraviglie genetiche, una donna è la nuova Eva che ha capito cosa voleva la Luce schiantatasi dal Cielo sul faro: «Trasformare, creare qualcosa di nuovo».

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Annientamento o rigenerazione?
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POST ZANG TUMB TUUUM: arte, politica, potere e remake

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Con Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918 1943 Germano Celant firma una mostra-evento per raccontare il rapporto tra arte e politica in Italia tra le due guerre mondiali. In un momento di stasi post-elezioni e in un clima di tifoseria calcistica nazionalpopolare applicato alla tenzone politica, si tratta di un’occasione importante per assistere a una mostra di alto profilo che offre l’opportunità di riflettere sul presente della pratica curatoriale e della società. Con Post Zang Tumb Tuuum ci troviamo di fronte a una operazione destinata a far discutere, una mostra sul fare-mostre sontuosa e affascinante nella sua esibita freddezza.

 

Dinanzi all’imponente allestimento, la domanda legittima è perché la Fondazione Prada abbia deciso di spingersi su un territorio così problematico, proponendo un’esposizione che per metodologia e struttura – consta di oltre seicento lavori – sarebbe idealmente destinata un museo. Le ragioni sono molteplici, in primis la desiderio di consolidare il proprio ruolo di polo d’eccellenza milanese, realizzando una operazione fuori scala, che non sfigurerebbe in una grande istituzione internazionale, scegliendo come firma il curatore italiano più noto al mondo, una figura che con arte e politica intrattiene una relazione di lungo corso. Sembra lecito ipotizzare che anche il clima odierno di confusione politica e i venti revanscisti che soffiano sul paese possano aver giocato un ruolo non accidentale nella volontà di costruire un’esposizione dall’indiscutibile appeal mediatico. Infine, la mostra aggiunge un capitolo importante alla pratica del reenactment che Prada ha già sperimentato con successo nel caso di When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013, a cura dello stesso Celant, remake della mostra seminale di Harald Szeemann tenutasi alla Kunsthalle di Berna nel 1963.

 

 

Celant propone un allestimento che rinuncia all’estetica del white cube, modello che per decenni ha dominato le scelte dei curatori offrendo una matrice formalista fertile e plasmabile, optando per un metodo di ricostruzione scientifico-storiografico, che privilegia la messa in luce dei punti di contatto tra le figure artistiche, la società civile e la politica, concentrandosi sul contesto in cui le opere sono maturate. Il focus della mostra è quindi il display, inteso come sistema in cui lo spazio, l’artefatto, il contesto concorrono a creare un ganglio di senso. 

Non è la prima volta che la Fondazione Prada ospita un’operazione di reenactment: la riproposizione differente – e differita – di una mostra storica è ormai un fenomeno conclamato e costituisce una pratica espositiva orientata a una riflessione “raffreddata” sull’arte. Il remake ha spesso come oggetto la rimessa in scena di performance, proprio per la natura transitoria dei fenomeni, come Ebrea, lavoro di Fabio Mauri del 1971 riproposto dalla galleria Hauser & Wirth di New York per la mostra With Out, o Seven Easy Pieces di Marina Abramovich vista al Guggenheim di New York nel 2007. Celant, già autore al Madre di Napoli di Arte povera più azioni povere nel 2011, la celebre rassegna tenutasi ad Amalfi nel ’68, porta avanti l’analisi sul dispositivo-mostra moltiplicando i reenacts, creando una specie di bolla museale, un organismo espositivo all’interno del quale vengono ricollocati eventi e oggetti appartenenti a un preciso arco temporale: non più una ma numerose le ricostruzioni dei contesti d’epoca, a partire dalla sala dedicata a Felice Casorati nella Biennale del 1924 o l’appartamento di Léonce Rosemberg, con La scuola dei gladiatori, Il combattimento (1928) e Gladiateurs au repos (1928-30) di Giorgio De Chirico, o ancora la meravigliosa sala di Arturo Martini alla Biennale del ‘31, con le terrecotte La veglia (1931), L’aviatore (1931).

 

In una certa misura, con questa operazione ingegneristica le opere esposte passano in secondo piano rispetto all’articolato sistema di forze che compone l’insieme-mostra, e Celant fa in modo che nessun singolo pezzo funzioni in maniera autonoma, ridimensionandone la possibilità di significazione in sé. Ponendo enfasi sul sistema, in opposizione al frammento, nel tentativo ambizioso di avvicinarsi filologicamente alla realtà in cui le opere presero vita attraverso una minuziosa ricostruzione degli ambienti, degli studi, delle case e dei luoghi pubblici è un’ambizione stimolante ma il cui risultato pone lo spettatore di fronte a delle domande, e non sembra offrire una filosofia espositiva in grado di esaurire la problematicità della materia. Cambiando prospettiva, si può leggere però questa non-risoluzione come un punto a favore del lavoro del curatore, capace di edificare una imponente architettura espositiva e concettuale, impossibile da liquidare con letture pacificanti. La stessa mole della mostra respinge ogni possibilità di fruizione istantanea o di lettura schematica, pop-up, ponendo lo spettatore in una condizione immersiva e a tratti ammaliante, a cui difficilmente riuscirà a sottrarsi.

 

 

Celant, lavorando come uno storico dell’arte che ha incenerito l’Accademia, procede in un vertigine di accumulazione di opere, nel tentativo cosmogonico di ricostruire un mondo, quel mondo percorso da energie telluriche e lampi di guerra che fu l’Italia tra il ‘18 e il ‘43. Per farlo predilige l’utilizzo della fotografia rispetto alla parola scritta, identificandola come strumento capace di maggiore efficacia nel testimoniare il reale, nello specifico i rapporti esistenti tra l’oggetto d’arte e il contesto, e soprattutto per riportare alla luce con evidente immediatezza le modalità con cui l’oggetto d’arte è transitato nei luoghi e nel tempo d’appartenenza. 

Eppure, qualcosa scricchiola. L’inseguimento del reale attraverso l’operazione del remake si traduce nella sensazione di assistere a un intervento finzionale. Per la stessa logica per cui, osservando una mostra realizzata in un preciso momento storico noi guardiamo a un mondo intero e non solo a un evento conchiuso nel tempo, formalmente autonomo, così osservando la lussuosa e ipercontrollata mostra alla Fondazione Prada di dipana dinanzi a noi, prima di tutto, un modo di fare curatela nel 2018, un mostra che parla dell’immediata sensibilità contemporanea e non aggiunge necessariamente qualcosa alla comprensione storica del periodo analizzato. Possiamo anche affermare che Post Zang Tumb Tuuum si attesterà come una case history nell’ambito degli studi curatoriali, ma probabilmente, voltando lo sguardo a ritroso, ciò che leggeremo sarà un testo che ci parlerà più della realtà a noi prossima che del mondo tra le due guerre, una specie di elegia dell’archivio e una straniante forma di augmented reality analogica.

 

Dal punto di vista delle opere, sembra quasi pleonastico precisare che in mostra siano raccolti pezzi straordinari, frutto di oltre due anni di lavoro, prestiti prestigiosi e di un lavoro raffinato di cernita: partendo dai futuristi, è visibile La città che sale (1910-11) di Boccioni, uno dei suoi capolavori, il Marinetti temporale patriottico (1924) di Depero, il poemetto che dà il nome alla mostra Post Zang Tumb Tuuum di Marinetti e poi riviste, materiali,carteggi, documenti. La prima parte dell’esposizione si apre con la figura iconica di Filippo Tommaso Marinetti: colto, dandy, appassionato di Zola, Mallarmé, Baudelaire, Wagner, il suo Manifesto del Futurismo del 1909 segna la sua agnizione e l’inizio della prima, vera avanguardia italiana di inizio secolo. La temperie culturale di quei vorticosi anni vede come protagonista assoluto – e non potrebbe essere altrimenti vista la prepotenza del loro portato e la loro attitudine vitalistica – il movimento dei futuristi. A nove anni di distanza dalle mostre ospitate da Palazzo Reale e dal Centre Pompidou di Parigi per celebrare i cento anni del movimento, ancora oggi stupisce cogliere la ricchezza di quell’esperienza e la profondità delle intuizioni di Marinetti, che si fece portavoce di una rinascita dell’arte italiana riuscendo a fondere il Simbolismo europeo e in particolare francese, il superamento dell’Impressionismo attraverso una riflessione originale sulla forma, alimentata dalle scoperte scientifiche rilette in chiave poetica, e la capacità di utilizzare il futuro come territorio di possibili per costruire il presente. Malgrado la mostra si apra in medias res, osservando le opere si rivelano i portati dell’esperienza dIvisionista e impressionista, con Medardo Rosso e Gaetano Previati come presenze in absentia. I futuristi raccolgono su di sé le correnti energetiche che percorrono la società intera. Nauseati dal passatismo, rifiutano con determinazione la componente nostalgica ottocentesca e alcuni portati del Modernismo, per fare spazio all’azionismo. Proprio l’idea avanguardistica di superare il perimetro dell’arte per intervenire sulla vita stessa e il desiderio di fare tabula rasa della tradizione, collocano il futurismo in una posizione di divergenza rispetto al movimento modernista e pongono le basi di tanta sperimentazione contemporanea, dalla performance art alle installazioni multimediali.

 

Nella sua vocazione turbolenta, irriverente, iconoclasta, qui perfettamente rappresentata, il futurismo apre le porte a uno scenario di innovazioni creative che giungono fino ad oggi, rappresentando uno dei momenti più fertili del Novecento italiano. Ecco allora Guerra-festa (1925) e Rissa (1926) di Fortunato Depero, emblematici di un azionismo di stampo ardito tradotto in pittura, la riproposizione dell’esposizione dei futuristi alla Terza Biennale di Roma del 1926, con la tela Fascisti/Antifascisti di Balla, che sembra anticipare tanta street art odierna, e il pattern ironico di Canaringatti Gatti futuristi (1923-1924) precursore di un gusto per il design che avrebbe trovato piena espressione solo molti anni dopo.

Ma se il futurismo rappresenta uno dei cardini della sperimentazione culturale della parentesi tra le due guerre, la mostra offre uno spaccato ben più ampio e ha il merito di cercare di restituire tutto il fermento creativo che anima il paese, percorso da inquietudini profonde e diviso tra la memoria della peggior guerra di sempre, quella del ‘15-18, che ha annientato una generazione, e le ombre incombenti dei totalitarismi nascenti. E soprattutto è l’occasione per accostarsi ad artisti straordinari e parzialmente dimenticati, come Felice Casorati, di cui si può ammirare una parete splendida che è la ricostruzione della Moderne Italienische Kunst alla Kunsthalle di Berna del 1938, o l’opera dello straordinario Adolfo Wildt: di quest’ultimo, scultore linee cosmiche e virtuosismi insuperati, campione del simbolismo lombardo di ascendenza mitteleuropa, sono raccolti così tanti pezzi da comporre quasi un’antologica, compresa la sala della Biennale del 1922 e il Pio XI proveniente dai Musei Vaticani.

 

 

Accanto ai Futuristi è ben rappresentata l’altra grande matrice concettuale rappresentata dal ritorno all’ordine di Valori Plastici, il cui primo numero esce nel 1918, e da Novecento, il gruppo la cui mentore fu Margherita Sarfatti. Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Mario Sironi e Ubaldo Oppi, sono gli alfieri di una pittura che ritorna ai valori di chiarezza, sintesi e concretezza delle forme. L’antitesi all’avanguardia di Novecento passa dalla ricerca di un’idea di modernità che si fonda su una precisa identità storica e nazionale, rivolta verso la tradizione della grande pittura e scultura italiane e di nuovo interessata a temi quali il paesaggio e la figura umana, allontanandosi sia dai dinamismi sperimentali cari ai futuristi, sia dalla frammentazione tipica dell’impressionismo. Di tutti i primi associati, Sironi è l’astro più oscuramente rilucente: già futurista, lascia poi spazio alle inquietudini metafisiche con la sua pittura colta, dal solido impianto plastico, influenzata dal Quattrocento, dal cubismo e dall’espressionismo e intrisa di una classicità declinata attraverso il filtro una sensibilità tragica. La sua parete alla 18esima Biennale del 1932 è una delle cose per cui vale la pena pagare il biglietto. Sironi è anche l’unico artista del gruppo apertamente fascista, che arriverà a teorizzare un’arte del popolo, “sociale per eccellenza”, antica e contemporanea allo stesso tempo e mai propagandistica, nel Manifesto della Pittura Murale del 1933. Più di tutti, sarà colui che pagherà lo scotto della sua identità politica, tanto che la sua opera per decenni verrà ostracizzata. 

 

Da Sironi si passa a Carlo Carrà, di cui è visibile la sala 22 della XVI Biennale del 1928, che lo consacra come uno dei punti di riferimento della sua generazione, e poi Fausto Pirandello, Romolo Romani, Corrente e la Scuola Romana con Mario Mafai e Scipione, di cui è visibile l’allestimento del 1941 di Franco Albini per la mostra a Brera, Carlo Levi, Fausto Melotti, la serie satirica dei Dux di Mino Maccari; ancora, Marino Marini, Giorgio Morandi, Alberto Savinio, le sperimentazioni fotodinamiche di Anton Giulio Bragaglia, i ritratti fotografici di Elio Luxardo, dall’allure divistica, e quelli di Ghitta Carell, la ritrattista più celebre dell’epoca, i cui scatti contribuirono a edificare l’immagine patinata dell’aristocrazia dell’epoca, il design di Bruno Munari e Giò Ponti, le arti decorative e soprattutto la pubblicità, che in quegli anni visse un momento di pieno splendore. Infine, un capitolo a parte meriterebbe l’architettura, per il ruolo centrale che assunse nella relazione con il potere e per il grado di innovazione cui giunsero i progetti architettonici di Giuseppe Terragni, Giovanni Muzio e Antonio Sant’Elia. Da vedere anche le carte delle impressionanti bonifiche che cambiarono il volto dell’Agro Pontino e le nuove città Littoria (poi Latina), Sabaudia e Pontinia. Così tanti sono i percorsi che si potrebbero tracciare e i profili artistici, che lo spettatore è travolto da una vertigine di possibilità, tra percorsi storici già definiti e incontri imprevisti, accostamenti, punti di contatto tra sensibilità distanti e opere germinali, in anticipo sui tempi.

 

 

Accanto alle opere e ai materiali d’archivio, viene proposta anche una selezione di ventinove cinegiornali d’epoca che documentano le inaugurazioni di alcuni tra gli eventi fondanti della vita culturale di quella stagione, come la Mostra della Rivoluzione Fascista di Roma del 1932 o la Biennale del giugno del 1938. Vedere le immagini dei cinegiornali, a cui si aggiunge la navata impressionante dove vengono proiettate le fotografie dell’Archivio Centrale dello Stato, fa correre un brivido lungo la schiena. L’atmosfera lugubre del regime fa oscillare lo spettatore tra un motivato senso di angoscia e la percezione della straordinaria abilità persuasiva dell’apparato propagandistico del Fascio. Visitando le sale si viene colti da una sensazione di inquietudine ma anche da un entusiasmo per il genio italico che tende a tratti a far passare in secondo piano il contesto tragico in cui le straordinarie sperimentazioni degli artisti presero forma, e fa riaffiorare l’ambiguità che segnò le scelte della maggioranza degli artisti, oscillanti tra l’aperto sostegno al regime o una muta accondiscendenza, in nome di una autonomia creativa che li rendesse liberi di poter esercitare la propria arte senza rischi: d’altronde, l’alibi di molti fu ad impossibilia nemo tenetur. Ma anche laddove l’arte si fa più lontana da posizioni dichiarate e si richiude su se stessa, coltivando uno spazio privato in cui i venti di guerra non soffino, la mano longa del curatore giunge per reinserirla nell’arena politica e storica da cui non può prescindere.

 

Osservare la dialettica tra avanguardia e modernismo, tra potere e arte, tra sostenitori di regime, oppositori, “agnostici”, rimanda inevitabilmente a una dinamica di spaccature sociali che sembra riprendere corpo a seguito di anni di ottundimento politico. La rilevanza che l’arte ha avuto nella costruzione dell’identità di un paese è una dimensione che sembra ormai smarrita, senza possibilità di appello, dopo l’esperienza delle neoavanguardie e con la linea di confine del ‘68. Sebbene l’arte non abbia mai smesso di essere politica, il suo ruolo appare determinato dal capitale, che ha innescato un processo di assorbimento e neutralizzazione delle sue componenti problematiche, riducendola per lo più a intrattenimento o a bene di lusso. Anche per questo motivo, l’arte italiana tra le due guerre merita di essere guardata con un occhio analitico e appassionato, senza temere, da spettatori, di rivendicare un punto di vista e di sporcarsi le mani. Proprio oggi che lo sfondo politico è completamente mutato e lo spazio in cui le forme contemporanee si configurano, modellato dalle tecnologie digitali, è giustapposto, privo di punti cardinali, in continuo divenire e atemporale, forzatamente post ideologico. 

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Fondazione Prada, una mostra sul fare mostra
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Wolgang Schivelbusch

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Lo scorso anno, in marzo, sono andato a Berlino per incontrare Wolgang Schivelbusch, uno dei più affascinanti studiosi dell’immaginario sociale moderno. L’appuntamento è al Zentrum für Literaturforschung. Una piccola stanza che s’affaccia in un cortile interno, qui studia e scrive Schivelbusch.

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Medardo Rosso. Addio Milano

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Nel maggio 1889 lo scultore trentunenne Medardo Rosso (1858-1928) dice addio a Milano e all’Italia. Dice addio alla ristrettezza di vedute dei circoli milanesi, a un’arte ufficiale che celebra battaglie ed eroi gagliardi, scene di genere retoriche e accademiche, stili nazionali quanto provinciali; a un paese in cui è riuscito a esporre una sola volta (a Venezia nel 1887). Dice addio all’immobilismo politico, alla borghesia conservatrice che non ha mantenuto le promesse del Risorgimento, e che gli ha persino rifiutato l’iscrizione alla Massoneria nel 1889. Dice addio all’Accademia di Belle Arti di Brera, in cui ha frequentato da uditore corsi di disegno ma non di scultura, e da cui è stato espulso nel 1883. Dice addio a una critica poco entusiasta quando non apertamente ostile: il suo monumento funebre al Cimitero Monumentale di Milano (La Riconoscenza, 1883, perduto) è rimosso nove giorni dopo l’installazione; di quello per Filippo Filippi (1888) si scrive invece che la sprezzatura è “spinta fino alla scombiccheratura” (Ferdinando Fontana), insomma uno sgorbio. Del resto in Italia il realismo di Courbet è considerato pretenzioso e i paesaggi impressionisti di Pissarro, come L’approssimarsi della bufera (1877), “un accozzo tremendo”, una “frittata coi broccoli” (Ossian, in “Firenze artistica”, 1879).

 

Medardo Rosso, Impression d'omnibus, 1884-1887.


Con un matrimonio fallito alle spalle e un cumulo di debiti, forte del francese imparato a scuola, con cinque bronzi in valigia da esporre all’Exposition universelle, Medardo Rosso si trasferisce a Parigi: città europea e cosmopolita, capitale indiscussa della modernità artistica, malgrado le tensioni che scuotono la Terza Repubblica (guerra franco-prussiana, affaire Dreyfus, crisi boulangista, scandalo del canale di Panama…).

 

Prima che migrante, Rosso è un “cosmopolita straniero” che disdegna gli Stati nazione, un autarchico se non un “anarchico europeo”, come si considera secondo l’amico e poeta simbolista Jehan Rictus. Non adotterà mai la visione stereotipata che hanno i francesi degli artisti italiani, quelle italienneries apprezzate dai mercanti, ma neanche gli stilemi francesi allora in voga. In definitiva Rosso “non era abbastanza italiano per essere classificato come straniero, ma nemmeno abbastanza francese per essere percepito come tale” (p. 179). Così scrive Sharon Hecker in Un monumento al momento. Medardo Rosso e le origini della scultura contemporanea (tradotto da Nicoletta Poo, Johan & Levi 2017), risultato di un lavoro approfondito su documenti primari e fonti inedite che restituiscono un ritratto preciso e sfaccettato dell’opera dello scultore italiano, correggendo altresì inesattezze e imprecisioni della letteratura critica. L’autrice, che per la prima volta visita l’omonimo museo a Barzio nel 1992 con Luciano Fabro, ha acquisito una spiccata sensibilità per le opere di Rosso, evidente nelle analisi come nella scelta delle illustrazioni delle sculture, in gran parte scattate dall’artista stesso.

 

Medardo Rosso, Aetas aurea, fine 1885-1886.


Rosso ha un’anima ribelle poco incline al compromesso, come nel caso di altri artisti italiani trasferiti in Francia (Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis, Federico Zandomeneghi). E di adottare un nome francese – il termine utilizzato ancora oggi, “naturalisation”, restituisce bene l’idea – non gli passa mai per la testa, come quel Richard Barabandy (il pittore milanese Riccardo Barabandi), quel Lucius (il pittore Lucio Rossi), quell’Henri Cernuschi (il banchiere Enrico Cernuschi), per limitarsi a figure con cui entra in contatto.

 

Nella corrispondenza di Rosso non c’è spazio per le meraviglie della Parigi fin de siècle, per le mostre di Monet o Rodin che non possono lasciarlo indifferente. Niente sulla nostalgia per il Bel Paese. Una capa tosta, questo Rosso. A preoccuparlo, è la ricerca di un atelier, stanco di girovagare per hotel vicino Strasbourg Saint-Denis (rue Enghien). Si sposta più a nord, verso Pigalle (rue Fontaine) e prende un atelier sotto Montmartre, a boulevard de Clichy. Oddio, atelier è una parolona, descritto da chi ci mette piede come “una capanna fatta di travi, accanto a bizzarre baracche che sembrano un accampamento di ambulanti da fiera”, “tra pareti traballanti davanti agli enormi forni che si è costruito da solo”, come appunta un giornalista anonimo (su “Gil Blas”, ottobre 1895).

 

Medardo Rosso, Enfant malade, 1893-1895.


Tracce visibili del suo sradicamento emergono nelle opere, come la madre acefala (Enfant au sein, 1889-1890, un terzo delle sculture parigine rappresentano teste di bambini), in cui Hecker legge la spaccatura tra Rosso e la madrepatria. Nella stessa direzione vanno le sue figure predilette: malati, alienati, poveri, sofferenti, reietti – la prima scultura che espone in pubblico si chiama L’allucinato (1881, perduta). Persino le cantanti di cabaret di Montmartre sono rese senza orpelli, senza accenni alle sinuosità erotiche del corpo: i loro sguardi sono anonimi e vacui, i loro volti, più che scolpiti, cancellati, a volte senza occhi. È la scarna struttura della realtà che Rosso percepisce dietro la lucentezza delle apparenze.

 

Tra slanci e difficoltà

 

Ora, per quanto Rosso sia spigoloso e inflessibile, defilato e spavaldo, poco avvezzo alle convenzioni e ai convenevoli, ha bisogno come il pane di riconoscimenti. Cerca l’appoggio di mercanti d’arte, galleristi, scrittori-critici (Emile Zola, Edmond de Goncourt), artisti tra i quali l’amico-nemico Auguste Rodin, conosciuto quando Rosso espone nel foyer del teatro La Bodinière nel novembre 1893.

Per quanto la Francia sia all’avanguardia, si crede ancora che la scultura non sia compatibile con la modernità, come sosteneva Baudelaire nel Salon del 1846 (Perché la scultura è tanto noiosa?). Lo dimostra l’accoglienza del Balzac di Rodin, simile alle figure sbilanciate di Rosso (Bookmaker, 1893-95 e Uomo che legge, 1894-95): “fantasma di gesso” (Félix Duquesnel), “pupazzo di neve” (Jean Villemer), “aberrazione mentale” (Jean Rameau), “dolmen sbilanciato” (Philippe Gille), fino all’“orso polare in piedi sulle zampe posteriori” di Bernard Berenson. Gli scultori italiani, poi, sono considerati semplici praticien, “ciarlatani della forma” (p. 183) secondo lo scultore romantico David d’Angers, indifferenti allo sguardo analitico dell’anatomia.

 

Medardo Rosso, Rieuse petite rieuse, primi anni novanta del XIX secolo.


Sì, Rosso parlava di impressioni, ma era lontano dagli impressionisti francesi, attratti da “un atteggiamento distaccato, un interesse per l’ottica, per la suddivisione del colore e per il pubblico spettacolo della vie moderne” (pp. 139-140). Attento a cogliere la fugacità del momento e gli stati psicologici, Rosso risolve la sua scultura in una visione lontana dalla tattilità, in una scultura frontale senza un retro scolpito oltre che senza piedistallo. “Rosso non scolpisce la materia; la lustra, la scortica, la sfuma, la rende patinata e, come per magia, la anima” (in “Gil Blas”, ottobre 1895, cit. p. 181).

Per quanto la Francia sia cosmopolita, le committenze pubbliche e i monumenti nazionali sono inaccessibili a un émigré. Rosso lavora così a formati più piccoli, maneggevoli, leggeri, trasportabili, “collezionabili”. Commercializza la sua opera realizzando riproduzioni in cera, gesso e bronzo, fuse da lui stesso senza passare per le fonderie, facendo tesoro delle competenze acquisite in Italia. Si riappropria così del processo d’industrializzazione della scultura.

 

Medardo Rosso, Impression de boulevard, femme à la voilette, 1892-1897.


L’atelier diventa un luogo d’esposizione e un punto vendita in cui, per mostrare la sua parabola artistica, dispone opere di periodi diversi, le fotografa, ne cambia i titoli. Nell’ottobre 1902, in occasione della visita del critico tedesco Julius Meier-Graefe, espone riproduzioni di opere antiche, come il Vitellio del Vaticano, una copia in cera di Madonna con bambino di Michelangelo, un Giovanni Battista di Rodin e una sua opera – una vera e propria installazione. Controllando ogni fase creativa, produttiva ed espositiva, lo studio diventa un teatro collettivo e intimo. Qui il pubblico – leggasi potenziali collezionisti – assiste al processo di realizzazione delle sue sculture col metodo della cera persa, poco conosciuto in Francia. Rispetto a Degas, Rosso “non modellava mai naturalmente la cerca morbida su un’armatura interna ma preferiva gettare cera liquida in stampi flessibili in gelatina” (p. 177).

 

Medardo Rosso, Impression de boulevard,Paris la nuit, 1896-1899.


La cera permette a Rosso di smaterializzare la scultura monumentale, sbozzando appena le forme, accentuando la sua inclinazione per il frammento scultoreo, dissolvendo la materialità – “far dimenticare la materia”, come dice riprendendo Morice. Su questo materiale viscoso e malleabile Rosso lascia l’impronta delle dita, consapevole del paradosso: “accentuando la materialità dell’opera crea l’illusione della sua dematerializzazione” (p. 156).

Come ricostruisce lo straordinario libro di Julius von Schlosser, Storia del ritratto in cera (a cura di Pietro Conte, tradotto da Quodlibet, 2011), le figure di cera sono state spesso trascurate dalle arti visive. La somiglianza eccessiva della ceroplastica sfugge alla logica della rappresentazione e reclama un ruolo nel mondo reale. Giunta a un grado estremo di perfezione, la mimesi artistica genera un doppio insostenibile e demoniaco: manichini e automi, effigi funebri e calchi – di uomini illustri o di creature mostruose –, ex voto e specimen per gabinetti di anatomia. Eppure oggi la cera, ricorda Hecker, è al cuore di molte pratiche artistiche, da Bruce Nauman a Maurizio Cattelan, da Joseph Beuys a Wolfgang Laib, da Anish Kapoor a Urs Fischer.

 

Il successo arriva

 

Nel marzo 1896 lo scrittore simbolista Camille de Saint-Croix pubblica un articolo di tredici pagine su Rosso sul “Mercure de France” e, nel 1902, l’influente De l’impressionisme en sculpture, con un’intervista e quindici foto di Rosso rispetto alle cinque di Rodin. Rosso partecipa inoltre all’Exposition universelle del 1900. La visita Etha Fles, scrittrice, artista, critica olandese, presto amante di Rosso e promotrice della sua fortuna nel mondo anglo-sassone. Nella carriera dello scultore italiano si apre un nuovo fronte: Olanda, Germania, Austria, Belgio, Gran Bretagna. Momento forte è la mostra a Vienna nel 1903 sull’impressionismo in pittura e scultura, in cui Rosso è l’unico scultore italiano. Col saggio di Meier-Graefe l’impressionismo subisce una virata decisiva: da movimento nazionalista francese diventa un fenomeno europeo, cuore pulsante del modernismo europeo.

Ciononostante, Rosso resta un globe-trotter refrattario. Nel 1901, da Berlino, Lipsia o Vienna scrive lettere su carta intestata di un albergo di Dresda (e che, apprendiamo da Hecker, restano da studiare), indirizzate a Georg Treu, direttore dell’Albertinum di Dresda. “Rosso parla di lunghe ore confinato in stanze d’albergo, isolato e a disagio per il fatto di essere straniero”, e in finale “Niente in Germania gli fu da stimolo per la creazione di nuove sculture” (p. 225).

 

Medardo Rosso, Bookmaker, 1893-1895 circa.


Rientra a Parigi nel 1902, diventa cittadino francese rinunciando alla cittadinanza italiana, restando tuttavia estraneo a ogni senso di appartenenza. Rosso “non amava dire in che città era nato”, ricordava l’amico italiano Mario Vianello Chiodo (p. 211), e “preferiva rispondere che era nato in treno, dato che suo padre era funzionario delle ferrovie”. 

Nel 1903 è tra i fondatori del Salon d’automne, dove l’anno successivo espone una dozzina di sculture, di cui una nella stanza dedicata a Cézanne in doveroso omaggio. Le ammira tra gli altri un giovane Constantin Brancusi appena sbarcato a Parigi. 

 

Nel 1910 va a Firenze, dove Ardengo Soffici organizza la sua prima mostra italiana dopo ventuno anni di assenza dal suo paese. Qui resterà fino alla morte nel 1928, esponendo raramente all’estero. È presto dimenticato da tutti, italiani e francesi inclusi, malgrado l’influenza esercitata su Boccioni, Balla, Brancusi (la sua Testa di bambino addormentato è giustamente paragonata da Hecker a Enfant malade di Rosso), Giacometti, Henry Moore, George Segal, Luciano Fabro, Giovanni Anselmo – secondo cui quella di Rosso è “una scultura che nega e cancella se stessa” (p. 247) – Tony Cragg, Marisa Merz, Diana Al-Hadid, Erin Shirreff. 

La tendenza s’inverte solo nel 1963, con la pubblicazione di uno studio critico sul suo lavoro e l’apertura di un’ampia retrospettiva. In Italia? Acqua. In Francia? Acqua. L’autrice è Margaret Scolari Barr, la mostra al MoMA di New York.

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Antonio Machado. Viandante, non c’è cammino

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Un verso

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

 

Caminante no hay camino. Viandante, non c’è cammino […]. Il verso di Antonio Machado ha lasciato la poesia alla quale apparteneva per andarsene nel mondo, insomma per camminare, a sua volta, lungo quei sentieri dove prende forma, e ritmo, un sapere, o una sapienza, della vita: l’esperienza del cammino non come movimento progressivo verso una meta, né come relazione visibile della partenza con l’arrivo, e neppure come piacere per il tratto già compiuto e ansia per quel che resta da percorrere, ma soltanto come esperienza tutta interiore di una condizione, che è insieme uno stato di sospensione e di conoscenza, e dunque come figura dell’esistenza umana stessa. Il verso appartiene a una poesia della raccolta Campos de Castilla, del 1912, in particolare alla sezione Proverbios y cantares (la poesia è indicata con il numero XXIX). Ecco la poesia in spagnolo, seguita da una mia traduzione in italiano:

 

Caminante, son tus huellas

el camino, y nada mas;

caminante, no hay camino,

se hace camino al andar.

Al andar se hace camino, 

y al volver la vista atrás

se ve la senda que nunca

se ha de volver a pisar.

Caminante, no hay camino, 

sino estelas en la mar.

 

Viandante, sono le tue impronte 

il cammino, e niente più, 

viandante, non c’è cammino, 

il cammino si fa andando.

Andando si fa il cammino,

e nel rivolger lo sguardo

ecco il sentiero che mai 

si tornerà a rifare.

Viandante, non c’è cammino, 

soltanto scie sul mare. 

 

“Caminante, non hay camino”. Traducendo, diversi anni fa, ero incerto se rendere quel “caminante” con un’allocuzione: “Tu che sei in cammino, non c’è cammino”. Questo sia per dare rilievo con la voce cammino all’atto stesso del camminare, sia per sottrarre l’immagine alle varie declinazioni romantiche del wanderer, appunto del viandante (ma sul wanderer ci sono le due liriche bellissime di Hölderlin, la seconda rifacimento ampio della prima, versi densi di riverberi e di possibili trasvalutazioni metafisiche, soprattutto nella parte dedicata al tempo del ritorno).

 

Liberare il cammino, come fa Machado, dalla sua dimensione fisica e visiva, per farne una figura precipua dell’interiorità, è possibile proprio in una cultura come quella spagnola che ha nella sua mitografia due grandi rappresentazioni, sorgenti a loro volta di molte interpretazioni e variazioni filosofiche e narrative: l’hidalgo don Chisciotte della Mancia e il pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Il cammino di Alonso Quijano diventato il Cavaliere dalla triste figura, è, di stazione in stazione, di avventura in avventura, l’affermazione di un’alterità fantastica, ideale, irriducibile alla convenzione, che fa deflagrare il sempreguale, la ripetizione, la concretezza del visibile e del tangibile. In quel grande romanzo non è la direzione verso una meta a generare fantasmagorie, ma il cammino stesso, inteso come tempo e spazio dell’accadere. Quanto all’altro cammino, quello verso Santiago, esso era, prima che il costume e il cosiddetto turismo culturale ne dilatasse e disperdesse il senso, un esercizio che univa il percorso sul sentiero e nel paesaggio con l’itinerario spirituale che portava verso la purificazione: figurazione corporea della medievale cristiana peregrinatio. Paradigma che presiede alla Commedia di Dante, il cui verso d’incipit nomina appunto il cammino: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. 

 

Opera di Hiroyuki Masuyama.

 

Del resto, una filigrana di ascesi, un esercizio di distacco dagli affanni del mondo perché lo sguardo possa rivolgersi al teatro della propria interiorità ha a lungo accompagnato la figura del cammino: si pensi alla lettera nella quale Petrarca racconta l’ascensione al monte Ventoux in compagnia del giovane fratello, che è insieme descrizione del cammino e interrogazione di sé (il poeta porta infatti con sé le Confessioni di Agostino, che apre quando giunge in alto). Molteplici sono le connessioni del cammino con la cura di sé o con l’attivazione di un pensare che sia in accordo con il ritmo del passo (quella che Valéry chiama “reciprocità tra la mia andatura e i miei pensieri”): nel mio libro sull’interiorità (Il cielo nascosto) non potevo non dedicare un capitolo alla figura del cammino. 

 

Machado nel verso “Caminante no hay camino” allontana la storia, e le storie, che fioriscono nel tempo e nei luoghi del pellegrinare – il narrare favoloso, dal picaresco al devozionale che nasce proprio nelle soste del viaggio e alimenta il romanzesco occidentale – per dare rilievo a un movimento che è percezione dell’essere in cammino, da sempre e per sempre in cammino, cioè in una condizione che è raffigurabile bene dall’esilio: stato di lontananza anzitutto interiore, di spaesamento e sradicamento, di sospensione e desiderio aperto e incolmato, come quella che sarà nei particolari interrogata da Maria Zambrano (eccoci ancora nella cultura spagnola), o da scrittori dell’esilio come Edmond Jabès. Costui sottrarrà l’erranza sia al rimpianto dell’origine sia alla speranza della meta, per farne invece la soglia di un interrogare incessante: apertura costante della domanda, invece che replica del senso, o quiete di un approdo.

 

Ricordo che quando per Feltrinelli tradussi di Jabès Le livre de la subversion hors de soupçon (Il libro della sovversione non sospetta) la copertina più appropriata – parlandone anche con l’autore – sembrò la riproduzione di un’opera di Antoni Tàpies, l’artista spagnolo che nella sua ricerca ha dato forma alla cancellazione, colore all’abrasione, segno materico alla mancanza e allo spaesamento (molto bello il dialogo che Tàpies ha intrattenuto a lungo con un suo amico, José Ángel Valente, il quale a sua volta, oltre che poeta di grande tensione immaginativa e speculativa, fu il traduttore spagnolo di Jabès). 

A proposito del legame tra il cammino e l’esilio: un bravo interprete musicale di Machado, Joan Manuel Serrat, quando nel 1969 cantò, tra diverse poesie del poeta, i versi di Caminante son tus huellas sopra citati, li unì ad altri versi sull’esilio, in una canzone che comincia: 

 

Todo pasa y todo queda,

Pero lo nuestro es pasar,

Pasar haciendo caminos,

Caminos sobre la mar.

 

Tutto passa, tutto resta, 

ma il nostro è un passare, 

un passare battendo sentieri,

sentieri sopra il mare.

 

Per Serrat dire di Machado e del “caminante” voleva dire pensare all’esilio, a Machado stesso in esilio (il poeta, sostenitore attivo della Repubblica spagnola, dopo la caduta di Barcellona il 26 gennaio del 1939 e la fine dell’esperienza repubblicana, dovette attraversare il confine e andare in terra d’esilio, dove dopo meno di un mese morì). 

 

Potremmo ora sostare un momento sulle huellas, le impronte del verso di apertura, e sulle estelas, le scie del verso di chiusura. Le impronte, nient’altro che le impronte: questo il cammino. Esse dicono il passaggio, ricordano che siamo passaggio, cioè segno che insieme dice quel che è accaduto e annuncia la sparizione di quel che è accaduto. Se di qualcosa le impronte testimoniano, esse testimoniano del transito: esposte al vento della cancellazione, la loro forma è un fragile gioco dell’apparenza, appartengono al mostrarsi e nascondersi della terra. Ma quelle impronte sono le tue impronte. Anche quando sulla sabbia del deserto sono subito cancellate dal vento, esse ti appartengono in quanto già state. Il cammino è questo tuo offrire un segno alla sparizione. Camminare è stare nella bellezza, e nel fuggitivo lampeggiare, della sua apparizione. Delle immagini che nascono da questa consapevolezza, si alimenta la poesia di Machado.

Sulle estelas. Non c’è cammino, soltanto scie sul mare. Anche il mare, come il deserto, più ancora del deserto, si prende il passaggio, lo sottrae alla vista, lo cancella. Ma le scie sono il segno di una presenza: questa presenza è la vita stessa, una scia, una sequenza di scie, che presto si ritrae confondendosi con un’onda più grande. E questo mare che chiude la poesia e che si spalanca dinanzi alla vista interiore – come accade nella più nota poesia leopardiana, L’infinito– invita a spostare lo sguardo verso la lontananza estrema, sul confine tra il visibile e l’invisibile, sull’orizzonte che è oltre il nostro stesso vedere, oltre il nostro cammino. 

 

Dalla soglia del verso “Caminante, no hay camino”, possiamo muovere verso tutta la poesia di Machado, a cominciare da Soledades, seguire il meraviglioso accordo tra il vedere e il sentire, ascoltare le modulazioni pensosamente musicali dei versi, e avvertire come il dolore cerca di salire verso la parola, farsi parola. 

Dopo la lettura di Machado, ciascuno porterà con sé qualche verso che, come accadeva per i detti memorabili presso la sapienza antica, gli farà compagnia lungo il cammino. Tra i versi del poeta che da molti anni mi risuonano spesso nella mente ci sono tre versi pronunciati da un “caminante” nella notte: “Está en la luna /el alma de la tierra /y en los luceros claros”. Versi che ho tradotto, un po’ liberamente, così: “È nella luna l’anima della terra /e nel chiarore delle prime stelle”.

 

Un verso:

Ugo Foscolo. Né più mai toccherò le sacre sponde

Dante. L'amor che move il sole e le altre stelle

Giacomo Leopardi. Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi

Charles Baudelaire. Un lampo... poi la notte! Bellezza fuggitiva

Francesco Petrarca. Erano i capei d'oro a l'aura sparsi

Eugenio Montale. Spesso il male di vivere ho incontrato

Stéphane Mallarmé. La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri

John Keats. Una cosa bella è una gioia per sempre

Giuseppe Ungaretti. Mi tengo a quest'albero mutilato

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I cinquant'anni dell'Istituto d'arte di Monza

Chissà quanti erano gli istituti d’arte in Italia prima della riforma Gelmini. Centinaia? Di certo erano portatori di solide tradizioni artistiche e artigianali, anche se sempre più sfuocati sembravano gli orizzonti. Forse negli anni Venti, quando ufficialmente sono stati istituiti per “addestrare alla produzione artistica, a seconda delle tradizioni, delle industrie e delle materie prime regionali” descrivevano una maggiore vicinanza al territorio e alle sue specificità produttive. Erano davvero percorsi formativi tra arti (applicate) e mestieri (di nobile lignaggio artigianale). Erano un buon contributo alla formazione di artigiani e professionisti in comparti o distretti come la falegnameria, l’oreficeria, le arti tipografiche, la ceramica, la decorazione, la tessitura via via fino a mestieri più “recenti” come la fotografia o la grafica. Sono però davvero pochi gli istituti che possono vantare una storia scritta e praticata che va oltre il mandato e le finalità formative per marcare un’esperienza di unicità e tenacia sperimentale. E quindi scrivere collettivamente davvero un “libro” e non una modesta monografia autocelebrativa. È quello che ha fatto l’ex Istituto Statale d’arte di Monza (oggi Liceo Artistico della Villa Reale Nanni Valentini), anche per festeggiare i cinquant’anni dalla fondazione, ma soprattutto per ragionare proprio sul senso di tale “unicità”. Del resto il titolo una scuola per il domani (tutto in minuscolo in copertina e frontespizio in stile Bauhaus) getta già una chiara evidenza sugli intenti. Il solido volume (240 pagine) affiancava una mostra omonima svoltasi alla Triennale di Milano tra dicembre 2017 e gennaio 2018, che con misura e lievità enucleava esempi di didattica di alcuni dei maestri passati nella scuola. La conferma tangibile di un modello formativo originale e in perenne fermento. 

 

 

La ressa all’opening della mostra, dove in un clima di rilassata eccitazione si mescolavano generazioni e ruoli, studenti e ex studenti, professori e ex professori, affermati professionisti e futuri professionisti, è già una prima risposta e la personificazione concreta di uno dei temi del libro. L’istituto è stato e vorrà essere un territorio speciale e aperto dove chi insegna e chi apprende sono attori nella sostanza paritetici, nei differenti ruoli, del fare scuola. Il libro documenta infatti questa necessità di pragmatismo e di continua riflessione e ricerca. In un saggio di Salvatore Zingale si cita Barthes “Vi è un’età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui si insegna ciò che non si sa e questo si chiama cercare”. Un cercare che parte ben prima della fondazione dell’Istituto, essendo gli spazi della scuola alla Villa Reale di Monza i medesimi di una “scuola-laboratorio” sorta nel 1922 (che nel 1929 assumerà la denominazione di ISIA – Istituto Superiore per le Industrie Artistiche). Una scuola per le arti e mestieri, ma che si affiancava alle Biennali (poi Triennali) delle Arti decorative ed era aperta a quella ricerca di modernità delle industrie e degli artigiani della Brianza e del mondo professionale di Milano. Una “scuola all’italiana” la definì Gio Ponti, dove insegnanti e allievi “fanno e inventano insieme”. I maestri erano personaggi prestigiosi come Marcello Nizzoli, Arturo Martini, Edoardo Persico, Alessandro Mazzuccotelli, Giuseppe Pagano. E fra gli allievi basti ricordare la triade dei grafici e artisti sardi Costantino Nivola, Giovanni Pintori e Salvatore Fancello a cui si deve gran parte dell’immagine aziendale dell’Olivetti. Chiusa nel 1943, la feconda esperienza dell’ISIA rimase a modello per l’avvio nel 1967 dell’Istituto Statale d’arte di Monza.

 

 

Ma le domande erano cambiate, il tessuto imprenditoriali e la dimensione produttiva della Brianza avevano assunto una rilevanza e un peso economico molto diversi. La domanda formativa chiedeva competenze nuove, capaci di confrontarsi con l’industria, ma anche di tesaurizzare le grandi qualità della progettualità artistica e architettonica della piazza di Milano. La fase espansiva dell’economia vedeva questo distretto, la regione metropolitana milanese, come guida dello sviluppo industriale e Milano come capitale del nord (così titolava un poema di Giancarlo Majorino della fine degli anni cinquanta). Ma vedeva anche i limiti di uno sviluppo, le diseguaglianze sociali, i costi umani e le perversioni occulte della società dei consumi. Tutto ciò non poteva non investire il tema culturale della scuola, di una scuola che puntava a insegnare saperi non solo col distacco teorico, ma col fare, con lo sperimentare, con le pratiche dei laboratori. Come non far propri i temi conflittuali, le lotte sindacali e studentesche, le ideologie e il ribellismo di quegli anni in un progetto didattico, nel come e cosa insegnare.

 


 

Il libro con i testi e i saggi introduttivi di Anty Pansera e Rodolfo Profumo ricostruisce i cinquant’anni di attività della scuola con le risposte del fare, raccontando le pratiche (didattiche e laboratoriali, ma anche di ricerca e sperimentazione) e le presenze degli attori protagonisti, in primo luogo dei vari insiemi di docenti che si sono succeduti. Ne scandaglia i momenti e le difficoltà, i problemi aperti e le soluzioni attuate: dalla occupazione del 1969 alla grande “crescita”, dall’organizzazione ante-litteram sperimentale alla maxi-sperimentazione del ciclo 1977-1994, dalle incombenze dei problemi spaziali (le strutture fisiche ed edilizie) alla caparbia ed espansiva vitalità culturale. “isa! è pericolosa..” o “isa! è decadosa…” declamano cartelli didattici (ma di protesta) in serigrafia e tipografia realizzati dagli studenti dei professori Emilio Frisia e Lino Gerosa nel 1982/83 appropriandosi e canzonando i claim per il lancio pubblicitario della Fiat Uno.

 


 

 

Via, via i rendiconti ci conducono fino alle decadi più recenti dove le nuove tecnologie aprono nuovi ambiti di riflessione e di indirizzo dell’organizzazione didattica a fronte di politiche restrittive nei confronti della scuola pubblica. Gli anni novanta si caratterizzano per la difesa dell’idea di scuola sperimentale come risposta alle richieste di contenimento dei costi della didattica. Il nuovo assetto porta con sé anche la consapevolezza del valore che l’Isa ha sedimentato negli anni, ma anche un lungimirante sguardo verso l’esterno, non più solo il territorio produttivo circostante (profondamente cambiato dagli anni del boom), ma il più ampio sistema della formazione, sempre più in discussione per le riforme della scuola secondaria superiore. L’Isa guarda oltre e accentua collaborazioni con altri organismi e istituzioni formative, proprio a partire dalla consapevolezza di possedere un’idea originale dell’educazione artistica, attuata con una didattica operativa che pone allo studente obiettivi precisi e impegnativi, ma motivandolo e accompagnandolo verso la gratificante soddisfazione di giungere a risultati concreti. Si apre una stagione di incontri e convegni che diffondono i temi e la visione maturati nella scuola come il pensiero visivo (2001), la relazione tra creatività e progetto (2002) e l’educazione con l’arte (2004). Temi purtroppo poco presenti nella riforma del 2010, ma che restano come impianto strutturante della consapevolezza didattica nel passaggio dall’istituto d’arte al liceo artistico.

 


Il libro è anche il racconto dei molti protagonisti che hanno animato le aule e gli spazi presso la Villa Reale di Monza. I loro nomi sono numerosi ed è impossibile citarli tutti, ma certo solo indagando le provenienze e competenze del primo gruppo di insegnanti risulta evidente un ulteriore tassello per comprendere la particolarità della scuola. Per insegnare come, con quali metodi e procedure, sia possibile progettare oggetti, ambienti, comunicazione e relazioni era necessario un insieme di contenuti disciplinari disposti all’apertura, alla sovrapposizione, alla messa in discussione. La scuola come luogo formativo in primo luogo per i docenti e di confronto e interazione fra tipografi e matematici, ebanisti e architetti, sociologi e fotografi, modellisti e filosofi, grafici e letterati, scienziati e designer, storici dell’arte e semiotici, sportivi e tecnici.

 


 

L’architetto Riccardo Orefice insegnava progettazione (dal 1970 al 1994) con alle spalle un’esperienza con Mario Bellini, Italo Lupi e Augusto Morello in quel laboratorio che era l’Ufficio Design della Rinascente e l’acuto lavoro redazionale nella rivista Superfici con Leonardo Fiori, Remo Muratore e Attilio Marcolli. Narciso Silvestrini, studioso di geometria e teorie del colore, e che ben sapeva che il libro dell’universo è “scritto in lingua matematica” (Galilei), proponeva un’approfondita idea del disegno geometrico. “La geometria si colloca al punto di intersezione tra il fisico e il metafisico, tra il reale e il virtuale, il fine didattico della geometria è il controllo della creatività, in altri termini la creatività logica”. Detto questo aveva anche un fiuto superlativo nel trovare trattorie per camionisti dove continuare i discorsi fra colleghi. Per oggi affermati grafici l’Isa è soprattutto la scuola di Michele Provinciali e di AG Fronzoni, due maestri con approcci agli antipodi. Provinciali insegnò all’Isa fino al 1971 poi intraprese una spedizione archeologica in Persia, accompagnato da Ennio Vicario, fotografo, suo assistente e altro pilastro della scuola (1967-1992). Il suo approccio alla progettazione e all’insegnamento era basato su una “poetica dell’oggetto”. Invitava gli studenti a entrare – anche fisicamente – nell’opera alla ricerca di un disvelamento narrativo e performativo.

 

 

Così epica resta la lezione happening svoltasi nel cortile della scuola, dove su lunghi fogli di carta gli studenti erano invitati a improvvisare una grande opera collettiva di action painting. Mentre Fronzoni fu insegnante per oltre vent’anni e immortalò col suo stile l’immagine della scuola. Marchio, cataloghi, manifesti, comunicazione sono segnati dal suo rigore assoluto, minimalista e massimalista. Con la sottrazione e parsimonia del segno puntava a raggiungere il massimo della potenza estetica e comunicativa. Le lezioni di Fronzoni richiedevano agli studenti una rettitudine e una sobrietà di comportamenti, raggiungere la catarsi del segno era un processo di distillazione che in primo luogo chiedeva un rigore estremo dove progetto ed esistenza erano da considerarsi la stessa cosa. Se con Silvestrini si indagava il crinale matematico tra il fisico e il metafisico, con Nanni Valentini, artista e didatta (dal 1969 al 1985) a cui ora è dedicato il liceo, gli studenti potevano incontrare una singolare esperienza di educazione artistica dove compito formativo, pratica estetica e riflessione culturale si fondevano. «Mi piace manipolare la terra, vedere attraverso la tela, bagnare di colore le cose – diceva ai suoi allievi –. Cerco di capire cosa c’è nell’interspazio tra il visibile e il tattile. Forse un desiderio di rendere fluido ciò che è cristallizzato».

 

 

E si potrebbe continuare, quasi all’infinito in questo flusso didattico e sperimentale, con Alfonso Grassi o Massimo Dradi (progettazione grafica), Claudio Ogier o Liliana Curcio o Roberto di Martino (modellistica), Attilio Marcolli o Ugo La Pietra (design, architettura, ambiente), Giuseppe Di Napoli o Antonio Mottolese o Marco Mirzan (educazione visiva), Romano Barboro (laboratorio di grafica), Ennio Vicario o Roberto Maderna (laboratorio di fotografia), Anty Pansera o Lisa Ghianda (storia dell’arte), Salvatore Zingale o Marco Belpoliti o Mario Porro (storia del pensiero scientifico). E molti altri che il libro ospita con saggi sui temi e gangli teorici affrontati dalla scuola e con un florilegio di testimonianze dove il pathos del ricordo non cancella mai l’istanza dell’“insegnare a vedere” e del “dire e mostrare”. Insomma una buona scuola.


1) AA.VV., una scuola per il futurodall’ISA di Monza al Liceo artistico Nanni Valentini

1967-2017, Mondadori, Milano 2017

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I cinquant’anni dell’Istituto d’arte di Monza
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Alberi della Passione

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Palme e ulivi sono gli emblemi arborei della Pasqua. Eppure, la settimana della Passione ha come protagonisti altri esemplari clorofilliani. Tutti noi abbiamo negli occhi la corona di nude spine imposta al Cristo prima della crocefissione, e l’iconografia sacra sempre così la raffigura. Infatti, secondo la vulgata latina da cui dipende la maggior parte delle traduzioni italiane, i Vangeli di Marco Matteo e Giovanni (Luca sorvola sul dettaglio) parlano di spineam coronam (Mc) e di coronam de spinis (Mt. e Io.).

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Serres, Hergé mon ami

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E se la filosofia non fosse là dove la si cerca abitualmente? Nel 1970, sulla prestigiosa rivista Critique fondata da Bataille, Michel Serres propone una lettura strutturale di una bande dessinée, I gioielli della Castafiore (1963), 21° albo delle Avventure di Tintin. La saga a fumetti creata dal belga Hergé (Georges Rémi, 1907-1983), iniziata nel gennaio del 1929 sul supplemento settimanale di un quotidiano cattolico conservatore, aveva conosciuto immediato successo nei paesi francofoni. Oggi gli albi del cartoonist belga sono noti in tutto il mondo, soprattutto da quando nel 2011 Steven Spielberg li ha fatti conoscere al pubblico cinematografico con Le avventure di Tintin. Il segreto dell’Unicorno. Il regista aveva scoperto il fumetto di Hergé leggendo una recensione del suo film I predatori dell’arca perduta, nella quale il personaggio di Indiana Jones è paragonato a Tintin. Un paragone fondato perché le avventure di entrambi si svolgono fra misteri archeologici, enigmi e tesori da scoprire, mescolando con sapienza la tensione drammatica dell’azione all’ironia ed all’umorismo. 

 

Serres, nato nel 1930 nel sud-ovest della Francia, conosce le avventure di Tintin dal 1936, dall’albo L’Orecchio spezzato, un’epoca in cui anche nella sua casa si avverte l’eco dei massacri della guerra di Spagna, e continua a leggere Tintin durante la Seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista. Per i giovani segregati nelle loro case, l’eterno ragazzino dal ciuffo ribelle e dal volto inespressivo svolge lo stesso ruolo dei protagonisti dei romanzi di Jules Verne: permette di viaggiare con la fantasia, di evadere in luoghi esotici e lontani, a Shangai e nel Tibet, in Scozia o sulla Luna. Chi ha rallegrato la giovinezza nel tempo dell’orrore diventa, dopo l’articolo apparso su Critique, “amico di vecchiaia”, come Serres dichiara in Hergé mon ami (Bruxelles, Moulinsart, 2000, seconda edizione arricchita 2016), che la giovane e agguerrita casa editrice pesarese “Portatori d’acqua” propone ai lettori italiani (a cura di Domenico Scalzo, traduzione di Simone Massa, pp. 180, e 20,00). Il libro raccoglie diversi saggi pubblicati dal 1970, uno dei quali è apparso nel numero monografico della rivista “Philosophie Magazine” (Tintin nel Paese dei Filosofi, settembre 2010). 

 

I fumetti di Hergé si contraddistinguono per la cosiddetta “ligne claire”, ossia per la bidimensionalità dei personaggi, connotati da un disegno piatto, senza tratteggio, senza sfumature di colore o effetti d’ombra. A differenza dei comprimari delle sue avventure – il fox terrier Milou, il capitano Haddock, lo scienziato Girasole, la cantante Castafiore –, a cui è affidato il lato umoristico, Tintin è un personaggio neutro, non suscita riso o emozione, neppure possiede particolari tratti fisionomici. Il suo volto è un semplice ovale in cui la bocca e gli occhi si riducono a dei punti, sul piano grafico è un abbozzo, quasi uno schema vuoto. Ma proprio questa testa, infantile e indeterminata, “buca la pagina”: la macchia bianca del volto pratica, nella vignetta, una finestrella in cui, come nelle fiere, chiunque può infilare il viso ed apparire in uno scenario avventuroso e nelle vesti di un eroe o di un divo. Quel tondo vuoto permette un’identificazione totale al punto di poter pensare per la prima volta anche alla possibilità della propria morte. In una “vignetta memorabile” di L’orecchio spezzato, Tintin, colpito da un colpo di pagaia, cade in un fiume dell’Amazzonia tra ferocissimi piranhas. Serres bambino deve aspettare una settimana prima di conoscere la sorte di quel volto sommerso dalle acque che sono per lui quelle della Garonna, sulle cui rive vive la sua famiglia. 

 

La scoperta contemporanea verso i 7-8 anni degli albi di Hergé e dei romanzi di Jules Verne ha promosso in Serres la fascinazione del viaggio, lezione esemplare per chi ritiene che il filosofo debba compiere tre volte il giro del mondo, del mondo fisico, di quello enciclopedico e di quello delle civiltà – si veda Doppiozero, 26 novembre 2017. A Verne, altro maestro della letteratura per l’infanzia, o dell’infanzia della letteratura, Serres ha dedicato un saggio esemplare (1974, Sellerio), che si apriva con le parole: “ho voluto frugare fra i resti rari del cadavere amaro che porto in me: il bambino”. Ma se lo scrittore dell’epoca positivista fa muovere i suoi Viaggi straordinari dalle scienze naturali – dall’astronomia per salire sulla Luna, dalla geologia per scendere nel cuore della Terra, dalla biologia per inabissarsi con Nemo sul fondo del mare –, il cartoonist prende le mosse dal Museo etnografico, ci introduce alla storia, all’archeologia e all’antropologia. Il disegnatore, scrive Serres, ha indossato l’abito di un Jules Verne delle scienze umane. Anche Hergé ci conduce su mari e montagne, dentro foreste e deserti, ma la sua esplorazione scopre le “cose nascoste” che tengono insieme gli uomini di quei luoghi.

 

Certo, la rappresentazione dell’Africa in Tintin in Congo (1930) è un documento al tempo stesso ingenuo e sconvolgente del tempo in cui l’etnologia era figlia del colonialismo, raccoglieva i suoi materiali dal Museo delle Colonie e restava prossima alla mentalità dei conquistatori. Ma Hergé segue la stessa traiettoria degli etnologi della scuola inglese, allievi di James George Frazer, o della scuola francese, sulla scia di Émile Durkheim e di Marcel Mauss. Come loro, compie nel corso del cammino un ritorno critico sulle pratiche e le dottrine dell’etnologia fino ad approdare ad un radicale anti-colonialismo ed al rifiuto del razzismo. Tintin insegna ad essere amici dei rappresentanti di tutte le popolazioni, ribalta il disprezzo in ammirazione: le altre culture sono equivalenti alla nostra, gli altri non sono più i primitivi che devono raggiungerci sul cammino del progresso, ma simili nei quali possiamo e dobbiamo riconoscerci. 

Esemplare in tal senso la storia de L’orecchio spezzato. La scomparsa di una statuetta arumbaya dal Museo etnografico si trasforma in un viaggio nel cuore della foresta amazzonica per comprendere il feticismo. Il giovane detective si reca sul campo come fa l’etnografo, allievo di quel Charles de Brosses che a metà Settecento introduce il termine “feticcio” nella cultura dell’Occidente.

 

Comte se ne servirà per indicare la fase originaria dell’epoca teologica, quella dell’umanità arcaica che adora statuette o totem prima di volgersi al politeismo. Marx mostrerà poi all’opera il feticismo nel mondo delle merci, oggetto di un culto che ne nasconde l’origine dal lavoro, e Freud nelle patologie della sessualità per designare i sostituti dell’oggetto sessuale. Le copie della statuetta perduta (in realtà, è rimasta nel Museo, come la lettera rubata di Poe) passano di mano di mano, tutti la desiderano, alla fine viene riprodotta in serie, entra nella dimensione religiosa della superiorità del valore di scambio sul valore d’uso. Ed i passaggi sono sempre segnati da sostituzioni: è questa la regola che guida il gioco, l’operazione che fa transitare da una casella alla successiva, mentre un falso feticcio prende il posto di quello vero. Il feticcio è l’operazione generale di sostituzione, l’oggetto senza il quale non si può pensare lo scambio in generale, di merci, parole, persone, segni; il feticcio, statua in perenne movimento, costituisce il motore del racconto, quasi-oggetto lo definisce Serres, al pari del furetto che passa di nascosto di mano in mano nel gioco ricordato da Proust ne L’ombra delle fanciulle in fiore.

 


L’oggetto traccia così le relazioni tra i personaggi del racconto, conserva a differenza del denaro le tracce di quanti lo hanno posseduto, oggetto di desiderio e fonte di morte possibile. Il racconto di tappa in tappa risale fino alle origini, al palo su cui troneggia il feticcio dell’antico popolo “primitivo”, là dove si compie il sacrificio. Tintin sfugge più volte alla morte, sempre grazie a sostituzioni: anche l’eroe passa di mano, è lui in fondo il feticcio, soggetto che giace al di sotto, sub-jectum, cioè la vittima sempre sostituita. Il segno vuoto di Tintin assume il volto di chiunque altro, vicario e sostituto, vittima designata e disegnata. Questo è in effetti il segreto del feticcio, statuetta che riproduce il corpo sacrificato, la genesi del sacro nel gesto originario compiutosi nel cuore delle lontane foreste e ripetuto di continuo nello spettacolo delle civiltà che si vogliono evolute.     

L’orecchio spezzato costituisce nella rilettura di Serres un vero e proprio “manuale di etnologia”. Risalendo l’Amazzonia, verso l’origine delle società umane, la bande dessinée ci conduce al segreto mantenuto sepolto dai ‘primitivi’ e svelato dagli etnologi: il feticcio rappresenta in modo simbolico il cadavere del sovrano ucciso, la prima statua permette di superare i sacrifici umani. Ma ora il luogo della fondazione del sacro e del potere ha lasciato la sua origine per divenire simulacro ed accedere alla società dello spettacolo. Nella postfazione ad Hergé mon ami, Domenico Scalzo, meditando lungo il filo rosso suggerito da Benjamin del rapporto fra immagine ed infanzia, mostra con rigore e competenza come le riflessioni su Hergé si inseriscano nella trama complessa del pensiero serresiano. Il feticcio (che non a caso torna nel pensiero di un discepolo di Serres come Bruno Latour) è l’oggetto ibrido, sul crinale fra natura e cultura, che meglio restituisce la realtà degli organismi viventi: ognuno di essi è un rattoppo, arrangiato alla buona dal gioco fortuito delle circostanze, ogni organo è l’esito di un bricolage, come attesta il cervello, prodotto dal recupero di pezzi ricomposti. Ma soprattutto il feticcio è quel che permette di non ripetere all’infinito il sacrificio fondatore; non abbiamo più bisogno di tagliare le teste, possiamo farne delle sculture (tema al cuore di Statues, 1987), corpi morti nel cui fondo oscuro si conserva il sacrificio con cui una comunità giunge ad unirsi. È la lezione di René Girard, amico e collega di Serres all’università di Stanford, su cui il filosofo francese non ha smesso di meditare dal tempo di Roma. Il libro delle fondazioni (1983) fino agli scritti più recenti come Darwin, Napoleone e il Samaritano (Bollati Boringhieri, 2017).

  

Dopo essere stato esploratore ed etnologo, averci mostrato le conseguenze dell’impatto sulla terra di un meteorite (La stella misteriosa, 1942), narrato la maledizione che si abbatte sui profanatori delle tombe degli Incas (Le Sette Sfere di Cristallo, 1948), averci condotto sulla Luna (Uomini sulla Luna, 1954), ne I gioielli della Castafiore Tintin è alle prese con l’arrivo al castello di Haddock della cantante italiana, tirannica e scocciatrice. Dopo una lunga serie di falsi allarmi, qualcuno ruba realmente uno smeraldo della cantante, ma si scopre alla fine che nessuno dei sospetti è davvero colpevole, il ladro è una gazza. A comparire sulla scena è la società contemporanea dominata dallo scambio di messaggi, versi di animali, suoni, linguaggio parlato e scritto, tecniche di trasmissione, mass media, TV e giornali. Ma la comunicazione si è fatta pletorica, al crescere dei messaggi si moltiplicano disturbi, malintesi e distorsioni; nasce così paradossalmente una società dell’“incomunicabile”. Tutti i mezzi per entrare in relazione sono interrotti, i nomi sono deformati di continuo, le immagini televisive subiscono interferenze, all’altro capo del telefono non risponde mai chi si sta cercando. Modello esemplare, mise en abime del racconto, è il gradino spezzato della scalinata che conduce ai piani superiori, da cui tutti passano finendo per cadere o inciampare. Tutti parlano ma nessuno intende, le frasi si riducono a stereotipi o strafalcioni, pura ripetizione insensata che ha la sua prosopopea nello strepito del pappagallo. Nei primi anni Sessanta Serres aveva riletto in chiave strutturale il pensiero matematico di Leibniz, indicando nella monadologia la prima filosofia della comunicazione; nel saggio del ‘70 ritrova nei comics un trattato filosofico, versione contemporanea della solitudine delle monadi, senza porte e finestre per comunicare, senza armonia prestabilita garantita da Dio. La comunicazione si è fatta tautismo, tautologia che ripete l’identico fra attanti autistici. Il fumetto mostra in maniera diretta le piaghe del nostro discorso, il suo girare a vuoto, avrebbe detto il secondo Wittgenstein. Tutti i personaggi sono disposti lungo la rete che dovrebbe unire emissione e ricezione, ma la rete, pervasa dal rumore, trasmette solo i propri guasti; ogni circolazione si perde, le automobili si bloccano in un ingorgo, la moltiplicazione in serie dei media intralcia ogni dialogo e produce un persistente vaniloquio. L’équipe televisiva, alle prese con un guasto elettrico, diffonde notizie false, in cerca di scoop alimentati da malintesi. I giornalisti ricevono ed emettono qualsiasi cosa, diventano vettori degli scambi, ma vendono merce contraffatta, paccottiglia per attrarre audience. 

 

I gioielli della Castafiore sono un trattato sull’incomunicabilità generata dall’eccesso di comunicazione. Hergé con dei “nulla”, cioè con del “rumore”, costruisce una storia coerente: molto rumore per nulla, e dunque qualcosa, cioè un’immensa rappresentazione, una commedia degli specchi e delle maschere. Al centro la dama di scena, la Castafiore, colei che fa rumore col suo canto e scatena fake news sul suo matrimonio ed i suoi gioielli; è lei il parassita in senso primario, chi mangia alla tavola dell’ospite, l’invitato goloso che prende ma non dà nulla in cambio, se non vocalizzi che fanno tremare i vetri e coprono i dialoghi degli altri personaggi. Al vertice della catena degli scambi la Castafiore, l’unica a non cadere lungo la scalinata, parla a tutti e non ascolta nessuno; come i giornalisti dei rotocalchi e della tv fa del rumore la sua principale occupazione. Nella società dello spettacolo fondata sui mass media, il messaggio veicola solo se stesso e la comunicazione si nutre dei propri scarti; anche nell’ultimo albo completato da Hergé, Tintin e i Picaros (1976), tutto si svolge in funzione degli occhi della stampa e delle telecamere. La finzione prevale ormai sulla realtà; in un Sudamerica di miserie e dittature, fra una serata di gala e una festa di Carnevale, generali cospiratori in rivalità mimetica lottano per controllare i mass media e le droghe.  

   

Serres aveva sostenuto che “il luogo elettivo dell’innovazione si colloca attualmente nell’insieme delle tecniche della comunicazione”: alla civiltà di Prometeo, dominata dalla produzione, si va sostituendo la civiltà posta sotto l’egida di Ermes, dio degli scambi e degli incroci, messaggero degli dei. Apparizione di Ermesè il titolo di un saggio del 1967 (se ne trova la traduzione nel numero monografico della rivista Riga, n. 35, Marcos y Marcos) in cui Serres rilegge il Don Giovanni di Molière. La malvagità del seduttore consiste nel non volersi piegare alla logica dello scambio/dono che governa la società. Don Giovanni non rispetta la parola data, non mantiene le promesse, non paga i debiti: si tratti di donne, di parole o di denaro, trasgredisce la legge di cortesia che regola la commedia (del teatro e della società). Una legge il cui modello ridotto viene enunciato all’inizio della pièce, al sollevarsi del sipario: galantuomo è chi offre il tabacco senza che gli venga chiesto, chi lo rifiuta come don Giovanni non è degno di vivere, chi non si integra nella catena del commercio finisce condannato a morte. Molière ci mostra la società contemporanea come una tribù di primitivi, dove dominano gli stessi criteri che ritroviamo nel Saggio sul dono di Marcel Mauss: la legge suprema che impone la circolazione dei beni allo stesso modo di quella delle donne e delle promesse, il banchetto e le cerimonie rituali, la commedia delle relazioni umane. “Era proprio necessario errare per tre secoli sull’occhio glauco del Pacifico per apprendere lentamente degli Altri quel che sapevamo già di noi stessi, per assistere oltremare a scene arcaiche, le stesse che rappresentiamo tutti i giorni sulle rive della Senna, al teatro Francese o al ristorante di fronte? Ma avremmo mai potuto leggere Molière senza Mauss?”.

  

Nell’arte nuova della bande dessinée, nella “poesia muta della linea chiara”, le scienze umane sono già implicate da sempre, senza che l’autore abbia bisogno di conoscere le dottrine degli studiosi. Non è perché possediamo il filtro delle scienze umane che possiamo comprendere il testo disegnato di Hergé; “Solo la filosofia può andare tanto in profondità da dimostrare che la letteratura va ancora più in profondità di lei”, ha scritto Serres ne Il Terzo istruito (Marsilio, 1992). Ma oltre a prestarsi a dotti commenti, psicanalitici o sociologici, gli album di Tintin restano in primo luogo manuali di morale, in cui si pone con nettezza la questione del Bene e del Male. Tintin è una sorta di santo laico, un “cuore puro” che incarna con mirabile e profonda ingenuità il boy-scout ideale. Partito per un “viaggio umanitario” in cerca di un amico scomparso fra le vette dell’Himalaya, Tintin in Tibet rinnova la parabola del Buon Samaritano; l’amico è stato salvato e accudito dallo yeti, l’abominevole uomo delle nevi, che si rivela non un mostro selvaggio, ma un essere buono con il quale gli uomini dovevano senza dubbio un tempo coabitare, prima di ricacciarlo in luoghi inaccessibili. A differenza degli uomini, la bestia non caccia, il rapporto di predazione non è reversibile. Serres invita ad immaginare che cacciare abbia il significato primario di espellere, bandire; diamo la caccia alle bestie non perché siano selvagge, ma perché le abbiamo espulse dalla nostra casa, le abbiamo ricondotte alla foresta, mentre in principio vigeva il paradiso dei viventi riconciliati. È l’esclusione a fare del prossimo un essere lontano; ma la bestia inseguita e cacciata si comporta con dolcezza e carità, a differenza degli uomini civili, prova terrificante dell’eccezionale rarità della morale. Tintin riduce le distanze che le scienze umane pongono fra chi studia e chi è oggetto di studio: “assisteremo mai alla nascita delle scienze umanitarie?”, chiede Serres. La parabola del Samaritano, l’uomo cacciato e vilipeso, suggerisce che bisogna amare non il prossimo che ci è simile, ma chi è disprezzato, per saper riconoscere il Bene quando assume il volto del Male. Tintin condanna l’etnocentrismo, ma non aderisce ad una concezione etica “relativista”, non mette sullo stesso piano tutti i valori; il suo comportamento è costantemente ispirato all’ideale del pacifismo e della non violenza, un ideale che Serres (più volte critico nei confronti dello spirito bellicoso della Marsigliese) ha contrapposto di recente al latente nazionalismo di Astérix, che risolve i suoi problemi a suon di pugni. 

 

Una versione ridotta di questo testo è apparsa su Alias, l’inserto domenicale de il Manifesto, il 18 febbraio 2018.  

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La morte non è un’opzione

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Per un approccio francese al transumanesimo

Tra Francia e Stati Uniti – lo sappiamo tutti – non corre buon sangue. “La Francia non può essere Francia senza grandeur”, diceva De Gaulle, ed è chiaro che l’universalismo americano è sempre stato scomodo ai francesi, percepito più come una minaccia al suo famoso narcisismo, che come un alleato o un modello a cui allinearsi. Ovviamente, l’antipatia è corrisposta: gli americani considerano i francesi “effemminati e pelandroni, corrotti e sprovvisti di idealismo, troppo teorici, elitisti e collettivisti”, scrive il giornalista Brian Palmer, e il cosiddetto “french bashing” dei giornali anglosassoni nei confronti delle 35 ore lavorative o le feroci critiche allo “Stato assistenziale” francese sono storia recente; ulteriori e costanti motivi di contrasto tra due visioni del mondo che – al netto di eventuali e reciproci complessi di inferiorità – pretendono di essere diverse l’una dall’altra.

 

Non sorprende, quindi, che la mitica Silicon Valley, con le sue aziende multimiliardarie e i suoi visionari geni del web, siano, molto più che in Italia, sotto la lente di ingrandimento dei politici e degli intellettuali d’oltralpe. Simbolo della potenza americana e, nello stesso tempo, tempio del liberalismo turbocapitalista, i giganti californiani del digitale suscitano da una parte l’interesse di chi sogna di recuperare il gap con gli States, dall’altra la preoccupazione del mondo cattolico e dei cosiddetti pensatori antimoderni – da Alain de Benoist a Luc Ferry, fino alla giornalista Natacha Polony–, che si affannano nel mettere in guardia dai pericoli di una supremazia dell’economia e della tecnica – vedi le recenti polemiche relative all’utero in affitto – sull’umano. 

Il “transumanesimo”, che teorizza una nuova umanità evoluta e artificiale permettendo all’essere umano di sbarazzarsi del corpo e della sua caducità, è una delle prospettive più affascinanti a cui lavorano gli scienziati californiani; un argomento che, ovviamente, stuzzica la fantasia degli scrittori. È così fin dai tempi di Frankenstein o – per citare un archetipo francese – dell’Eva futura di Villiers de l’Isle Adam: l’uomo è ossessionato dall’idea di fabbricare se stesso, cioè di diventare Dio. La pubblicazione, negli ultimi mesi, di almeno tre romanzi francesi sull’argomento, potrebbe rappresentare un motivo più che valido per chiedersi se è possibile parlare di un approccio “francese” alle teorie transumaniste. Una lettura – riprendendo i presupposti enunciati in apertura – eventualmente controcorrente rispetto a quella anglosassone.

 

Nel suo ultimo romanzo, Une vie sans fin, pubblicato in Francia lo scorso gennaio, Frédéric Beigbeder – scrittore, regista, critico letterario e icona mediatica – ha deciso di raccontare “il suo viaggio verso l’immortalità in nove tappe”. 

 

 

Come quasi sempre accade nei suoi libri, l’autore parte da un’ossessione personale: “un tempo pensavo alla morte una volta al giorno, da quando ho superato il mezzo secolo, ci penso ogni minuto”. E così, il suo alter ego romanzesco, un conduttore televisivo, promette a sua figlia di dieci anni che farà di tutto per non morire. Indossati i panni un po’ improvvisati del giornalista investigativo, il protagonista passa in rassegna tutti i metodi messi a disposizione dalla scienza per prolungare la vita il più possibile, presumibilmente fino all’immortalità: rigenerazione cellulare, ringiovanimento degli organi interni, inversione dell’invecchiamento, criogenizzazione etc… Ne risulta ciò che l’autore stesso definisce un “roman de science-non-fiction”, un romanzo di non-fantascienza, visto che le interviste ai medici e agli specialisti sono autentiche, così come lo sono gli “esperimenti” a cui il protagonista si sottopone nel corso della sua avventura. Pur non rinunciando al suo punto di vista personale – che, in definitiva, è ciò che più ci interessa – quello di Beigbeder assomiglia a una sorta di manuale che fornisce al lettore che non ne sa nulla un utile bagaglio di conoscenze di base sull’argomento.

 

Verso la fine del suo viaggio, che comincia dalla consapevolezza di non voler morire (il capitolo “La mort n’est pas une option”, La morte non è un’opzione) e termina con il Superuomo di nietzschiana memoria (“Uberman”) – ovvero una razza superiore biologicamente aumentata, che, come ricorda lo stesso autore, altro non è che la realizzazione del sogno eugenetico dei nazisti – si affronta inevitabilmente il tema del transumanesimo. Il protagonista del romanzo ha già adottato la “dieta Saldmann”, sequenziato il suo DNA, congelato le sue cellule staminali, fatto una trasfusione di sangue con il laser e preso informazioni sul trapianto di organi umani cresciuti negli animali e sulla creazione ex novo di organi con una stampante 3D, mostrandoci tutte le meraviglie della tecnologia contemporanea. Ora si trova all’Health Nucleus di San Diego, in California, ed è pronto a compiere un passo ulteriore: sbarazzarsi del corpo e abbattere la barriera tra l’umano e il digitale. “Se siamo capaci di immagazzinare un film in digitale nel DNA di un batterio vivente – questo l’assunto di partenza del transumanesimo –, allora è possibile anche integrare tutta l’informazione del nostro cervello in un DNA per poi scaricarlo su un hard disc molto potente”. O sul cloud. A questo punto, non resta che connettere il cervello digitale a un robot che “non avrà la mia pelle, ma avrà il mio senso dell’umorismo, la mia memoria, la mia stupidità, le mie attitudini, le mie opinioni, le mie convinzioni, il mio stile, costantemente attualizzati”. 

 

Dopo aver perso la sua famiglia – che aspettava invano il suo ritorno nei Paesi Baschi – a causa di quello che, pagina dopo pagina, diventa un autentico delirio di onnipotenza, il nostro eroe perde anche la vita a causa di un’epatite contratta in seguito a una trasfusione di sangue giovane – quello che l’autore definisce come una sorta di “vampirismo del XXI secolo”. La citazione di Montaigne all’inizio del capitolo avrebbe dovuto metterci in guardia: “Talvolta la fuga dalla morte fa sì che corriamo tra le sue braccia”. Così, grazie al “brain uploading” che aveva effettuato, il protagonista può finalmente sperimentare la vita dopo la morte e ne deduce che “la morte è triste, ma la non-morte è ancora peggio”. Scrive l’autore: “Pessoa si è sbagliato quando ha detto “la vita non mi basta”. Oh sì che la vita basta. La vita basta ampiamente, parola di un morto”.

In definitiva, l’eroe autofinzionale di Beigbeder è solo un egocentrico, un invasato la cui curiosità per i progressi della scienza è direttamente proporzionale all’egoismo. È questo il messaggio dell’autore, che, non a caso, conclude il romanzo con il suo ritorno alla casa in campagna – nella vita vera Beigbeder ha lasciato Parigi e il suo impiego in tv per trasferirsi nei Paesi Baschi – e ai suoi affetti, più umani che mai, mentre tutto il suo delirio post mortem, alla fine, non risulta essere nient’altro che un brutto sogno.

 

Se Beigbeder riduce l’ampiezza della critica alla “hybris tecno-messianica” tipica della Silicon Valley affidandola al nombrilismo del suo alter ego letterario, nel caso del romanzo di Pierre Ducrozet L’invention des corps e del romanzo di François-Régis de Guenyveau Un dissident, la presa di posizione nei confronti delle nuove tecnologie è molto più esplicita e severa – dipenderà anche dall’età anagrafica degli autori, nati entrambi negli anni `80?

Questi due romanzi hanno non pochi elementi in comune, a tal punto da poterne dedurre una struttura-tipo del romanzo transumanista. Da una parte c’è un guru, un visionario posseduto da un’ambizione che sconfina nel delirio e dotato di risorse finanziarie illimitate per realizzare il suo progetto per il futuro dell’umanità. In altri termini: l’antagonista. Dall’altra c’è il giovane geek che si ritrova suo malgrado a far parte dell’ingranaggio e alla fine – nel momento in cui si rende conto delle sue aberrazioni – decide di sabotarlo. 

Nel libro di Guenyveau – lo si capisce fin dal titolo –, tale personaggio è il protagonista assoluto dell’intreccio ed è incarnato da Christian, un ragazzo nato in un piccolo paese di provincia da genitori tanto borghesi quanto freddi e insignificanti, che cresce a pane e matematica, non ha amici e figuriamoci la fidanzata. Grazie a uno zio, Stanislas, proprietario di Trans K, una società pioniera nel mercato dell’uomo aumentato, andrà a lavorare negli Stati Uniti, in un laboratorio nascosto tra gli alberi di una foresta secolare. Come da copione, questo control freak che legge la vita come se fosse un’equazione matematica si renderà conto che Stan non lavora “per il bene dell’umanità”, come volevano fargli credere, e che la scienza è sì bella e necessaria, ma che talvolta deve lasciare spazio al mistero e alla fede. 

 

 

L’eroe di Ducrozet, invece, è un giovane professore d’informatica messicano sopravvissuto al famoso massacro di Iguala del 2014, durante il quale la polizia prelevò 43 studenti che si stavano recando a una manifestazione e li affidò ai criminali di un cartello della droga che li uccise e poi li bruciò in una discarica. Anche lui finisce nelle mani di un orco: Peter Hayes, giovane imprenditore rock’n’roll ossessionato dall’eliminazione della morte e dalla rigenerazione degli organi grazie alle cellule staminali, che non lo sfrutta per le sue competenze informatiche, ma come cavia per il trapianto di organi. Proprio come Stanistas, Peter si ispira agli attuali boss della Silicon Valley: Serguey Brin (Google), Raymond Kurzweil (Google) e Elon Musk (Tesla). Ma non è tutto. Ciò che caratterizza il romanzo di Ducrozet (Prix de Flore 2017) e che lo distingue dai precedenti, è il lavoro che l’autore ha fatto sulla forma: “Ho immaginato [...] un romanzo senza baricentro, fatto di pieghe e di passaggi, di rimandi, di ipertesti, in grado di riprodurre il mondo contemporaneo, utilizzando Internet come contenuto e come forma”. Autentico “World Wild Novel”, romanzo-mondo o meglio romanzo-mappamondo, nel suo libro Ducrozet prende per mano il lettore portandolo dappertutto – Messico, USA, Canada, Hong Kong, Parigi –, e varia i registri stilistici – realistico quando rievoca il massacro di Iguala, fantascientifico quando descrive l’isola futurista ideata da Hayes, sentimentale quando l’amore di Adèle salverà la vita del protagonista - alla ricerca della propria utopia: “rallentare i giorni, domare lo spazio”.

Per quanto i due romanzi si differenzino per abilità narrative e ambizione autoriale – quello di Guenyveau è un tipico romanzo di formazione, mentre quello di Ducrozet ha un respiro più globale sul tema del transumanesimo, più simile alla satira totalitaria del Cerchio di Dave Eggers – entrambi si strutturano attorno all’asse che, in ultima istanza, vede contrapposte due famiglie politiche: da una parte l’impero neoliberista dei cattivi, quello dei fautori del transumanesimo, dall’altra le cellule di resistenza rappresentate dai giovani hacker informatici, incarnazione di una sorta di anarchismo conservatore ed ecologista. 

 

Potrebbe essere davvero questo – volendo estendere il perimetro dei casi letterari francesi e considerandoli un potenziale modello narrativo – il punto di vista politico-filosofico della vecchia Europa sullo sviluppo tecnologico e sulle teorie transumaniste made in USA? O dobbiamo pensare che quello dei francesi sia solo il risultato di un naturale istinto di protezione nei confronti della loro fin troppo bistrattata grandeur?

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Michel Foucault. Le confessioni della carne

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Con la pubblicazione di questo volume IV della Storia della sessualità, l’opera pianificata da Michel Foucault nel 1976 e lasciata incompiuta a causa della sua prematura morte, viene dato alle stampe uno degli ultimi tasselli, se non l’ultimo, per comprendere in che direzione stesse andando la teoria del grande pensatore francese nelle ultime fasi della sua produzione.

La lettura della ponderosa opera (426 pagine) divise in tre macrosezioni (La formation d’une expérience nouvelle, Être vierge, Être marié) [La formazione di una nuova esperienza, Essere vergini, Essere sposati] e da 4 annessi, attesa da più di trent’anni dal pubblico specialistico e non, provoca nel lettore sentimenti contrastanti. 

Se fosse possibile esprimere in un unico aggettivo questo libro di Foucault, quello che mi verrebbe, di primo acchito, da utilizzare è “inappariscente”. 

Il lettore che si aspettasse, infatti, dalle pagine di Les aveux de la chair [Le confessioni della carne] la rivelazione conclusiva, la parola finale, di Foucault sulla sessualità, o sulla sua vita (come ci si sarebbe potuti d’altro canto aspettare, visto che, come nota Frédéric Gros nella sua introduzione, il libro è stato corretto con acribia dall’autore francese fino a un mese prima della morte), rimarrà sicuramente deluso.

Nessuna confessione della carne dell’autore in Le confessioni della carne. Foucault rimane, in questo quarto libro della sua incompiuta Storia della sessualità (mancano all’appello 4 dei libri originariamente programmati da Foucault), sulla scia dei due che lo avevano preceduto, L’uso dei piaceri e La cura di sé, così come egli resta sulla scia delle analisi che fin dagli inizi degli anni ’80 avevano segnato i suoi interessi nei corsi tenuti al Collège de France: quelle sulla costituzione del soggetto nel mondo antico.

Se, infatti, il volume II e III della storia della sessualità erano stati dedicati al modo in cui – nel mondo pagano tardoantico, e in particolare nelle scuole filosofiche – la sessualità era stata ricompresa entro un sistema etico-pratico mirato a costituire un soggetto sovrano, padrone di se stesso, il volume IV è da comprendersi all’insegna della continuità con i precedenti, malgrado lo spostamento del focus al periodo cristiano.

 

Foucault analizza, infatti, la sessualità dei primi secoli del Cristianesimo (con particolare interesse ai secoli II, III e IV), impegnandosi a sottolineare come essa sia da comprendere, e da ricomprendere, entro le coordinate etiche che già lo stoicismo (e in generale la filosofia degli ultimi secoli dell’antichità pagana) aveva contribuito a delineare, pur sottolineando di volta in volta le differenze specifiche apportate dal Cristianesimo.

Il testo, come detto, è diviso in tre macrosezioni: la prima funziona, tra l’altro, da parte introduttivo-metodologica, ponendosi fin dal titolo la domanda sulle condizioni, e sulla qualità specifica, della nascita dell’esperienza della “carne” propriamente cristiana. Nella seconda e nella terza sezione, invece, vengono analizzate nello specifico due delle esperienze della “carne”, vale a dire del corpo sessuato, che saranno al centro delle elaborazioni teoriche cristiane dei primi secoli: vale a dire la verginità (sezione II) e il matrimonio (sezione III).

Queste tre macrosezioni sono a loro volta ripartite in ulteriori sottocapitoli, che seguono un andamento argomentativo, si potrebbe dire, “decostruttivo”, nel senso di un close reading ermeneutico dei testi antichi che Foucault ritiene particolarmente paradigmatici per descrivere l’esperienza della sessualità nei primi secoli del Cristianesimo.

 

La prima sezione riprende e articola un tema caro all’ultimo Foucault, quello delle tecnologie del soggetto, quelle “tecniche del Sé” che Foucault, in un famoso seminario del 1982 presso l’Università del Vermont, ha portato alla fama della critica, facendone un strumento-cardine delle analisi in campo storico-culturale che verranno dopo di lui. In particolare, l’oggetto delle analisi foucaultiane è il Pedagogo di Clemente Alessandrino, un libro che incontra l’interesse del pensatore francese in quanto teorizzazione di un “regime” (p. 17), di un insieme prescrittivo di regole mirato a insegnare “l’arte di vivere cristianamente” (p. 12). Questa “arte di vivere”, che traduce nel linguaggio foucaultiano il greco “tekhne perì bion” (p. 11), non è altro che un modo per indicare come il soggetto non sia che il risultato di una serie di tecniche, di “arti”, vale a dire di azioni e di ripetizioni di azioni, di riflessioni e esercizi del pensiero, che lo costituiscono stratificandosi, e non qualcosa che sia fisso, stabilito da una cosiddetta “natura umana” che ne indirizzerebbe la condotta. Questa, per lo meno, è l’idea di soggettività che Foucault ritrova, in questa primissima fase della trattatistica cristiana, come eredità del concetto di soggetto proprio del mondo filosofico tardoantico che era stato analizzato nei precedenti volumi della Storia della sessualità.

Nel testo di Clemente Alessandrino, in particolare, Foucault trova prefigurate due linee direttive che influenzeranno tutta l’etica cristiana, e per questo lo ritiene particolarmente rilevante: da un lato viene affrontato il tema della verginità, e dall’altro quello della concupiscenza. 

 

Questi due nuovi temi, dal canto loro, nell’interpretazione foucaultiana rispecchiano due cambiamenti interni al Cristianesimo stesso, o meglio, due conseguenze legate alla sua strutturazione come Chiesa (Foucault ripete più volte che uno dei punti più importanti della religione cristiana è che essa è stata la prima religione del mondo antico a strutturarsi come Chiesa): l’affermazione della disciplina penitenziale e quella dell’ascesi monastica. Entrambi questi fattori avranno delle conseguenze molto rilevanti nella storia del soggetto occidentale: essi, infatti, da un lato indirizzeranno e segneranno le modalità del rapporto a sé del soggetto, mentre dall’altro andranno nella direzione dell’instaurazione di un legame tra il concetto di male e quello di verità.

Questo punto è da tenere particolarmente in considerazione, in quanto, per Foucault, il tipo di soggetto che si dà entro un preciso contesto storico è da porsi al termine delle pratiche che – instaurate sia tramite l’esercizio individuale che tramite le pressioni verticali degli apparati di sapere e di potere (tra cui rientra anche il dispositivo-religione) – ne costituiscono l’esperienza. In questo senso anche l’esperienza cristiana della “carne” è da comprendersi come un modo di conoscenza e trasformazione di Sé tramite se stessi. 

 

Se, come visto, questa idea che il Sé sia da porre alla fine di una serie di pratiche, di esercizi, è interpretata da Foucault in continuità con le pratiche del Sé del mondo antico-pagano, sono invece il battesimo e la penitenza a creare lo spartiacque decisivo, il proprium del momento cristiano nella creazione di una “nuova esperienza” della sessualità, come la chiama Foucault, ma anche – si potrebbe dire sviluppando l’idea foucaultiana – “dell’esperienza di una nuova soggettività” tout court.

Il battesimo e la penitenza, infatti, sono i due momenti in cui si passa dal paradigma del soggetto pre-cristiano a quello del soggetto cristiano. Per capire questo passaggio, come immagine paradigmatica per il tipo di soggettività “antica” può essere presa la metafora utilizzata da Marco Aurelio, e resa celebre da Pierre Hadot, della “cittadella interiore”: un luogo fortificato, inespugnabile, che tramite una vita di esercizi, di pratiche, di ripetizioni, il soggetto mira a costruire come luogo in cui niente può sottometterlo, in cui nessun evento esterno può espropriarlo da se stesso. Questa soggettività mira ad avere pieno possesso di Sé, a non essere mai “eterodiretta”: né dalle circostanze della vita, né dagli altri. La cittadella interiore è autarchica e fortificata, in essa possono trovare conforto sia l’uomo più potente del mondo, come l’imperatore Marco Aurelio, che uno schiavo come il filosofo Epitteto. Rispetto all’autarchia della cittadella interiore antica il cristianesimo introduce un nuovo tipo di soggettività, che ha come punto di partenza la constatazione di un’insufficienza radicale del soggetto: il battesimo e la penitenza ne sono la riprova. Entrambe queste pratiche, infatti, certificano il fatto che per salvarsi, nel modo di vedere il soggetto introdotto dalla cristianità, non si basta a se stessi: non c’è salvezza senza il battesimo, ossia tramite il lavacro del peccato originale da parte di Dio, che lo concede tramite un atto di grazia e di generosità totalmente libera e sovrana, così come non c’è salvezza tramite la penitenza, che – in particolare nel cristianesimo dei primi secoli – aveva carattere spettacolare, pubblico, ostentativo.

 

La penitenza doveva essere pubblica, perché il soggetto, in qualche modo, “morisse” al mondo di una morte sociale, ritualizzata, e potesse, tramite il perdono della comunità, continuare a vivere da “trasfigurato” in attesa del giudizio finale. In questo senso, la spettacolare pratica di confessione pubblica dei peccati che è spesso al centro dell’interesse di Foucault, l’exomologesis (a cui è dedicato anche l’annesso 2 del testo), rappresenta la versione simbolica del martirio, della pratica, cioè, che testimoniava dell’esistenza di un valore superiore alla vita di questo mondo tramite il proprio annientamento. Se nel martirio questo annientamento era fisico, nell’exomologesis la morte che il soggetto si dà tramite la patetica confessione di colpevolezza di fronte alla comunità è una morte simbolica.

Senza la confessione, senza l’esposizione, che assumeva pure i caratteri dell’espropriazione, del soggetto ad opera dell’istanza comunitaria, di Dio, o della Chiesa, non c’era salvezza: in questo diventa emblematico, per Foucault, l’episodio di Caino (ripreso nell’annesso 4) nell’interpretazione di Giovanni Crisostomo: la colpa del primo fratricida non sarebbe tanto quella della violenza commessa ai danni di Abele, quanto l’aver taciuto – una volta interrogato – il fatto a Dio. L’assenza di confessione, non l’omicidio, è stato quindi il peccato mortale di Caino. Questa insistenza sulla verbalizzazione ai fini della penitenza, porta anche, indirettamente (Foucault non lo dice esplicitamente, se pure le sue analisi sembrano andare esattamente in questa direzione) alla formulazione di una nuova teoria del soggetto, tutta cristiana: quella che non vede più il soggetto stesso come un insieme, come il risultato di un fascio di azioni, da cui la soggettività scaturirebbe come punto finale, bensì come un qualcosa di dato, segnato fin dall’inizio dal marchio – ad esempio – del peccato originale, e che può (e deve) essere influenzato, corretto, tramite una serie di azioni, e che deve essere portato alla luce tramite un processo di continua verbalizzazione. 

 

Illustrazione di Alphachanneling.


Vedremo in seguito come quest’idea sarà, da questo punto in poi del libro, la linea direttiva di tutte le sue analisi “archeologiche”. Questo processo di riduzione e di riconduzione degli atti al soggetto troverà i suoi ultimi e più compiuti sviluppi nelle pratiche confessionali, che all’inizio – nell’exomologesis– erano invece per lo più mirate alla rottura, alla destituzione della (vecchia) soggettività.

L’idea di “espropriazione della soggettività” propria del Cristianesimo trova, secondo Foucault, adeguata rappresentazione nel mutamento che le pratiche di direzione di coscienza assumono tra mondo pagano e mondo cristiano. Se nel mondo filosofico antico la direzione di coscienza era una pratica situativa, occasionale, potremmo dire, legata al superamento di un evento traumatico o di una situazione puntuale (ci si affidava, in un momento personale difficile, a un filosofo o a un uomo saggio, che impartiva per un certo periodo di tempo una serie di esercizi fisici e spirituali al fine di oltrepassare il momento critico), nel mondo cristiano – e in particolare nel monachesimo – essa diventa un’istituzione, mirata a “esteriorizzare” il soggetto, che – nella pratica della confessione continua – viene espropriato, e “consegnato” a un altro, che lo deve guidare. Questa guida è indispensabile nel cammino di introspezione e di elevazione che deve fare il cristiano: per questo il monastero, e la vita dei monaci cenobiti, è quella che viene presa come esempio ideale nella letteratura cristiana. Il cenobio diventa quel laboratorio privilegiato in cui è possibile attuare al meglio quelle pratiche di direzione di coscienza che altrove – ad esempio nel caso del monachesimo anacoretico – sono difficilmente regolamentabili e osservabili. Inoltre la direzione di coscienza si struttura – sotto il nome di oboedientia– come vera e propria tecnologia del Sé, atta a “educare” il perfetto cristiano alla mortificazione della propria volontà.

 

Tutta l’obbedienza monastica si configura come una progressiva abolizione della volontà, che si attuava in passaggi progressivi: volere – in prima battuta – quello che vuole un altro, cessare – poi – di resistere alla volontà altrui e, infine, cessare di volere tout court. Queste tre tappe erano l’obiettivo di una serie di esercizi, di tecnologie del Sé, il cui lato “espropriante” è evidente (soprattutto se le si confronta con quelle tecniche ascetiche proprie del mondo antico – come gli esercizi spirituali degli stoici – che erano mirati alla costituzione di un soggetto autonomo e autarchico), e che possono essere ricondotte a tre ordini di pratiche: l’esercizio di un’obbedienza totale, l’esercizio di un’obbedienza formale (ossia che doveva essere esercitata di per sé, indipendentemente dai contenuti) e l’esercizio di un’obbedienza che è fine a sé. 

Il paradosso di questi esercizi ascetici di distruzione della volontà è che essi – in particolare nel IV secolo – si pongono secondo Foucault come la formalizzazione di una tendenza anti-ascetica del Cristianesimo. Essi, infatti, ponendo l’accento sull’espropriazione del Sé e sull’abbandono della volontà tramite l’esercizio di un’obbedienza assoluta, si ponevano come istanze di controllo sulle tendenze più estreme – si potrebbe dire addirittura anarchico-individualistiche – dell’ascetismo individualista degli anacoreti. Questi, con le loro pratiche estreme di macerazione della carne, risultavano essere una pericolosa istanza anti-sistemica, che doveva essere regolamentata, ricondotta entro la struttura della Chiesa: questa, in quanto istituzione che si andava sempre più consolidando, anche nei suoi rapporti con il potere politico, non poteva permettere che si diffondesse l’idea che la salvezza era possibile anche senza la sua mediazione. È in questo contesto che si situa l’analisi foucaultiana del concetto di discretio in Cassiano: questo concetto, che indicava l’unione dello sguardo su di sé e della verbalizzazione di sé che erano necessari per raggiungere la salvezza, da un lato, in generale, era stato concepito come “giusto medio”, ossia come strumento che permettesse al monaco di distinguere tra bene e male, dall’altro come riconoscimento sia del giusto momento che della giusta proporzione in cui dovevano essere messe in atto le pratiche penitenziali.

 

Queste, infatti, non solo non sono sufficienti, ma potevano addirittura essere controproduttive nel cammino verso la salvezza: esse potevano, infatti, indurre il soggetto a credere che la salvezza fosse ottenibile tramite il solo esercizio ascetico, e non tramite la necessaria mediazione della Chiesa. La pratica della discretio consisteva proprio nell’abbandono della libera volontà, che doveva fare spazio alla direzione di coscienza: una direzione totale, che diventa il simbolo, in questa terra, dell’abbandono a Dio e alla sua Grazia, senza la quale – libera e incondizionata, e che in quanto tale non poteva essere “costretta” ad avverarsi tramite gli esercizi ascetici – la Salvezza non è possibile.

Nella seconda sezione del libro Foucault tratta del tema della verginità nel Cristianesimo, che assume un ruolo centrale in quanto prefigurazione della vita nell’Aldilà. Anch’essa viene descritta nei termini di una “tecnologia” (p. 161), di una tecnologia del Sé, che mirava alla salvezza del corpo tramite un lavoro dell’anima su di Sé (p. 175): questo punto appare estremamente rilevante, se si considera la classica interpretazione del Cristianesimo come religione dualista, che separa corpo e anima, o che svaluta il corpo in funzione dell’anima. 

Se, infatti, questo può essere vero per alcuni momenti storici e per alcune posizioni teoriche e dogmatiche entro il Cristianesimo stesso, Foucault ci mostra come il panorama sia estremamente differenziato, e come nei primi secoli il corpo avesse una funzione centrale, e non solo come strumento, ma anche come fine in sé. 

 

La verginità ha un posto centrale, secondo Foucault, nelle trattazioni cristiane dei primi secoli, perché essa diventa il “campo di battaglia” che serve al Cristianesimo per separarsi dal paganesimo, da un lato, (che dal canto suo teneva la verginità in grande considerazione), e dalla gnosi, dall’altro. Per questo la verginità teorizzata dagli scrittori cristiani dei primi secoli è qualcosa che viene da un posizionamento dell’anima nei confronti di Dio, e non da un insieme di regole esteriori (come invece viene imputato alla verginità pagana), ed essa non è legata a un rifiuto del corpo, come invece accadeva in alcune sette gnostiche, ma al tentativo di raggiungere, per il corpo, lo stato di perfezione antecedente alla Caduta già in questa vita. La trattatistica cristiana sulla verginità è – secondo Foucault – un momento centrale nell’evoluzione, o meglio, nella “costituzione” del soggetto cristiano, in cui è possibile, da un lato, vedere ancora le tracce del modo stoico greco-romano di intendere la soggettività, mentre dall’altro appare evidente l’instaurarsi di quella che abbiamo visto essere una “nuova esperienza” della carne. Le tracce (ma anche i segni di un incipiente mutamento) del modello pagano di soggettività sono da ritrovare, secondo Foucault, nelle parti della trattatistica cristiana sulla verginità che descrivono quest’ultima secondo un modello “agonistico”, come lotta (sportiva) e come difesa (militare). Il proprium del modello cristiano di soggettività, invece, è da riscontrarsi nella sempre rimarcata necessità di sottoporsi alla direzione di coscienza, al fine di non cadere in tentazione. Quello che merita di essere sottolineato nell’argomentazione di Foucault, è che la metaforica della lotta, onnipresente nella trattatistica cristiana sul tema della verginità, indica come la cittadella interiore pagana, ormai, nel Cristianesimo sia costantemente sotto assedio: il mondo interiore del cristiano è costantemente sotto minaccia, il peccato originale ha spossessato originariamente il soggetto da se stesso, insinuando l’Avversario nel suo nucleo più intimo. In questo contesto diventa ancora più chiaro il ruolo della direzione di coscienza: se neanche la cittadella interiore della soggettività è più sicura, se essa è costantemente travagliata, minacciata, da un nemico che alberga in essa, oltre che posta sotto assedio dal mondo esterno, è solo da un intervento esterno, dall’arrivo di Dio o dei suoi rappresentanti terreni, che prendono la forma della comunità della Chiesa (non a caso spesso descritta come un esercito), che essa può essere salvata.

 

La terza sezione del testo è dedicata al matrimonio, che viene analizzato come pratica spesso posta in relazione oppositiva alla verginità nella trattatistica cristiana, che si focalizza sul tema per lo più a partire dal IV secolo. Secondo Foucault questo interesse va contestualizzato con il parallelo rafforzarsi e istituzionalizzarsi dell’ascetismo monastico. Se il monachesimo prendeva progressivamente piede, da un lato, dall’altro esso portava con sé il rischio di allontanare il Cristianesimo dalla gente comune, che avrebbe potuto vedere nelle ascesi e negli ideali monastici qualcosa di irraggiungibile, un modello troppo lontano dalla quotidianità. Si affermò, di conseguenza, la trattatistica sul matrimonio come tentativo di regolamentare quella sfera della vita e della comunità che non poteva essere sottoposta al regime di regole a cui venivano sottoposti i monaci: una sorta di quotidianizzazione dell’ascesi (p. 250), che – nata come pratica di rottura con questo mondo – si ritrova paradossalmente rovesciata in una pratica di gestione della vita nel mondo. la gestione della vita matrimoniale prende, nella trattatistica, soprattutto la forma della gestione della vita sessuale entro il matrimonio, o meglio, il matrimonio viene visto (ad esempio nella grande trattatistica dedicata all’argomento da Giovanni Crisostomo) come un modo per regolamentare la sessualità. È in queste pagine che Foucault si dedica al confronto filosofico più interessante di tutto il libro: quello con il Sant’Agostino del De Genesi ad Litteram e del De bono coniugali. La strategia foucaultiana segue anche in questa interpretazione la linea che abbiamo rilevato nelle sezioni precedenti: quella di individuare continuità e discontinuità tra pratiche mirate alla costituzione del soggetto nel mondo pagano e nel mondo cristiano. 

 

La continuità viene ritrovata da Foucault nel fatto che, anche nella discussione agostiniana del matrimonio, la questione centrale è quella dell’autonomia del soggetto. Il matrimonio servirebbe a far sì che il soggetto cristiano “normale” (quello che non appartiene agli estremi virtuosi della verginità e del monachesimo) non sia preda della libido: e per far sì che esso non lo sia l’istituzione del matrimonio è necessaria in quanto tale, cioè in quanto istituzione. Per questo Agostino utilizza, per descrivere il matrimonio, i termini latini di foedus e pactum, derivati dal lessico giuridico. Questa istituzionalizzazione corrisponde a una regolamentazione delle spinte sessuali, che – in quanto involontarie – non possono essere vietate, e quindi devono essere inserite in una cornice regolamentativa che impedisca che esse prendano il sopravvento sulla volontà del soggetto.

Come si può notare anche in questo punto, resta centrale, come lo era per l’antichità pagana, il tema del soggetto, o meglio, la domanda “come posso appartenermi?”

Vale la pena, avviandoci alle conclusioni, di riportare la discussione foucaultiana del concetto agostiniano di libido. Secondo Agostino, commenta Foucault, il sesso, di per sé, non è da considerare peccato: altrimenti sarebbe stato inspiegabile il fatto che Dio avesse creato la differenza sessuale già nel Paradiso, prima della Caduta. Il sesso (che qui coincide con l’organo sessuale maschile) diventa peccaminoso, e crea vergogna in Adamo ed Eva dopo la cacciata, non in quanto tale, ma a causa del suo movimento involontario. 

 

Per Agostino, infatti, nella condizione paradisiaca, la sessualità era totalmente legata alla volontà: gli organi sessuali seguivano gli ordini dell’intelletto, e per questo il loro movimento, atto di libertà, non costituiva peccato. In seguito al peccato originale, essendosi insediata la concupiscenza nei cuori degli uomini, avendoli essa in qualche modo “spossessati” del proprio Sé, gli organi sessuali diventano “sui juris”: essi seguono un ordinamento proprio, che non risponde alla volontà. Qui sta la vergogna, qui il peccato: nell’aver abdicato una volta per tutte, a causa del peccato, alla completa sovranità su se stessi. Tutto quello che verrà in seguito, inclusa l’istituzione matrimoniale, sarà il tentativo, sempre incompleto, visto che ormai le porte della cittadella interiore sono state aperte – una volta per tutte – all’Avversario, di riottenere la giurisdizione su di Sé. 

 

Foucault non accenna mai, in questi luoghi, al tema dell’inconscio. Eppure appare evidente come quella che Foucault riporta, tramite la teoria della libido di Agostino, sia la narrazione mitica della nascita dell’inconscio (in Occidentale). È come se, alla fine del lavoro di Foucault, che si maschera – come detto in apertura – da commentario non spettacolare ad alcuni testi dimenticati della trattatistica cristiana dei primi secoli, venga avanzata, invece, un’ipotesi assolutamente radicale relativa al processo di civilizzazione: l’idea che le tecnologie del Sé cristiane si dividano da quelle pagane nella misura in cui esse abbiano portato alla creazione del soggetto dell’inconscio, vale a dire di un “io” nascosto, portatore di atti originari, la cui esistenza influenzerà tutta la vita cosciente dell’individuo. 

Un soggetto sconosciuto – almeno nella lente interpretativa foucaultiana – al mondo tardo-pagano tanto caro al filosofo francese, mondo che invece vedeva il Sé come un risultato di atti, come una stratificazione di esercizi, e non come una sostanza. Di questo nuovo soggetto, il soggetto-inconscio cristiano, il soggetto del peccato che ci abita e che ci spinge ad agire, era possibile una storia, la storia di una entità estranea posta al centro dell’Io: una storia che necessitava l’esplicitazione, la verbalizzazione, la veri-dizione.

Nel 1976, quando venne pubblicato il primo dei volumi della Storia della sessualità, Foucault aveva annunciato che il progetto avrebbe dovuto prevedere sei volumi. Il quarto e il quinto avrebbero dovuto portare i titoli, rispettivamente, di La femme, la mère et l’hystérique, [La donna, la madre e l’isterica] e di Les pervers [I perversi]. 

Questi volumi non vedranno mai la luce, ma forse, anche solo dai loro titoli e dal terreno preparato da Les aveux de la chair, traspare quella che sarebbe potuta essere non solo una storia della sessualità, ma pure una controstoria della soggettività e forse, persino, del soggetto dell’inconscio occidentale. 

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Storia della sessualità, vol. IV
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La pelle delle immagini

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Il Perugia Social Photo Fest si intitola “The Skin I Live”. In città, al Museo Civico Palazzo della Penna, si possono vedere le immagini di diciotto fotografi, mentre presso lo Spazio Off si tiene una collettiva dedicata a un gruppo di fotografe emergenti, tra le quali segnalo il lavoro di Dana de Luca e Lisa Ci. 

Cos’è la pelle in cui vivo? Una superficie circoscritta, definita, eppure estesa a tal punto che non siamo in grado di affermare se ogni suo poro è stato sfiorato, toccato o se coscientemente sappiamo che esiste. La pelle, l’organo di senso più vasto e diffuso del nostro corpo, costituisce il confine tra noi e il mondo, ciò che avvolge l’io ed esclude il “fuori”. Ma allo stesso tempo diviene relazione e comunicazione, medium del contatto e della separazione. Riflette ciò che siamo, quello che è nascosto e che talvolta spinge per uscire, per apparire, per mostrarsi. La pelle è l’involucro ingombrante che Apollo strappa dal corpo di Marsia, è il dispositivo che lo condanna alla morte ma anche all’immortalità, la materia stessa della sua pena, ciò che ne genera la discorsività. E per paradosso la sua visibilità. Marsia è davvero visibile mentre perde se stesso. Qual è la forma di un essere umano colto in questo preciso istante? Le due migliori fotografe presenti in mostra a Perugia cercano di suggerirlo. Con un elemento in più: la rimozione della loro pelle, che si autodistrugge o viene distrutta da un’altra pelle, costringe a guardarsi. Un rovesciamento distruttivo produce una rinascita creativa. La pelle è diventata immagine. 

 

La prima fotografa si chiama Sina Niemeyer e racconta una violenza subita. Un abuso sessuale. Combina diverse strategie artistiche come la fotografia, la scrittura, il design grafico e vecchie foto di famiglia, immagini distrutte, autoritratti. Le sue opere hanno un titolo ambivalente: “Für mich”. Significa “Per me”. Per me c’è stata la violenza e per me ora è giunto il momento della catarsi. “This is where you darted your tongue in and out me”, scrive accanto a un’immagine. Riquadri rossi e neri, privi di immagini e parole, evocano emozioni come macchie, punte di dolore. Brevi frasi si alternano alle immagini, ricordano, rielaborano, si contrappongono. Il percorso non è lineare. Affiorano strappi, stralci, salti. “La spinta iniziale per fare questo lavoro è stata la rabbia repressa” afferma la fotografa. Il dolore viene mostrato. La pelle si stacca anche dalle immagini, che vengono distrutte e fatte a pezzi, come accade anche all’aggressore. Un pennarello nero lo cancella, gli leva la pelle dal volto. 

 

Sina Niemeyer, Für mich.


E così facendo Sina Niemeyer lentamente reinventa il proprio corpo: due labbra che emergono da uno sfondo nero, le gambe nude e semiaperte che lei stessa si fotografa dall’alto, mentre è seduta, i capelli che coprono tutta la superficie dell’immagine, lunghi, biondi, luminosi. Il suo sguardo prova a riconoscersi, a desiderare se stessa, senza essere soltanto l’oggetto del desiderio di un altro. Lo sguardo coincide con il corpo. Non lo rifiuta. Essere se stessi “vuol dire in primo luogo avere una pelle per sé e in secondo luogo servirsene come di uno spazio in cui collocare le proprie sensazioni”, scriveva Didier Anzieu. 

 

Sina Niemeyer, Für mich.

 

Sina Niemeyer, Für mich.


La fotografia ne è la forma: le immagini mostrano ciò che Sina ha subìto e nello stesso tempo il rifiuto di un potere che ha stabilito il significato dell’essere e del sembrare, della realtà e dell’apparenza. Riprendersi la pelle significa riprendere la propria bellezza intesa come armonia tra corpo e anima, tra interno ed esterno. La bellezza è anch’essa come la violenza e la catarsi: “Für mich”. Soltanto per me. E se la pelle è una superficie da toccare, riprenderne possesso significa entrare in contatto con una parte di sé. Le fotografie semplicemente lo raccontano. Scattare una foto è poter toccare nuovamente il proprio corpo. 

Poi c’è la storia di Katharina Bauer. Il suo nemico non viene dall’esterno. Non c’è nessun aggressore, o una forza che la opprime. Per lei il problema è più oscuro. È vicino e invisibile, un nodo nero, che non si può toccare e si cela nella sua psiche. Si direbbe che è perturbante: conosciuto e sconosciuto, imprendibile, qualcosa che non si può strappare via, perché impalpabile e tuttavia presente e vivo dentro di lei. 

 

Il suo lavoro si chiama “+Youme". È un “progetto a lungo termine su Dag e me stessa, entrambi familiari con la fame emotiva, (…) un meccanismo di difesa, un modo per risolvere i problemi e affrontare il mondo, presagio del disturbo da alimentazione incontrollata”, racconta la fotografa. L’occhio di Katharina è come una mano: cerca di tirare fuori all’esterno questo male, gli dà una forma, come se si sdoppiasse e tenesse la propria pelle sollevata dinnanzi a sé. Le fotografie lo testimoniano. Katharina è nello stesso tempo Apollo e Marsia, vittima e carnefice. Ma non subisce il tormento, lo espone senza timori. Le fotografie sono la pelle che ella stessa tiene nelle sue mani e il suo corpo è la materia aggrovigliata di questo nodo, un ammasso di carne, una superficie che porta i segni di ciò che è invisibile: smagliature, pieghe, ferite. Tutto affiora, come il volto della fotografa che emerge dall’acqua, come se galleggiasse, se volesse alleggerirsi dal peso del proprio corpo e dai suoi incubi. Dall’acqua si nasce, si fuoriesce, si compare. E la fotografa scioglie la propria immagine, la apre: infrange una reclusione, mostra la bellezza della propria vulnerabilità. Cosa accomuna un albero spoglio, con un groviglio di rami scuri, al suo corpo nudo, in piedi nel bosco? Una sorta di doppio. Le ramificazioni emotive della sua psiche sono nude come un albero senza foglie. 

Il potere della fotografia è racchiuso nella fiducia che entrambe le fotografe vi attribuiscono. Esse coincidono con quello che fanno. Le immagini riescono a vedere anche ciò che è invisibile, l’occhio del fotografo è come quello di uno sciamano: prende su di sé il male, lo assorbe e lo mostra nel fotogramma. Le immagini possono davvero avere il potere di cambiare il mondo, anche se il mondo è circoscritto a un solo corpo. “La fotografia può essere uno strumento per dare un senso a ciò che sta accadendo nel mondo, ma anche dentro di noi”, afferma Katharina Bauer. Sarebbe bello avere questo coraggio. 

 

Le mostre in programma, tra cui i progetti vincitori della Call for Entry, “Life force“ di Constanza Portnoy e “Für mich” di Sina Niemeyer sono “Sick Sad Blue” di Federica Sasso, “Echolilia” di Timothy Archibald, “+Youme” di Katharina Bauer, “A singular vision” di Noah Brombart, “Fragile” di Ilaria Di Biagio, “Life unfiltered” di Donato Di Camillo, “Dare alla luce” di Amy Friend, “Riflessi” di Simona Frillici, “Odd Days – I giorni dispari” di Simona Ghizzoni, “Only because they are women” di Farzana Hossen, “Homeless” di Lee Jeffries, “Ri-Genero” di Giovanna Magri, “Human Pups” di Erik Messori, “The right place” di Fabio Moscatelli, “A girl called Melancholy” di Janelia Mould e “Where the children sleep” di Magnus Wennman. 

La direzione artistica del Perugia Social Photo Fest è di Antonello Turchetti. Il festival si chiude in data 8/4/2017.

 

Presso lo “SPAZIOFF” si può vedere una mostra collettiva dedicata a un gruppo di fotografe italiane emergenti. Le autrici in mostra sono Cinzia Aze, Elisa Biagi, Lisa Ci, Dana de Luca, Iara Di Stefano, Benedetta Falugi, Sophie-Anne Herin, Laura Lomuscio, Irene Maiellaro, Tiziana Nanni, Paola Rossi. La curatela del progetto è affidata a Efrem Raimondi.

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Perugia Social Photo Fest
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Turbata

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Sottotitolo: 

Acqua Sorella, Francesco su alla Verna

Acqua Risorsa, i campi da irrigare

Acqua da spremere, i pozzi sul deserto

Acqua che è troppa, si vuole vendicare

Acqua che manchi agli invadenti umani

(Sette miliardi e non si fermeranno)

Acqua lontana che non vedrò sgorgare

Acqua vicina, ascolto il tuo fragore

Acqua di tutti e Acqua di nessuno

Acqua la Buona, Acqua da imitare…

 

Proposi un giorno a un sommelier del vino

D’istituire un corso per sommeliers dell’Acqua

Mi disse sì va bene idea fenomenale

Ma attendo ancora d’esser convocato

Nel mentre t’ho appreso in ogni gradazione

Non c’è sorgente di cui si possa dire

È uguale a quell’altra, stessi minerali

Sempre diversa perché sei sempre uguale…

 

Acqua perenne e Acqua dell’istante

Acqua che parli solo ai solitari

Acqua silente ed Acqua mormorona

Acqua accadueò tutt’innaturale

Acqua che ridi in questa pozza alpina

Acqua che soffri, sei spesso l’ingiuriata…

 

Acqua tu sei questo mio corpo vecchio

Quando avrà fine, ripeterà il tuo nome

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Speciale Aqua
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