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Lovecraft, un classico

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Ci sarà qualche ragione se la fama e i lettori di H. P. Lovecraft aumentano di anno in anno, se le edizioni delle sue opere si moltiplicano (in Italia le opere complete sono edite da Mondadori, per la curatela di G. Lippi; e da Newton Compton e Fanucci, fino a edizioni per ragazzi) e non si contano le ristampe di singoli racconti o romanzi, come la recente di Le montagne della follia con la nuova ottima traduzione e curatela di A. Morstabilini per Il saggiatore, ecc. o raccolte “tematiche” in vesti accattivanti e con utili e leggibilissimi apparati, come Cthulhu. I racconti del mito e Il necronomicon che negli ultimi anni sta allestendo ancora Mondadori. Ci sono gli adepti, come in ogni mitologia settoriale che si rispetti, con molti meriti peraltro, che coltivano le loro ritualità, e ci sono gli altri lettori (non dico “normali” perché nessun lettore lo è), che ogni tanto, o a folate, si leggono o rileggono questo o quel volume senza farsi altri problemi al di fuori del piacere, in tutte le sue sfumature, che la lettura può indurre. Anche quella di romanzi dell’orrore può darne, senza essere necessariamente masochisti per provarlo.

 

Essere invasi dalla paura guardando il cielo è una delle esperienze più antiche dell’uomo; declinata in stupore o sgomento, alternativamente o insieme, a seconda delle circostanze. Si tratta di uno stesso e unico sentimento a cui diamo nomi diversi per evidenziare la sfumatura in un dato momento prevalente, ma la paura prevale sempre, sino a diventare vero e proprio terrore, a volte, da quando la consapevolezza dell’infinita grandezza dell’universo e l’ipotesi non inverosimile di infiniti altri hanno messo radici nelle conoscenze scientifiche e nell’opinione comune. Con tutte le implicazioni, perlopiù confuse, che questo comporta per la percezione di se stessi e della vita, della sua origine e del suo significato, dopo che le religioni hanno cessato per molti di essere delle risposte. Ma anche se “Nessuna forma di vita ha un significato o un principio centrale (…) noi siamo ciò che siamo semplicemente perché lo siamo” (Lettera a R. Kleiner del 13-5-21), al senso pare difficile rinunciare. Uno qualunque. E appena il senso entra in scena, la metafisica da dietro le quinte fa capolino. 

“Paura cosmica” e “orrore soprannaturale” ne sono la diretta conseguenza, e prima o poi non poteva che nascerne la corrispondente letteratura: piuttosto tardi che prima però, contrariamente a quanto prevedibile, a meno di non considerare i miti e i libri delle religioni come forma originaria di tale letteratura, chiusa nella gabbia della verità subito dopo essere stata aperta però. Di questa letteratura Howard Phillips Lovecraft è stato il capostipite e resta tuttora il massimo rappresentante. Alla base della sua opera c’è un paradosso, dal momento che essa tratta di temi soprannaturali su base integralmente materialistica, che a ben guardare tale non è: più si fa affidamento sulla ragione e sulle spiegazioni “naturali” e scientifiche infatti, più si resta stupiti, e forse anche sconvolti, non solo da ciò che essa ti mostra e fa intravedere, ma anche dai limiti che essa incontra e che travalicano talmente le sue potenzialità da non poter indurre altro che paura e orrore. Questo mostra come tali confini siano fragili e porosi, e lascia immaginare quanto di innominabile e spaventoso attraverso essi può filtrare in noi e nel mondo che definiamo reale, dove poi giace e fermenta e inquieta, pronto a esplodere o a contagiarlo, che provenga da altri tempi e luoghi e dimensioni, lontanissimi o contigui che siano… Posti di fronte a tali scenari il vago “schema cosmico” che puntella le nostre esistenze traballa, e appunto lì va a innestarsi la letteratura del terrore come la intende Lovecraft (vedi il saggio L’orrore soprannaturale nella letteratura, SugarCo 1978). Il quale in una lettera a Clark Ashton Smith del 20 novembre 1931, scriveva: “Per me, il climax di una storia del terrore è costituito dalla dimostrazione palese di una sconfitta temporanea dello schema cosmico. Per rappresentare ciò, impiego come simboli dei burattini umani: ma il mio interesse non è con loro, è invece nella sensazione della sconfitta di cui dicevo prima, e nel sentimento di liberazione che essa implica. È questo che mi garantisce l’emozione e la catarsi dell’impresa artistica.” Dove a colpire non è la considerazione degli umani come “burattini”, ma il fatto che la sconfitta sia “temporanea”, come del resto è naturale, dal momento che siamo ancora qui a raccontarcela (sulla “catarsi” è meglio sorvolare).

 

 

Lo “schema cosmico”, frutto della nostra ignoranza e approssimazione, è del resto la nostra salvezza, come si evince dall’incipit di Il richiamo di Cthulhu: “A mio avviso, il favore più grande che il cielo ci ha reso è l’incapacità della mente umana di mettere in relazione tutto ciò che esso racchiude. Viviamo su un’isola di beata ignoranza posta al centro di neri oceani di infinito, e non era scritto che dovessimo attraversarli”. Per questo ogni volta che qualcosa, che venga dall’esterno o dall’interno, ci porta a voler evadere da questa isola, o ci obbliga ad abbandonarla mettendoci di fronte a ciò che abita questi “neri oceani”, la sensazione che si prova è quella di uno sgomento mostruoso, che travalica i nostri strumenti di comprensione, morale oltre che intellettuale.

Non a caso uno degli aggettivi più usati da Lovecraft, materialista e ateo, era “blasfemo”, con i suoi paggetti “sacrilego”, “empio”, “eretico” ecc., riferito più o meno a tutto (esseri viventi e sognati, reali e mitologici, luoghi, cose, libri, sculture, immagini, voci, odori: a p. 99 di Le montagne della follia, persino una “connessione”, anche se “con i dimenticati eoni solitamente preclusi alla nostra specie”, che beh, allora ci sta pure), tanto che vien da pensare che blasfema, per lui, fosse la realtà in tutte le sue dimensioni, spazio-temporali e “altre”: un’offesa “innominabile” (altro aggettivo del suo pantheon linguistico) a princìpi superiori peraltro inesistenti, e in ultima analisi, anche se non sta bene dirlo, alla sua personale sensibilità, a lui stesso. Anche per questo Lovecraft piace a coloro che si sentono offesi dal mondo (questo, e a maggior ragione gli altri, che, come sosteneva anche Philip K. Dick, sono persino peggio): a ragione Michel Houellebecq sottotitola Contro il mondo, contro la vita il suo notevole libretto sul nostro autore (Bompiani, 2001). Cioè praticamente tutti. Incluso il sottoscritto.

Anche se lui ovviamente avrebbe preso come una volgare insinuazione questa deduzione riduzionista. In un certo senso lo è. Lui era un razionalista a cui erano completamente estranei l’antropocentrismo e i pregiudizi suoi corollari; si dichiarava “indifferentista” (corsivo suo), uno che non commetteva l’errore di interpretare il cosmo e le sue forze come dirette a uno scopo e tantomeno preoccupate della sorte e del benessere o malessere dei suoi abitanti. Non c‘è bene o male: ci sono solo gli effetti di queste forze, che da chi le incrocia vengono avvertiti in modo positivo o negativo. Ma quelli sono solo affari suoi.

In realtà il vero bestemmiatore è lui, ateo integrale, che mette al centro del suo cosmo divinità idiote, che blaterano senza senso, non sanno quello che fanno, si muovono a fatica quando sono sulla terra, si fanno ricacciare in altre dimensioni da qualche formula o se ne stanno relegate negli abissi terrestri o oceanici, o di altri universi, aspettando tranquillamente che si aprano porte dimensionali o che qualcuno li riporti fuori quando si verificano le condizioni, perlopiù astrali, adatte. Nel frattempo li si può immaginare che fanno la calza, o se ne stanno da qualche parte a bollire nella loro rabbia, storditi da non si sa cosa, forse dal loro stesso puzzo disgustosissimo. Il puzzo è una degli indizi più sicuri della loro presenza; ma per Lovecraft ogni odore è disgustoso, peraltro forse perché associato alla materia (al corpo), e in particolare alla materia in putrefazione (l’associazione con il sesso è fin troppo facile e quindi non saremo così banali da istituirla).

 

Per quanto razionalisti incalliti come il loro autore fossero la maggior parte dei suoi protagonisti e narratori che tentavano vanamente di far quadrare tutto, e nonostante lui stesso abbia accennato qua e là a dare coerenza ai suoi universi e ai loro abitanti, non è questa che dobbiamo cercare: la comprensione dei singoli testi e l’immersione nei loro specifici territori non richiede la decifrazione dei richiami intertestuali e delle ricorrenze di nomi di luoghi e divinità e di tutta la biblioteca dei libri maledetti, che contribuiscono al lavoro della fantasia senza determinarne con precisione i termini e i caratteri, che restano sempre e comunque quelli che ciascun racconto è in grado di creare di per sé, spesso riuscendovi.

Ciononostante molti hanno cercato di ricostruire in qualche modo il pantheon e la biblioteca sparsi nella sua opera, continuandola e integrando le lacune con tutta una proliferazione di testi più o meno fedeli al canone, come certamente facevano i rapsodi con l’epopea omerica. 

 

 

La ricostruzione più dettagliata degli “antichi” e della loro storia si ha proprio in Le montagne della follia: in esse il narratore trova, nella città perturbante scoperta oltre le altissime montagne prima sconosciute al centro dell’Antartide, molti bassorilievi e fregi che sembrano scrittura (p. 124) che ricoprono le pareti di alcuni degli edifici e che, per quanto antichissima espressione di esseri e di culture “aliene” anche nel vero senso della parola, si possono comunque leggere e in qualche misura interpretare. Sculture, monumenti, forme di scrittura li ritroviamo poi anche in altre opere, come se, per quanto primordiali, originarie e assolutamente “altre” possano essere le entità che le hanno prodotte, tutte, non si sa come, alla scrittura e alle arti non potessero che approdare; e come se, allo stesso modo, le specie successive, senza contatti con esse e quindi senza averne ricevuto l’insegnamento, non potessero che scoprirle di nuovo, e trovare qualche forma, benché probabilmente equivoca, di comprensione. La scrittura vivente della Trilogia dell’area X di VanDermeer (2014, trad. it Cristiana Mennella, Einaudi 2015) sembra ispirata da questi testi, e in particolare dalla scrittura degli abissi (p. 127), come criptocitazione per gli adepti e omaggio se indiretto, anche declinato in modi differenti (ma non tanto). 

 

Alcuni hanno interpretato in senso esoterico i riferimenti a libri e divinità di Lovecraft, nonostante l’esplicita dichiarazione della loro origine giocosa, a cui hanno contribuito amici e corrispondenti: ma se uno vuole credere una cosa, una qualche ragione la trova sempre (vedi in proposito i bei testi di Danilo Arona), a dispetto anche del fatto banalissimo che se qualche dio ha voglia e sa come passare da una dimensione spaziotemporale all’altra, lo può fare senza incantesimi e performance di landart varie (rune, pentagrammi e altre eleganti figure), e una volta passato non si mette al servizio di nessuno e nemmeno gli riserva un trattamento di favore perché gli viene reso un qualche culto per lui superfluo e incomprensibile: si fa i cavoli suoi e amen. Sta di fatto che gli uni (i libri) e le altre (le divinità), qualche nervo scoperto talvolta finiscono per toccarlo e le reazioni dei singoli possono comprendere benissimo la paura l’angoscia. Anche queste, per raggiungerci, non si fanno pregare. Così, circoscriverle, cercare di addomesticarle mediante simulazioni in un recinto protetto, anche se non proprio innocente, come la letteratura, venire a patti e gestirle come il bambino di Al di là del principio di piacere di Freud con il suo rocchetto, non è qualcosa di cui vergognarsi. Ma lo sgomento resta sempre. La serenità anche solo ostentata, comunque, è già ammirevole. Tanto, non dura.

 

I protagonisti delle storie di Lovecraft, come chiunque davanti alla morte, sono sempre soli. Qualche volta hanno il supporto o la compagnia di un amico, destinato però a perire o a perdere il senno. Di donne quasi non c’è traccia, e quando c’è, duole dirlo, è poco lusinghiera (sorvoliamo poi sul razzismo e le simpatie per il fascismo dell’autore, che hanno trovato difensori e accusatori quasi più che nel caso sacrosanto di Heidegger: diciamo solo che i racconti si possono leggere senza tenerne conto, a meno di aver assoluto bisogno di rassicurazioni psico-sociologiche).

Le comunità dove avvengono i fenomeni misteriosi che danno il via alle vicende sono chiuse, e i contatti con l’esterno sono rari. Quando qualcuno, da fuori, o anche dall’interno del gruppo, ma pur sempre ai suoi margini (come nel capolavoro Il colore venuto dallo spazio), viene a sapere o esperisce direttamente ciò che non va, inquietante e repellente, magari ne è anche sconvolto, ma viene colpito come singolo individuo, senza ripercussioni esterne di qualche conto: fuori prevale l’incredulità, l’ironia, o la volontaria cecità, persino nei rari casi in cui persone al di sopra di ogni sospetto di superstizione, come incalliti positivisti e professori universitari, non possono evitare di constatare l’inspiegabile, orrido e innaturale. Eppure siamo già in un’epoca di automobili, treni, giornali, aerei ecc. L’uso della fotografia come prova è singolarmente assente in quasi tutti i libri (tranne nel bellissimo Colui che sussurrava nelle tenebre). Le forze dell’ordine a volte sono presenti ma, come sempre, raramente incidono, o altrimenti fanno danni; gli studiosi, persone fededegne, o non sono credute, se protagonisti, o preferiscono, in quasi tutti gli altri casi, sorvolare o dimenticare, nonostante a volte ci siano tremendi effetti materiali, morti, distruzioni, cadaveri sfigurati in modo inumano, oggetti dalla geometria inquietante e certo non terrestre…

Dei fatti narrati, si dice in Il caso di Charles Dexter Ward (il cui ritratto, tra parentesi, assomiglia molto a Lovecraft stesso), ma vale per tutti i racconti, esistono quasi sempre “prove pressoché definitive, anche se contrastanti con tutte le leggi naturali conosciute”, che però proprio per questo vengono espunte da ogni considerazione, travisate come tali e, più o meno addomesticate, ridotte al noto, o al semplice, e rassicurante, bizzarro.

 


Il punto di partenza è sempre la negazione. I narratori e testimoni più significativi (lasciamo perdere il popolino e i diretti interessati) sono sempre scettici ostinati che prima di cedere all’evidenza danno voce a tutte le possibili spiegazioni razionali, per cui tanto maggiore sarà poi la loro credibilità di fronte agli eventi che le smentiranno tutte. Se non si raccapezzano loro, figuriamoci gli altri… Figuriamoci noi lettori.

Loro stessi preferirebbero tacere, dimenticare, anche perché l’impossibilità di cancellare o mettere in sordina il ricordo è la sicura premessa della follia. Quando si decidono a scriverne è per dovere, per rendere testimonianza prima di essere travolti da ciò che hanno scoperto o per impedire che vengano compiuti degli errori fatali che potrebbero spalancare le porte dell’orrore e della distruzione per intere regioni se non per tutto il mondo: quello degli uomini quantomeno, come accade con il progetto di spedizione nell’Antartide cha dà il via a Le montagne della follia o per il progetto di un bacino idrico di L’orrore di Dunwitch.

 

Il linguaggio è di volta in volta indeterminato e allusivo, e precisissimo nel lessico scientifico e tecnico, da referto di dissezione anatomica che descrive minuziosamente la figura e gli arti dei mostri e la materia di cui sono composti, la struttura e resistenza della pelle (come per gli “antichi” di Le montagne della follia ritrovati nel ghiaccio dell’Antartide) che tuttavia nessuna rappresentazione visiva potrebbe rendere in modo realistico e con altrettanta efficacia di quella verbale (anche presso disegnatori straordinari come Alberto Breccia, figuriamoci gli altri), con la sua esattezza nelle designazioni di suoni e colori (se di questo mondo), della geometria e volumetria degli oggetti e delle architetture.

Lo stesso accade per la geografia, anche del New England e Vermont e Rodhe Island che costituiscono le contee dell’orrore lovecraftiano, dove la topografia reale e quella immaginaria si fondono in una sola, come quella di Yoknapatawpha lo è del mondo di Faulkner. Il dato reale o realistico è duplicato da una più vasta geografia ultra o extra-terrena che con essa comunica attraverso passaggi, angoli, voragini, abissi e tutto un sistema di smagliature che crivellano la nostra precaria realtà. 

Si ha spesso un accumulo di dettagli, parte dei quali distorti o esagerati, e comunque incongrui, che vengono descritti, o piuttosto elencati, in modo da rafforzare con la loro concretezza l’effetto “realistico” dell’ambiente o dell’evento in questione e di coloro che vi agiscono, quando invece, come Lovecraft peraltro sa benissimo, ne basterebbero molti di meno. Ma l’esagerazione, l’amplificazione e l’accumulo, la distorsione e l’abnorme, sono una scelta precisa: se tutto è abnorme, diventa tutto normale. Magari un normale “altro” ma pur sempre normale. Se tutto è fuori posto, l’ordine è il fuori posto. Il fuori posto diventa l’ordine di quello specifico spazio; il fuori luogo è l’ordine del luogo descritto, il luogo dove gli eventi si producono, e dove narratori e personaggi sono invischiati, tanto che a volte non riescono a evaderne se non portando con sé lo stigma permanente dell’orrore, che a breve o lungo termine non mancherà di produrre i suoi effetti letali.

Però è proprio questo che contribuisce alla suggestione che i racconti di Lovecraft suscitano. Ci si adagia nella normalità anormale dell’orrore, finché lo si dà per scontato, non si mette più in dubbio la sua esistenza, di modo che poi più forte è il colpo che subiamo quando la rivelazione ultima, o il percorso che ad essa conduce, con tutti i gradini che comporta, si manifesta.

 

“L’universo mitico di Lovecraft è un universo del linguaggio e attraverso il linguaggio opera un ultimo definitivo ribaltamento del nostro preteso universo ‘razionale’” (G. Lippi). Le descrizioni costituiscono uno dei tratti salienti del suo fascino: che si tratti degli “antichi” o delle città intraviste sulle cime delle montagne o ai loro piedi in Le montagne della follia, vere e proprie “cacofonie corporee pietrificate” (per citare fuori contesto il Thomas Bernhard di Amras), sono insieme vivissime e vaghe: se uno prova a raffigurarsele il risultato è deludente, a volte stravagante ma per nulla inquietante, e anzi, spesso, francamente ridicolo… La concretezza singolarizza e definisce, quindi banalizza; a inquietare è il “senza nome” (espressione che L. usa con frequenza, e a buon diritto); anche quando il dettaglio è nominato, l’insieme ha sempre un che di abnorme, di informe, e rimanda a geometrie non euclidee, ignote e vaghissime, la cui stessa evidenza, a incrociarla, disorienta e stordisce. La descrizione “oggettiva” dei paesaggi e delle cose non è quasi mai disgiunta dall’eco delle emozioni che suscitano. Mentre le cose vengono così dettagliatamente sezionate e nominate, quasi nulla di rilevante avviene “in praesentia”, ma viene raccontato solo attraverso memorie altrui o resoconti riportati di coloro che lo stanno magari vivendo ma non possono certo soffermarvisi pressati come sono dal pericolo che quasi sempre li annienterà, o evocato attraverso premonizioni e avvisaglie, poche e nebulose, o dagli effetti, descritti solo in parte tuttavia, per orrore, pietà e, appunto, “indicibilità”. La descrizione e l’adesione a quanto di reale persiste anche nei frangenti più straordinari, la concretezza della resa anche dei dettagli che non rispondono alle leggi della geometria e della percezione abituali, sono perseguiti con tenacia e rigore proprio perché solo così si può giungere al limite dove la possibilità di dire, sperimentata ogni possibilità, viene meno, e l’incontro con cose, esseri o forme “al di là di ogni descrizione” (Montagne, p. 101), anziché sciogliersi nell’indistinto di formule vuote, produce un effetto più credibile e prorompente. L’insistenza analitica che aveva prodotto un fortissimo “effetto di realtà” (per citare Barthes, che garantisce sempre una patente di nobiltà anche ai discorsi più strampalati), diventa così il necessario preambolo all’irreale, come se il razionale, invece di arginare il suo opposto, dell’incomprensibile costituisse la premessa necessaria, e la materia fosse solo un episodio di ciò che materia non è.

 

 

Suoni (toni, cadenze, litanie…) e odori (tutti sul versante del disgustoso e nauseabondo)… tutti i sensi sono sollecitati, ma di più quelli a cui si reagisce istintivamente; quelli che non corrispondono a qualcosa di certo, che non consentono definizioni rassicuranti, fossero pure quelle del riconoscimento di una minaccia e della sua fonte, a cui reagiscono invece sempre e per primi gli animali, non ostacolati dalle sovrastrutture della comprensione, della volontà di sapere. Miraggi che poi, spesso, tali non sono.

Prima o poi, a segnare l’avvicinamento al fulcro della storia, il protagonista o la comunità coinvolta, incoccia in “strani incidenti”, a volte minimi, trascurabili: indizi, premonizioni che acquistano il loro senso solo a posteriori ma che sul momento nessuno capisce, o vuole capire per non essere troppo inquietato e mettere in pericolo le proprie routine, e quindi derubrica immediatamente come cose di poco conto, errori percettivi, momenti di confusione, fumisterie, leggende, sogni. La beata innocenza in cui vive la maggior parte della gente, perché ignora o distoglie volontariamente lo sguardo, abilissima a dimenticare, vera professionista dell’oblio, non la preserva però dall’orrore e dal male che la circonda, o con cui vive gomito a gomito separata solo da un sottile diaframma da cui si tiene istintivamente discosta, ma che, non essendo solido e impermeabile, qualcosa lascia sempre filtrare, finché verrà infranto e allora non sarà più possibile sfuggire. Sprofonderanno tutti nel male, conosceranno l’indicibile senza comprenderlo, nella morte e oltre; ma forse già ne sono abitati, custodito in una ben sigillata cripta interiore che al contempo, provvisoriamente, li protegge.

L’orrore però sembra non avere fondo: persino coloro che ai nostri occhi ne rappresentano il colmo, come gli “antichi”, lo provavano al cospetto di qualcuno o qualcosa che a loro stessi era vietato rappresentare; e così non è difficile ipotizzare che anche costoro ne siano invasi di fronte a qualcos’altro a sua volta irrappresentabile e così via, in un regressum ad infinitum horroris. Senza fondo, senza fine è solo il male. Il resto finisce subito. I suoi confini sono presto circoscritti; la sua vita ha un termine sempre prossimo.

 

“Per quanto semiparalizzati dal terrore, nei nostri animi si gonfiava nonostante tutto una fiamma ardente di meraviglia e curiosità che, alla fine, l’ebbe vinta”, dice il narratore di Le montagne della follia (p. 160-161) descrivendo indirettamente l’effetto, ma prima ancora la causa che induce il lettore a non interrompere la lettura o la visione delle storie di orrore. Si leggono questi libri come una palestra in cui imparare a gestire la paura, con in più (i tempi lo esigono) il piacere di provarla, di esserne assalito, magari giù giù fin nei precordi, senza essere veramente in pericolo. La paura va verso le domande eterne, le profondità spaziotemporali e le dimensioni diverse dalle nostre, anche contigue (perché no), incombenti e imminenti, quelle contro cui, in fondo, non c’è niente da fare (se un dio vuol fare polpette di te e del tuo mondo, che modo hai di impedirlo? con qualche formuletta magica?), così non affronti quelle che davvero incombono su te e sui tuoi figli e fratelli ma che non puoi, sembra, ma di fatto non vuoi impedire (arginare, risolvere), non con un atto o una serie di atti di buona volontà tua e dei tuoi simili (sempre benvenuti peraltro) ma perché dovresti abbattere radicalmente le vere condizioni che le provocano, che sono concrete ma si presentano come trascendenti, anonime e incomprensibili come le divinità di Lovecraft che si agitano idiote, gorgoglianti suoni insensati, al centro dell’universo, il loro che è anche il tuo. Nondimeno la paura resta, questa e quella, irrisolta sempre al fondo, e irresolubile, nonostante le risposte che giustamente si cercano e che a volte, per questo o quello, sono anche trovate. 

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Alla fine degli anni Sessanta, la Hollywood delle Majors versa in una crisi senza precedenti: assediata dalla televisione, dalla crescita delle produzioni indipendenti e dall'avvento delle corporation (la prima a cedere è la Paramount, nel 1966, presto seguiranno le altre), assiste impotente ai mutamenti della società e del pubblico. Un pubblico giovane, che decreta il successo di film come Il laureato e Gangster Story (entrambi usciti nel 1967), è insofferente all'establishment politico e soprattutto si oppone vigorosamente all'escalation militare in Vietnam.

 

Il ricambio generazionale si avverte anche fra gli addetti ai lavori. Mentre i vecchi artigiani si avviano verso una pensione più o meno anticipata (l'ultimo Ford è del 1966, Hawks lo seguirà nel 1970) e in attesa che facciano la loro comparsa i "movie brats", l'ultimo scorcio degli anni Sessanta appartiene a figure di transizione. Blake Edwards è una di queste.

 

Blake Edwards (a sinistra) con Peter Sellers, sul set di "Hollywood Party".


Classe 1923, formatosi negli anni Quaranta fra radio e televisione, Edwards raggiunge il successo internazionale nel 1961 con Colazione da Tiffany. Ama mescolare i generi con uno spirito vagamente modernista, in linea con l'aria del tempo; ma il suo terreno di gioco prediletto è quello della commedia, specie se ibridata con la farsa. Hollywood Party (in originale semplicemente The Party, come una piéce di teatro dell'Assurdo) nasce in parte come run for cover. Edwards è reduce da ben tre insuccessi commerciali consecutivi, fra cui quello del kolossal comico La grande corsa, che hanno messo a repentaglio la sua reputazione presso i finanziatori. Decide quindi di tornare alla farsa pura e semplice: un unico set, un cast relativamente ridotto, dialoghi quasi assenti. Con uno script di sole 63 pagine (o addirittura 56, secondo altre fonti), il regista si presenta dal produttore indipendente Walter Mirisch e insieme pensano all'attore giusto per la parte del protagonista. 

 

La scelta finisce per cadere su Peter Sellers. Edwards lo conosce bene: soltanto pochi anni prima, con La pantera rosa e Uno sparo nel buio, hanno creato insieme la maschera indimenticabile dell'ispettore Clouseau. Però sa altrettanto bene quanto Sellers possa essere problematico, stravagante e instabile, tanto da aver dichiarato pubblicamente che non avrebbe più lavorato con lui. Avrebbe accettato? Sellers, che dopo essere stato colto da un infarto nel 1964 sta dilapidando il proprio immenso talento in produzioni perlopiù di scarso spessore, risponde inaspettatamente di sì. Sarà il solo film che girerà con Edwards al di fuori della saga della Pantera.

 

Come suggerisce il titolo italiano, Hollywood partyè in primo luogo un film "su" Hollywood, il suo mondo, il suo campionario umano. Non a caso, i titoli di testa sono preceduti da un lungo prologo (ben otto minuti), nel quale Edwards esplora il retroscena di un polpettone avventuroso tipico di quegli anni, a metà fra I lancieri del Bengala e Gunga Din. Muovendosi con discrezione nella singolare fauna che popola il set (il producer sessuomane e sudaticcio, il regista stressato e irritabile), la macchina da presa isola ben presto una comparsa, un piccolo indiano volenteroso ma terribilmente maldestro. Il suo nome è Hrundi V. Bakshi.

 

 

 

 

Non è un personaggio del tutto nuovo (Sellers aveva sperimentato qualcosa di analogo ne La miliardaria, un adattamento di G.B. Shaw interpretato in coppia con Sophia Loren), ma lo spessore che acquisisce in questo film è incomparabilmente maggiore. Al pari di Clouseau, Bakshi è un disturbatore, un personaggio letteralmente fuori posto, che non sa come muoversi nello spazio intorno a lui. Persino un gesto banale come allacciarsi le stringhe può mandare in briciole un costosissimo e imponente fortino, sotto gli occhi sbigottiti del regista e della troupe. Ma a differenza di Clouseau, che con la sua protervia ottusa e un po' arrogante pretende di avere il centro della scena tutto per sé, Bakshi vorrebbe passare il più possibile inosservato. «Pay no attention to me, sir. I'm merely spectating» dice più tardi, quasi scusandosi, quando l'azione del film si sposta nella sontuosa villa del produttore Clutterbuck. Del resto, è palpabile l'affetto di Sellers nei confronti del personaggio, uno di «quei "buoni", illusi o amareggiati, ma sempre maltrattati dal mondo» che secondo Emanuela Martini erano forse più vicini all'indole segreta dell'attore inglese rispetto alle allucinate caricature di Clare Quilty o del dottor Stranamore; e che avrebbero conosciuto la loro sintesi perfetta e definitiva in Chance Gardener, protagonista del testamento artistico di Sellers, Oltre il giardino.

 

L'alterità di Bakshi ha però una ulteriore e non trascurabile sfumatura: è uno straniero, per giunta identificato come tale («Who's the foreigner?», domanda un invitato). Rivedendo Hollywood party oggi, dopo cinquant'anni di post-colonial studies, si potrebbe anzi leggere l'involontaria (?) azione distruttiva del personaggio come un'assalto dei "dannati della terra" al cuore l'immaginario occidentale – cioè Hollywood, appunto. Quello che sulla carta era il più tipico esempio di whitewashing (la pratica, cioè, di affidare a un attore bianco un personaggio di un'altra etnia) perde ogni connotazione derisoria o paternalista, alla Kipling, per dare voce a una rivendicazione identitaria, se è vero che Indira Gandhi aveva fatto propria una delle più famose battute di Sellers: «In India, we don't think who we are, we know who we are!».

 

Gary Morris ha scritto che Bakshi, come molti altri personaggi di Sellers, è una sorta di trickster, l'archetipo del "briccone divino" portatore di caos, ma anche di cambiamento e di cultura (e in questo rappresenta bene l'idealtipo dell'antieroe sessantottesco). C'è sicuramente del vero in questa osservazione, anche se riesce difficile immaginare come questo omino, così discreto e pieno di premure, desideroso tutt'al più di stringere la mano del suo attore preferito («Bang! Howdy, Partner!»), possa incarnare, per citare nuovamente Morris, «un'epitome del principio di disordine». 

 

Bakshi si limita a premere un pulsante, a spingere una leva (le gag intorno al quadro elettronico), talvolta semplicemente ad attraversare un salone o un corridoio. È lo spazio intorno a lui a essere drammaticamente inabitabile, disfunzionale, fuori scala. Emblematica la scena in cui, dopo un'attesa spasmodica, Bakshi riesce finalmente a raggiungere uno dei molti bagni della villa per fare pipì. Ogni cosa, dallo scarico del WC a rotolo di carta igienica, sembra obbedire soltanto alle proprie regole. Inutile cercare di ripristinare l'ordine: la situazione non potrà che degenerare, secondo le dinamiche del più classico slow burn.

 

 

 

 

In un saggio del 1984 dedicato a Edwards, Dave Kehr ha osservato come gran parte della sua filmografia  ruoti attorno all'idea di spazio, ai modi di percorrerlo o di colmarlo. Di qui la necessità di un impianto scenografico adeguato (nella fattispecie, il set ricostruito in studio dal visionario Fernando Carrere, che lo riempie di tutti gli eccessi decorativi del design anni Sessanta), ma anche l'uso del Panavision, qui affidato al veterano Lucien Ballard, in funzione espressiva. Nelle mani di Edwards, conclude Kehr, lo schermo panoramico si trasforma «in un vortice di trappole nascoste, oggetti aggressivi, spazi che si aprono su altri spazi».

 

Giustamente è stato notato come il film di Edwards abbia diversi punti di contatto con l'altro grande film comico del '68, Playtime di Jacques Tati, uscito soltanto pochi mesi prima. Entrambe le opere  si pongono nel solco della slapstick comedy di Keaton, Chaplin e Laurel & Hardy. Una tradizione considerata non soltanto come straripante serbatoio di immagini da citare o da omaggiare, ma anche come linguaggio moderno e innovativo, carico di umori sovversivi e anarcoidi. Ovviamente Edwards non è Tati e non ne condivide né l'afflato prometeico né la radicalità (laddove Playtime immagina una "democrazia del comico", Hollywood party attribuisce ancora al protagonista una funzione centripeta). Si accontenta – e non è comunque poco – di accendere le polveri a un meccanismo comico irresistibile, destinato a espandersi fino a travolgere ogni cosa, fino all'inevitabile catastrofe finale. 

 

Nel corso del film assistiamo infatti a un ribaltamento graduale, carnascialesco, dei ruoli e delle gerarchie di potere. L'outsider Bakshi difende l'aspirante attrice Michèle (Claudine Longet) dalle molestie del solito producer (qui il film - ahinoi - sembra proprio girato ieri) e la convince a trascorrere insieme il resto della festa («Let's have a wonderful time!»); i servi fumano marijuana, si sbronzano e si scatenano nelle danze insieme ai ballerini russi giunti per l'occasione; i giovani contestatori («Weren't you out protesting?»), che paiono usciti da una striscia dei Peanuts più che dai campus di Berkeley, prendono possesso della casa, sommergendo i loro vecchi in un mare di schiuma. Una situazione ben riassunta dalla scritta "The World is Flat", dipinta sulla fronte dell'elefantino che i ragazzi hanno portato con loro: la Terra è piatta, il mondo fuori di sesto.

 

 

Il delirio orgiastico e visionario di Hollywood party rappresenta l'aspetto giocoso, irriverente, colorato del Sessantotto statunitense; lo si può definire politico, sia pure in senso lato, al pari del "grouchomarxismo" che in quegli anni spopolava nelle università americane e al cui spirito iconoclasta anche il film di Edwards vuole rifarsi. 

 

Tutto questo non significa che Hollywood party – in ogni caso, uno dei pochi film hollywoodiani usciti nel 1968 in cui si respiri davvero l'aria di quell'anno fatale – sia l'apripista di una stagione nuova, che di lì a poco prenderà forma nelle prime opere di Bogdanovich, Scorsese, Spielberg. Semmai è una delle tante campane a morto per l'ormai boccheggiante Studio System (in un modo simile, per certi versi, a un altro celeberrimo debutto di quei giorni, 2001: Odissea nello spazio, diretto da un Kubrick ormai stanziato oltre Atlantico). Soltanto la vecchia Hollywood, infatti, poteva fornire a Edwards i mezzi e i tecnici in grado di metterla degnamente a soqquadro. That's entertainment.

 

C'è un'altra coincidenza che contribuisce a gettare un'ombra scura su Hollywood party. Il 4 aprile 1968, proprio mentre il film veniva distribuito nelle sale statunitensi, Martin Luther King era assassinato a Memphis. Il resto della storia lo conoscono tutti: l'omicidio di Bob Kennedy, la convention democratica di Chicago funestata dagli scontri fra la sinistra pacifista e la polizia (più di cinquecento feriti fra i manifestanti), la scelta di Hubert Humphrey come candidato, le elezioni presidenziali del 5 novembre 1968, vinte a mani basse dal repubblicano Richard Nixon. Con una rapidità sconvolgente (altro che slow burn) tutto sembrava rientrato nei ranghi: sarebbe bastata la Morgan three-wheeler di Hrundi V. Bakshi a garantire la fuga?

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"Hollywood Party" e il '68
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Il lettore, coscienza dell’autore

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“Pro captu lectoris habent sua fata libelli”: Terenziano Mauro, grammatico dell’epoca di Adriano (l’imperatore romano del libro di Marguerite Yourcenar), diede forma e cadenza di esametro a un’osservazione ovvia; di quel tipo d’ovvietà mai trascurabile, però. I destini dei libri dipendono della capacità di chi li legge, dalla sua intelligenza di ciò che legge, dice quel verso. E le cose stanno così, incontrovertibilmente.

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Ho incrociato il 1968 nel 1998

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La prima volta che incrociai il 1968 fu nel 1998. 

Avevo ventun’anni ed ero uno studente di Scienze della Comunicazione a Siena. Per un corso di multimedia qualcuno di noi insieme al suo professore progettò un CD-ROM interattivo, ormai consegnato all’archeologia dei dead media, che raccontava la cronologia del 68. Per il corso di Storia Contemporanea del professor Labanca, ognuno di noi doveva scrivere una tesina, un saggio di 3.000 parole, su un evento del novecento. Avevo una camicia a quadri da boscaiolo umbro e i miei gruppi preferiti erano i Nirvana e gli Smashing Pumpkins. Scelsi di fare ricerca su Pasolini, il 68, Valle Giulia. La tesina iniziava con le parole di PPP: “Smettetela di pensare ai vostri diritti, smettetela di chiedere il potere. Un borghese redento dovrebbe rinunciare a tutti i suoi diritti, e bandire dalla sua anima, una volta per sempre, l’idea del potere. Tutto ciò è liberalismo: lasciatelo a Bob Kennedy.” PPP era affascinante perché rappresentava una modello di intellettuale duro e puro, critico anche coi giovani sessantottini. 

Nel 1998 a Siena, tra noi studenti fuori sede si finì per discutere molto del 68, nell’unico bar “alternativo” della città, Il Pozzo, gestito da un veronese coi capelli lunghi fino ai fianchi che amava i Jethro Tull. Ci si vedeva lì tutte le sere, ma soprattutto il mercoledì sera, all’uscita dall’aula cinema della facoltà di Lettere, dove un collettivo di studenti curava una serie di proiezioni.

 

Quell’anno i film parlavano del 68. Ricordo bene solo Fragole e Sangue, Blow-Up, Zabrinskie Point e La Cinese. Ognuno di noi si era fatto la propria idea di quell’anno, un’idea mediata, di “seconda mano”, dalle riviste, dai film, dai libri, dai giornali. Qualcuno aveva anche qualche genitore “che aveva fatto il 68” e ai nostri occhi di ragazzi cresciuti nella medietà piccolo borghese di provincia acquistava subito, per linea ereditaria, un’aura da vecchio combattente. In particolare uno, il mio compagno di casa, un genio dei computer e delle reti informatiche, rappresentava il nostro contatto diretto più prossimo a quell’esperienza. Suo padre aveva studiato a Trento nel 68. Lui, suo figlio, era un hippy che maneggiava reti e computer. Ci iniziò a internet, alla net art (fu il primo a trasformare un’immagine digitale in codice ascii), alla letteratura beat, a Vautrin, a Marcuse, alla musica psichedelica e alla sua cultura e ci lasciò quello stesso anno per andarsene a vivere in una comune in campagna, fuori Siena. Aveva piantato in noi i semi della controcultura americana degli anni sessanta, mentre ci preparavamo all’esame di Storia Contemporanea leggendo Il secolo breve di Hobsbawm. Poi il 1998 finì, la copertura mediatica del trentennale del 68 sfumò e molti di noi partirono per l’Erasmus.

Quella fu la prima volta che incrociai il 68. Ne venne fuori un’immagine un po’ retorica, epica, a metà tra realtà e finzione.

 

 

La seconda volta che incrociai il 68 fu nel 2008. Di nuovo si tornava a parlare del 68 e della sua eredità. Nel frattempo erano passati quarant’anni ed ero uno studente di dottorato appassionato di media comunitari, alternativi, underground, civici, democratici, sociali o come vogliate chiamarli. Mi chiesero di partecipare a un libro collettivo sul 68 curato da due storiche. Scrissi un capitolo sull’uso della radio durante il 68, da Parigi a Città del Messico. Passai giornate intere in biblioteca alla Sormani e scoprii un bellissimo saggio della sociologa francese Evelyne Sullerot – Transistors e barricate (contenuto in Philippe Labro, Michel Manceaux (a cura di), Bilancio di maggio, Milano, Mondadori, 1968), che raccontava, tramite interviste, come i giovani di Parigi si fossero appropriati tatticamente delle radioline a transistor per amplificare il proprio messaggio nei giorni della protesta: “A un certo punto siamo andati alla Camera del Lavoro. C'era una brava donna col transistor. Tutti si fermavano a sentire. Poi commentavano. Ho provato l'esaltante impressione che ciascuno si trovasse in uno stato di piena coscienza. [...] Era una cosa che provocava in me, e in tutti quelli che ho incontrato, un'aspirazione profonda: essere degli attori informati – o degli ascoltatori attivi, come preferisce. Ah, che pubblico in gamba hanno avuto i transistors!”.

 

E ancora, quest’altra testimonianza: “Appena ho sentito un transistor, mi sono tirato su moltissimo. Hanno parlato di una trentina di barricate. Ho fatto un salto di gioia e tutti abbiamo gridato: “Non siamo soli!”. È stato per via della radio che ho preso coscienza del numero, dell'ampiezza. Prima mi sentivo solo. Iniziavamo a sentire colpi d'arma da fuoco. [...] poi si è avvicinata una donna con un transistor e abbiamo sentito “trenta barricate” e ho preso coscienza – ma forse era una cretinata – che almeno, se si moriva, si moriva con dei testimoni, collegati col mondo”. 

Sette anni prima, nel 2001, avevo incrociato temporaneamente amici che mi avevano aperto all’esperienza di Indymedia. E un anno dopo stavo scrivendo una tesi di laurea sulle web-radio come continuazione del movimento delle radio libere. Vedevo una linea invisibile che congiungeva tutte queste esperienze: dall’uso tattico dei transistor a Parigi, all’esperienza di Danilo Dolci con Radio Sicilia Libera a Partinico nel 1970, dalle radio libere italiane alle radio pirata londinesi degli anni dell’Acid House fino alle web-radio e Indymedia: movimenti sociali che in epoche diverse avevano reclamato, si erano riappropriati, di strumenti di comunicazione istituzionalizzati e li avevano sottratti alle istituzioni. Be the media, don’t hate the media. Scoprii un saggio di Michel De Certeau sul ruolo dei transistor a Parigi: “Il transistor, per i manifestanti, era l'informazione che ci si poteva portare dietro, che dava il potere di dominare la partita, invece di perdercisi, [...] e che, infine, trasformava gli attori in protagonisti, offrendo a ciascuno il mezzo per controllare l'informazione in tempo reale e per scegliere la propria mossa”. Dai transistor all’uso tattico dei media digitali durante i movimenti globali di protesta del 2011, e ancora prima del 2001, il passo era breve: i media elettronici erano stati strumenti di consenso e di commercializzazione, ma anche di democratizzazione e rivoluzione.

 

In quel capitolo riportai alla luce anche la storia di Radio UNAM, l’emittente dell’Università Autonoma di Città del Messico, che il 18 settembre del 1968 fu brutalmente chiusa dai militari per mettere a tacere la protesta degli studenti: “Radio Unam continuò a trasmettere finché i soldati non fecero irruzione negli studi in cerca di “armi e rivoltosi” e staccarono e tagliarono i cavi. Poco dopo arrivò un ufficiale di alto rango e io lo pregai di non toccare nulla, di non portare via nulla, perchè quello era un patrimonio culturale importantissimo ed inoltre era proprietà dell'Università. Ci arrestarono tutti e ci portarono fuori, insieme ad altre centinaia di studenti, riunendoci tutti sull'esplanade del Rettorato. Poi iniziarono a caricarci sui camion dell'esercito e ci portarono a Lecumberri, il carcere della capitale”.

"Unam, Universidad Nacional Autonoma de Mexico, teritorio libre de America", diceva una voce giovanile amplificata dagli altoparlanti. Poi gli altoparlanti si spensero e le Olimpiadi si svolsero senza problemi, fino al pugno alzato di Tommie Smith e John Carlos.

 

La terza volta che incrociai il 68 fu nel 2009, a Parigi. Finii per caso in una libreria che vendeva manifesti originali del 68, quelli disegnati dagli studenti della scuola superiore di belle arti di Parigi. Speravo di trovarci quel famoso manifesto in cui gli studenti si scagliavano contro la radio stato e avevano disegnato un cartello stradale con dentro un microfono e sopra scritto: “Attention, la radio ment”. “Attenzione, la radio trasmette fake news”, diremmo oggi. Non lo trovai e poi costavano troppo. Mi ricordai delle parole di Lindo Ferretti: “Non fare di me un idolo, mi brucerò” e capii che era stupido cercare di possedere un manifesto del 68 per adorarlo come un mito che non avevo nemmeno vissuto. Uscii a mani vuote. 

Questi sono gli incroci con il 68 di cui ho memoria. E sono tutti incroci mediati da tecnologie della comunicazione: libri di storia, CD-ROM, dischi, saggi filosofici, film, radio, affiches. 

Del 68 ho una percezione estremamente mediatizzata ed estremamente parziale. Non sono figlio del 68, non sono figlio di genitori che hanno fatto il 68, non sono nemmeno nipote del 68. Col tempo ho perso anche quel rispetto tardo-adolescenziale che avevo nei confronti del mito del 68. 

 

Credo che quel che so del 68 sia più mitico che reale. Ogni generazione ha il suo 68. Per me fu il 2001. Ma non mi piacciono le celebrazioni mediatiche per i decennali, i ventennali, i trentennali (ad libitum). Hanno l’aria stanca, ogni dieci anni sempre più stanca, di chi ricorda con nostalgia. La nostalgia è un sentimento personale molto importante, ma quando diventa collettiva è “pericolosa”, perché rischia di disinnescare la capacità collettiva di continuare a immaginare il futuro. Troppa energia collettiva rivolta verso il passato, con un occhio nostalgico e quindi indulgente, ci distrae dal presente. 

Inoltre il 68 gode di un riverbero mediatico superiore a qualsiasi altra celebrazione di qualsiasi altro movimento sociale globale, forse perché i giornalisti più importanti dei più rilevanti giornali nazionali sono stati giovani nel 68 e ogni dieci anni hanno l’occasione e lo spazio mediatico per ricordare con nostalgia o con rabbia la propria giovinezza. Il “come eravamo” è il peggiore servizio che l’informazione possa fare a una generazione ai movimenti che la animarono. Se invece vogliamo che una celebrazione conservi un po’ di senso, dovremmo concentrarci sull’analisi spietata del discorso e dei valori che quel movimento portava con sé e provare a trasmetterli a chi non li ha vissuti.

 

Io che non l’ho vissuto, il 68 l’ho visto, letto e ascoltato attraverso i media. In particolare, c’è uno slogan del 68, che mi è sempre piaciuto tanto. L’ho visto scritto per anni su un muro di Livorno, mentre andavo a visitare un amico degli anni di Siena: Sotto il pavé, la spiaggia.

 E forse, scrivendo questo pezzo ho finalmente capito che il 68 mi ha lasciato in eredità qualcosa: una certa passione per tutti gli usi non istituzionali, anti-autoritari, dei media, elettronici o cartacei, analogici o digitali. Questo è quello che ho imparato dal 68. Ma l’ho imparato soprattutto dai miei amici, mentre progettavamo un CD-ROM, studiavamo Storia Contemporanea e frequentavamo strani hippie esperti di computer. 

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Il Sessantotto di chi non c'era
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Come fare del male e continuare a vivere bene

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Per secoli, da Socrate a Kant, nel modo di analizzare le nostre condotte morali, abbiamo confidato in una sorta di “razionalismo” etico. Anche di fronte ai suoi giudici e agli allievi che lo assistono prima di bere la cicuta, Socrate raccomanda di non rinunciare mai alla conoscenza del bene e all’autoesame che comporta, convinto che dalla conoscenza del bene non potrà non conseguire l’impegno a perseguirlo. Così Kant, che inaugura la riflessione morale moderna, è persuaso che il ragionamento, non intralciato da interessi, inclinazioni o condizionamenti esterni, è sufficiente a obbligarci ad assumere una condotta morale. A entrambi sfugge la fitta trama psicologica che separa e lega allo stesso tempo il momento in cui ragioniamo su quali siano i nostri doveri e il momento della loro traduzione in criteri effettivi di condotta. In altri termini, trascurano che la nostra agency morale, ovvero la capacità di autoinfluenzare le nostre azioni morali, non si compone solo di un aspetto cognitivo, ma anche del repertorio di meccanismi con cui autonomamente motiviamo, regoliamo, monitoriamo, l’attuazione dei nostri pensieri morali. E il più importante di questi meccanismi è rappresentato dalle autosanzioni affettive, che inibiscono condotte nocive o inumane, consentendo di evitare i sensi di colpa, la vergogna e i rimorsi che minerebbero il nostro benessere, qualora cedessimo a quelle condotte, o, addirittura, trattenendoci dal cedere ad esse anche se abbiamo la sicurezza di non essere scoperti. È questa la premessa da cui parte l’ultima fatica del più eminente psicologo contemporaneo, Albert Bandura, insignito nel 2016 da Barack Obama con la National Medal of Science, pubblicato in Italia dalla Erickson, con il titolo: Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene, a cura di Riccardo Mazzeo. La presenza di questo potere autoregolatore e autosanzionatorio nella nostra agency morale spiega, d’altra parte, la celebre massima: “è meglio patire che infliggere il male”, che Socrate formula nel Gorgia di Platone e considera ancora solo l’effetto di una scelta razionale.

 

Per Bandura, il soggetto che decide di infliggere il male, non sopporterebbe le reazioni autosvalutative su se stesso che ne deriverebbero: facendo del male, pur traendone vantaggi immediati o apparenti, vivrebbe male, in conflitto con se stesso. Certo, è quella capacità di farsi due-in-uno, nell’intimo dialogo del pensiero, di cui Hannah Arendt parlò in un ciclo di lezioni agli studenti di New York e Chicago, tra il 1964 e il 1965, riflettendo proprio sulla morale socratica. Ma siamo sicuri che il malfattore o il criminale è colui che perde questa capacità? In altre parole, è possibile fare del male, compiere azioni nocive, e, tuttavia, continuare a vivere in pace con se stessi? Bandura risponde affermativamente e, in questo libro teoricamente robusto e ricco di case analysis, s’incarica di spiegare il come e il perché avviene, in modo dettagliato, in vari ambiti dell’attività umana oggi importanti anche per i riflessi sulla qualità e il futuro della vita collettiva, integrando, così, la tradizione filosofico-morale con la prospettiva empirica e complessa della psicologia e della teoria sociocognitiva.

 

I sistemi di controllo legali e sociali sono un disincentivo a compiere azioni crudeli, inumane, immorali, ma sono un deterrente insufficiente, anche nel contesto del terribile Leviatano hobbesiano che usa la leva della paura per mantenere l’ordine. Abbiamo visto che le persone si astengono dal compiere quelle azioni soprattutto perché autoregolano il passaggio dal ragionamento morale all’azione basandosi sulle autosanzioni morali, che funzionano come una censura interna rispetto a propositi incompatibili con i principi morali. Sia le persone “cattive” sia le persone “buone”, ci ricorda Bandura, hanno, infatti, bisogno di vivere in pace con se stesse, con le scelte fatte, e di valutare positivamente il proprio comportamento. Quindi, per adottare condotte lesive o nocive, senza conseguenze negative per la propria autostima, le persone (ma anche le organizzazioni, i gruppi, le imprese) si disimpegnano da una condotta morale disattivando il meccanismo delle autosanzioni. E lo fanno selettivamente e parzialmente.  Come Amon Göth, il comandante nazista di un campo di concentramento, che, mentre detta una lettera amorevole e compassionevole per il padre malato, estrae la pistola e fredda un prigioniero che gli sembra profondere poca energia nel lavoro. I principi morali trasgrediti non sono messi in discussione, ma la responsabilità è alleggerita o rigettata, il senso di colpa è attutito o scomparso, l’immagine positiva di sé è conservata e scattano vere e proprie autoassoluzioni. Il che spiega come il fenomeno di atti crudeli, illeciti, dannosi, possa essere  pervasivo ed endemico e come sia necessario volta per volta smascherarlo. Bandura esamina le strategie di disimpegno che si mettono in atto in quegli ambiti (la valenza del comportamento; gli effetti dell’azione commessa; l’assunzione di responsabilità o agency; la considerazione della vittima), in cui di norma dovrebbe funzionare l’autoregolazione morale, rendendo cogente l’esecuzione dei principi morali accettati. E la casistica è molto ampia. 

 

 

Si possono “nobilitare” azioni crudeli, deleterie, in funzione di scopi superiori e onorevoli o di una causa giusta: è la salvezza della nazione di Israele che spinge Amir ad assassinare il premier Rabin, che ne sarebbe invece il traditore e i terroristi islamici compiono martirio e massacri perché ordinati da Dio. Si può giustificare un’azione disumana in confronto a un’altra subita e ritenuta più disumana, operando una sorta di assoluzione comparativa. Si può perpetrare il male spostandone la responsabilità in capo ad altri, alle autorità gerarchicamente superiori o distanti che hanno dato gli ordini, evitando così l’autocondanna, così come queste autorità, nei gradi più elevati, fanno in modo di non essere informate sul decorso completo delle operazioni autorizzate e sugli attori coinvolti. Si possono, inoltre, minimizzare o distorcere gli effetti dannosi delle azioni commesse, soprattutto se questi sono lontani o non visibili. Peggio ancora, si può attribuire la colpa del maltrattamento alla vittima stessa o deumanizzare la vittima. Bandura passa, poi, accuratamente in rassegna i settori o i fenomeni sociali in cui più frequentemente oggi si riscontra il ricorso a strategie di disimpegno morale, con conseguenze più o meno gravi: l’industria dell’intrattenimento e delle armi; l’amministrazione della giustizia penale; il mondo della produzione di beni di consumo nocivi alla salute o delle speculazioni finanziarie; il terrorismo e la lotta al terrorismo; l’impatto ambientale delle attività economiche. Un’indagine scientifica dei meccanismi con cui la moralità viene sospesa o estromessa da condotte e atti deprecabili e nefasti è utile per spiegarli, non certo per giustificarli, precisa Bandura. Anzi, serve a rendere tutti più consapevoli, opinione pubblica e decision makers, soprattutto di fronte alle strategie autoassolutorie addotte per legittimare azioni e comportamenti, individuali, commerciali o politici, che, secondo lo psicologo americano, compromettono i tre rimedi fondamentali per evitare, a suo dire, il collasso del pianeta e della specie umana: rallentare il tasso di crescita della popolazione globale, sostituire nella produzione energetica i combustibili fossili con le energie alternative, frenare l’eccessivo consumo.

 

Rimedi su cui si registrano progressi, oscillazioni e ritardi, allo stesso tempo. Ma, quel che conforta delle teorie e delle ricerche di Albert Bandura sull’agency umana è la conferma della presenza di un autocontrollo morale, a prescindere dalle costrizioni giuridiche e sociali, che conduce gli esseri umani sempre a valutare gli effetti sugli altri delle proprie azioni e a giudicarsi in base agli effetti della propria condotta. Con buona pace di Nietzsche e di tutte le “genealogie” che hanno cercato di risalire ad una originaria e probabile valutazione extramorale dei nostri comportamenti, in termini di forza o vitalità, ci è impossibile vivere “al di là del bene e del male” e senza dare un valore morale alle nostre condotte. Tanto che per agire in modo immorale e irresponsabile e vivere senza conflitti interiori, dobbiamo annullare o quantomeno indebolire il potere regolativo delle autosanzioni morali, che normalmente inibiscono o censurano quel modo di agire. Insomma, possiamo essere irresponsabili e felici, però, invero, mai fino in fondo o totalmente o irreversibilmente. Possiamo ancora sperare, allora, nella capacità di autodeterminazione morale di questo strano animale chiamato uomo.    

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Irresponsabili e felici
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Il teatro, eterna replicanza dell’altro

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Se dovessimo identificare un diretto discendente di Antonin Artaud, quello sarebbe Enzo Moscato, che il 20 aprile compie 70 anni. Le anomalie e gli ossimori caratterizzano tutta la sua produzione artistica e drammaturgica. Pensiamo alla sua doppia natura di autore e attore che lo vede simultaneamente artefice della scrittura e del suo prendere corpo, voce e senso sulla scena; alla sua doppia e triplice funzione da un lato di autore attore sperimentale alla maniera di Carmelo Bene, dall’altro perfettamente inserito nella tradizione di capocomico di una compagnia che raccoglie alcune tra le forze migliori del teatro napoletano. 

 

Uscito come uno spiritillo dalle macerie del terremoto dell’80 che sconvolse Napoli e ne cambiò la geografia anche teatrale, Moscato fa parte, assieme a Annibale Ruccello, Antonio Neiwiller, Tonino Taiuti, di quella che fu definita la “nuova drammaturgia” post eduardiana che prendeva in carico la Tradizione con tutto il suo portato di tradurre e portare avanti ma anche e soprattutto tradire. Nato e cresciuto nei Quartieri Spagnoli, “gineceo narrante” dal quale ha attinto gran parte dell’immaginario che popola il suo universo teatrale, la filosofia post strutturalista è la lente d’ingrandimento attraverso la quale Moscato codifica e decodifica – in scena – l’universo mondo di Napoli/Babbele, puttana e santa, metafora di una condizione esistenziale che l’auto attore attraversa e da cui si fa attraversare in un perenne confronto con l’altro da sé: filosofico, linguistico, di genere e epoche diversi. Dopo oltre trent’anni di teatro agito su tutti i palchi d’Italia e d’Europa, Moscato continua a vivere e a lavorare a Napoli con non poche difficoltà produttive oltre che logistiche – in un'altra città o nazione, forse gli avrebbero dato un teatro pubblico, se non la direzione di una scuola. Vado a trovarlo al Teatro Nuovo, nel cuore dei Quartieri Spagnoli, luogo a lui caro che – assieme alla storica Sala Assoli, sua seconda casa, attualmente in stato di ristrutturazione – ha visto gran parte delle sue creazioni prendere vita. Piove anche oggi e l’acqua scorre come un fiumiciattolo mentre imbocco il vicolo che sale su dall’affollata via Toledo. In teatro brulicano i preparativi per l’imminente ripresa di Raccogliere e bruciare/Ingresso a Spentaluce, adattamento partenopeo di Spoon River presentato quest’estate al Napoli Teatro Festival. Più che una compagnia, quella di Moscato è una grande famiglia allargata, dove tutti si conoscono da sempre: alcuni sono cresciuti insieme, come i bambini che fanno gran parte degli spettacoli corali dell’auto attore. Mentre si provano i costumi e si allestiscono le scene, ci sediamo su due poltroncine rosse, in fondo alla sala, dove Enzo Moscato si concede per una lunga chiacchierata. 

 

Enzo Moscato, ph. Cesare Accetta.


La tua avventura sulle scene inizia oltre trent’anni fa. Come ti sei avvicinato al teatro? 

 

Ragionando intorno a questo mio incontro col teatro, mi vengono in mente immediatamente due cose. Una è abbastanza inconsapevole: da ragazzino non sapevo di avere un fratello che aveva fatto teatro. L’ho saputo dopo. Era il mio primo fratello, Nicola: dopo la guerra faceva teatro con una compagnia di adolescenti. Poi si sposò e trovò lavoro: piangeva quando veniva a vedere i miei spettacoli. Questa è la ragione non consapevole, inconscia, archetipica, che sta a monte. L’altra è questa: io non pensavo direttamente al teatro, pensavo alla scrittura. Leggevo e scrivevo. Una volta un amico romano mi disse: “Tu dovresti far teatro”. Allora, per soddisfare questa curiosità, presi una delle cose che avevo scritto per me e lo misi in scena: Carcioffolà [si tratta del primo debutto sulle scene di Enzo Moscato nel 1980 al Convento Occupato a Roma. Il testo è poi andato perduto, ndr]. Tutto quello che è accaduto nei quarant’anni successivi, è successo perché doveva accadere. Pensandoci ora, non avevo nessuna vocazione nell’essere attore, avevo una sola cosa: la scrittura, che era la mia singolarità. Anche rispetto ai miei fratelli, avevo questo dono. Mi piaceva scrivere, ho sempre scritto. Anche alle elementari ero molto amato dai maestri perché, pur essendo un bambino dei vicoli che parlava napoletano nella vita, ai temi mi mettevano otto, nove, dieci: ero bravo in questa lingua straniera che era l’italiano. Poi una parte della scrittura l’ho trasferita a teatro ed è diventata drammaturgia. Ecco perché forse la mia scrittura non è proprio drammaturgica: è scrittura in generale e scrittura per il teatro, se vuoi. Anche nei primi testi, è vero, c’è un’aderenza rispetto ai canoni del teatro; i primi sei anni, però sono molto singolari. Ieri rileggevo le bozze di Festa al celeste nubile santuario [di cui ci sarà una prossima edizione, ndr]. È più codificato, ha tutti gli elementi che si definiscono parti della drammaturgia. Allo stesso tempo, il contenuto, la visionarietà è tutta un’altra cosa dal teatro. Da dove viene questa storia così anomala, così strana? Queste tre sorelle, tutto sommato assassine, che ironicamente ricalcano un po’ Cechov, hanno un potenziale dentro dirompente. Ogni volta che parlo di teatro, non posso scinderlo dalla scrittura: il teatro è una parte del mio approccio con la scrittura. 

 

Tu vieni da una formazione filosofica: prima di prendere definitivamente la via del teatro facevi l’insegnante…

 

La scrittura è stato anche il mio essere insegnante. Scrivevo le mie lezioni prima di farle: avevo bisogno, dal punto di vista della docenza, di riscriverle a modo mio. I ragazzi sentivano quest’originalità nell’esposizione, sempre con forti agganci alla realtà. Ancora si ricordano di me, qualcuno di loro è diventato anche attore. Il teatro ha rappresentato il brodo di cultura in cui sono cresciuto. Però poi, per dirla con Sartre, è stata davvero un’opzione esistenziale. Ho chiuso con la scuola nell’88 quando mi diedero la cattedra: avevo già vinto premi di drammaturgia, facevo teatro da otto anni, avevo una compagnia. Erano anni in cui il teatro per così dire “nuovo” esplodeva in Italia. Avevo avuto la cattedra a Como. Finalmente dissi: la mia vita è il teatro, lasciamo perdere il resto. Però, da dopo la laurea ho fatto oltre dieci anni d’insegnamento da precario, collaboravo con l’università come ricercatore. C’era anche la mia amica Angela Putino, grande filosofa che ha portato a Napoli tutto il discorso lacaniano di Deleuze, insomma tutta la semiologia a parte Eco che abbiamo avuto in Italia. Ho iniziato a fare teatro nell’80, la mia famiglia non ne voleva sapere. Per loro l’attore potevano farlo tutti, io avevo studiato e in famiglia di attore ce ne era già stato uno. Dovevo insegnare. Io furbamente avevo il piede in una scarpa e l’altro in un’altra. Un po’ prendevo spezzoni di supplenza – mai interi – e facevo teatro. La mattina insegnavo e la sera stavo in scena. I miei alunni venivano a vedermi. All’epoca si faceva in teatro en travesti. Loro me l’hanno sempre detto: noi non siamo rimasti scioccati. Per noi tu non eri professore, per noi eri un accesso all’anima. Quando hanno visto Scannasurice, Trianòn, Festa al celestenubile santuario e poi i lavori con Annibale (Ruccello) per loro è stato naturale, come se lo sapessero prima di me che il mio posto era il teatro. Anche se poi mi sono capitate tante altre occasioni di formazione, seminari, incontri. Assieme alla drammaturgia metto sempre anche la filosofia. Oggi non lo farei, a maggior ragione. La vedo tragica. Mentre in anni lontani un insegnante che era diverso dalla serialità degli altri insegnanti era ben accetto, ora credo che sarebbe proprio messo al rogo, c’è un desiderio di omologazione che è terribile. A parte che da ciò che si sente e dalla cronaca, i ragazzi li hanno perduti per strada. Ricordo negli anni ’50 c’era un imperativo di scolarizzazione: nel mio palazzo le signorine e i maestri della scuola elementare del quartiere venivano a dire ai nostri genitori che dovevano mandarci a scuola. Anche i ragazzi che lavoravano dal fruttivendolo o al bar la mattina dovevano andare a scuola, altrimenti lo Stato gli stava addosso. C’era una differenza sostanziale che non voglio enfatizzare più di tanto sennò poi qualcuno pensa che sono nostalgico. (Sorride.) La verità è che oggi la scuola è sempre più un optional. 

 

Ph. Daniela Capalbo.


Quest’anno, all’interno della rassegna “Garofano Verde” curata da Rodolfo Di Giammarco, hai rimesso in scena una parte di Occhi gettati. Com’è stato riprendere un lavoro che è nato oltre trent’anni fa? 

 

Occhi gettati era una summa di tutto ciò che avevo fatto in sei anni, era una sorta di offertorio del mio corpo, della mia anima di tutto me al pubblico. Non mi riservavo nulla nel darmi completamente. La ripresa di quest’anno è stata molto più sulla difensiva: io al leggìo, la tremendità avviene attraverso le parole e basta. Nell’86 mi denudavo, ballavo, mi dannavo, cantavo, appicciav o’ ffuoc ‘ncopp a scena che non si poteva fare: sono stato cacciato da tutti i teatri. Negli anni, una persona sviluppa anche una sorta di auto difesa. Il teatro è una cosa terribile, ti mangia dall’esterno, oltre che dall’interno. All’epoca non lo sapevo ma credo che il teatro vada fortemente codificato. Il mio andare in scena era totalmente in oblazione, senza cautele. Oggi lo faccio ma con una serie di tutele. Ho capito che come dice Artaud il teatro è una grande terapia, è una grande medicina ma contemporaneamente anche un grande veleno, se non lo sai dosare. 

 

Se la tua formazione in campo filosofico/storico è molto definita, in teatro possiamo dire che non hai avuto maestri

 

Sono stato orfano. Orfani veleni nasce da questo. Fortunatamente, aggiungo, sono stato orfano. La mia drammaturgia è la sintesi di ciò che sono io, come differenza. È stata anche un’etichetta che mi/ci hanno attaccato addosso. Al che ci siamo agguerriti. Io e Annibale mettevamo in pratica una teoria della differenza che ci veniva da Deleuze ma anche da Carmelo Bene. Tutto questo oggi passa, ma in una maniera così patetica, senza sublimità. Non si può dire che Bolero o che Jennifer è solo un trans. C’è una storia di borghi di ghetti di esclusione di tutta l’umanità di cui lui/lei era portavoce. Senza essere nostalgici, è triste vedere come abbiano lasciato andare le grandezze del teatro italiano. Scontiamo molto provincialismo, (anche) in teatro. Lo spazio storico non c’è stato, così com’è avvenuto in Francia, Inghilterra, Germania. Per esempio, noi – al Sud – non abbiamo una drammaturga. Qualche tentativo c’è stato ma l’Italia è tornata indietro. Oso dire che la nostra drammaturgia era un’altra cosa. Oggi si fa letteratura. Io sono tradizionale e innovativo, sono sulla scia di una genetica del teatro e nello stesso tempo sono altro da quello. 

 

Parliamo del tuo rapporto con Leo de Berardinis? 

 

Leo e Perla erano dei miti, tutti noi li seguivamo. Due maledetti della scena. Maledetti davvero. C’era un malessere della vita che loro cercavano di elaborare in scena. Ho conosciuto Leo dopo che si erano lasciati. Erano grandissimi. Non c’era convenzione teatrale. Quello che era la conflittualità del loro amore la posavano direttamente in scena, con violenza. E poi c’era tutta la sapienza del mettere en scene. Ero al San Carluccio a fare proprio Occhi gettati. Leo era molto amico di Igina di Napoli [fondatrice del Teatro Nuovo e attuale direttrice di Casa del Contemporaneo, da sempre segue e produce i lavori di Moscato, figura cruciale del teatro d’avanguardia napoletano dagli anni ’80, ndr]. Lei lo portò a vedermi. Da lì tra di noi nacque un rapporto. Era l’86, mi pare. Ci scrivevamo, andai a trovarlo al teatro Testoni e al Teatro San Leonardo che lui diresse. Poi divenne direttore di Santarcangelo. Venne a trovarmi a Napoli. Allora non c’era più Perla. Stava con Valentina Capone. Mi chiamò e mi disse: “Senti, io devo fare Santarcangelo e tu sì Amleto!” Mi disse proprio così: “Tu sì Amleto. Te lo devi scrivere tu. Perché tu hai la malinconia di Amleto, hai questa sibillinità”. Mi aveva visto a teatro qualche volta, mi aveva sentito cantare. Diceva: “Quando canti c’è tutto il teatro, dentro”. Io presi questa consegna e così venne fuori Mal d’Amlè, il primo anno. Mi ha chiamato per quattro anni. Anche questo c’è da dire. Non è che tu fai uno spettacolo e poi muore: c’è bisogno di una progettualità. Così nel 1994 feci Mal d’Amlè, da Shakespeare. Poi Recidiva, da Copì. Lingua Carne Soffio, da Artaud. E Aquarium Ardent, da Rimbaud, il quarto anno. Tutti autori stranieri. Inizia così il mio rapporto con la “tradinvenzione” drammaturgica. Ci vogliono gli artisti che capiscono altri artisti. Il più giovane nei confronti del più grande deve avere umiltà. Magari Leo mi avesse detto più di quello che mi ha detto. Oggi non c’è questo. Oggi chiunque vuole arrivare. Io sono sempre stato nell’orfananza. Abbiamo perso Leo, Annibale, Antonio. Ci troviamo davanti a questo stato di cose odierno anche perché i grandi che potevano accompagnarci fino a oggi non ci sono più. Certo per fortuna ne sono rimasti, penso a Morganti, a Santagata, ma sono pochi. 

 

Una scena di Raccogliere e bruciare / Ingresso a Spentaluce.


Ritorniamo alla scrittura. È di recente uscita dall’editore Cronopio Ritornanti, una sceneggiatura filmica tratta da Spiritilli, uno dei tuoi primi testi teatrali. In questi giorni sei in scena con Raccogliere e bruciare, un adattamento partenopeo di Spoon River che avevi scritto tempo fa. Hai un vero e proprio universo di scrittura su cui torni e ritorni, di cui una parte sommersa. 

 

Prima di tutto le scritture sono diverse, così come le fonti e gli approdi. La mia scrittura è composita: riflessioni sulla teoria del teatro, racconti. Quella preponderante è stata la scrittura del teatro. Molte cose sono andate in scena, quasi la totalità. Altre sono inespresse. Poi c’è un particolare rapporto con le cose già andate in scena: o me lo chiedono o sono io che sento l’esigenza di ritornarci. Il ritornare è importante. Se devo rimettere in scena oggi un testo del passato – ovviamente per me l’aspetto del presente, passato, futuro non ha senso in teatro, è una convenzione – lo puoi fare anche tale e quale. Rendiamoci conto che il tale e quale, in teatro, non esiste. C’è una grande illusione che la gente coltiva e nella quale vuole stare. Anche quando fai una replica, hai una settimana di tempo. Poi la rifai dopo un mese. La replica non è la stessa. La replica cambia per spazio, per pulviscolo atmosferico, per la testa che hai. Il teatro è eterna replicanza: non del medesimo ma dell’altro. Anche se non si è consapevoli di questo, è così. Il teatro è sempre altro, anche quando sei nella replicanza. Se poi questa cosa la vai a teorizzare diventa…come lo stato dello specchio di Lacan. Il teatro secondo me avrebbe bisogno di tanto in tanto che qualcuno lo ri-teorizzasse. Prima di tutto in pratica. Poi dalla pratica nasce una nuova teoria. Penso a Leo. Gli attori li faceva innanzi tutto divertire. C’erano delle invenzioni sceniche continue, anche rispetto a un copione dato. E da qui si diceva: cosa abbiamo fatto? Siamo andati sul classico a riscriverlo. Io parlo di “tradinvenzione”. Hai a che fare con uno statuto che è tradizionale, che appartiene al passato, alla classicità, ma non c’è niente da fare: lo devi riscrivere, continuamente. Allora, o lo riscrivi in scena ed è un lavoro sugli attori, o lo passi addirittura in scrittura e poi sugli attori. Il classico non è una cosa morta. È una provocazione continua a essere ridetto, riscritto. E oggi chi lo fa questo discorso? Il teatro è una pizzeria. Vieni tu vieni, tu vieni tu: nella più totale ignavia di quello che stanno facendo. Penso a Il balcone di Genet. Parla della rivoluzione. Quello che deve accadere fuori, se non accade dentro, non può esistere. Ci dev’essere un rapporto molto stretto tra quello che fai e quello che accade dentro e fuori di te. Questo è essere rivoluzionari. Quando c’è un combaciamento. Non sempre questo succede. Se non c’è una consapevolezza della necessità sociale di quello che stai facendo, sei destinato a morire. Se mi chiedi adesso quali sono le mie opinioni sul teatro, ti dico che il teatro, se non è già morto, ha ancora pochi anni da respirare. Vedo come vanno le cose. Non sono mai stato amante dei narcisismi teatrali. Non si può parlare di sé senza parlare dell’altro da sé. Non può essere. Le même et l’autre. Non l’ho inventato io. 

 

Cosa stai leggendo in questo momento?

 

Leggo in continuazione, non sto solo su una cosa. Passo dal saggio storico al romanzo. A volte trovo l’esigenza di ritornare anche nella lettura. Recentemente ho ripreso in mano Il vangelo secondo Gesù Cristo di Saramago: trovo che ci sarebbe molto da dire sul sacro oggi. Per l’ennesima volta ho sentito l’esigenza di riprendere qualche pagina del Diario del curato di campagna di Bernanos. Uno scrittore cattolico e di sinistra, eretico. Gli scrittori, quelli buoni, ti correggono, t’insegnano la sottrazione, la composizione. Se hai un figlio e lo devi crescere, ti preoccupi che si prenda del latte buono, non latte avvelenato. 

 

Progetti prossimi in cantiere?

 

Ci sarà una riedizione di Festa al celeste nubile santuario diretta me. Una delle due protagoniste sarà Cristina Donadio. Poi ho scritto un nuovo spettacolo di cui preferisco ancora non parlare: ha molti punti di contatto con Il mare non si mangia, la terza raccolta di racconti che dovrebbe uscire a breve. Questi due lavori sono connessi tra loro dalla guerra. “O polemos”, diceva Eraclito. Nella guerra c’è tutto. 

 

Il compleanno.


È passata oltre un’ora. È tempo di provare. Fuori ha smesso di piovere. Nel vicolo scende la sera e penso che non vedo l’ora di tornare a teatro. Leo de Berardinis di Moscato ha scritto, nell’introduzione alla Quadrilogia di Santarcangelo (Ubulibri, 1999):

“Ma prima del silenzio c’è la tragedia del linguaggio, la tragedia di Shakespeare, la nostra tragedia, la vocazione scismatica dell’Occidente. E pensai a te come corpo in cui s’incarnano quelle tensioni prima del silenzio, quelle tensioni che sono qui e ora, ma che ci fanno vagamente desiderare il prima e l’oltre […]. Il desiderio del tuo fragile corpo di attore è il desiderio di una canzone nuova, di un canto nuovo, spremuto dalle macerie, dal dolore e dal sorriso; un desiderio che è oltre a ciò che avviene sulla scena, è intorno al tuo corpo, e in quei momenti in cui fai in modo che anche gli altri, gli spettatori, si pongano in ascolto / in prossimità del silenzio.” 

 

Enzo Moscato sarà a Bologna nella stagione della Soffitta e di Ert, il 2 maggio al Laboratorio delle arti con Compleanno e il 4 maggio all’Arena del Sole con Grand’estate. Un delirio fantastorico 1937/1960… ed oltre.

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“Tonya”: una passione violenta

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La prima volta che il “Triple Axel”, un triplo salto del pattinaggio, è stato eseguito in una competizione americana, risale al 1991, quando una donna di ventun anni, nata a Portland, si è esibita ai Campionati nazionali statunitensi di pattinaggio sul ghiaccio, a Minneapolis. Tonya Harding ha conquistato il podio, sorridendo in un costume verde acqua fluorescente, con applicazioni di paillettes. Nelle immagini originali dell’evento, quel body somiglia a un abito cucito in casa (secondo un sistema di esperienze per cui l’abito fatto a mano non è espressione di haute couture, ma di  povertà di mezzi); sa di sintetico: nel colore, nel tessuto, nella confezione. Eppure comunica anche, e in un certo senso commuovendoci, una tensione sforzata per un effetto massimo di apparenza telegenica. Quel costume, infatti, ci restituisce la tinta di un’epoca in cui si era ormai diffusa, arrivando dall’estetica televisiva anni Ottanta, la moda di usare la parola “look” per definire il progetto di espressione appariscente del sé legato al modo in cui si indossava, si truccava, insomma si rendeva più vistoso possibile il corpo. 

 

Tonya, in quegli scatti del suo successo, mostra un aspetto fisico che certo parla di una macchina di muscoli all’opera, ma esprime anche una cultura ingenua, vale a dire disabituata alla posa elegante come codice di distinzione tanto sociale quanto spettacolare. Dalle foto scattate nel 1991 quella ragazzona che ha appena raggiunto un record mondiale in una disciplina abituata a usare la bellezza come dispositivo di performance, saluta il pubblico come se fosse a un ballo della scuola, sotto al ciuffo di capelli laccati, l’ombretto celeste steso in maniera pesante sulle palpebre; senza avere niente di quello che convenzionalmente si intende per “grazia”. Sembra incredibile, meraviglioso, a guardarla, che quella figura così poco aerea, anzi così tenuta a terra da una vita evidentemente pesante, abbia eseguito, per la prima volta, un triplo volo.

 

 

Non è soltanto una questione di resistenza fisica. Per fare un triplo Axel bisogna essere particolarmente forti, ma soprattutto “coraggiosi”, perché l’Axel è l’unico numero che parte slanciando il corpo in avanti; per eseguirlo devi fare mezzo giro in più e hai più paura, perché vedi quello che fai. L’Axel è un salto che funziona per gradi di difficoltà progressiva: la condizione per farlo è perdere la paura di saltare.

 

Tonya (2017), del regista australiano Craig Gillespie – Il vampiro della porta accanto (2011), L’ultima tempesta (2016) – ispirato alla storia dell’omonima campionessa, interpretata da Margot Robbie, apparentemente è l’adattamento cinematografico di una biografia (un biopic); in realtà, per come è realizzato il film (scritto da Steven Rogers), gli elementi che più ci impressionano non riguardano la ricostruzione di episodi della vita di Tonya, né la violenza che esplode in un singolo ed eccezionale snodo (il ferimento di una rivale nel 1994, ad opera di un balordo assoldato dal marito). La violenza interessante è quella che abita l’intera vita della protagonista: l’elemento per lei più famigliare, letteralmente e simbolicamente. Come indica il titolo originale (I, Tonya), il film intende metterci, finalmente, davanti alla verità di Tonya. Che non è più soltanto colei che vola sotto i riflettori o che ha fatto aggredire la sua avversaria, ma è un corpo che entra in scena, quando ancora il fondo è nero, sporcando il silenzio con un colpo di tosse, per prendere evidenza dentro una comune cucina, da cui la donna, come se si trattasse di un’intervista autentica filmata nel 2014, comincia a raccontarci la propria storia.

 

 

 

Da qui comincia a svolgersi il filo che andrà avanti per tutto il film, intrecciando i due livelli della testimonianza (di Tonya, della madre, del marito e degli altri personaggi principali) intorno ai fatti  divulgati; e quello della storia fatta rivivere in presa diretta:

 

Tonya Harding, 1991. Margot Robbie in Tonya, 2017.

 

Per come è costruito (vale a dire per il modo in cui si riproducono falsi documenti storici sotto forma simulata di interviste o immagini di repertorio, secondo gli usi del mockumentary),  per i dettagli della storia su cui decide di portare lo sguardo, Tonya ci chiede di restituire profondità narrativa a un evento di cui il sapere comune aveva conservato soltanto le immagini e i passaggi più impressionanti e vistosi. Il film ci fa attraversare un episodio di cronaca nera per mostrare quanto la violenza sia stata non l’eccezione ma la norma, nell’ambiente in cui è cresciuta questa campionessa di pattinaggio così anomala, così antipatetica, eppure così in sintonia con la musica anni Ottanta (una delle cose migliori di quegli anni) che fa da colonna sonora al film.

 

Tutto, in lei, è strano, non conforme all’immagine dell’America «sana» che i selezionatori di una gara internazionale di solito vogliono dare. Non solo, dunque, il crimine di cui è stata complice, ma il modo scomposto di vestirsi, di fumare, di trattare male le persone, di protestare contro i punteggi, di far male le figure obbligatorie. Tonya è in protesta perpetua e prende le botte da tutti: non solo dalle rivali con cui, una volta smesso il pattinaggio, combatterà la boxe, ma dalla madre, dal marito, e in un certo senso pure da chi, durante le gare, non ammette di farla vincere perché non corrisponde ai canoni di “bella presenza” o non indossa un costume da cinquemila dollari. Tutto è scorretto nella sua vita, compreso il triplo Axel, un salto “fuori dalla norma” che di solito nemmeno si fa. 

 

 

Non esiste talento laddove non esista anche qualcosa o qualcuno che, fosse pure per contrasto e opposizione, non ti “incoraggi”. Ma se tutti i talenti felici si somigliano, di solito sono i talenti infelici che conoscono una fortuna narrativa, perché è allora che il talento diventa, se non c’è cura, risposta disperata e creativa all’assenza, oppure ansia da prestazione per scongiurare un abbandono, una solitudine, una fame di attenzione. Lì nasce e prospera il racconto. Quasi tutte le storie di sport che il cinema ha rappresentato mettono in scena non soltanto una biografia individuale, ma la storia potente di una relazione: con un genitore, un allenatore, un magnate ossessionato, un parente, un amico, insomma qualcuno, o qualcuna (più di tutte una madre), che ti dia, anche evocandolo in assenza, il cuore, il “coraggio”, per l’appunto, di riuscire a oltrepassare i tuoi limiti, per gridare, prima di tutto a lui, o a lei, “ce l’ho fatta!”.

 

Hilary Swank (Maggie) e Clint Eastwood (Frankie), in Million Dollar Baby (Eastwood, 2004).


In questa tensione, di solito, si gioca il nucleo forte del film: nella relazione. La maggior parte delle storie più riuscite di vicende sportive messe in scena dal cinema hanno reso memorabili grandi interpreti di questo percorso di motivazione (solo un esempio: «Adriana!» il grido emblematico e iconico di Rocky); oppure, viceversa, sono film diventati indimenticabili grazie a figure che agiscono, più che da interpreti di una storia complessiva, come grandi solisti. Come accade anche nel caso di Tonya, che in realtà è il film di due grandi numeri primi della solitudine.

 

Da una parte una madre, LaVona (una strepitosa Allison Janney, vincitrice di un meritato Oscar come attrice non protagonista), che cerca riscatto dalla miseria, lavorando disperatamente per cucire un destino di successo addosso alla propria figlia, con certe forme di dedizione assoluta che potrebbero ricordare, nelle differenze, la determinazione monomaniacale della madre di Bellissima (1951) - se non fosse che nel film di Visconti la protagonista (Anna Magnani) compie attraverso la storia una parabola tragica di riconquista del materno.

 

 

Dall’altra parte, come contraltare drammaturgico e simbolico, una figlia, addestrata fin da piccola alla rabbia per diventare una bimba prodigiosa del pattinaggio artistico: «Lei è il tuo nemico, non dovete essere amiche!», le grida davanti alle altre ragazzine.

 

Quando ho visto Tonya per la prima volta ho pensato che fosse un lavoro interessante, ispirato a una vicenda davvero significativa, ma che fosse, al tempo stesso, un’opera a tratti faticosa. Un film sgangherato (talvolta per scelta, in altri casi senza intenzione), che tiene assieme almeno tre storie di violenza. Riguardandolo, però, ho apprezzato maggiormente questo effetto di scucitura, perché non è soltanto un risultato d’insieme, ma un espediente all’opera per mostrarci la compresenza faticosa, nel personaggio di Tonya, di tre linee narrative che squilibrano di continuo il suo destino, quasi fosse un abito dai colori sbagliati e dalle proporzioni troppo corte, che tirano da tutte le parti: «I want to look pretty. Tulle’s classy, no?».

 

In primo luogo, infatti, c’è la storia del rapporto ossessivo con il proprio talento, l’unica cosa che Tonya possiede e può possedere. La macchina da presa, con i carrelli, i primi piani sui sorrisi sforzati alla fine della performance, non la molla mai nel racconto di questa tensione. Tonya ci mostra e ci fa vivere la rabbia di affermazione di chi non ha niente da perdere perché nessuno, a parte la madre, aveva previsto che lei potesse arrivare fin lì. Il pattinaggio, le dice il marito, funziona come un superpotere, alimentato dalle ansie da prestazione e di riuscita continuamente indotte dai messaggi anaffettivi e dittatoriali della madre – per certi aspetti la vera protagonista del racconto. «You fuck dumb, you don’t marry dumb!» protesta LaVona, alla festa di nozze della figlia, rimproverandole di aver sposato giusto il primo che le aveva detto che era carina.

 

Allison Janney nei panni di LaVona Golden.


In secondo luogo, Tonya è una black comedy, la storia di un crimine legato a una competizione: l’aggressione all’avversaria Nancy Kerrigan, nel 1994, alla vigilia dei Giochi Olimpici invernali di Lillehammer. Ma soprattutto, e in terzo luogo, Tonyaè un film dagli esiti disordinatamente riusciti perché usa una parabola di affermazione legata allo sport – e in particolare il topos della “vecchia gloria decaduta” – per raccontare una storia “sporca”, non convenzionale, degli Stati Uniti. Come ne Lo spaccone (Robert Rossen, 1961), o in Toro scatenato (Martin Scorsese, 1980), per fare solo un paio di esempi tratti dalla cinematografia storica; o come nei più recenti The Wrestler (Darren Aronofsky, 2008), e Foxcatcher- Una storia americana (Bennett Miller, 2014), uno dei film più belli di questi ultimi anni.  

 

Channing Tatum (Mark Schultz), Mark Ruffalo (Dave), Steve Carell (John du Pont), in Foxcatcher - Una storia americana.


«Tonya was totally America», dice di lei la sua allenatrice, la prima volta che appare intervistata. Per questo Tonya è tenuta ai margini dal sistema delle gare, che non vuole che sia lei a rappresentare gli Stati Uniti. Con i suoi cappotti di coniglio spellato nel cortile, con il suo white trash, con la sua assoluta mancanza di buone maniere, Tonya è il ritratto vivente, ma non patetico, dell’America di provincia, della vita in periferia, delle violenze domestiche che si consumano nelle case dove i nostri sguardi entrano solo quando accade un fatto di cronaca nera; dell’impasto di sogno e rabbia che fermenta sotto la maschera sforzata del sorriso, dentro un costume di scena troppo stretto, troppo colorato per farti davvero prendere il volo. Anche se sei stata la prima a eseguire un triplo Axel.

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Piero Sraffa. Ritratto del grande economista attraverso le lettere editoriali

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Il libro. Einaudi ha pubblicato 97 lettere editoriali di Piero Sraffa: la gran parte spedite a Giulio Einaudi, le restanti a Raffaele Mattioli e altri intellettuali italiani. Le lettere vanno dal 1947 al 1975 e consentono di fare qualche passo in avanti per affrontare quello che Luigi Pasinetti ha chiamato l’“enigma Sraffa”.

 

Chi era Piero Sraffa alla fine degli anni Quaranta del Novecento. Come ricorda Tommaso Munari nell’introduzione, quando inizia la corrispondenza qui raccolta Sraffa aveva una fama leggendaria. Il mito era il frutto dell’intrecciarsi di esperienze personali e scientifiche uniche. Dell’opera di Sraffa sappiamo sempre di più grazie ai lavori di Nerio Naldi, Cristina Marcuzzo, Alessandro Roncaglia e altri, nonché alla disponibilità dei suoi archivi custoditi al Trinity  College di Cambridge.

Sraffa, nato nel 1898, si era laureato nel 1920 con Luigi Einaudi, con una tesi su “L’inflazione in Italia durante e dopo la guerra”. Nel 1919 aveva conosciuto Antonio Gramsci, che sarebbe diventato il suo più grande amico. Dal 1921 Sraffa aveva pubblicato articoli su “Ordine Nuovo”, la rivista di Gramsci, e su “Rivoluzione liberale”, la rivista di Piero Gobetti. Attraverso Gaetano Salvemini aveva conosciuto John Maynard Keynes, che gli caldeggiò due articoli sulla situazione delle banche italiane. Nel giugno del 1922 Sraffa pubblicò sull’“Economic Journal” “The Bank Crisis in Italy”, denunciando con asprezza le responsabilità del Governo nella crisi della Banca Italiana di Sconto. Nel dicembre dello stesso anno uscì “L’attuale situazione delle banche italiane” sul Manchester Journal. L’articolo era più innocente del precedente ma il testo in italiano ne favorì la segnalazione a Mussolini, da pochi mesi Capo del Governo. Mussolini inviò un telegramma al padre di Piero, Angelo Sraffa, rettore della Bocconi, intimandogli di far ritrattare l’articolo, giudicato “un atto di puro e semplice disfattismo nei confronti del settore bancario”. Il padre si rifiutò di esercitare pressioni sul figlio, rispondendo che Piero si era limitato a riassumere fatti. Seguito dalla polizia politica, Sraffa era diventato professore di Economia Politica in Italia. Nel 1925 pubblicò, negli Annali di economia, l’articolo “Sulle relazioni tra costo e quantità prodotta”. L’articolo fu apprezzato da Francis Ysidro Edgeworth, poliglotta condirettore con Keynes dell’“Economic Journal”; Sraffa fu invitato a produrre una versione inglese del paper, che fu pubblicato nel 1926 (“The Laws of Returns under Competitive Conditions”). I due contributi furono l’inizio della letteratura sulle forme di mercato diverse dalla concorrenza perfetta. Nel 1927 il clima di intimidazione politica in Italia contribuì a far accettare a Sraffa l’offerta di Keynes di diventare lecturer all’Università di Cambridge. 

La ricerca di Sraffa attaccava le fondamenta dell’impostazione di Alfred Marshall (1842-1924), l’economista il cui testo Principi di Economia, del 1890, era ancora il manuale di riferimento a Cambridge e in tutto il Regno Unito. La personalità di Sraffa si impose subito, così come il suo programma di ricerca, volto alla critica del paradigma di Marshall. È come se un giovane studioso straniero piombasse oggi all’Università di Bologna, invitato da colleghi italiani, con un programma di ricerca destinato a demolire i lavori di Umberto Eco. 

 

Sraffa manifestò una scarsa attitudine all’insegnamento. Dopo imbarazzanti rinvii delle lezioni, tenne corsi solo dal 1928 al 1931 (con l’eccezione di poche altre lezioni durante la guerra, nel 1941-1942). Resosi conto delle idiosincrasie dell’amico, in particolare del terrore di fronteggiare gli studenti, Keynes lo nominò bibliotecario della Marshall Library di Cambridge. Il nuovo lavoro permise a Sraffa di sviluppare la passione, condivisa con Keynes, di bibliofilo. Keynes ritrovò un testo del 1740, An Abstract of a Treatise of Human Nature, considerato una sintesi anonima del testo di David Hume. Furono Keynes e Sraffa ad attribuire allo stesso Hume il volume, ripubblicandolo nel 1938, con una loro introduzione.

Sin dai primi anni Trenta Sraffa si dedicò all’edizione critica delle opere di David Ricardo, commissionatagli dalla Royal Economic Society su iniziativa dell’impagabile Keynes. Il primo volume, con un’introduzione destinata ad avere una forte influenza sulle interpretazioni successive del pensiero di Ricardo, sarebbe apparso nel 1951. Luigi Einaudi, un economista dalle idee diametralmente opposte a quelle di Sraffa, avrebbe salutato l’opera con una recensione intitolata “Dalla leggenda al monumento”. La consacrazione di Sraffa sarebbe avvenuta nel 1961, con l’attribuzione della medaglia Söderström della Royal Swedish Academy of Sciences, un premio che anticipava il premio Nobel per l’economia, introdotto solo nel 1969. La medaglia gli fu attribuita per l’edizione di Ricardo. 

Alla fine degli anni Quaranta del Novecento Sraffa era il più importante economista italiano al mondo. Ma era anche uno studioso caratterizzato da un forte impegno politico e dalle discussioni, spesso ambigue e irrisolte, con personalità tanto diverse come Antonio Gramsci, Ludwig Wittengstein, John Maynard Keynes, Arthur Cecil Pigou, Richard Kahn, Joan Robinson, Nicholas Kaldor, Michael Kalecki.

 

Il mistero Sraffa. In tutta la sua vita Sraffa ha pubblicato 250 pagine di articoli, più le 120 pagine del libro Produzione di merci a mezzo di merci, uscito nel 1960. Amartya Sen ha scritto, con ironia ma verosimiglianza, che Sraffa considerava immorale scrivere più di una pagina al mese. Luigi Einaudi ha parlato della “misurata rarità” delle scritture di Sraffa. Nel 1927, in una lettera alla moglie, Lydia Lopokova, Keynes scriveva “Sabato ho avuto una lunga discussione con Sraffa sul suo lavoro. È molto interessante e originale ma mi chiedo se i suoi studenti lo capiranno a lezione”. Nel 1932 Richard Kahn gli scrisse “Piero, tu sei un assoluto messaggio cifrato per il mondo esterno”. Ludwig Wittengestein, che ha avuto un’amicizia prolungata con Sraffa, gli ha attribuito un ruolo decisivo nel passaggio dal Tractatus logicus philosophicus (1921) alle Ricerche filosofiche (1953), aggiungendo che dopo le conversazioni con lui si sentiva come “un albero al quale fossero stati tagliati tutti i rami”. Ma quando Amartya Sen gli chiese quali fossero i contenuti delle conversazioni con Wittengestein, Sraffa rispose che si trattava di cose “piuttosto ovvie” (per la cronaca: Sraffa nel 1946 decise di non avere più discussioni con Wittengstein; la corrispondenza tra i due è spesso di una durezza disturbante). Cristina Marcuzzo ha parlato della figura elusiva di Sraffa; ha sottolineato come non si sia mai identificato con un’istituzione (non fu mai iscritto a un partito politico), non abbia mai sopportato l’idea di concorrere per riconoscimenti accademici (fu nominato reader solo nel 1964, due anni prima del pensionamento); ha sostenuto che l’isolamento di Sraffa potrebbe essere derivato, oltre che dagli impulsi personali, dalla congerie dei suoi interessi e dallo smodato amore per il collezionismo librario: Sraffa ha lasciato al Trinity College di Cambridge una biblioteca di quasi 8.000 volumi. 

Altri hanno sostenuto che l’assoluta riservatezza di Sraffa, la sua prudenza nell’esprimere posizioni in pubblico siano da attribuire all’essere stato seguito da anni dall’OVRA e dalla polizia inglese. Ancora nel 1951 una segnalazione della polizia italiana parla di Sraffa come “sospettato di essere un delegato clandestino del P.C.I.”.     

Le lettere editoriali aiutano a ricostruire alcuni tasselli del puzzle Sraffa.

 

Di che cosa parlano le lettere. Le lettere riguardano quattro progetti: la traduzione in inglese delle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci; la collaborazione di Sraffa con la casa editrice Einaudi; le vicende della pubblicazione di Produzione di merci a mezzo di merci; l’ipotesi di traduzione in italiano degli 11 volumi delle opere di Ricardo.

 

 

I tentativi di far tradurre Gramsci in inglese. Anche dopo il trasferimento in Inghilterra, Sraffa non dimenticò mai Antonio Gramsci. Sul rapporto tra i due, come scrive Munari, conosciamo ormai tutto. Molte lettere scritte a Giulio Einaudi raccontano dei tentativi di trovare un editore inglese disposto a pubblicare le Lettere dal carcere. Il libro aveva vinto nel 1947 il premio Viareggio, sconfiggendo il favorito Alberto Moravia, in concorso con La romana

L’impresa della traduzione in inglese si risolse in un fallimento (le lettere di Gramsci sarebbero apparse in inglese solo nel 1974, su una rivista). Sraffa contattò sei editori, ottenendo rifiuti. Con il passare degli anni Sraffa si rese conto che nel Regno Unito c’era uno scarso interesse per la figura di Gramsci. Questa consapevolezza lo rattristò. Ci sono scatti di rabbia che aiutano a confermare la sua visione del mondo. A un certo punto, quando la traduzione delle Lettere dal carcere sembrava cosa fatta, Giulio Einaudi propose Benedetto Croce come autore della prefazione per il lettore inglese. Croce, infatti, aveva apprezzato le Lettere dal carcere in una recensione del luglio del 1947. Ma Sraffa tuonò contro l’ipotesi, tagliando corto che sarebbe stato come chiedere una prefazione di Gramsci a Churchill. 

 

I consigli a Giulio Einaudi e le stroncature. La visione del mondo di Sraffa emerge guardando ai titoli consigliati a Giulio Einaudi per la traduzione in italiano. Ecco una lista incompleta: Engels, Anti-During; Rosa Luxemburg, Accumulazione del Capitale; Hilferding, Capitale finanziario; Hobson, Imperialism; Sidney e Beatrice Webb, Soviet Communism: A New Civilitization?; Christopher Hill, Lenin and the Russian Revolution; Francis Klingender, Art and the Industrial Revolution; Alexander Baykov, Lo sviluppo del sistema economico sovietico; R. Schlesinger Soviet Ideology; Rothstein, Man and Plan in Soviet Economy.

Giulio Einaudi seguì molti dei consigli di Sraffa, non tutti. Einaudi aveva una visione diversa, condivisa anche da Antonio Giolitti, allora collaboratore della casa editrice e interlocutore dello stesso Sraffa nell’ideazione della collana “Classici dell’economia”. L’Italia era uscita dalla dittatura; bisognava formare una nuova classe dirigente, un nuovo pubblico, esercitando un’egemonia culturale, in concorrenza con altri circoli intellettuali italiani. Per raggiungere questi obiettivi Giulio Einaudi e Giolitti pensavano che accanto ai testi marxisti bisognasse pubblicare lavori di diverso orientamento. Sraffa era invece inflessibile. Nel Regno Unito liberali e conservatori propinavano libri e forme di divulgazione dove non c’era spazio per Marx e il marxismo. Bisognava quindi rispondere con scelte altrettanto unilaterali.  

Ecco allora le stroncature di Sraffa: Werner Stark è un “imbecille oltre che un convertito al cattolicesimo”; Ludvig von Mises è un “reazionario antidiluviano”; Friedrich von Hayek è un “ultrareazionario”; un libro di Georges Bataille è di “scarsissimo valore”; Giovanni Demaria è fra gli economisti italiani “uno dei meno reazionari – non che sia un grande elogio”. 

La polemica più ricorrente è quella con Hayek (che avrebbe ricevuto il premio Nobel nel 1974). Ciò avveniva per due motivi. Hayek era l’autore di Road to Serfdom (1944), un grande successo editoriale che denunciava il pericolo del dirigismo economico, non solo in Russia ma anche nei paesi di economia liberale: possiamo immaginare che cosa Sraffa pensasse del libro. Ma soprattutto non si era mai sopita una polemica tra Hayek e Sraffa avvenuta nel 1931-1932, centrata sulla natura del tasso di interesse e sulle caratteristiche di un’economia monetaria (temi sui quali la discussione economica è sempre aperta). Hayek aveva criticato il Trattato della moneta di Keynes. Sraffa era intervenuto dicendo che la critica era sbagliata. Hayek aveva replicato che Sraffa non aveva capito né la sua critica né Keynes. Sraffa aveva controreplicato. Keynes aveva chiuso la polemica dicendo a Hayek che l’interpretazione di Sraffa del suo pensiero era giusta e che lui non aveva nulla da aggiungere. Va detto, di passaggio, che Hayek ha scatenato giudizi estremi da parte di altri studiosi. Oskar  Morgenstern, uno dei padri della teoria dei giochi, ha annotato nel suo diario del 2 novembre 1935 “Wald is really clever. I regard these works as very significant. They shed new light on the application of mathematics in economics…  — Hayek, by the way, is a dullard”.

 

Il rapporto con Giulio Einaudi è corretto ma pieno di rimproveri, da vecchio zio che si rivolge a un giovane nipote un po’ scapestrato. Sraffa rimprovera Einaudi di aver sbagliato indirizzo in una lettera spedita a Cambridge, non aggiungendo United Kingdom e causando così l’arrivo della lettera a Cambridge nel Massachussets. In un’altra occasione Einaudi ha scritto sulla busta solo Trinity College, e Sraffa lo rimbrotta perché la lettera è arrivata al Trinity College di Dublino. Arriva poi a rimproverarlo per il cattivo inglese (9 dicembre del 1949); e poi a rinfacciagli ritardi nelle risposte alle lettere. Einaudi confonde due edizioni di un libro e Sraffa gli dice “Un’altra volta spiegati meglio” (27 novembre 1972). Anche Gaia Servadio, che ha scritto il più bel ritratto intimo di Sraffa, ha ricordato gli improperi che le arrivarono dopo avergli scritto una lettera al Trinity College, dimenticando, sulla busta, una effe del cognome.

Giulio Einaudi non reagì mai alle invettive, considerando Sraffa un punto di riferimento per la casa editrice e trattandolo con il rispetto dovuto a un Maestro di 14 anni più anziano. Le lettere confermano l’idiosincrasia di Sraffa ad assumere qualsiasi incarico: rifiutò infatti la proposta di dirigere la collana dei “Classici dell’economia”. A onor del vero, con il passare degli anni i consigli di traduzione di Sraffa diventarono più diversificati; tra i filosofi suggerì Wittengstein; tra gli economisti arrivarono Hicks, Klein, Kaldor e altri. 

Pensare i libri. Pubblicare i libri migliori. Pubblicarli senza errori, con una veste tipografica perfetta. Curare i minimi particolari, le note a piè di pagina, le appendici, gli spazi tra i paragrafi, gli spazi tra le lettere delle parole che compongono i titoli. Su questo terreno tra Giulio Einaudi e Sraffa c’era unità d’intenti. Ma il secondo sfiorava la malattia. Un errore di stampa o la dimenticanza di un nome in un indice analitico sono per Sraffa crimini ingiustificabili.

La passione per i libri è assoluta e attraversa tutte le lettere. Nell’aprile del 1948 Sraffa incontra a Roma Luigi Einaudi che gli chiede l’acquisto di alcuni libri inglesi. Nel maggio del 1948 Einaudi diventa Presidente della Repubblica. A fine mese Sraffa chiede a Giulio a quale indirizzo inviare i libri comprati per il padre, chiedendogli se nella nuova situazione “abbia ancora voglia e tempo per queste cose”. Sraffa ha paura che i libri finiscano “nella caserma dei Corazzieri”. Con tenerezza Giulio Einaudi risponde che i libri possono essere mandati all’indirizzo del Quirinale e che “non ci siano né segreterie né corazzieri che tengano”. Ed è tragicomico osservare che chi comprava libri inglesi per il Presidente della Repubblica era contemporaneamente sotto osservazione da parte della polizia.

 

La nascita di Produzione di merci a mezzo di merci. Come ricordato, l’unico libro di Sraffa è Produzione di merci a mezzo di merci, pubblicato contemporaneamente da Cambridge University Press e da Einaudi nel 1960. Nella prefazione Sraffa scrisse che la stesura delle tesi fondamentali risaliva alla fine degli anni Venti, ringraziando, tra gli altri, Frank Ramsey, un geniale matematico scomparso nel 1930. La maturazione più che trentennale del libro è stata poi confermata da diversi studiosi. 

Una lettera dell’11 febbraio 1955 a Raffaele Mattioli ribadisce l’incredibile gestazione del libro. Sraffa scrive di essere impegnato nel ruolo dell’auto-esecutore letterario, portandosi dietro circa 20 chili di note scritte in circa trenta anni e abbandonate del tutto quando si era messo a lavorare sul serio a Ricardo. Il 7 dicembre del 1955 racconta a Mattioli che gli è venuta in mente un’idea che cercava da trent’anni. Il 1° agosto del 1957 scrive di aver pianto – e non gli accadeva dal funerale della madre – perché un economista inglese ha pubblicato un articolo “che anticipa una parte importante del mio lavoro”. Le lettere a Mattioli sono più affettuose di quelle scritte a Einaudi. Sraffa era molto legato al banchiere bibliofilo che nel 1937, dopo la morte di Gramsci, aveva salvato i Quaderni dal carcere nascondendoli nella cassaforte della Banca Commerciale Italiana. 

 

Per la stampa di Produzione di merci a mezzo di merci, Sraffa ottiene da Giulio Einaudi il diritto di poter interloquire direttamente con la tipografia della casa editrice. Ordina che la composizione sia a monotype (o comunque a caratteri mobili) e non a lynotype (13 gennaio 1960). Scrive al tipografo soffermandosi sulla visibilità dei numeri dei paragrafi, delle testate di pagina, dei titoli dei capitoli, delle virgolette. È insoddisfatto del risultato finale, ma si rassegna, protestando anche contro la fascetta del libro. Segue il lancio del volume, dominato dalla maniacalità. Sraffa ordina a Einaudi di stamparne 1.500 copie; impone il prezzo non superiore alle 1.000 lire; si riserva la proprietà letteraria e i diritti esteri, nonché “la facoltà di ritirare l’edizione in qualunque momento, comprando il rimanente stock a prezzo di costo”. 

Mattioli aiutò Sraffa nella stesura italiana di “Produzione di merci a mezzo di merci”, incontrandolo con regolarità a Milano e facendo da tramite per i rapporti con i primi lettori e recensori. Le lettere confermano che Sraffa mantenne sempre un legame con l’Italia, dove tornò periodicamente fino ai primi anni Settanta. Fu, ad esempio, membro delle commissioni per l’assegnazione delle borse di studio “Bonaldo Stringher” della Banca d’Italia. 

 

Come naufragò il progetto di tradurre in italiane le opere di Ricardo. Sraffa aveva raggiunto un accordo con la casa editrice Il Saggiatore per una traduzione in italiano delle Opere di Ricardo. Ma l’editore italiano non si era più fatto vivo. Dopo l’uscita dell’ultimo volume nel 1972, iniziò una cavillosa corrispondenza per cercare di arrivare a una traduzione con Einaudi. Il progetto naufragò. Sraffa era sulla linea del “tutto o niente”, respingendo l’ipotesi di una selezione del materiale dei volumi di Ricardo per l’uscita in italiano. Ma un’altra causa importante fu il peggioramento delle condizioni di salute. Negli ultimi anni di vita Sraffa perse progressivamente le facoltà mentali. Si spense a Cambridge il 3 settembre del 1983. Un amico presente al funerale ricorda che alla funzione funebre parteciparono una decina di persone.

 

Il puzzle Sraffa. Settario; intollerante; perfezionista; puntiglioso; coltissimo; abituato alla solitudine e restio a farsi coinvolgere in qualsiasi iniziativa pubblica, un po’ come il Gadda del “Per favore, mi lasci nell’ombra”; indisponibile a parlare di fronte a grandi udienze; propenso a condurre l’understatement inglese alla soglia estrema dell’autocensura; oscillante tra insicurezza, da un lato, e assoluto estremismo, dall’altro; collezionista di libri, filologo e tipografo insuperabile; indifferente a ogni forma di potere e di ricerca del successo, come ha ricordato Sergio Steve; generosissimo e disinteressato con gli amici. Forse, come ha detto Eraclito, “il carattere di un uomo è il suo destino”.

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In cattedra con la valigia

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In una recente inchiesta«La Repubblica» ha documentato il pendolarismo Napoli–Roma cui quotidianamente si sottopongono tre docenti (donne) precarie e una lavoratrice del settore amministrativo. Sveglia alle 4 del mattino, 500 km di viaggio complessivi con Frecciarossa, treni locali, autobus, per una durata di circa 7 ore di viaggio tra andata e ritorno. Difficile dire se i giornalisti abbiano letto il volume In cattedra con la valigia. Gli insegnanti tra stabilizzazione e mobilità. Rapporto sulle migrazioni interne in Italia, opera che illustra la presenza di working poors anche nel settore della pubblica amministrazione, tradizionalmente associato a stabilità e garanzia di reddito.

 

Le indagini a disposizione documentano che il contesto migratorio italiano si trova in una fase di transizione caratterizzata dalla fine del boom delle immigrazioni degli anni ’90 e dal contemporaneo aumento delle emigrazioni. Di fronte a cambiamenti così rilevanti, alcune tendenze rimangono stabili, prima fra tutte i flussi migratori che si orientano ancora secondo l’asse Sud Centro-Nord e che, nello specifico, investono con significativa consistenza sia la componente lavoratrice della scuola sia quella studentesca. Il volume, muovendo da diversi approcci scientifici, analizza una particolare forma di migrazione interna, legata ad una specifica qualifica professionale: quella dell’insegnante della scuola pubblica, comparto in cui la componente straniera è pressoché assente. Come chiariscono i curatori dell’opera lo scopo dei contributi è di «ricostruire la consistenza, le origini e le conseguenze della mobilità territoriale degli insegnanti partendo dal suo impatto sulle biografie dei protagonisti, sui territori di partenza e di destinazione e sul sistema scolastico» (p. X)

Il lavoro intreccia analisi quantitative, capaci di restituire i percorsi di mobilità degli insegnanti attraverso lo studio di specifiche fonti seriali, a capitoli dedicati al racconto di storie di vita, raccolte mediante interviste. Tale dimensione qualitativa risulta in grado di evidenziare le trasformazioni culturali e sociali della professione docente: le difficoltà d’inserimento nei contesti d’arrivo, il rapporto con i luoghi d’origine, la costruzione di un progetto migratorio, il tema del ritorno, l’orizzonte della conflittualità e della sindacalizzazione. Opportunamente gli autori sottolineano permanenze e mutamenti di quel ‘mestiere mobile’ che è l’insegnamento. Storicamente la questione della mobilità territoriale degli insegnanti non è una novità all’interno del più generale problema della disoccupazione intellettuale. Stupisce – come osserva Pietro Causarano – «che questo fenomeno sia stato così poco studiato e tematizzato», così come che il ministero non monitori «regolarmente la dimensione territoriale della mobilità esterna (e quindi l’impatto non solo sulle vite personali ma anche sulle dinamiche sociali delle aree interessate nonché sulla qualità dell’offerta didattica), bensì al massimo si limiti a quella funzionale interna, nei passaggi di docenti fra ordini e gradi» (p. 5). Proprio tale elemento sembra l’acquisizione più significativa del volume: la mobilità migratoria dei docenti continua ad essere considerata come un fatto scontato, strettamente connessa alla funzione universalistica svolta dal sistema formativo, corposo ganglo della pubblica amministrazione abitualmente sottoposto al principio della riallocazione territoriale. In realtà questa naturalità presenta alcuni problemi di legittimità in termini di principio e di efficacia in termini di complessiva efficienza del sistema dell’istruzione.

 

Di legittimità in quanto – si chiede Enrico Gargiulo – fino a che punto lo «Stato può richiedere – o addirittura imporre – in maniera legittima a una quota dei suoi cittadini, costituita da dipendenti pubblici, di trasferirsi da una parte all’altra del suo territorio?» (p. 85). Inoltre in che misura può farlo a fronte di continui cambiamenti dei meccanismi di accesso al mercato del lavoro scolastico? Evidente, il riferimento all’importante mutamento legislativo noto come la Buona scuola che, contestualmente alla nuova selezione concorsuale (riservata ai soli abilitati), ha varato un piano di reclutamento straordinario in grado di svuotare le graduatorie ad esaurimento (Gae) mediante la candidatura degli aspiranti docenti in 100 province. Ciò ha avuto come esito l’accentuazione della presenza di insegnanti meridionali nelle province settentrionali, un fenomeno storicamente già significativo. 

 

 

Di efficacia in quanto la distribuzione geografica delle posizioni lavorative aperte determina quel fenomeno di trasferimenti finalizzati ad accumulare anzianità di servizio o acquisizione del ruolo nelle scuole del Settentrione, per poi, in un secondo momento scegliere di uno spostamento inverso per riavvicinarsi alla famiglia o al luogo di partenza. Complessivamente emerge che nelle graduatorie ad esaurimento prevale l’intenzione di spostarsi al Centro-nord; in particolare la regione cui è più alta la percentuale di domande extra-regionale tra il 2011-2014 è la Basilicata (17,2%), seguita dalla Sicilia (15,3%) e dalla Campania (14,7%). Sempre nel medesimo periodo le regioni maggiormente attrattive in ordine sono la Toscana (22,1%), il Piemonte (19,1%) e il Lazio (16,7%). La traiettoria interprovinciale maggiormente frequentata dagli iscritti Gae è Napoli-Roma (4,3%). Il personale di ruolo, invece, preferisce spostarsi dal Centro-nord al Mezzogiorno: in questo caso la traiettoria interprovinciale più seguita è quella dalla provincia di Roma a Napoli (3,1% del totale dei trasferimenti di ruolo tra il 2012 a il 2015). In termini complessivi il fenomeno della mobilità tra regioni interessa il 10,5% dei docenti iscritti nelle Gae; mentre la mobilità interregionale tra docenti di ruolo riguarda il 5,9%. Figure e tabelle di alcuni saggi sono presenti qui.

 

Come segnalato, il volume presenta cinque capitoli organizzati sull’ispezione di singole realtà territoriali (Bergamo, Modena, Reggio Emilia e Roma; Piemonte, Emilia-Romagna) condotte secondo un approccio etnografico fondato su interviste partecipate e ricognizioni sui dati reperiti presso le amministrazioni territoriali scolastiche. L’istantanea restituisce le motivazioni del trasferimento, specialmente di donne provenienti dal sud Italia; le dinamiche di costruzione dell’identità professionale che portano a scoprire un’appartenenza territoriale mentre ci si trova in un altro contesto e con un altro modo di lavorare; sino alle retoriche antimeridionali puntualmente presenti. «In questo processo di definizione e ridefinizione dei confini si attivano meccanismi di solidarietà e distanziamento, condivisione e rifiuto, ma anche utilizzo in chiave strumentale degli stereotipi» (p. 114) che fotografano il «prezzo» della stabilizzazione introdotto dalla legge 107: l’ingresso in ruolo condizionato a una mobilità non controllata nei tempi e nei modi dell’attuazione. Comune da parte delle intervistate la percezione di essere state di fronte «ad una scelta irrinunciabile» ma «obbligata» in quanto scarse sarebbero state le opportunità d’inserimento nel mercato del lavoro in contesti a forte disoccupazione.

Il piano straordinario di assunzioni ha mandato in frantumi proprio quel dispositivo che rendeva l’impiego come insegnante così attrattivo per molte donne meridionali: la possibilità di conciliare lavoro e famiglia, carriera professionale e tempi di sviluppo del nucleo familiare, anche nel caso in cui fosse stata necessaria una mobilità territoriale. A questi insegnanti sono stati imposti i tempi della mobilità geografica rendendo di fatto impossibile conciliare questa transizione con le necessità familiari (la crescita dei figli, il mutuo della casa, l’assistenza a genitori anziani...), senza possibilità concreta di tempi brevi. (p. 115)

 

Sul vissuto personale pesano, spesso in misure maggiore delle condizioni oggettive di difficoltà lavorativa, la presenza di stereotipi sull’insegnante meridionale, qualificato come assenteista, lavativo e inaffidabile. Nella provincia di Bergamo, oggetto dello studio di Paolo Barcella, l’autore registra la tendenza della società civile a spacciare «come verità autoevidenti che ‘tutti hanno avuto un insegnante meridionale che c’era le prime due settimane e poi si metteva in maternità per 18 mesi» oppure la scarsa conoscenza della lingua inglese sia imputabile ad un docente «con l’accento di Barletta» (p. 139). In atto vi è un classico meccanismo di semplificazione che porta «a considerare come caratteristiche culturali e antropologiche dei meridionali comportamenti riconducibili a fattori socio-economici» (p. 154). D’altra parte sono spesso gli stessi insegnanti meridionali che alimentano il diffuso pregiudizio. Domenico Perrotta e Dario Tuorto analizzano le modalità discorsive con cui le maestre meridionali a Reggio Emilia, già insediate, confrontano la propria esperienza di mobilità territoriale con quella delle neo-entrate. Relativamente alle assenze prolungate per malattia, richieste di mobilità con conseguente abbandono del gruppo classe, il ventaglio di reazioni possibile varia dalla ferma condanna (scarsa professionalità e/o scarsa moralità) sino alla giustificazione a certe condizioni (stare vicino alla famiglia). In ogni caso emerge una rappresentazione giocata sul rifiuto dello stereotipo per sé ma attribuito agli altri. 

Chiave di lettura nell’interpretazione del fenomeno è il costrutto di civic stratification che consente di leggere e decodificare anche i cambiamenti del mercato del lavoro. La nozione, utilizzata all’interno degli studi sui fenomeni migratori, intende rendere conto di come, in molte società contemporanee, lo sviluppo della cittadinanza quale status sia andato di pari passo con il consolidamento di relazioni di potere asimmetriche che erodono il principio di eguaglianza formale e sostanziale. Introdotta da David Lockwood in un articolo del 1996, ha orientato e orienta quel complesso di studi che documentano la creazione da parte degli Stati di dispositivi normativi atti a produrre regimi differenziati tra i migranti in relazione alla loro zona di provenienza.

 

Il concetto di civic stratification – ritiene Gargiulo – ha un portato analitico che restituisce la complessità dei meccanismi selettivi del mercato del lavoro scolastico. 

I continui cambiamenti delle regole di transizione, ossia in questo caso – dei criteri che regolano il passaggio dal precariato all’ingresso in ruolo, sebbene siano dichiaratamente ispirati a principi meritocratici e impersonali, producono soggetti che, a prescindere dai loro comportamenti individuali, occupano strati differenti nella scala della collocazione economica e lavorativa, così come in quella del riconoscimento professionale e sociale (p. 83)

In altri termini, le policies attuate tendono ad alimentare il conflitto sociale tra la comunità degli inclusi (i docenti di ruolo) e quella degli esclusi (precari, neo-immessi variamente migranti) generando un percorso ad ostacoli fatto di barriere materiali (di reddito e accesso al welfare) che producono insofferenza anche esistenziale (alienazione). Certo non si tratta di una puntuale discriminazione amministrativa come avviene nei confronti dei migranti; tuttavia non sembra improprio definirla come mobilità coatta che, come emerge dalle interviste, è sentita come ingiusta se non tanto in assoluto quanto se paragonata alla condizione di altri dipendenti pubblici.

 

In conclusione il testo riesce in una sfida particolarmente complessa, cioè incrociare tre ambiti di riflessione: il lavoro nel pubblico impiego, la condizione femminile nel mercato del lavoro e le dinamiche interne al mondo scuola, in un contesto segnato dal decremento demografico che colpisce soprattutto il Mezzogiorno e che, inevitabilmente, avrà ripercussione sulle opportunità lavorative.

 

In cattedra con la valigia. Gli insegnanti tra stabilizzazione e mobilità. Rapporto sulle migrazioni interne in Italia, (a cura di) M. Colucci e S. Gallo, Donzelli, 2017.

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Il ’68 jugoslavo: l'anno tabù

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Avevamo sognato tutto molto diverso con i nostri libri, dietro il muro del nostro giardino fra i mirti e gli oleandri.

Georg Büchner, Leonce e Lena

 

Tre anni dopo il ’68, il Maspok, il movimento della Primavera croata che chiede più autonomia, sei anni dopo la quarta Costituzione del dopoguerra considerata una delle cause del processo di rifeudalizzazione.

Dodici anni dopo, la morte di Tito − il paese si ferma, la folla scandisce: Noi siamo diTito, Tito è nostro, Tito siamo noi. I volti ripresi dalle telecamere rivelano ansia e paura, il pianto è collettivo perché sono in molti a temere che, insieme a quello di Tito, si stia celebrando anche il funerale della Jugoslavia.

Diciassette anni dopo, un’ondata di scioperi, una crisi interminabile, e l’irresistibile ascesa di Slobodan Milošević, leader del «risorto nazionalismo serbo».

Ventidue anni dopo, le prime elezioni pluripartitiche del dopoguerra.

Nel giugno 1991 iniziano le guerre inter-jugoslave di fine Novecento. Appartengono ai «conflitti irrealistici», visti con gli occhi della sociologia politica hanno solo in parte «finalità calcolabili». Eppure, il farsi bellico sarà una carneficina infinita. Il presente rimesta e rivanga: vicende e traumi, mafie e criminalità politica, una «patologia sociale» alimentata dall’ideologia. E che non ama troppo la storiografia.

Un dopo, talmente carico di storia e di significati, di vite vissute e di vite ammazzate, di esistenze strozzate che continuano a nutrire ricostruzioni e narrazioni, diari e memoir, che ogni vicenda accaduta prima rischia di essere interpretata con l’emotività della jugonostalgia, di essere sovradeterminata da quanto accadrà poi, mentre un Giano Bifronte apre e chiude le porte del passato e del futuro del «caso jugoslavo».

 

Un pugno di riso e il caviale

Anche in Jugoslavia quello che unisce il cielo belgradese al resto del mondo è il Vietnam. Ma le difficili condizioni materiali degli studenti − stipati a migliaia in pensionati fatiscenti, isolati dai centri delle città, con mense dal vitto miserrimo − si intrecciano con gli ideali della protesta. Nell’anno scolastico 1967/68 sono 211000, la Jugoslavia è il terzo paese al mondo, dopo Stati Uniti e Unione Sovietica, per quota di iscritti all’università sulla popolazione complessiva. 

A Novi Beograd, nella parte periferica della città, dove la cittadella di circa 6000 giovani convive con pensionati e militari, già nel 1953 si era verificato uno sciopero selvaggio e spontaneo partito dagli studenti tormentati dalla fame. Barricati nei dormitori, colpivano la polizia con pezzi di carbone e di legna da ardere. Dopo un assedio di tre giorni, lo sciopero fu represso. Molti si sono trovati dietro le sbarre. Ma il vitto della mensa è stato migliorato.

Nella primavera del ’68 lo scoppio del movimento arriva improvviso, sorprende i padri comunisti e l’opinione pubblica socialisticamente spoliticizzata. Un comunicato di solidarietà con il popolo vietnamita in lotta era già stato inviato nei mesi precedenti e si erano sentiti slogan come «Via gli americani dalla Jugoslavia» e «Non vogliamo il grano americano», con evidente riferimento al sostegno economico ricevuto dall’Ovest. 

Il casus belli che dà il via al conflitto tra il Comitato universitario della Lega degli studenti e il Comitato della Lega degli studenti della facoltà di Filosofia è rappresentato dalla Polonia. Di fronte agli avvenimenti del marzo polacco, 161 intellettuali serbi, la redazione della rivista «Praxis», un gruppo di professori di Sarajevo e 1520 studenti della facoltà di filosofia di Belgrado esprimono la loro solidarietà con gli studenti polacchi e accusano gli organismi ufficiali di passività. Ma il dibattito tocca immediatamente le questioni interne e il 25 aprile e il 14 maggio si discute «delle disuguaglianze sociali nel socialismo» per stabilire i limiti di disparità «esagerate» mentre si sta formando una «nuova élite di ricchi». 

Da più parti le opinioni degli studenti sono definite «emotive». «Mi sono scritto solo quattro parole», scandisce lo studente Miloš Gvozdenović: «la prima è uguaglianza, la seconda è diversità, la terza è emozione, l’ultima è solidarietà». Il giorno dopo, i giornalisti presenti parleranno di «un dialogo tra emozione e scienza». Tra gli interventi che passeranno alla storia del movimento quello dello studente Bube Rakić: «[…] se non possiamo costruire un sistema che possa distribuire la nostra ricchezza sociale in modo più giusto, allora è meglio che rimaniamo al livello dell’egualitarismo. Meglio un pugno di riso per tutti che il caviale per pochi».

 

Diario della settimana calda

È uno spettacolo, La carovana dell’amicizia, spostato per motivi atmosferici al chiuso, il pretesto per l’inizio degli scontri alla periferia di Belgrado: da una parte il territorio degli studenti, dall’altra la polizia. La sala non è abbastanza capiente per poter contenere tutti quelli arrivati per lo spettacolo, ma gli slogan si fanno subito politici: Lavoro a tutti, Operai-studenti, Tito-partito. A notte fonda reparti della milicija violano l’autonomia della cittadella universitaria, danno la caccia allo studente e ne arrestano alcuni. 

Lunedì 3 giugno inizia la lunga marcia verso il centro. Il corteo sarà bloccato a un sottopassaggio dove la polizia si scatena: picchia i professori, la gente di passaggio, si accanisce soprattutto contro le ragazze chiamandole «puttane». È uno shock collettivo. La ripetizione − alla luce del giorno − di quanto altre volte era avvenuto con il favore delle tenebre suscita incredulità tra alcuni dirigenti comunisti e nell’opinione pubblica. Stralunati appaiono gli stessi studenti: non pensavano certo che lo Stato, che considerano anche loro, potesse accoglierli in questo modo. In un appello ai cittadini si attaccano i privilegi, si parla della disoccupazione, si chiede più democrazia − libertà di riunione e di manifestazione, il miglioramento delle condizioni di vita. Gli slogan, tantissimi e variegati, da Meno automobili, più scuole a Parla come vivi – firmato Lenin, sono accompagnati dai ritratti di Tito, Marx, Lenin, Che Guevara e da un distintivo con un segno rosso, gli studenti, circondato da un cerchio blu, la polizia. 

La «festa della salute, dell’allegria, del lasciarsi andare» ha il suo epicentro alla facoltà di Filosofia ribattezzata il 4 giugno Università rossa Karl Marx. È qui che si stampa un bollettino − «Noi non siamo l’opposizione, ma la negazione di tutto ciò che è menzogna» − e si sta riuniti in assemblea perenne. Il pomeriggio di martedì 4 giugno sale sul palco l’attore Stevo Žigon. Recita il discorso di Robespierre dal primo atto de La morte di Danton. Inizia con: «Aspettavamo soltanto per parlare il grido di indignazione che risuona da ogni parte» e termina con: «Nessun patto, nessuna tregua con gli uomini per i quali la repubblica fu una speculazione e la rivoluzione un mestiere!». Ogni parola del discorso di Robespierre è accompagnata da ovazioni: sarà uno dei momenti più carichi di pathos di un movimento alla ricerca di un leader. 

 

La giornata del 5 giugno è quella della solidarietà che arriva da parte dell’Associazione degli scrittori, gruppi di cittadini sostengono il movimento con le loro offerte. È la prima volta, nella società jugoslava del dopoguerra, che si ha un’attivazione di massa dei giovani insieme alla partecipazione di numerosissimi professori, molti dei quali si sentono contagiati «dall’entusiasmo e dall’audacia». 

Nella montagna di telegrammi e di lettere di sostegno da parte del mondo della cultura, di istituzioni e di singoli, spiccano i comunicati di condanna che arrivano, invece, dai collettivi di fabbrica. L’incontro mancato tra gli operai e gli studenti è uno dei punti più controversi della ricostruzione degli avvenimenti. La polizia, ma anche i dirigenti della Lega dei comunisti, vogliono impedire ai cortei di prendere la città. Costringono gli studenti ad autoisolarsi nel ghetto dell’università e mobilitano gli operai contro la «controrivoluzione», fin da subito si formano comitati di vigilanza fuori dalle fabbriche allo scopo di impedire un contatto diretto tra operai e studenti. Alcuni dei leader di allora sostengono oggi che il rapporto con i lavoratori è la questione intorno alla quale si sono avute le mistificazioni e le manipolazioni maggiori. Il primo giorno, raccontano, siamo riusciti a entrare in alcune fabbriche, già il secondo giorno il Comitato cittadino della Lega dei comunisti ha formato le ronde operaie. La rivista sindacale «Rad» (Lavoro) è l’unica a rompere il blocco dell’informazione e a pubblicare un testo più obiettivo sulle richieste del movimento. 

A metà settimana, isolati dalla repressione poliziesca e dalla disinformazione della stampa, gli studenti belgradesi decidono di rivolgersi a Tito, il cui ritratto sventolava sull’università occupata accanto a quelli di Marx, Lenin, Che Guevara. Gli scrivono per informarlo dei loro obiettivi: «Noi siamo per la totale autogestione in tutti gli strati della società […] Noi siamo contro il sempre maggior arricchimento dei singoli a scapito della classe lavoratrice. Noi siamo per la proprietà sociale e contro i tentativi di creare imprese azionarie capitalistiche. […] Il nostro è il programma delle forze più progressiste della nostra società – il programma della Lega dei comunisti della Jugoslavia e della costituzione. Noi chiediamo la sua coerente attuazione».

Tito risponderà per televisione: il suo discorso del 9 giugno, un momento carico di aspettative e di suspence, coinciderà con la fine dello sciopero studentesco. Alla «gioventù socialista» Tito si rivolge dallo schermo con toni pacati e rassicuranti, parla loro come un padre di famiglia. Dice di sapere che per il 90 per cento sono bravi ragazzi, promette inchieste per i responsabili della repressione, invita chi si sente ormai vecchio a lasciare posto ai giovani. 

Nel suo Ispljuvak pun krvi (Uno sputo pieno di sangue) − il cui sottotitolo è Diario di una sconfitta − Živojin Pavlović lo ricorda così. «Il 9 giugno Tito ha fatto una delle sue più brillanti mosse politiche: ha dato ragione agli studenti. Il risultato è stato eccellente: i ragazzi sono impazziti dall’entusiasmo, il profumo ingannevole della vittoria ha sconvolto gli intellettuali e gli studenti, e questi, completamente ipnotizzati, si sono precipitati a rispondere all’appello del presidente che li aveva invitati a interrompere lo sciopero e a continuare con gli esami». Nel ’68, a 35 anni, lo scrittore e regista Živojin Pavlović si improvvisò cronista: alla fine dell’anno scrisse di getto il diario della settimana di lotta all’Università di Belgrado, che verrà a lungo proibito «per non agitare l’opinione pubblica». Vent’anni dopo Živojin Pavlović pubblica il romanzo Lov na tigrove (Caccia alle tigri), ancora un diario. Il protagonista Aljoša Jotić, nato il 1° aprile 1950, era, nell’anno fatale, studente di etnologia all’Università di Belgrado. Distribuisce volantini, rivendica il diritto a una verità «soggettiva», attacca la «borghesia rossa». Poi, per sfuggire a un eccessivo interessamento della polizia nei suoi confronti, abbandona la città e si rifugia, sotto le anonime vesti di cameriere d’albergo, in cima a una montagna della Serbia orientale. «La mia vita – annota Aljoša – dal tempo della rivolta sta irresistibilmente degradando in durata». Il conflitto dell’ex studente, prima ancora che con l’autorità, è con il proprio padre che era stato un temibile agente dell’Udba (i servizi di sicurezza). Aljoša scappa dal padre, ma fugge soprattutto − e questo è un Leitmotiv del romanzo serbo contemporaneo − davanti alla storia. «In questi giorni – scrive dopo un incontro con un compagno d’armi del padre – la storia si è per la seconda volta scagliata contro di me, mentre io, sazio fino alla nausea, la fuggo da un intero decennio. La prima volta mi è accaduto nel ’68». 

Dopo il discorso di Tito si tiene un meeting a cui partecipano in diecimila, e gli studenti, convinti di aver vinto il «nemico», decidono di rimettersi a studiare. Martedì 11 giugno i giornali annunciano con entusiasmo «la normalizzazione della vita e del lavoro all’Università». Tito parlerà un’altra volta, a fine giugno, a un congresso del sindacato. Sarà l’occasione per un attacco agli «opposti estremismi»: da una parte i servizi di sicurezza, dall’altra i filosofi di «Praxis». L’illusione della vittoria è di brevissima durata. Già a luglio vengono sciolte le organizzazioni giovanili, iniziano le persecuzioni e gli arresti che negli anni successivi colpiranno la facoltà di Filosofia, mentre il Comitato universitario della Lega dei comunisti giudica «inaccettabili le idee sulla necessità di un legame più stretto tra l’intellighenzia e la classe operaia» e critica l’esistenza stessa di un movimento tanto quanto «la tendenza a legalizzare l’opposizione politica». I primi a essere accusati di volere un «ruolo dirigente dell’intellighenzia umanistica» saranno i filosofi riuniti intorno alla rivista «Praxis». L’attacco ai professori è anche l’episodio più noto della repressione contro quel che resta del breve Sessantotto jugoslavo. 

Sulla copertina dell’ultimo numero, uscito nel ’68, della rivista «Student» compare un grande punto nero. È il simbolo della fine del movimento e segna l’inizio delle interpretazioni e delle polemiche. Di ricostruzioni e di racconti di memorie che arrivano fino a oggi. 

 

Tra universalismi socialisti e particolarismi nazionalisti

Il movimento si diffonde nelle altre città capoluogo – Zagabria, Ljubljana, Sarajevo – e tocca anche numerosi centri minori. Solo nel caso di Ljubljana la motivazione delle proteste non è legata agli avvenimenti belgradesi, ma al fatto che, a fine maggio, si decide di coprire il deficit dei pensionati studenteschi con entrate di attività turistiche, dunque in estate i costi dell’affitto sarebbero aumentati e alcuni spazi si sarebbero dovuti liberare. Qui, però, gli studenti, le cui condizioni sono decisamente migliori, continuano a esprimere fiducia nei vertici del partito che li invitano alla calma con la minaccia di un possibile intervento dell’«esercito serbo». La base chiede meno centralizzazione e più «slovenità» – è accolta da fischi la proposta di collaborare con gli organismi degli altri studenti jugoslavi. 

A Zagabria si formano assembramenti spontanei appena arrivano le notizie dei pestaggi (come accade anche a Fiume, Spalato, Zara e Osijek) e le richieste non sono molto diverse da quelle belgradesi. I filosofi di «Praxis», Gajo Petrović e Milan Kangrga, partecipano agli incontri, si mantengono prudenti, preoccupati delle possibili manipolazioni e disinformazioni dei media ufficiali. Anche se parte dell’opinione pubblica e diverse personalità del mondo della cultura osservano con simpatia il movimento, il potere croato riesce a pacificare la situazione. Preoccupata della possibilità di posizioni critiche e richieste di democratizzazione, mentre sono già in corso contrasti e scontri con Belgrado, la Lega dei comunisti croata vuole soprattutto dimostrare di riuscire a controllare la situazione. 

Gli avvenimenti dell’Università di Belgrado agiscono da detonatore anche a Sarajevo, Niš, Kragujevac, ma il copione non si ripete, le proteste vengono facilmente isolate, intanto emergono con sempre maggiore evidenza i «particolarismi» delle sei repubbliche jugoslave. Basti pensare al ’68 ignorato di Priština, capoluogo del Kosovo: se ne riparlerà nell’81, quando la rivolta degli albanesi costringerà a ricordare la militarizzazione della provincia avvenuta dopo le manifestazioni di carattere secessionista degli studenti. Le manifestazioni del ’68 kosovaro iniziano il 28 novembre, data scelta non casualmente. In Jugoslavia il 29 novembre è la festa della Repubblica, il 28 novembre del 1912 è il giorno dell’indipendenza dell’Albania, chiamato anche Giorno della bandiera (rossa con l’aquila a due teste nera). Autorizzata fino al 1946 la bandiera verrà poi proibita, nel settembre del 1968 ridiventa legale, ma vicino all’aquila compare la stella dorata a cinque punte. Tra le parole d’ordine una richiesta di maggiore autonomia, Vogliamo la repubblica, Vogliamo la Costituzione– in quelle settimane erano in discussione gli emendamenti alla Costituzione del 1963 che riguardavano il futuro status del Kosovo –, accanto a slogan irridentisti Viva l’Albania,Viva Enver Hodža, Autodeterminazione e secessione. La repressione è immediata, i politici albanesi condannano senza troppa convinzione la protesta, la componente serba della popolazione (nel censimento del 1961 composta dal 67 per cento di albanesi e dal 27 per cento di serbi) non gradisce troppo gli accenni liberali di chi in quel momento è alla testa del partito serbo. La presenza dei carri armati nelle strade di Priština, a pochi mesi dall’invasione di Praga, conferma che la questione del «caso jugoslavo» sta diventando il nemico interno. 

 

Dunque: il movimento studentesco ha favorito una resa dei conti con le forze più dogmatiche e centralizzatrici o ha aiutato la Lega dei comunisti a rafforzare il suo ruolo? – a fine anno entrano nel partito, che dopo il 1950 continuava a invecchiare, 175000 giovani. Chiedendo più uguaglianza gli studenti si sono schierati, di fatto, a favore di una società statalista e contro la riforma economica del ’65 oppure la «nuova sinistra» ha favorito le spinte centrifughe della «destra nazionalista»? Sono questi gli interrogativi più frequenti che risentono, in parte, di un approccio ancora ideologico della ricostruzione dell’insieme del processo storico della seconda Jugoslavia. 

Un’analisi più articolata è quella di alcuni testimoni e protagonisti. Nata nel 1945, figlia di un alto funzionario dell’«epoca della rivoluzione», studiosa dell’induismo, docente di filosofia all’Università di Zagabria prima e Parigi poi, Rada Iveković è stata una delle fondatrici della sezione femminile della Società di sociologia intorno a cui, nel capoluogo croato, si è costituito il primo gruppo femminista. Nel suo Sporost-oporost (Lentamente, aspramente), dove raccoglie tanti brevi capitoli di taglio autobiografico, uno è dedicato al ’68: «E il Sessantotto? È successo più tardi, continua fino a oggi, sta soprattutto in quello che nelle nostre teste e nei comportamenti successivi attribuiamo a questo anno. È stata la prima volta in cui ho visto mio padre stupirsi ed esitare. Per la prima volta venivano messi in questione valori fino a quel momento intoccabili. […] La loro generazione si è allora chiesta: “Abbiamo combattuto per questo?”. E per la prima volta ci hanno guardato un attimo negli occhi. È stato un lampo, l’istante di un incontro di generazioni: loro che erano i legislatori, e per questo non dovevano dubitare, e noi che servivamo da pasta per la focaccia della Verità Assoluta, noi eravamo il tessuto, il materiale dello Stato, coetanei dello Stato. Si è aperta una crepa molto piccola in quel ’68 e allora non significativa. Ma non si è più potuto rattopparla. Il dubbio si è insinuato irrimediabilmente in noi. Verità e menzogna hanno assunto un altro senso. Quell’anno abbiamo smesso di essere religiosi, io e la mia generazione. Mentre la loro generazione ha cominciato a morire. L’ideologia è diventata vecchia. Monumenti vuoti tutt’intorno. L’anno ’68 arriva pian piano. È lento come la tartaruga».

 

Il filosofo Žarko Puhovski, allora uno dei redattori più giovani della rivista «Praxis», afferma: «La delegittimazione del regime – per mezzo del malcontento studentesco – è arrivata a piena espressione in un periodo in cui il regime stesso aveva iniziato (tacitamente, nel caso di molti leader politici forse in modo poco consapevole, e ciò che è più importante quasi vergognandosene), con la “riforma economica” del ’65, ad allontanarsi parzialmente dal sistema di valori che aveva propagandato per decenni. Il processo di delegittimazione è divenuto, nel ’68, esplicito. I vertici del regime hanno fiutato il pericolo per la propria posizione ancora prima che gli studenti stessi avessero compreso il potenziale della loro iniziativa – proprio per questo, anche in Jugoslavia, l’intervento poliziesco ha avuto un ruolo “pedagogico” controproducente […]. Anche se gli studenti hanno usato parole che non si differenziavano nelle linee essenziali da quelle ufficiali, in pratica gli studenti erano oratori non autorizzati – mai nella tradizione jugoslava del dopoguerra c’era stato un così massiccio apparire sulla scena di discorsi non autorizzati. […] il movimento del ’68 ha reso manifesta la crisi della modernizzazione socialista. Le conseguenze – grazie soprattutto alle questioni non risolte del passato – sono risultate in gran parte pre-moderne». 

 

Una delle opere più approfondite e documentate, che circolerà per anni come un samizdat, e sarà pubblicata integralmente solo nel 1990, è quella del sociologo belgradese Nebojša Popov Društveni sukobiizazov sociologiji. «Beogradski jun» 1968 (Scontri sociali – una sfida per la sociologia. Giugno belgradese 1968) che, insieme ad altri professori attivi durante la protesta, nel 1975 verrà sospeso dall’insegnamento (v. infra, testo 6). È sembrato uno «scontro immaginario», dice Popov, perché le due parti si sono richiamate agli stessi principî e valori, al programma della Lega dei comunisti e della Costituzione. Ma lo scontro tra «movimento e sistema» è stato reale. Parlare in termini di vittoria e di sconfitta – per un movimento che non voleva il potere – è un errore. «È realistico invece sostenere che il movimento studentesco non ha cambiato il mondo, anche se è accaduto qualcosa. Le tracce maggiori sono rimaste nella cultura […] sono state rinnovate le idee di libertà […] sono state create nuove forme di pluralismo ideale e politico (transpolitico e transnazionale) […]. Sono rimasti alcuni insegnamenti per le generazioni future e per le strategie dei nuovi movimenti sociali». Secondo il sociologo, però, il ’68 ha anche – in Jugoslavia e nel mondo – un’altra medaglia: la rivitalizzazione dell’apparato del potere politico e il prevalere di un modello di formazione autoritario che, ridimensionando i contenuti umanistici, «stimola la diffusione di una sottocultura controllata, come sostituto della controcultura giovanile, che coltiva valori privati ed edonistici, l’idea di un’adolescenza permanente, mentre cresce la disoccupazione e la mancanza di prospettive per la gioventù».

 

Un’altra figura intellettuale significativa, la sociologa belgradese Zagorka Golubović, anche lei attiva nella protesta e anche lei allontanata dall’insegnamento sette anni dopo – del suo testo L’uomo e il suo mondo, del 1973, il tribunale proibisce le 52 pagine in cui analizza proprio il ’68 –, sostiene che, più che dalla classe operaia, il movimento degli studenti è stato sconfitto dalla classe media e dalla sua ideologia consumistica. La sua ipotesi cerca di spiegare il complesso degli avvenimenti sociali, economici, culturali di una Jugoslavia in mezzo al guado tra modernità e arretratezza.

Nelle settimane successive al discorso di Tito si hanno i primi effetti della normalizzazione: è vietato usare il termine di «movimento studentesco», saranno censurate, proibite o sospese le riviste studentesche: «Delo», «Susret», «Student» a Belgrado, «Naši dani» a Sarajevo, «Razlog» e «Polet» a Zagabria. Gli studenti cercheranno un terreno più neutrale e iniziano a occuparsi della riforma universitaria, oppure scelgono la satira con La lettera aperta al mio compagno candidato-delegato pubblicata in «Student» come pesce del 1° aprile 1969. Il 3 giugno 1969, a un anno dalle manifestazioni, appare il «Documento delle 3000 parole», che si ispira al «Manifesto delle Duemila parole» degli intellettuali cecoslovacchi. Nel documento si ribadisce che gli studenti erano e sono per un «socialismo democratico», si analizzano i ritardi sociali, si chiede di poter eleggere e non solamente votare i propri rappresentanti. Si avverte, però, una fase di riflusso, tra gli studenti inizia a diffondersi un rifiuto della politica, considerata «pragmatica, inconseguente, immorale».

 

 

Vent’anni di bisbigli per un movimento  di sette giorni

La maggior parte delle fonti – materiale documentario e immagini – che avrebbe permesso di capire e ripercorrere gli avvenimenti dell’anno fatale è stata censurata e proibita a lungo, mentre le poche opere di riflessione e di commento sono state vietate dalle ordinanze dei tribunali e si trasmettono per anni con fotocopie che passano di mano in mano. La documentazione filmica è sequestrata, registi come Želimir Žilnik (autore del documentario I movimenti di giugno ’68) e Dušan Makavejev, che hanno osato riprendere gli avvenimenti, sono andati incontro a non poche difficoltà. Quasi fino al 1990 sono rimasti introvabili molti altri materiali che si riusciva a consultare attingendo alle biblioteche personali dei protagonisti. Il fatto che il ’68 sia rimasto così a lungo una delle «macchie bianche» della storia contemporanea jugoslava trova diverse possibili spiegazioni. Le opere citate cercano di fornire una lettura dei fatti e un’interpretazione. Soprattutto i «cattivi maestri» del ’68 jugoslavo, i professori di Zagabria e di Belgrado che successivamente verranno espulsi dall’università, cercano di analizzare l’insieme del processo storico. E sono figure critiche che rimangono – spesso fino a oggi! – all’opposizione. 

Così, quando la Jugoslavia senza Tito è attraversata dal 1980 in poi da un’«esplosione di verità» e temi tabù che erano sussurrati a voce bassa e a porte ben chiuse assumono in primis la forma della letteratura, il ’68 rimane uno dei tabù che resiste più a lungo. Si parlerà dello Srem, una delle battaglie finali della seconda guerra mondiale, una battaglia militarmente inutile ma dove viene falciata la gioventù belgradese, i figli di quella borghesia che i partigiani arrivati dalle montagne vogliono eliminare. E la dicotomia tra città e campagna, lo scontro tra i «guerriglieri» e gli «amministratori» attraversa la storia del paese fin dalle sue origini e si intreccia con le divisioni, tuttora attuali, tra «modernisti» e «tradizionalisti». Si parlerà di Bleiburg dove, sul confine tra Slovenia e Austria, alla fine della guerra, per ordine di Tito furono massacrati i militari collaborazionisti, ma anche i civili in fuga. Del Goli Otok, l’Isola Nuda o Calva, che si trova nel canale di Velebit, all’uscita del golfo del Quarnero, il gulag di Tito, l’inferno per quanti, accusati dopo la rottura con Stalin del 1948 di filocominformismo, furono deportati in mezzo al mare per essere rieducati. In uno di quei rovesciamenti perversi di cui la (ex) Jugoslavia ha fornito rappresentazioni tragiche fin quasi ai giorni nostri, saranno proprio i comunisti idealisti e gli intellettuali a dover essere rieducati dal popolo. 

 

Finalmente nel 2012 esce uno studio che permette di collocare la settimana di lotta degli studenti belgradesi nel contesto jugoslavo e internazionale. Jugoslavija i svijet 1968 (Jugoslavia e il mondo 1968) dello storico croato Hrvoje Klasić, docente all’Università di Sisak, è una ricerca capillare e approfondita, scritta con ritmo giornalistico, senza quel velo ideologico che a volte impedisce ancora una lettura storicamente convincente delle vicende jugoslave. A partire dalle numerose fonti ora disponibili (stenogrammi delle sedute dei diversi organismi politici, archivi locali e internazionali ecc.), Klasić entra nel dettaglio, ma lascia poco spazio alla teoria della «parentesi», non riduce la storia di quell’anno solo a un episodio di rivolta giovanile e, soprattutto, il ’68 entra nel tempo storico, diventa una data con un prima e un poi. Dalla sua disamina appare evidente il crescere dell’insofferenza tra le diverse componenti nazionali, soprattutto, ma non solo, tra serbi e croati, e quanto l’integrazione tra le diverse anime della federazione fosse contraddittoria. Da un sondaggio condotto, nel 1966, all’Università di Belgrado, emerge che il 40 per cento dei giovani intervistati non vuole avere a che fare con i croati, il 48 per cento non vorrebbe che vivessero in Serbia e il 55 per cento è contrario ai matrimoni misti. Durante le partite di calcio si ripete il copione: i tifosi croati scandiscono «Zingari, zingari», quelli serbi «Ustascia, ustascia». E sarà proprio una partita l’occasione di «eccessi nazionalistici» che annunciano le guerre degli anni novanta del Novecento. 

Dal 1961 al 1965 si compie il processo sfociato nella «riforma economica» che, teoricamente, si proponeva l’ambizioso tentativo di affidare ai produttori associati il controllo sull’intera riproduzione allargata e, in pratica, prevedeva la svalutazione del dinaro, una parziale liberalizzazione dei prezzi e l’introduzione dell’autogestione in settori nuovi come l’amministrazione statale. In un sistema a metà strada tra centralismo e decentramento la riforma produce uno sconquasso, mentre si acuiscono i contrasti tra centri e periferie. Una frenesia da investimento produce disoccupazione e inflazione – nel ’67 crolla la produzione industriale, aumenta la disoccupazione, sono 400000 i lavoratori «temporaneamente» emigrati all’estero –, e provoca l’aumento dei consumi e dei salari. Fino ad allora la legittimità dei quadri dirigenti nell’economia era stata conquistata sul campo, il curriculum era l’aver partecipato alle battaglie della Sutjeska e della Neretva. Ora si poneva l’esigenza di una specializzazione, ma il 50 per cento dei direttori aveva il diploma della scuola dell’obbligo. 

 

Negli anni sessanta «la variante jugoslava dei cento fiori» produce iniziative e dibattiti, trasformazioni e innovazioni non solo nella sfera economica. Nel Plenum del 1° luglio 1966 a Brioni si decide di promuovere anche una riforma sociale e di riorganizzare il partito. È condannata l’attività dei servizi di sicurezza, cade la testa dell’uomo simbolo della repressione, il fino allora potentissimo ministro degli Interni Aleksandar Ranković. Si parla di decentramento anche per le funzioni della Federazione: nel ’67 si iniziano a discutere gli emendamenti alla Costituzione che porteranno, dopo un lungo iter e prove di forza, alla quarta Costituzione del 1974, che rivela fin da subito quanto l’equilibrio dei poteri sia precario. I cambiamenti sociali si riflettono anche nella struttura della Lega dei comunisti. Nel ’66 la metà degli iscritti sono impiegati, il 33,9 per cento operai, il 7,4 per cento sono contadini, i giovani sono solo il 12,6 per cento. E se durante tutto il ’68 la discussione dei vertici è occupata da temi economici e politici, la Dichiarazione sulla denominazione e sulla posizione della lingua letteraria croata, del 1967, indica l’ampiezza della critica all’idea di fratellanza e unità e ben esprime le tendenze separatiste, non solo in ambito culturale, croate. La questione della lingua è specchio di identità, dunque la denominazione di serbocroato-croatoserbo è vissuta come un’intollerabile commistione. 

Anche il processo che porterà alla costruzione di un organismo di presidenza jugoslavo non rafforza ma indebolisce l’insieme della federazione. Formata per ridimensionare il potere di Tito, accresce invece il suo ruolo. Fino alla sua morte Tito rimarrà, con le sue notevoli abilità manipolatorie, il giudice super partes a cui le diverse componenti si rivolgono. L’invasione di Praga permette a Tito di agitare un pericolo simile anche per la Jugoslavia – a oggi non esiste alcuna prova documentaria di una tale eventualità. Sul piano internazionale questo rende plausibili le richieste di aiuto all’Ovest, sul piano interno produce il rafforzamento della difesa territoriale autogestita da cui, all’inizio degli anni novanta, si dispiega il primo nucleo armato delle Repubbliche secessioniste slovene e croate. 

 

Eppure, negli «allegri anni sessanta», il dibattito è davvero vivacissimo e si aprono spazi inediti per le voci di opposizione. Alla critica ufficiale alla burocrazia – leitmotiv dal ’48 in poi della critica al modello sovietico – si aggiungono riflessioni che ripartono dall’analisi de La nuova classe di Milovan Đilas. Tra le particolarità della scena culturale jugoslava, la presenza di una rivista come «Praxis» (1963-1974) e della scuola estiva di Korčula (1963-1974), che riuniscono intellettuali dell’Est e dell’Ovest. Di questo scambio si nutre la «nuova sinistra» jugoslava, influenzata dai simposi che conducono Bloch e Morin, Fromm e Habermas, Goldmann e Marcuse, da quell’«autocritica del socialismo» che portano da Varsavia-Praga-Budapest, Kołakovski, Kosík, Lukács. 

Nell’estate del ’68 – sono anche i 150 anni della nascita di Marx – il tema della scuola estiva è Marx e larivoluzione, a Korčula arrivano studenti e professori jugoslavi e soprattutto stranieri. Sarà Marcuse a infiammare gli animi, convinto che il risveglio della coscienza rivoluzionaria appartiene ora all’intellighenzia e al movimento studentesco. Chi teme la reazione degli apparati, disposti a reprimere il risveglio a ogni costo, è il filosofo Danko Grlić, imprigionato due volte al Goli Otok. Il 21 agosto, invasione di Praga, i lavori sono interrotti, partono telegrammi di protesta. 

 

Il gruppo di intellettuali che si raccoglie intorno alla rivista «Praxis» continuerà a criticare l’idea di un’«economia di mercato socialista», ritenendo possibile solo una critica «socialista» all’economia politica borghese. Nell’articolo Fenomenologia del comportamento della classe media jugoslava – pubblicato su «Praxis» nel ’71 – il filosofo Milan Kangrga scrive che la classe media «è reciprocamente intrecciata e strettamente legata con l’apparato amministrativo, e parzialmente anche con l’élite politica». Secondo questa analisi, tutti coloro a cui la riforma ha permesso un maggior benessere hanno paura della sinistra come se fosse uno spaventapasseri. «Per questo – dice Kangrga – dal punto di vista della classe media essere di sinistra viene considerato come qualcosa di negativo, perché per ogni onesto cittadino è una vergogna essere “un sinistro”, e questa è la pura verità!». 

Lo spostamento dalla quantità alla qualità – in economia – porta a una ridefinizione dell’intera scala dei valori socialisti, a un revisionismo ideale che molto deve alla Dialettica del concreto del filosofo ceco Karel Kosík. «La rivoluzione e la libertà – scrive il filosofo belgradese Ljubomir Tadié nel ’67 – sono intimamente vicine: la rivoluzione significa chiamare la libertà alla luce del giorno; la libertà contiene l’indispensabile pathos e ornamento della rivoluzione, il tremolio della sua anima, il battito del suo cuore. Ambedue sono strettamente legate alla tendenza della gioventù, dato che ai giovani, in quanto tali, appartiene il cambiamento delle condizioni empiriche dell’esistenza come anche l’immanente aspirare al nuovo, al non ancora raggiunto». E proprio in quell’anno, scrive Tony Judt, «Si aveva l’impressione che l’Europa fosse strapiena di giovani». 

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Luciano Bianciardi: gaddiano e classicista

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I nostri scrittori nati negli anni venti, gli ultimi a conoscere una canonizzazione non meramente accademico-editoriale, hanno attraversato in poco tempo un numero straordinario di traumi storici e stagioni culturali. Cresciuti tra prosa d’arte e fascismo, adulti tra neorealismo e dopoguerra, sono maturati poi durante il boom, perdendo le speranze palingenetiche della giovinezza. Spesso hanno trasformato le narrazioni degli esordi in levigati apologhi o in ibride, lutulente opere-mostro, invecchiando tra le ideologie antistoriciste e approdando magari a un maneggevole postmodernismo. È una parabola che si può riconoscere in Pasolini, Sciascia, Calvino: cioè negli autori più celebri di questa generazione. Specie il primo e il terzo, in modi speculari, hanno finto di poter guardare la Storia dall’alto, cavalcando le mode anziché subirle, ed elaborando un sistema stilistico onniattrattivo, coerente come un marchio. Eppure nessuno di loro è dotato di una lingua limpida e prensile come l’assai meno noto Luciano Bianciardi.

 

Bianciardi sa cogliere le metamorfosi dell’epoca senza perdere lo sguardo di chi si sente un uomo qualunque tra gli uomini, né si ritiene mai investito d’insostituibili mandati tecnici o sociali. Un amore inattuale per i buoni studi storico-letterari, e una quotidianità vissuta a lungo in cerca di amici fraterni (non di modelli, o alunni, o chierici-compagni illuminati) sono forse i tratti che lo hanno salvato dalle sclerotizzazioni identitarie dei colleghi, e che al tempo stesso hanno determinato la sua incapacità ad amministrare un proprio fruttuoso Ruolo. Così, questo maremmano bizzarro ma attaccatissimo al senso comune è stato prima dimenticato e poi tradito dai volgarizzatori del suo antagonismo. Speriamo dunque che questa edizione del Saggiatore serva a leggerlo o a rileggerlo al netto del marketing tendenzioso a cui rischia di cedere ogni “operazione outsider”.

Il piccolo borghese Bianciardi, classe 1922, matura il suo liberalsocialismo studiando nella Pisa di Capitini, Russo e Calogero. Dopo la guerra insegna al liceo di Grosseto, la sua città, e lì dirige la Biblioteca Chelliana, inventandosi un Bibliobus per portare i libri nelle campagne. Collabora a Belfagor, Il Mondo, Il Contemporaneo; e nel ’54, per l’Avanti!, stende con Cassola un reportage sui minatori. Quindi s’imbarca nell’impresa Feltrinelli, ma si fa subito scaricare, e da allora sceglie una vita randagia di pubblicista e traduttore (innumerevoli le versioni dall’inglese: London, Faulkner, Steinbeck, Bellow, Huxley, Robbins, Barth…).

 

Tra il ’57 e il ’60 escono i suoi primi romanzi-pamphlet, Il lavoro culturale e L’integrazione. Intanto, precedendo Eco e Warhol, Bianciardi ha già offerto impeccabili analisi semiologiche della “mediocrità” di Mike e del quarto d’ora di celebrità televisivo. Lungo gli anni questa sua vocazione barthesiana, filtrata sempre da un linguaggio chiaro e referenziale, si esercita tra l’altro in una pionieristica rubrica intitolata “Telebianciardi”. Allo scrittore bastano pochi dettagli di costume per raccontare i rapporti che si stabiliscono tra maschi e femmine, o tra realtà e pubblicità, nel mutevole quadro del miracolo economico. Un esempio: “Lo sanno benissimo i fabbricanti di auto, che già in partenza battezzano il prodotto con un nome di donna: la Giulietta, la Giulia, la Primula, la Bianchina, la Topolino. Non sono forse gli stessi nomi che si sentivano prima di quel fatidico 20 settembre, in via Fiori Chiari?”.

Di queste doti epigrammatiche e filologiche trabocca La vita agra, che nel ’62 regala a Bianciardi una gloria inattesa, e viene poi portato sul grande schermo da Lizzani. Montanelli chiama lo scrittore al Corriere, ma invano. Lui sceglie Il Giorno, il quotidiano dell’apertura a sinistra; e anziché sfruttare l’immagine dell’arrabbiato, di cui non aveva previsto il sinistro successo, si mette a sfornare cronache sul Risorgimento. Nel frattempo traduce senza sosta, e scrive centinaia di pezzi per la stampa pop: ABC, Kent, Executive, Playmen, Le Ore, AZ… Dal ’70 tiene anche una corrispondenza sul Guerin Sportivo, proponendo funambolici paragoni tra i fatti del calcio e le vicende politiche, storiche o artistiche. Ma questo poligrafismo frenetico nasconde il progressivo autoesilio dal mondo, la distruzione alcolica di una vita cupissima e umorale. Lo scrittore muore nel 1971, a neanche quarantanove anni.

 

Bianciardi ha saputo essere l’ultimo custode della più forbita tradizione toscana, senza per questo ridursi a linguaiolo. Ed è stato un “arrabbiato” troppo onesto per posare a beat (anzi, a “bitinicco”). È passato per le stanze del potere con l’estraneità allegra e disperata di chi non sa o non vuole né consolidare la posizione acquisita, né costruirsi un’ideologia in grado di giustificare la cattiva coscienza dell’intellettuale che tira avanti tra scritture semigiornalistiche, diritti e “battonaggio” traduttorio. Perciò ha scontato sulla pelle l’alienazione che molti hanno addomesticato coi sofismi, e ha fatto in pratica quel che altri teorizzavano ma non riconoscevano poi nella sua opera: un’opera troppo letteraria e insieme troppo popolare (cioè “dotta e carognona”), troppo concreta e insieme troppo orgogliosa del suo lessico chirurgico per poter piacere ai maîtres à penser di qualunque specie.

In fondo, questo ex azionista e distratto fiancheggiatore del pci è rimasto sempre un anarchico socialisteggiante di fine XIX secolo, costretto suo malgrado a fare i conti col nichilismo del pieno Novecento. Come i fautori della seconda Internazionale, Bianciardi mantiene un’ostinata fiducia nella buona divulgazione da dispensa diderotiana; eppure non ignora che il sapere moderno si è ormai trasformato in approssimazione da rotocalco, e che gli ex analfabeti assetati d’emancipazione sono già una massa omologata. Così, quest’uomo fuori tempo e fuori luogo non può né onorare le sue radici etiche né abbandonarle: e da una tale sfasatura, oltre che da contraddizioni più private, si lascia infine lacerare, consumandosi tra ribellione e pigrizia, tra rimorso e accidia. La sua fragilità e la sua coscienza di provinciale lo costringono a ingaggiare un sempre più mostruoso gioco a nascondino coi progetti di gioventù, e gli impediscono di ideologizzare o di bruciare esteticamente il senso di colpa.

 

Per capire l’ossimoro incarnato da Bianciardi bisogna immaginare l’impossibile. Per esempio, figuratevi un Fortini che, perse le inibizioni di profeta, pubblichi su un settimanale erotico o libertario agili referti krausiani della vita quotidiana degli anni sessanta, o addirittura si mischi a presentatori, sportivi, attori (cioè agli “amici” infilati da Bianciardi in quasi tutti i suoi libri: da Walter Chiari a Carlo Ripa di Meana al portiere Ghezzi). Oppure pensate a un ethos di tipo camusiano, orwelliano o chiaromontiano, ma bagnato nell’acido della satira e screziato da una furia alla Henry Miller (per il goliardico Luciano, “Enrico Molinari”). O ancora, provate a concepire un commediografo all’italiana, un guascone strapaesano che raggiunga di colpo la statura morale di un maestro di scuola d’altri tempi e di un critico della cultura mai arcigno. In poche parole, è come se in Bianciardi lo spirito costruttivo dell’Ottocento e quello distruttivo del Novecento, l’uomo comune e il corsivista scettico, l’utopista e il saturnino fossero polarità mai del tutto scisse, reagenti di continuo l’una sull’altra in una straziata, ironica baruffa.

 

Perfino alle più alte temperature sperimentali, questo scrittore conserva sempre una lingua cristallina: il suo è un paradossale “gaddismo classicista”. Di qualunque cosa parli, Bianciardi rifiuta di eludere l’ingombro irriducibile della propria biografia, trasposta in satura ma mai dissolta in astrazione, e per questo destinata a ferire chi gli sta vicino. Il suo citazionismo è sempre funzionale o esistenzialmente pregnante. Spesso l’intarsio parodico sottolinea lo iato tra un’antica cultura introiettata fin nel subconscio e lo sforzo compiuto per tradurla nel mondo nuovo. Di qui viene l’ossessione metalinguistica, l’orecchio assoluto (diceva Spagnol) per le “deformazioni professionali”, l’abilità nel cogliere tic e gerghi. Un’abilità che allo scrittore costa parecchio, dal punto di vista umano e perfino giudiziario. Già a inizio anni cinquanta, quando sulla Gazzetta di Livorno propone una galleria di tipi locali, alcuni di questi tipi vanno ad aspettarlo sotto casa; e più tardi, una sua rubrica pubblicata dall’Unità viene cassata dopo l’uscita del ritratto di un comunista influente. L’egemonia di questo pci oligarchico è ricordata nel Lavoro culturale, dove Bianciardi dice addio ai tempi del “nella misura in cui” e al mito dell’intellettuale organico aleggiante sulle ingenue assemblee di provincia. Ecco un pezzo che descrive con sardonica puntualità il loro gergo, poi sopravvissuto a se stesso per decenni:

 

Il dibattito, oltre che concreto […] è ampio e profondo, anzi, approfondito, e quasi sempre si propone un’analisi (approfondita anch’essa) della situazione. La giustezza della nostra analisi sarà poi confermata, invariabilmente, dagli avvenimenti. La situazione è sempre nuova e creatasi (da sé, parrebbe) con o dopo. Al dibattito gli interventi portano un utile contributo. Esso può assumere anche la forma di convegno: in questo caso è parlato, gli interventi sono numerosi, e gli intervenuti sono giunti da ogni parte d’Italia […]

Concreto, come si è visto, è il problema, il dibattito, l’intervento e l’indicazione. A memoria d’uomo non si è mai saputo di un problema, dibattito ecc. che si sia potuto definire astratto. Come non si è mai saputo di un problema risolto; semmai superato, dalla situazione creatasi con o dopo. A volte poi si è scoperto che il problema, pur essendo concreto, non esisteva. In casi simili basta affermare che il problema è un altro […]

Accanto al problema, ma un po’ più sotto, c’è l’esigenza. L’esigenza si sente, anzi, si è sentita. A volte sorge, o meglio, è sorta, ed in ambedue i casi occorre andarle incontro. Problema ed esigenza riguardano a volte i rapporti con. Con gli intellettuali, per esempio.

Gli intellettuali possono incontrarsi da soli o accompagnati ad operai e contadini. In questo secondo caso la successione di rigore è la seguente: operai, contadini, intellettuali.

 

Per Bianciardi, il mondo in cui questo gergo conservava un pur vago senso è stato spazzato via dall’esplosione di grisù che il 4 maggio del ’54 ha fatto saltare in aria la miniera di lignite di Ribolla, da lui esplorata con Cassola. Il trauma arriva dieci anni dopo quello subìto durante il bombardamento di Foggia: ma le nuove morti, volute dall’irresponsabile esercito in borghese della Montecatini, sembrano ancora più assurde. Così vengono riepilogati gli eventi nella Vita agra:

 

il caposquadra aveva fatto storie: diceva che dopo due giorni senza ventilazione, giù sotto, era pericoloso scendere, bisognava aspettare altre ventiquattr’ore, far tirare l’aspiratore a vuoto, perché si scaricassero i gas di accumulo. Insomma, pur di non lavorare qualunque pretesto era buono.

[…] Stavolta era stufo: meno storie, disse ai capisquadra, mandate cinque uomini della squadra antincendi a spegnere i fuochi, ma intanto sotto anche la prima gita. La mattina del giorno dopo, alle sette, la miniera esplose.

Rimasi quattro giorni nella piana sotto Montemassi, dallo scoppio fino ai funerali, e li vidi tirare su quarantatré morti, tanti fagotti dentro una coperta militare. Li portavano all’autorimessa per ricomporli e incassarli, mentre il procuratore della repubblica accertava che fossero morti davvero, in caso di contestazione, poi, da parte della sede centrale […]

E quando le bare furono sotto terra […] mi ritrovai solo sugli scalini dello spaccio, che aveva già chiuso, e mi sembrò impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare.

 

 

A Grosseto, ribattezzata Kansas City, tutto sembra di colpo inutile e insopportabile. Così Bianciardi emigra a Milano. Qui lavora alla rivista Cinema Nuovo di Aristarco, e presto passa dalla satira dei cineclub engagés alla satira della nascente industria culturale. È l’epoca in cui sta esaurendosi la spinta propulsiva del ’45, e nella grande città si sente subito. Ogni volta che il protagonista della Vita agra, arrivato lì con la folle idea di far saltare in aria il “torracchione” della Montecatini, prova a parlare dei morti di Ribolla, si scontra con una disattenzione fisiologica. Ecco il dialogo che ha col suo capo, direttore appunto di un quindicinale di spettacolo: ““Vedi, è un buon tema […] ma stai attento, perché c’è il pericolo di cadere nel solito neorealismo.” “Come sarebbe?” gli chiesi. “Sì, tutte quelle gallerie, le case pericolanti, i minatori in attesa fuori del pozzo. C’è il pericolo di cadere nella cronaca di un certo tipo. E ora invece noi ci stiamo battendo per il passaggio dal neorealismo al realismo. Dalla cronaca alla storia. Tu hai visto Senso, vero?””.

Da Cinema Nuovo Bianciardi approda direttamente alla Feltrinelli, la nuova casa editrice comunista nell’ideologia e neocapitalista nei fatti. Qui la riduzione tecnocratica del lavoro culturale è compiuta. Deve confrontarsi ogni giorno con dinamiche di potere insondabili, con mansioni puntigliosamente definite ma in realtà non misurabili. Presto viene licenziato per scarso rendimento e rimane un collaboratore esterno; ma intanto quel microcosmo gli ha suggerito il leitmotiv dei “quartari”. Spiega l’alter ego della Vita agra:

 

E mi licenziarono, soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile. Nel nostro mestiere invece occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli sull’impiantito sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare e fare polvere, una nube di polvere possibilmente, e poi nascondercisi dentro.

Non è come fare il contadino o l’operaio […] il contadino appartiene alle attività primarie, e l’operaio alle secondarie. L’uno produce dal nulla, l’altro trasforma una cosa in un’altra. Il metro di valutazione, per l’operaio e per il contadino, è facile, quantitativo: se la fabbrica sforna tanti pezzi all’ora, se il podere rende. Nei nostri mestieri è diverso, non ci sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un prm? Costoro né producono dal nulla, né trasformano. Non sono né primari né secondari. Terziari sono e anzi oserei dire […] addirittura quartari […] sono vaselina pura.

 

Date le premesse, il loro unico metro di giudizio resta “la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più su”. Metro che vale soprattutto nelle case editrici, sempre “piene di fannulloni frenetici” che fanno un lavoro finto ma si beccano veri esaurimenti nervosi. Il loro universo ci è stato raccontato soprattutto dai critici dell’ideologia, dai marxisti eretici. Ma proprio per questo, lascia ammirati il diverso nitore con cui Bianciardi sa dirci le stesse cose rivitalizzando la forma mentis del letterato d’antan. Si pensi per esempio al rapido epigramma in cui fissa la natura dell’industria culturale moderna, osservando che se prima dell’invenzione della stampa era il lettore che cercava il libro, ora le macchine hanno una tale capacità di diffusione che è il libro a dover inseguire il lettore. Oppure si veda questa definizione dell’engagement, giudicato come un’ultima variante dell’Arcadia che sfocia nella sottocultura: “Al posto dei pastorelli avevano messo i metallurgici […] Ora poi non ci sono neanche più i metallurgici. Ora c’è Charlie Brown, figurati! O James Bond.”

 

Ma la Milano di Bianciardi è una baraccopoli di lusso che avvelena anche le attività

più concrete. Dietro il suo presunto efficientismo si cela un’irrazionalità assoluta, che il narratore riduce spassosamente all’assurdo. Lungo le sue vie si aprono e chiudono di continuo le stesse buche; ma la gente, che protesta se un grammofono trasmette troppo alto Vivaldi, non s’interroga più sull’apparente insensatezza dei lavori: il rumore dei martelli (“vibratili”, come le segretarie aziendali in marcia sopra i tacchi) è un alibi sufficiente. Chi vuole può perfino travestirsi da operaio, scavare o riempire il terreno in una sorta d’insensata parodia keynesiana, e farsi pagare dal Comune senza sollevare sospetti.

Tuttavia al centro dello sguardo bianciardiano resta sempre la metropoli degli intellettuali, sospesa tra ultima bohème e nuove pseudocompetenze. È la Milano dei pittori e del cabaret, della Casa della Cultura e del Derby, un universo urbano che dietro i primi esperimenti del centrosinistra lascia già intravedere le future frivolezze manageriali dei Larini e dei Cardella. Ma soprattutto, quella di Bianciardi rimane la Milano della Feltrinelli. Indimenticabili, a questo proposito, le pagine dell’Integrazione che alludono all’influenzabilissimo editore “giaguaro”, quelle che descrivono le interminabili riunioni sulle regole tipografiche, e quelle che parodiano il dibattito tra storicismo e sociologismo. È il tempo in cui gli eventi internazionali gettano scompiglio a sinistra, evidenziando la divaricazione tra credenze professate e abitudini di vita. I terremoti dell’Est europeo si riducono così ai “fatti di piazza Ungheria”, cioè alle smanie di intellettuali che si fanno venire la febbre solo perché non capiscono più quale comunicato devono firmare, e si scambiano telefonate di questo tipo: “Sei tu, Mariolina? Cosa dice Peppino? È per la ritrattazione? Bene, ma la formula? Anche i Peverini dici? E Antonio? S., lo capisco. Documento e rettifica,

 

no? L’avevo pensato. Pubblichino anche loro il documento, poi segue la dichiarazione che deploriamo l’affare dell’ANSA eccetera. Mi sembra la strada migliore. Benissimo. Tu come stai? Dieci giorni? Addirittura. E i conti dell’Ogino Knaus così vanno per aria, no? Eh vi capisco. La bambina come sta? Bene, mi fa piacere. Un salutino a Peppino, quando rientra. Ciao.”

Nell’Integrazione (dove, come nel Lavoro culturale, Bianciardi si sdoppia nelle figure di due fratelli) il personaggio che sconta più a fondo il nuovo clima è Marcello, uno studioso cupo e astratto, machiavellico e masochista. Autoironicamente, l’autore gli prepara un destino di amara solitudine: Marcello finisce a scrivere pastoni da Reader’s digest, e lo fa con la ghignante efficienza di chi nasconde nella piattezza della prosa “venduta” esoterici messaggi in bottiglia. Alla fine lo vediamo preda di una tentazione luddista: come un Rastignac impotente svelle un mattone dal terrazzo, e finge di tirarlo contro la città che si agita lì sotto. Invece il suo erede della Vita agra (un io anonimo e senza fratelli, a fronte di un doppio femminile sempre più marcato) approda a Milano meditando già progetti da bombarolo. Poi però li perde. La verità è che finita l’euforia comunista si ritorna anarchici; ma anarchici sfiduciati, cui resta appena la risorsa dell’inazione: “Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha”. Però il confine tra non-collaborazione e integrazione è molto labile. All’inizio, il personaggio paranoico del ’62 accetta un alienante lavoro “di concetto” solo per preparare con calma la vendetta che crede gli abbiano affidato. Ma poi l’alienazione diventa la sua vera vita, e l’assalto alla Montecatini è rimandato sine die. Il bombarolo s’intruppa nell’esercito dei milanesi che marciano tutto il giorno dentro rigide “scarpe hegeliane”, rischiando a ogni passo d’esser sforbiciati via dal traffico. È risucchiato da una città in cui gli operai sono invisibili e in cui le sezioni del pci, simili a uffici di collocamento, eleggono a capicellula degli estetisti per cani. Lì dove tutto mostra la sua algida facies ippocratica, per salvarsi occorre esercitare un inedito acume semiologico: “La grana sarebbe quella che si prende, i dané quelli che si pagano, mi pare di aver capito”. E se ci si rinchiude in casa a sfornare traduzioni a cottimo, si rischia di fare brutti sogni: per esempio, sogni tutti “interpretati” in un inglese che si è incapaci di voltare in italiano. Quando si lavora nella tana, bisogna stare attenti a che il pastiche di parole altrui non sconvolga perfino la memoria della propria infanzia; e l’unico rifugio sicuro è un sonno vuoto come quello della Ragazza Carla del poema coevo di Pagliarani.

In quest’incubo diurno e notturno, l’“attivismo ateleologico” del lavoro d’ufficio è stato introiettato fin nel cuore di un solitario ménage casalingo assediato da “tafanatori” reali o mentali, e sommatosi perversamente al super-Io sgobbone del piccolo borghese di provincia. Questa condizione coatta viene resa da Bianciardi con una serie di pezzi di bravura che investono il lettore a cascata: si va dalla parodia dei narratori americani a quella degli editoriali sociologizzanti, dalle tirate sulla beffarda defecatio post mortem a quelle contro il coito divenuto mero simbolo e privato della sua salutare inutilità. Sublime è poi il colloquio tra il protagonista e una editor imbecille, che pretendendo traduzioni “letterali”, non “toscaneggianti” lo rimprovera di avere reso “come on boys” con “sotto ragazzi” anziché con “venire su”, e di avere scritto “bottega di falegname” anziché “laboratorio”.

 

L’integrazione e La vita agra, dove il secco sarcasmo diventa quasi un correlativo dell’aridità e della fatuità del reale, sono libri paragonabili forse soltanto alla Vita operosa di Bontempelli (1921), dove viene notomizzata la Milano del primo dopoguerra. Si tratta di approdi (letterari e geografici) da cui non si può tornare indietro senza apparire nostalgici. La capitale lombarda rappresenta una società mostruosa ma dinamica, mentre Grosseto sembra appena un residuo del passato. Nel romanzo del ’60, prefigurando il destino di quella sinistra umanista oggi sempre più simile a una Lega Centro, Marcello avvisa che starsene in Toscana è troppo comodo: significa rifugiarsi in un’Italia “troppo soddisfatta della sua composta perfezione”, che “non riesce a trovare alcun aggancio con quest’altra Italia, balorda quanto vuoi, ma reale e crescente […] e non lo trova nemmeno con l’altra Italia, quella di sotto, quella che fa la fame […] In una zona depressa siamo venuti, credilo pure, e ben più difficile che la Lucania: perché là la depressione salta subito agli occhi, mentre qui si maschera da progresso, da modernità […] Sta a noi batterci per il sollevamento, per il risorgimento, diciamolo pure, di questa Italia”.

 

Già, il Risorgimento. Mentre affronta la sua lotta impari con Milano, Bianciardi dedica un’attenzione crescente a quel periodo glorioso e ambiguo che vorrebbe aver vissuto. Per anni, il “racconto del 1860” e quello “del 1960” procedono paralleli: da una parte Da Quarto a Torino, omaggio all’esercito forse più colto della storia, e dall’altra l’analisi del “lavoro culturale”; da una parte le indagini appassionate sull’Unità, dall’altra la caricatura della politica di provincia e dell’industria mediatica. Poi i due filoni s’intrecciano. Bianciardi inizia a interpretare la cronaca italiana tra il ’45 e il boom col testo a fronte della “resistenza” garibaldina, filtrata attraverso i quadri e le pagine dei “paesani” Fattori e Bandi. Non a caso il borioso capitano che nel romanzo storico-mimetico La battaglia soda sfotte un reduce dei Mille si chiama Bauducco, proprio come il tronfio manager (ed ex ufficiale alpino) che nell’Integrazione amministra la casa editrice. Entrambi incarnano un ritorno all’ordine: l’uno fa il tecnico di guerra, l’altro il tecnico del marketing. Tutti e due si fingono eredi di un patrimonio ideale (il Risorgimento, il comunismo), ma in realtà parlano già come cortigiani piemontesi o americani. Invece i loro avversari, gli alter ego dei romanzi milanesi e il protagonista della Battaglia soda, una volta chiusa la stagione della speranza – con Custoza o con la guerra fredda – finiscono a marcire tra le scartoffie.

 

Ma la mescolanza esplicita tra Ottocento e Novecento arriva poco prima del fatidico ’68. È il periodo in cui i nati negli anni venti traggono i primi bilanci: e simbolicamente, mentre Calvino trionfa a Parigi, Bianciardi si ritira a Rapallo. Ora la passione risorgimentale, incanalata al livello più basso in politi testi divulgativi (Daghela avanti un passo!, Garibaldi), al livello più alto confluisce in un antiromanzo ucronico e guerrigliero, che è insieme un esercizio di virtuosismo ossessivo, introverso, catafratto. Aprire il fuoco, uscito nel ’69, resta un unicum nella nostra letteratura. Per concezione può ricordare la Storiadi domani di Malaparte o Roma senza papa di Morselli; solo che qui, in più, c’è la vertiginosa oscillazione formale tra flusso di coscienza e referto narrativo – o meglio, come ha scritto Paolo Maccari, tra “dialogo interiore” e stile “americano”. Bianciardi osa mischiare le Cinque Giornate del 1848 milanese, filtrate dai ricordi di Giovanni Visconti Venosta, con la cornice storica del 1959. Tra barricate di bus e molotov, Bocca va sfrontatamente a braccetto con Cattaneo, un cantante di nome Gabersic incontra Correnti, Hitler s’affianca a Radetzky, e Pio IX si confonde con Giovanni XXIII. Per eludere la censura dei “giuseppini”, ritornati dopo il fascismo, i ribelli inneggiano fiduciosi al pontefice buono firmando le schede del totocalcio col nome Giovanni Papa e marcando solo i primi cinque risultati: due X e tre I. A raccontare ex post questa follia è l’aio dei Venosta, che una volta falliti i moti è andato in esilio a Nesci

(eloquente travestimento di Rapallo).

Per dare un’idea del clima, basti pensare che tra le fazioni degli insorti si conta “la cosiddetta linea emme”, che s’ispira insieme a “il Mazzini, il Marx, il Mao, il Min e il Marcuse” (gli avversari ci aggiungono il Mussolini). C’è poi chi confida nel re Tentenna e nei francesi, e ci sono “i seguaci del Togliatti”, secondo cui “a fare l’Italia si sarebbe arrivati con la semplice scheda elettorale, gradualmente e progressivamente”, e bisognerebbe dunque allearsi con la Chiesa: “Li vedevi spesso frequentare le sagrestie […] ma era tutta fatica sprecata perché il clero li sbeffeggiava regolarmente”. Il famoso sciopero del fumo, invece, viene legato alla nonviolenza dei capitiniani, che intendevano “rifiutarsi di pagare le imposte” e “abbandonare i posti di lavoro per dedicarsi soltanto ai piaceri della carne […] Venivano costoro chiamati i rivoluzionari del non, ma a me sembrava che intanto predicassero bene e razzolassero, come suol dirsi, male, perché li vedevo laboriosissimi, rispettosi degli orari, faticatori anche al sabato Sera”. Tutt’intorno, i martinitt convivono con le protofemministe, e la rivolta diventa una copula continua. È il sogno anarchico di Bianciardi, molto diverso da quello dei sessantottini, ai quali infatti suggerisce di non sdilinquirsi davanti al Dottor Guevara e di studiare piuttosto il Pisacane, “che è anche più bravo”.

 

Dopo la sconfitta, il protagonista di Aprire il fuoco s’è convinto che bisogna fomentare una insurrezione senza fine – un disordine tranquillo, continuo e dunque non imbrigliabile dai capetti quartari travestiti da rivoluzionari. E soprattutto, non è più tempo di buttarsi sulle sedi istituzionali: “Bisogna occupare le banche e spegnere la televisione”. Purtroppo, però, perfino la fantasia più sfrenata riesce a inquadrare i frammenti utopici del presente solo in contesti di senso ottocenteschi. Nota Maccari: “Il passato non torna, e l’utopia non poggia su una realtà in grado di alimentarla”. Eppure l’aio dei Venosta, come un teologo negativo, conta sempre su questa rivoluzione inconcepibile. “Son dovuto fuggire quaggiù” dice alla fine “e ancora aspetto il segno, dal finestrone che affaccia, nella camera a pianta pentagonale, sul Manico del Lume. Guardo sempre laggiù, verso il gabellino”.

E dal gabellino autostradale di Rapallo, mentre l’alcol lo consuma, lo scrittore insiste su una rivolta sempre più lontana da quella dei capelloni urlanti o underground, cui oppone la maggioranza silenziosa dei concerti di Bach. Il futuro, comunque, ormai non lo riguarda. A lui resta la sapiente ma fioca gestione dei motivi più cari: quello risorgimentale, certo, ma anche quello antisessuofobico trionfante nel racconto “La solita zuppa”, dove s’immagina una società che ha il cibo come tabù e il coito come dovere, e si arriva fino alla blasfema invenzione di una Chiesa che nasconde per secoli la natura culinaria della moltiplicazione dei pesci e dell’ultima cena, interpretandole rispettivamente in senso “napoletano” e omofilo.

Per concludere, però, vorrei citare da un’altra rêverie fantapolitica del ’68, l’articolo “Marines a Rapallo”. Vi si mette in scena uno sbarco statunitense, a ridosso di elezioni sospese tra utopia frivola e incubo grottesco. Il pezzo contiene tra l’altro una perfida parodia della gestualità poetica pasoliniana: “Fra gli uomini di cultura uno dei pochi che prendessero posizione chiara fu il poeta Pasolini, il quale scrisse una poesia sulle tute mimetiche dei reparti sbarcati. “Cari”, cominciava l’ode, “cari ragazzi in tuta mimetica – memoria del rozzo overall – indosso al negro – coglitore di cotone […] Eletta schiera che tre volte – travalicaste l’Atlantico. – Nel diciassette ai tempi – di mio padre tenente – e Pershing v’era guida. Nel – quarantadue ai tempi – di me riformato e vi guidava il grande Ike – whom I like […] Via – dalla porca Italia, che – ai vostri avi terroni – non diede – né pane né – libertà.” I commenti furono i più vari, ci furono riunioni in casa Bellonci, Pasolini precisò che la poesia era brutta, ma che andava letta in un’altra maniera. Non disse quale. Se la prese coi quarantenni e passa, i quali profittavano dello sbarco dei marines per rifarsi una verginità ideologica e morale, si ritirò dal Premio Campiello, partecipò invece al Festival di Castrocaro, come paroliere. Poi mi svegliai”.

Un agrodolce risveglio da un agrodolce sonno: due stati di coscienza negati a molti scrittori coetanei di Bianciardi, di lui troppo più noti e strumentalizzabili.

 

Prefazione al volume Luciano Bianciardi, il cattivo profeta, il Saggiatore 2018.

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Harun Farocki. Pensare con gli occhi

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Harun Farocki è un artista poco conosciuto in Italia, a parte l’omaggio dedicatogli un anno dopo la morte dalla Biennale di Venezia del 2015, intitolato Atlante di Harun Farocki, con rimando al grande tema dell’atlante, da Aby Warburg a Gerhard Richter e oltre, e poco dopo il seminario internazionale a lui dedicato allo Iuav. Figura singolare e al tempo stesso paradigmatica di un modo di fare cinema che è approdato nelle gallerie e nei musei d’arte, meritava uno sforzo ulteriore come quello che ha visto il convegno dedicatogli a Torino nel novembre del 2016 e ora il volume che ne riprende il titolo e lo amplia per ricchezza di materiali e di interventi, curato da Luisella Farinotti, Barbara Grespi e Federica Villa per i tipi di Mimesis: Harun Farocki. Pensare con gli occhi.

 

Nato nel 1944 in una cittadina allora tedesca oggi ceca, debutta nel cinema a metà degli anni ’60 con film di impostazione situazionista, di critica politica e della cultura: “cinema come forza antagonista e militante, strumento di lotta e di controinformazione, antidoto critico alla sua stessa fascinazione”, scrive Farinotti. Insegna, scrive, milita. Negli anni ’80 mette a punto il suo modo personale: le definizioni che ne sono state date, film d’osservazione e film-saggio, sono indicative della direzione e dell’originalità. Non si tratta di un cinema di finzione, ma neppure di documentario, dei due insieme quasi che essi si contrappongano è dire ancora troppo poco. Certo la provenienza è il cinema –  lo sguardo antropologico di Bresson, l’arte del montaggio in Godard, il cinema speculativo di Straub e Huillet, è stato sintetizzato – ma un cinema che condivide le preoccupazioni dell’arte – della cultura – contemporanea. Molti ne hanno tentato una descrizione sintetica: “poco riducibile alle definizioni, oscillante costantemente fra poesia e teoria, scherzo e gravitas, come fra fiction e documentario” (Christa Blümlinger); cinema “diagramma” (nel senso di Deleuze), per il modo in cui le immagini assumono progressivamente senso nel loro ripresentarsi, nel continuo riapparire entro nuove catene per incastri, deviazioni, continui ritorni (Raymond Bellour); cinema collage, sottolineando la varietà dei materiali usati e insieme l’aspetto di discontinuità nel montaggio (Farinotti). È stato definito “antropologo del presente”, Grespi giustamente sottolinea gli aspetti che ne fanno un campione della “cultura visuale”.

 

 

I suoi film, di lunghezze e carattere diverso, a volte ricostruiscono la storia di singole immagini in altri casi ne mettono a fuoco l’esistenza di classi, warburghianamente spaziando dal documento all’arte alle immagini di massa a quelle tecniche. L’aspetto di riflessione sull’immagine, sulla sua natura, la genealogia, le funzioni, i risvolti tecnici e il lavoro che comporta la realizzazione è centrale, ma non esaurisce né centra l’originalità di Farocki. Ora si fa appello al “gesto dell’immagine”, con riferimento a Horst Bredekamp, ora le si definisce immagini “operative”, la cui natura non è tanto riproduttiva quanto quella di “strumenti, e finanche soggetti dell’azione”. I film, tra i suoi più famosi e su cui diversi testi del volume si soffermano, sulle immagini di guerra, quella del Golfo o quelle simulate nei videogame o nei video di addestramento militare, hanno fatto parlare di “immagini-bombe”, rovesciando le bombe di sola immagine di quelli. L’operatività è senza dubbio anche uno dei concetti centrali per la riflessione sui rivolti politici sempre rimasti centrali nel lavoro e nella riflessione di Farocki: il cinema, l’opera, non come espressione del proprio pensiero personale, ma come “restituzione”, per usare la formula che Georges Didi-Huberman ha ripreso da Jacques Derrida, che acquista un duplice, se non triplice significato: restituzione alla collettività, resa pubblica e disponibile alla conoscenza di tutti, e resa visibile, nonché restituzione al visibile di ciò che vi si sottraeva o ne era rimosso.

 

Divisi in tre sezioni – precedute da una preziosa antologia di testi dell’artista – intitolate significativamente “Il cinema e oltre”, “Il lavoro con le immagini” e “L’iscrizione della guerra”, i testi del volume riprendono tutte queste tematiche e altre ancora, nonché l’analisi di singoli film, video o installazioni. Elenchiamone gli autori: oltre alle curatrici, Thomas Elsaesser, Rembert Hueser, Chiara Grizzaffi, Volker Pantenburg, Antje Ehmann, Pietro Montani, Christa Bluemlinger, Luca Malvasi, Maurizio Guerri, Alessia Cervini, Massimiliano Coviello, Riccardo Fassone, Clio Nicastro.

Il cinema, come giustamente ribadisce Villa, è il centro intorno a cui ruota tutta l’operazione complessiva di Farocki – altra “restituzione” –, il ruolo che svolge nei processi creativi altri, quelli del video, delle installazioni, ecc., il punto di ritorno costante dell’opera di Farocki, il suo “medium”, potremmo dire oggi nel senso più pregnante del termine, quello dell’insieme di regole che determinano il processo creativo. Proprio su quest’ultima questione mi si lasci deviare un momento per poi tornare e concludere.

 

È negli anni ’90 che Farocki effettua la svolta a cui si è accennato all’inizio, quella cioè che lo ha portato dalle sale cinematografiche alle gallerie e musei d’arte. Che cosa è successo? La questione non può essere risolta notando che in fondo tutti i media hanno azzardato tale svolta nello stesso giro d’anni; casomai questo evidenzia il carattere generale che può avere una risposta effettiva. E dunque: la prima opera che Farocki ha presentato come “opera d’arte”, in galleria piuttosto che in sala, è stata Interface, nel 1995, opera basata sulla presenza sullo schermo di due immagini invece di una sola, come si vede quando si fa il montaggio, dice Farocki, non come nella proiezione di un prodotto finito. Due, dunque non il flusso dell’uno, bensì di mano in mano i loro rapporti. Ebbene, non si tratta solo di metarappresentazione, di immagine nell’immagine, di discorso interno sull’immagine, sulla tecnica, sul linguaggio, ma di qualcos’altro. Sta qui anche l’importanza allargata di questo volume, che si aggiunge all’interesse specifico sulla figura di Farocki e sul cinema. Questo qualcos’altro sta nel titolo del volume stesso: Pensare con gli occhi.

 

Mi permetto di sintetizzare partendo da un’autrice che, mi pare, nessuno degli autori cita e quindi può forse essere interessante aggiungere. Farocki è infatti uno degli ultimi autori annessi da Rosalind Krauss, in Sotto la tazza blu (Bruno Mondadori, Milano 2012), alla sua rosa di artisti preferiti, che per l’occasione chiama “cavalieri del medium”. Li chiama “cavalieri” con riferimento alla mossa del cavallo degli scacchi, perché sostiene che il rapporto con il medium, con la sua specificità, vada oggi non più impugnato in termini di autoreferenzialità come nel Modernismo (greenberghiano in particolare), ma per effettuare appunto una mossa complessa, che comporta un passo laterale, uno scavalcamento, o, con altra metafora su cui Krauss insiste, per darsi la spinta come fa il nuotatore con il bordo della piscina. La doppia immagine, la metarappresentazione vanno per Krauss intese in questo senso, con tutta la forza del medium ma per andare oltre, ovvero, qui, per fare diversamente, cioè specificamente per pensare visivamente.

 

Che cosa significhi, lo estraiamo ancora dai testi del volume, ma in questa chiave, a partire dai testi di Farocki stesso. L’intenzione, ma è anche una chiave, la prendiamo da Campo-controcampo: “la presenza dell’Identico nel Diverso. Ciò dà forza al linguaggio: non ci si limita a inventare, ma comunica veramente”. È un rovesciamento determinante: non il Diverso nell’Identico, come ci ha abituato il pensiero della differenza, dello straniamento, dell’eterogeneo, ma l’Identico nel Diverso, ovvero ciò che è in comune, ricorre, slitta, si sposta, si trasforma, rimanda ad altro, tra oggetti apparentemente anche molto distanti tra loro. Il metodo lo prendiamo da un’altra distinzione introdotta in A proposito di documentario: “Nel film di finzione – nel film di finzione classico – la macchina da presa anticipa. Nel film documentario segue”. Che cosa significa “seguire”? A me sembra che significhi prima di tutto non precedere, non avere tutto stabilito in precedenza, di cui il film diventa la traduzione, la trasposizione in immagine (per restare al visivo, ma vale anche per la componente del sonoro), quindi, conseguentemente, procedere sviluppando di mano in mano, riflettendo mentre si realizza, interrogare in atto, pensare appunto, mentre si fa, sulle immagini, con le immagini, a causa delle immagini. Le immagini infatti inducono questa forma di pensiero, di osservazione, non predeterminato, non lineare, discontinuo – non montaggio senza smontaggio, direbbe Didi-Huberman –, nel suo svolgersi; verrebbe da dire: da dentro l’immagine, per questo è doppia, per questo Farocki si include così spesso. È il loro funzionamento “reale”.

 

Dunque, per concludere: che sia questa mossa del cavallo il “passaggio” all’arte, dalle sale cinematografiche alle gallerie? Che questo abbia a che vedere anche con il significato politico di questo tipo di arte?

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Dedichereste una strada al geocentrismo tolemaico?

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Mi sembra che la vicenda dell’ANPI del 25 aprile, nella quale i partigiani “veri” (cioè quelli defunti o vecchissimi) apprezzerebbero la Brigata ebraica del 1944-45, mentre invece i partigiani “nuovi” (cioè quelli giovani e male informati) si schiererebbero per Hamas, costituisca un bell’esempio di conta delle mele con le pere. C’è da sperare che un simile equivoco non si presenti più in futuro.

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Società

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La sociologia ha inventato nella seconda metà dell’Ottocento il concetto di società. Ha dato vita cioè all’idea che le persone trascorrono la loro esistenza all’interno di un sistema sociale che è organizzato da precise regole e dotato della capacità di durare nel tempo. Ma ci ha anche fatto comprendere che una società funziona al meglio quando è in grado di offrire alle persone che vivono al suo interno la possibilità di disporre di modelli interpretativi.

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Giovani mettete su una start up!

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Ha riscosso successo il film Il vegetale di Gennaro Nunziante, una sorta di parabola rivolta ai giovani. Il film racconta le traversie di un giovane milanese che fa di tutto per farsi assumere da qualche grande azienda, ma che di fatto viene menato come un can per l’aia: stage che sono di fatto lavoro sottopagato, promesse mai mantenute, cavilli burocratici ed evasivi (delle tasse). Alla fine però il giovane mette su un’azienda che produce cibo biologico, e questo – si tratta di una favola edificante – senza ricorrere a lavoro nero, a braccianti sottopagati, ma tutto onestamente rendicontato. Messaggio lampante: giovani, smettetela di puntare al miraggio del posto fisso da dipendente in una Corporation, inventatevi voi un mestiere, mettete su una start up!

 

Il film illustra in modo gnomico il cambiamento di paradigma nel lavoro in corso nelle nostre società industriali avanzate. Un cambiamento di paradigma che mette in crisi quella che oggi si chiama – non più teoria ma – narrazione di sinistra, marxista o liberal che sia. Una messa in crisi che spiega il declino anche elettorale delle sinistre occidentali. In sintesi: andiamo verso un’organizzazione del lavoro in cui ciascuno è imprenditore di se stesso. Non più il dipendente ma l’imprenditore diviene la figura-cardine della vita lavorativa oggi.

Ora, da tempo il liberalismo americano – in particolare la scuola di Chicago – ha proposto il paradigma detto del “capitale umano”; termine entrato ormai nel discorso comune, anche se per lo più viene frainteso. Secondo questa narrazione, chiunque non viva di rendita è un imprenditore, anche chi lavora come operaio in fabbrica. L’operaio è qualcuno che investe così il proprio capitale umano, che ha costituito nel tempo. Una ragazza che anziché fare l’operaia preferisce fare la prostituta, ad esempio, investe così il proprio capitale diciamo biologico. Si investe il proprio capitale umano non solo per guadagnare, ma per avere soddisfazioni in generale. I genitori, che sono in gran parte artefici del capitale umano dei loro figli, puntano anch’essi alla propria soddisfazione, anche se altruistica: avere figli con un elevato capitale umano. Questo certamente non significa più eguaglianza: chi ha uno scarso capitale umano, o lo investe male, sarà più povero di chi ha un cospicuo capitale umano e sa investirlo bene. Insomma, esistono imprenditori ricchi e imprenditori poveri; e in effetti, “il popolo delle partite IVA” è composto per la maggior parte da poveracci (anche se l’allargamento delle partite IVA è un fenomeno di per sé positivo). La maggioranza delle ditte sono misere. Non dico che questa teoria o narrazione sia più vera di quella marxista o di sinistra in generale, dico solo che essa oggi appare più verosimile, sembra rendere meglio conto della realtà. Come Il vegetale mostra.

 

Capisco che si tratti di una realtà che la sinistra detesta. Ma il mio compito non è giudicare e denunciare, e tanto meno proporre soluzioni, è di capire le cose, anche se non vanno per il verso che vorremmo.

Oggi si ripete come cosa scontata il fatto che il ceto medio si sta impoverendo. Ma se per ceto medio intendiamo tutti quelli che appartengono alla fascia di reddito media, allora c’è sempre un ceto medio non impoverito. Il punto è che oggi si impoveriscono persone che in passato classificavamo nel ceto medio: insegnanti, colletti bianchi. In effetti, quando andava per la maggiore la narrazione marxista o liberal, tendevamo ad associare a ogni mestiere un determinato livello di introiti e di forma di vita: se si era operai si era per lo più poveri, se si era insegnanti si aveva un reddito medio, se si era industriali si era ricchi… Oggi la nostra posizione nella struttura del lavoro non implica affatto un dato livello di reddito. È come se oggi tendesse a universalizzarsi quel che un tempo significava essere cantante o venditore di scarpe. C’era la cantante scalcagnata che andava avanti a ingaggi alle feste popolari e c’era Luciano Pavarotti; c’era l’umile scarpaio di un villaggio e c’era Salvatore Ferragamo. Anche essere filosofi, per dirne una, non garantisce oggi una specifica quantità di introiti: ci sono tanti laureati in filosofia che insegnano per tutta la vita nelle scuole medie, e filosofi ricchi e famosi, autori di bestseller, come Umberto Eco. Tutto dipende dal nostro capitale umano e dal nostro modo di farlo fruttare.

 

E la famiglia da cui si proviene è uno dei principali fattori del capitale umano. Da qui la scarsa mobilità sociale: ciascuno tende a perpetuare lo status della propria famiglia di origine. Tranne una frangia mobile, che va non solo in su ma anche in giù. Tutti conosciamo ereditieri che col tempo sono finiti in miseria.

Se tutti ci percepiamo come imprenditori – anche se siamo dipendenti di un ente – vien meno la filosofia che promuove il sindacalismo. Questo si regge sul fatto che tutti i lavoratori di una certa categoria si sentono più o meno alla pari, ovvero con redditi tra loro simili. Ma questo è sempre meno il caso oggi. Prendiamo i contadini: alcuni hanno ereditato un terreno misero e sono rimasti miseri, e altri si sono arricchiti. C’è sempre meno solidarietà all’interno di una categoria, perché i destini individuali si divaricano.

Non è che oggi ci siano più poveri che nel passato, solo che i poveri oggi sono chiamati “perdenti”; come imprenditori, appunto, che abbiano fallito.

 

 

Si sa che più una società è industrializzata, più si gonfia il terziario, ovvero i servizi. Questo è dovuto al fatto che nei primi due settori – industria e agricoltura-allevamento – la produttività è enormemente cresciuta, e crescerà ancora di più. Ovvero, la meccanizzazione, la robotizzazione, riduce sempre più la forza-lavoro impiegata, e la forza-lavoro potenziale troverà sbocco solo nel terziario. Certo anche in certe aree del terziario la produttività è molto aumentata; così chi è dedito a un lavoro intellettuale, come il sottoscritto, svolge da solo un lavoro che prima veniva fatto da tre segretari. Ma il tempo che un parrucchiere impiega per mettere a posto una capigliatura è lo stesso oggi come cento anni fa. Molti servizi restano a bassa produttività, e quindi assorbono molta mano d’opera. Ma anche nei servizi c’è chi sa far rendere il proprio capitale umano, e chi meno. Le sperequazioni sono interne a ogni tipo di attività. Anche se resta una sorta di identificazione quasi castale: tanti piccoli imprenditori sempre sull’orlo del fallimento votano compatti per Berlusconi perché si sentono rappresentati da un imprenditore come loro.

 

Il modello Chicagoan che vede ciascuno di noi come un imprenditore aumenta insomma la sua credibilità oggi perché di fatto la parte del lavoro dipendente con contratti a tempo indeterminato si assottiglia, e sempre più persone diventano imprenditori, anche se poveri. La sinistra protesta: “si allarga l’area del precariato”. Ma il precariato è la conseguenza del fatto che diventiamo sempre più, ciascuno di noi, freelance. È la gig economy, l’economia dei lavoretti. Call centers, piccolo commercio, Airbnb, consegne a domicilio, trasporti tipo Uber, ecc. Nel 2016 in Italia un milione e 800.000 persone lavoravano in questo modo; ma si calcola che nel 2020 il 40% dei lavoratori americani saranno di questo tipo. È interessante che il termine gig venga dal jazz: era l’ingaggio ad hoc di musicisti per una serata. Tutti tendiamo a essere come i jazzmen. Ovvero, il modello non è più l’operaio o l’impiegato di stato, ma l’artista. L’artista di solito è precario, ma appunto, ci sono artisti poverissimi e artisti milionari. 

Contrastare la gig economy è arduo. Lo vedo nel mio piccolo; anch’io sono uno sfruttatore per forza di cose. Spesso ho bisogno di traduzioni per il mio lavoro, che affido a pagamento ad amici. Mi colpisce il fatto che quasi sempre costoro vogliano essere pagati in nero, di solito per ragioni fiscali. Ma se si imponesse una legge per cui devo assumere i miei traduttori, non sarei mai in grado di far fronte a una spesa simile. Sarei io allora a chiedere a questi amici di lavorare in nero. O rinuncerei tout court alle traduzioni… Di solito l’alternativa al gig non è l’assunzione, ma niente lavoro. Questa è una morsa nella quale tutti siamo presi, anche se votiamo per LeU. 

 

La sinistra, marxista o quasi, si basa su un presupposto: che si deve andare avanti assieme agli altri, assieme a chi sta in una condizione simile alla propria. Se una fabbrica licenzia – predica la sinistra – meglio battersi assieme agli altri operai piuttosto che trovare una soluzione individuale, ad esempio farsi assumere altrove, o magari sedurre una manager della fabbrica che decide i licenziamenti… Ma in un mondo di lavoro frammentato, non garantito, effimero, fluttuante, la solidarietà di classe o corporativa perde senso. Sono le strategie individuali di sopravvivenza quelle che alla fine si mostrano decisive.

 

Tony Blair, e quella parte di sinistra che la pensava come lui, si rendeva ben conto di quello che abbiamo detto. Perciò Blair lanciò negli anni 90 il famoso slogan “Education, education, education”. Era la teoria di Anthony Giddens: nel mondo globalizzato di oggi la produzione dei beni di base verrà sempre più effettuata da paesi più poveri, come India e Cina, dato che là la manodopera costa molto meno. L’unica chance per i paesi altamente industrializzati è puntare sulla crescita del capitale umano, e l’istruzione è il principale fattore di crescita di questo capitale. Da una parte un mondo-operaio asiatico-africano, dall’altra un mondo-manager che coincide con il mondo iper-industrializzato. Gli europei dovranno lasciare la produzione dell’hardware (funzione operaia e contadina) agli extra-europei, per puntare tutto sul software (sapere e cultura). Bella teoria. Solo che in un paese occidentale non tutti possono essere creativi, informatici, dirigenti, manager, esperti: ci sono alcuni lavori a bassa produttività, connessi ai servizi, che vanno comunque svolti. I lavori gig, appunto. Svolti da immigrati, in parte, ma anche da autoctoni. Avremo quindi ampie fasce di popolazione colta ma povera, diciamo super-istruita rispetto al modesto lavoro che fanno e che sempre più faranno. Ma se tutti sono colti, i titoli di studio cesseranno di essere una risorsa in sé.

Allora meglio non studiare, meglio arrabattarsi sin da subito: meglio votare per Salvini, Fratelli d’Italia, M5S...

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Ho incrociato il 1968 nel 1998

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La prima volta che incrociai il 1968 fu nel 1998. 

Avevo ventun’anni ed ero uno studente di Scienze della Comunicazione a Siena. Per un corso di multimedia qualcuno di noi insieme al suo professore progettò un CD-ROM interattivo, ormai consegnato all’archeologia dei dead media, che raccontava la cronologia del 68. Per il corso di Storia Contemporanea del professor Labanca, ognuno di noi doveva scrivere una tesina, un saggio di 3.000 parole, su un evento del novecento. Avevo una camicia a quadri da boscaiolo umbro e i miei gruppi preferiti erano i Nirvana e gli Smashing Pumpkins. Scelsi di fare ricerca su Pasolini, il 68, Valle Giulia. La tesina iniziava con le parole di PPP: “Smettetela di pensare ai vostri diritti, smettetela di chiedere il potere. Un borghese redento dovrebbe rinunciare a tutti i suoi diritti, e bandire dalla sua anima, una volta per sempre, l’idea del potere. Tutto ciò è liberalismo: lasciatelo a Bob Kennedy.” PPP era affascinante perché rappresentava una modello di intellettuale duro e puro, critico anche coi giovani sessantottini. 

Nel 1998 a Siena, tra noi studenti fuori sede si finì per discutere molto del 68, nell’unico bar “alternativo” della città, Il Pozzo, gestito da un veronese coi capelli lunghi fino ai fianchi che amava i Jethro Tull. Ci si vedeva lì tutte le sere, ma soprattutto il mercoledì sera, all’uscita dall’aula cinema della facoltà di Lettere, dove un collettivo di studenti curava una serie di proiezioni.

 

Quell’anno i film parlavano del 68. Ricordo bene solo Fragole e Sangue, Blow-Up, Zabrinskie Point e La Cinese. Ognuno di noi si era fatto la propria idea di quell’anno, un’idea mediata, di “seconda mano”, dalle riviste, dai film, dai libri, dai giornali. Qualcuno aveva anche qualche genitore “che aveva fatto il 68” e ai nostri occhi di ragazzi cresciuti nella medietà piccolo borghese di provincia acquistava subito, per linea ereditaria, un’aura da vecchio combattente. In particolare uno, il mio compagno di casa, un genio dei computer e delle reti informatiche, rappresentava il nostro contatto diretto più prossimo a quell’esperienza. Suo padre aveva studiato a Trento nel 68. Lui, suo figlio, era un hippy che maneggiava reti e computer. Ci iniziò a internet, alla net art (fu il primo a trasformare un’immagine digitale in codice ascii), alla letteratura beat, a Vautrin, a Marcuse, alla musica psichedelica e alla sua cultura e ci lasciò quello stesso anno per andarsene a vivere in una comune in campagna, fuori Siena. Aveva piantato in noi i semi della controcultura americana degli anni sessanta, mentre ci preparavamo all’esame di Storia Contemporanea leggendo Il secolo breve di Hobsbawm. Poi il 1998 finì, la copertura mediatica del trentennale del 68 sfumò e molti di noi partirono per l’Erasmus.

Quella fu la prima volta che incrociai il 68. Ne venne fuori un’immagine un po’ retorica, epica, a metà tra realtà e finzione.

 

 

La seconda volta che incrociai il 68 fu nel 2008. Di nuovo si tornava a parlare del 68 e della sua eredità. Nel frattempo erano passati quarant’anni ed ero uno studente di dottorato appassionato di media comunitari, alternativi, underground, civici, democratici, sociali o come vogliate chiamarli. Mi chiesero di partecipare a un libro collettivo sul 68 curato da due storiche. Scrissi un capitolo sull’uso della radio durante il 68, da Parigi a Città del Messico. Passai giornate intere in biblioteca alla Sormani e scoprii un bellissimo saggio della sociologa francese Evelyne Sullerot – Transistors e barricate (contenuto in Philippe Labro, Michel Manceaux (a cura di), Bilancio di maggio, Milano, Mondadori, 1968), che raccontava, tramite interviste, come i giovani di Parigi si fossero appropriati tatticamente delle radioline a transistor per amplificare il proprio messaggio nei giorni della protesta: “A un certo punto siamo andati alla Camera del Lavoro. C'era una brava donna col transistor. Tutti si fermavano a sentire. Poi commentavano. Ho provato l'esaltante impressione che ciascuno si trovasse in uno stato di piena coscienza. [...] Era una cosa che provocava in me, e in tutti quelli che ho incontrato, un'aspirazione profonda: essere degli attori informati – o degli ascoltatori attivi, come preferisce. Ah, che pubblico in gamba hanno avuto i transistors!”.

 

E ancora, quest’altra testimonianza: “Appena ho sentito un transistor, mi sono tirato su moltissimo. Hanno parlato di una trentina di barricate. Ho fatto un salto di gioia e tutti abbiamo gridato: “Non siamo soli!”. È stato per via della radio che ho preso coscienza del numero, dell'ampiezza. Prima mi sentivo solo. Iniziavamo a sentire colpi d'arma da fuoco. [...] poi si è avvicinata una donna con un transistor e abbiamo sentito “trenta barricate” e ho preso coscienza – ma forse era una cretinata – che almeno, se si moriva, si moriva con dei testimoni, collegati col mondo”. 

Sette anni prima, nel 2001, avevo incrociato temporaneamente amici che mi avevano aperto all’esperienza di Indymedia. E un anno dopo stavo scrivendo una tesi di laurea sulle web-radio come continuazione del movimento delle radio libere. Vedevo una linea invisibile che congiungeva tutte queste esperienze: dall’uso tattico dei transistor a Parigi, all’esperienza di Danilo Dolci con Radio Sicilia Libera a Partinico nel 1970, dalle radio libere italiane alle radio pirata londinesi degli anni dell’Acid House fino alle web-radio e Indymedia: movimenti sociali che in epoche diverse avevano reclamato, si erano riappropriati, di strumenti di comunicazione istituzionalizzati e li avevano sottratti alle istituzioni. Be the media, don’t hate the media. Scoprii un saggio di Michel De Certeau sul ruolo dei transistor a Parigi: “Il transistor, per i manifestanti, era l'informazione che ci si poteva portare dietro, che dava il potere di dominare la partita, invece di perdercisi, [...] e che, infine, trasformava gli attori in protagonisti, offrendo a ciascuno il mezzo per controllare l'informazione in tempo reale e per scegliere la propria mossa”. Dai transistor all’uso tattico dei media digitali durante i movimenti globali di protesta del 2011, e ancora prima del 2001, il passo era breve: i media elettronici erano stati strumenti di consenso e di commercializzazione, ma anche di democratizzazione e rivoluzione.

 

In quel capitolo riportai alla luce anche la storia di Radio UNAM, l’emittente dell’Università Autonoma di Città del Messico, che il 18 settembre del 1968 fu brutalmente chiusa dai militari per mettere a tacere la protesta degli studenti: “Radio Unam continuò a trasmettere finché i soldati non fecero irruzione negli studi in cerca di “armi e rivoltosi” e staccarono e tagliarono i cavi. Poco dopo arrivò un ufficiale di alto rango e io lo pregai di non toccare nulla, di non portare via nulla, perchè quello era un patrimonio culturale importantissimo ed inoltre era proprietà dell'Università. Ci arrestarono tutti e ci portarono fuori, insieme ad altre centinaia di studenti, riunendoci tutti sull'esplanade del Rettorato. Poi iniziarono a caricarci sui camion dell'esercito e ci portarono a Lecumberri, il carcere della capitale”.

"Unam, Universidad Nacional Autonoma de Mexico, teritorio libre de America", diceva una voce giovanile amplificata dagli altoparlanti. Poi gli altoparlanti si spensero e le Olimpiadi si svolsero senza problemi, fino al pugno alzato di Tommie Smith e John Carlos.

 

La terza volta che incrociai il 68 fu nel 2009, a Parigi. Finii per caso in una libreria che vendeva manifesti originali del 68, quelli disegnati dagli studenti della scuola superiore di belle arti di Parigi. Speravo di trovarci quel famoso manifesto in cui gli studenti si scagliavano contro la radio stato e avevano disegnato un cartello stradale con dentro un microfono e sopra scritto: “Attention, la radio ment”. “Attenzione, la radio trasmette fake news”, diremmo oggi. Non lo trovai e poi costavano troppo. Mi ricordai delle parole di Lindo Ferretti: “Non fare di me un idolo, mi brucerò” e capii che era stupido cercare di possedere un manifesto del 68 per adorarlo come un mito che non avevo nemmeno vissuto. Uscii a mani vuote. 

Questi sono gli incroci con il 68 di cui ho memoria. E sono tutti incroci mediati da tecnologie della comunicazione: libri di storia, CD-ROM, dischi, saggi filosofici, film, radio, affiches. 

Del 68 ho una percezione estremamente mediatizzata ed estremamente parziale. Non sono figlio del 68, non sono figlio di genitori che hanno fatto il 68, non sono nemmeno nipote del 68. Col tempo ho perso anche quel rispetto tardo-adolescenziale che avevo nei confronti del mito del 68. 

 

Credo che quel che so del 68 sia più mitico che reale. Ogni generazione ha il suo 68. Per me fu il 2001. Ma non mi piacciono le celebrazioni mediatiche per i decennali, i ventennali, i trentennali (ad libitum). Hanno l’aria stanca, ogni dieci anni sempre più stanca, di chi ricorda con nostalgia. La nostalgia è un sentimento personale molto importante, ma quando diventa collettiva è “pericolosa”, perché rischia di disinnescare la capacità collettiva di continuare a immaginare il futuro. Troppa energia collettiva rivolta verso il passato, con un occhio nostalgico e quindi indulgente, ci distrae dal presente. 

Inoltre il 68 gode di un riverbero mediatico superiore a qualsiasi altra celebrazione di qualsiasi altro movimento sociale globale, forse perché i giornalisti più importanti dei più rilevanti giornali nazionali sono stati giovani nel 68 e ogni dieci anni hanno l’occasione e lo spazio mediatico per ricordare con nostalgia o con rabbia la propria giovinezza. Il “come eravamo” è il peggiore servizio che l’informazione possa fare a una generazione ai movimenti che la animarono. Se invece vogliamo che una celebrazione conservi un po’ di senso, dovremmo concentrarci sull’analisi spietata del discorso e dei valori che quel movimento portava con sé e provare a trasmetterli a chi non li ha vissuti.

 

Io che non l’ho vissuto, il 68 l’ho visto, letto e ascoltato attraverso i media. In particolare, c’è uno slogan del 68, che mi è sempre piaciuto tanto. L’ho visto scritto per anni su un muro di Livorno, mentre andavo a visitare un amico degli anni di Siena: Sotto il pavé, la spiaggia.

 E forse, scrivendo questo pezzo ho finalmente capito che il 68 mi ha lasciato in eredità qualcosa: una certa passione per tutti gli usi non istituzionali, anti-autoritari, dei media, elettronici o cartacei, analogici o digitali. Questo è quello che ho imparato dal 68. Ma l’ho imparato soprattutto dai miei amici, mentre progettavamo un CD-ROM, studiavamo Storia Contemporanea e frequentavamo strani hippie esperti di computer. 

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Il Sessantotto di chi non c'era
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Come fare del male e continuare a vivere bene

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Per secoli, da Socrate a Kant, nel modo di analizzare le nostre condotte morali, abbiamo confidato in una sorta di “razionalismo” etico. Anche di fronte ai suoi giudici e agli allievi che lo assistono prima di bere la cicuta, Socrate raccomanda di non rinunciare mai alla conoscenza del bene e all’autoesame che comporta, convinto che dalla conoscenza del bene non potrà non conseguire l’impegno a perseguirlo. Così Kant, che inaugura la riflessione morale moderna, è persuaso che il ragionamento, non intralciato da interessi, inclinazioni o condizionamenti esterni, è sufficiente a obbligarci ad assumere una condotta morale. A entrambi sfugge la fitta trama psicologica che separa e lega allo stesso tempo il momento in cui ragioniamo su quali siano i nostri doveri e il momento della loro traduzione in criteri effettivi di condotta. In altri termini, trascurano che la nostra agency morale, ovvero la capacità di autoinfluenzare le nostre azioni morali, non si compone solo di un aspetto cognitivo, ma anche del repertorio di meccanismi con cui autonomamente motiviamo, regoliamo, monitoriamo, l’attuazione dei nostri pensieri morali. E il più importante di questi meccanismi è rappresentato dalle autosanzioni affettive, che inibiscono condotte nocive o inumane, consentendo di evitare i sensi di colpa, la vergogna e i rimorsi che minerebbero il nostro benessere, qualora cedessimo a quelle condotte, o, addirittura, trattenendoci dal cedere ad esse anche se abbiamo la sicurezza di non essere scoperti. È questa la premessa da cui parte l’ultima fatica del più eminente psicologo contemporaneo, Albert Bandura, insignito nel 2016 da Barack Obama con la National Medal of Science, pubblicato in Italia dalla Erickson, con il titolo: Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene, a cura di Riccardo Mazzeo. La presenza di questo potere autoregolatore e autosanzionatorio nella nostra agency morale spiega, d’altra parte, la celebre massima: “è meglio patire che infliggere il male”, che Socrate formula nel Gorgia di Platone e considera ancora solo l’effetto di una scelta razionale.

 

Per Bandura, il soggetto che decide di infliggere il male, non sopporterebbe le reazioni autosvalutative su se stesso che ne deriverebbero: facendo del male, pur traendone vantaggi immediati o apparenti, vivrebbe male, in conflitto con se stesso. Certo, è quella capacità di farsi due-in-uno, nell’intimo dialogo del pensiero, di cui Hannah Arendt parlò in un ciclo di lezioni agli studenti di New York e Chicago, tra il 1964 e il 1965, riflettendo proprio sulla morale socratica. Ma siamo sicuri che il malfattore o il criminale è colui che perde questa capacità? In altre parole, è possibile fare del male, compiere azioni nocive, e, tuttavia, continuare a vivere in pace con se stessi? Bandura risponde affermativamente e, in questo libro teoricamente robusto e ricco di case analysis, s’incarica di spiegare il come e il perché avviene, in modo dettagliato, in vari ambiti dell’attività umana oggi importanti anche per i riflessi sulla qualità e il futuro della vita collettiva, integrando, così, la tradizione filosofico-morale con la prospettiva empirica e complessa della psicologia e della teoria sociocognitiva.

 

I sistemi di controllo legali e sociali sono un disincentivo a compiere azioni crudeli, inumane, immorali, ma sono un deterrente insufficiente, anche nel contesto del terribile Leviatano hobbesiano che usa la leva della paura per mantenere l’ordine. Abbiamo visto che le persone si astengono dal compiere quelle azioni soprattutto perché autoregolano il passaggio dal ragionamento morale all’azione basandosi sulle autosanzioni morali, che funzionano come una censura interna rispetto a propositi incompatibili con i principi morali. Sia le persone “cattive” sia le persone “buone”, ci ricorda Bandura, hanno, infatti, bisogno di vivere in pace con se stesse, con le scelte fatte, e di valutare positivamente il proprio comportamento. Quindi, per adottare condotte lesive o nocive, senza conseguenze negative per la propria autostima, le persone (ma anche le organizzazioni, i gruppi, le imprese) si disimpegnano da una condotta morale disattivando il meccanismo delle autosanzioni. E lo fanno selettivamente e parzialmente.  Come Amon Göth, il comandante nazista di un campo di concentramento, che, mentre detta una lettera amorevole e compassionevole per il padre malato, estrae la pistola e fredda un prigioniero che gli sembra profondere poca energia nel lavoro. I principi morali trasgrediti non sono messi in discussione, ma la responsabilità è alleggerita o rigettata, il senso di colpa è attutito o scomparso, l’immagine positiva di sé è conservata e scattano vere e proprie autoassoluzioni. Il che spiega come il fenomeno di atti crudeli, illeciti, dannosi, possa essere  pervasivo ed endemico e come sia necessario volta per volta smascherarlo. Bandura esamina le strategie di disimpegno che si mettono in atto in quegli ambiti (la valenza del comportamento; gli effetti dell’azione commessa; l’assunzione di responsabilità o agency; la considerazione della vittima), in cui di norma dovrebbe funzionare l’autoregolazione morale, rendendo cogente l’esecuzione dei principi morali accettati. E la casistica è molto ampia. 

 

 

Si possono “nobilitare” azioni crudeli, deleterie, in funzione di scopi superiori e onorevoli o di una causa giusta: è la salvezza della nazione di Israele che spinge Amir ad assassinare il premier Rabin, che ne sarebbe invece il traditore e i terroristi islamici compiono martirio e massacri perché ordinati da Dio. Si può giustificare un’azione disumana in confronto a un’altra subita e ritenuta più disumana, operando una sorta di assoluzione comparativa. Si può perpetrare il male spostandone la responsabilità in capo ad altri, alle autorità gerarchicamente superiori o distanti che hanno dato gli ordini, evitando così l’autocondanna, così come queste autorità, nei gradi più elevati, fanno in modo di non essere informate sul decorso completo delle operazioni autorizzate e sugli attori coinvolti. Si possono, inoltre, minimizzare o distorcere gli effetti dannosi delle azioni commesse, soprattutto se questi sono lontani o non visibili. Peggio ancora, si può attribuire la colpa del maltrattamento alla vittima stessa o deumanizzare la vittima. Bandura passa, poi, accuratamente in rassegna i settori o i fenomeni sociali in cui più frequentemente oggi si riscontra il ricorso a strategie di disimpegno morale, con conseguenze più o meno gravi: l’industria dell’intrattenimento e delle armi; l’amministrazione della giustizia penale; il mondo della produzione di beni di consumo nocivi alla salute o delle speculazioni finanziarie; il terrorismo e la lotta al terrorismo; l’impatto ambientale delle attività economiche. Un’indagine scientifica dei meccanismi con cui la moralità viene sospesa o estromessa da condotte e atti deprecabili e nefasti è utile per spiegarli, non certo per giustificarli, precisa Bandura. Anzi, serve a rendere tutti più consapevoli, opinione pubblica e decision makers, soprattutto di fronte alle strategie autoassolutorie addotte per legittimare azioni e comportamenti, individuali, commerciali o politici, che, secondo lo psicologo americano, compromettono i tre rimedi fondamentali per evitare, a suo dire, il collasso del pianeta e della specie umana: rallentare il tasso di crescita della popolazione globale, sostituire nella produzione energetica i combustibili fossili con le energie alternative, frenare l’eccessivo consumo.

 

Rimedi su cui si registrano progressi, oscillazioni e ritardi, allo stesso tempo. Ma, quel che conforta delle teorie e delle ricerche di Albert Bandura sull’agency umana è la conferma della presenza di un autocontrollo morale, a prescindere dalle costrizioni giuridiche e sociali, che conduce gli esseri umani sempre a valutare gli effetti sugli altri delle proprie azioni e a giudicarsi in base agli effetti della propria condotta. Con buona pace di Nietzsche e di tutte le “genealogie” che hanno cercato di risalire ad una originaria e probabile valutazione extramorale dei nostri comportamenti, in termini di forza o vitalità, ci è impossibile vivere “al di là del bene e del male” e senza dare un valore morale alle nostre condotte. Tanto che per agire in modo immorale e irresponsabile e vivere senza conflitti interiori, dobbiamo annullare o quantomeno indebolire il potere regolativo delle autosanzioni morali, che normalmente inibiscono o censurano quel modo di agire. Insomma, possiamo essere irresponsabili e felici, però, invero, mai fino in fondo o totalmente o irreversibilmente. Possiamo ancora sperare, allora, nella capacità di autodeterminazione morale di questo strano animale chiamato uomo.    

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Il teatro, eterna replicanza dell’altro

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Se dovessimo identificare un diretto discendente di Antonin Artaud, quello sarebbe Enzo Moscato. Le anomalie e gli ossimori caratterizzano tutta la sua produzione artistica e drammaturgica. Pensiamo alla sua doppia natura di autore e attore che lo vede simultaneamente artefice della scrittura e del suo prendere corpo, voce e senso sulla scena; alla sua doppia e triplice funzione da un lato di autore attore sperimentale alla maniera di Carmelo Bene, dall’altro perfettamente inserito nella tradizione di capocomico di una compagnia che raccoglie alcune tra le forze migliori del teatro napoletano. 

 

Uscito come uno spiritillo dalle macerie del terremoto dell’80 che sconvolse Napoli e ne cambiò la geografia anche teatrale, Moscato fa parte, assieme a Annibale Ruccello, Antonio Neiwiller, Tonino Taiuti, di quella che fu definita la “nuova drammaturgia” post eduardiana che prendeva in carico la Tradizione con tutto il suo portato di tradurre e portare avanti ma anche e soprattutto tradire. Nato e cresciuto nei Quartieri Spagnoli, “gineceo narrante” dal quale ha attinto gran parte dell’immaginario che popola il suo universo teatrale, la filosofia post strutturalista è la lente d’ingrandimento attraverso la quale Moscato codifica e decodifica – in scena – l’universo mondo di Napoli/Babbele, puttana e santa, metafora di una condizione esistenziale che l’auto attore attraversa e da cui si fa attraversare in un perenne confronto con l’altro da sé: filosofico, linguistico, di genere e epoche diversi. Dopo oltre trent’anni di teatro agito su tutti i palchi d’Italia e d’Europa, Moscato continua a vivere e a lavorare a Napoli con non poche difficoltà produttive oltre che logistiche – in un'altra città o nazione, forse gli avrebbero dato un teatro pubblico, se non la direzione di una scuola. Vado a trovarlo al Teatro Nuovo, nel cuore dei Quartieri Spagnoli, luogo a lui caro che – assieme alla storica Sala Assoli, sua seconda casa, attualmente in stato di ristrutturazione – ha visto gran parte delle sue creazioni prendere vita. Piove anche oggi e l’acqua scorre come un fiumiciattolo mentre imbocco il vicolo che sale su dall’affollata via Toledo. In teatro brulicano i preparativi per l’imminente ripresa di Raccogliere e bruciare/Ingresso a Spentaluce, adattamento partenopeo di Spoon River presentato quest’estate al Napoli Teatro Festival. Più che una compagnia, quella di Moscato è una grande famiglia allargata, dove tutti si conoscono da sempre: alcuni sono cresciuti insieme, come i bambini che fanno gran parte degli spettacoli corali dell’auto attore. Mentre si provano i costumi e si allestiscono le scene, ci sediamo su due poltroncine rosse, in fondo alla sala, dove Enzo Moscato si concede per una lunga chiacchierata. 

 

Enzo Moscato, ph. Cesare Accetta.


La tua avventura sulle scene inizia oltre trent’anni fa. Come ti sei avvicinato al teatro? 

 

Ragionando intorno a questo mio incontro col teatro, mi vengono in mente immediatamente due cose. Una è abbastanza inconsapevole: da ragazzino non sapevo di avere un fratello che aveva fatto teatro. L’ho saputo dopo. Era il mio primo fratello, Nicola: dopo la guerra faceva teatro con una compagnia di adolescenti. Poi si sposò e trovò lavoro: piangeva quando veniva a vedere i miei spettacoli. Questa è la ragione non consapevole, inconscia, archetipica, che sta a monte. L’altra è questa: io non pensavo direttamente al teatro, pensavo alla scrittura. Leggevo e scrivevo. Una volta un amico romano mi disse: “Tu dovresti far teatro”. Allora, per soddisfare questa curiosità, presi una delle cose che avevo scritto per me e lo misi in scena: Carcioffolà [si tratta del primo debutto sulle scene di Enzo Moscato nel 1980 al Convento Occupato a Roma. Il testo è poi andato perduto, ndr]. Tutto quello che è accaduto nei quarant’anni successivi, è successo perché doveva accadere. Pensandoci ora, non avevo nessuna vocazione nell’essere attore, avevo una sola cosa: la scrittura, che era la mia singolarità. Anche rispetto ai miei fratelli, avevo questo dono. Mi piaceva scrivere, ho sempre scritto. Anche alle elementari ero molto amato dai maestri perché, pur essendo un bambino dei vicoli che parlava napoletano nella vita, ai temi mi mettevano otto, nove, dieci: ero bravo in questa lingua straniera che era l’italiano. Poi una parte della scrittura l’ho trasferita a teatro ed è diventata drammaturgia. Ecco perché forse la mia scrittura non è proprio drammaturgica: è scrittura in generale e scrittura per il teatro, se vuoi. Anche nei primi testi, è vero, c’è un’aderenza rispetto ai canoni del teatro; i primi sei anni, però sono molto singolari. Ieri rileggevo le bozze di Festa al celeste nubile santuario [di cui ci sarà una prossima edizione, ndr]. È più codificato, ha tutti gli elementi che si definiscono parti della drammaturgia. Allo stesso tempo, il contenuto, la visionarietà è tutta un’altra cosa dal teatro. Da dove viene questa storia così anomala, così strana? Queste tre sorelle, tutto sommato assassine, che ironicamente ricalcano un po’ Cechov, hanno un potenziale dentro dirompente. Ogni volta che parlo di teatro, non posso scinderlo dalla scrittura: il teatro è una parte del mio approccio con la scrittura. 

 

Tu vieni da una formazione filosofica: prima di prendere definitivamente la via del teatro facevi l’insegnante…

 

La scrittura è stato anche il mio essere insegnante. Scrivevo le mie lezioni prima di farle: avevo bisogno, dal punto di vista della docenza, di riscriverle a modo mio. I ragazzi sentivano quest’originalità nell’esposizione, sempre con forti agganci alla realtà. Ancora si ricordano di me, qualcuno di loro è diventato anche attore. Il teatro ha rappresentato il brodo di cultura in cui sono cresciuto. Però poi, per dirla con Sartre, è stata davvero un’opzione esistenziale. Ho chiuso con la scuola nell’88 quando mi diedero la cattedra: avevo già vinto premi di drammaturgia, facevo teatro da otto anni, avevo una compagnia. Erano anni in cui il teatro per così dire “nuovo” esplodeva in Italia. Avevo avuto la cattedra a Como. Finalmente dissi: la mia vita è il teatro, lasciamo perdere il resto. Però, da dopo la laurea ho fatto oltre dieci anni d’insegnamento da precario, collaboravo con l’università come ricercatore. C’era anche la mia amica Angela Putino, grande filosofa che ha portato a Napoli tutto il discorso lacaniano di Deleuze, insomma tutta la semiologia a parte Eco che abbiamo avuto in Italia. Ho iniziato a fare teatro nell’80, la mia famiglia non ne voleva sapere. Per loro l’attore potevano farlo tutti, io avevo studiato e in famiglia di attore ce ne era già stato uno. Dovevo insegnare. Io furbamente avevo il piede in una scarpa e l’altro in un’altra. Un po’ prendevo spezzoni di supplenza – mai interi – e facevo teatro. La mattina insegnavo e la sera stavo in scena. I miei alunni venivano a vedermi. All’epoca si faceva in teatro en travesti. Loro me l’hanno sempre detto: noi non siamo rimasti scioccati. Per noi tu non eri professore, per noi eri un accesso all’anima. Quando hanno visto Scannasurice, Trianòn, Festa al celestenubile santuario e poi i lavori con Annibale (Ruccello) per loro è stato naturale, come se lo sapessero prima di me che il mio posto era il teatro. Anche se poi mi sono capitate tante altre occasioni di formazione, seminari, incontri. Assieme alla drammaturgia metto sempre anche la filosofia. Oggi non lo farei, a maggior ragione. La vedo tragica. Mentre in anni lontani un insegnante che era diverso dalla serialità degli altri insegnanti era ben accetto, ora credo che sarebbe proprio messo al rogo, c’è un desiderio di omologazione che è terribile. A parte che da ciò che si sente e dalla cronaca, i ragazzi li hanno perduti per strada. Ricordo negli anni ’50 c’era un imperativo di scolarizzazione: nel mio palazzo le signorine e i maestri della scuola elementare del quartiere venivano a dire ai nostri genitori che dovevano mandarci a scuola. Anche i ragazzi che lavoravano dal fruttivendolo o al bar la mattina dovevano andare a scuola, altrimenti lo Stato gli stava addosso. C’era una differenza sostanziale che non voglio enfatizzare più di tanto sennò poi qualcuno pensa che sono nostalgico. (Sorride.) La verità è che oggi la scuola è sempre più un optional. 

 

Ph. Daniela Capalbo.


Quest’anno, all’interno della rassegna “Garofano Verde” curata da Rodolfo Di Giammarco, hai rimesso in scena una parte di Occhi gettati. Com’è stato riprendere un lavoro che è nato oltre trent’anni fa? 

 

Occhi gettati era una summa di tutto ciò che avevo fatto in sei anni, era una sorta di offertorio del mio corpo, della mia anima di tutto me al pubblico. Non mi riservavo nulla nel darmi completamente. La ripresa di quest’anno è stata molto più sulla difensiva: io al leggìo, la tremendità avviene attraverso le parole e basta. Nell’86 mi denudavo, ballavo, mi dannavo, cantavo, appicciav o’ ffuoc ‘ncopp a scena che non si poteva fare: sono stato cacciato da tutti i teatri. Negli anni, una persona sviluppa anche una sorta di auto difesa. Il teatro è una cosa terribile, ti mangia dall’esterno, oltre che dall’interno. All’epoca non lo sapevo ma credo che il teatro vada fortemente codificato. Il mio andare in scena era totalmente in oblazione, senza cautele. Oggi lo faccio ma con una serie di tutele. Ho capito che come dice Artaud il teatro è una grande terapia, è una grande medicina ma contemporaneamente anche un grande veleno, se non lo sai dosare. 

 

Se la tua formazione in campo filosofico/storico è molto definita, in teatro possiamo dire che non hai avuto maestri

 

Sono stato orfano. Orfani veleni nasce da questo. Fortunatamente, aggiungo, sono stato orfano. La mia drammaturgia è la sintesi di ciò che sono io, come differenza. È stata anche un’etichetta che mi/ci hanno attaccato addosso. Al che ci siamo agguerriti. Io e Annibale mettevamo in pratica una teoria della differenza che ci veniva da Deleuze ma anche da Carmelo Bene. Tutto questo oggi passa, ma in una maniera così patetica, senza sublimità. Non si può dire che Bolero o che Jennifer è solo un trans. C’è una storia di borghi di ghetti di esclusione di tutta l’umanità di cui lui/lei era portavoce. Senza essere nostalgici, è triste vedere come abbiano lasciato andare le grandezze del teatro italiano. Scontiamo molto provincialismo, (anche) in teatro. Lo spazio storico non c’è stato, così com’è avvenuto in Francia, Inghilterra, Germania. Per esempio, noi – al Sud – non abbiamo una drammaturga. Qualche tentativo c’è stato ma l’Italia è tornata indietro. Oso dire che la nostra drammaturgia era un’altra cosa. Oggi si fa letteratura. Io sono tradizionale e innovativo, sono sulla scia di una genetica del teatro e nello stesso tempo sono altro da quello. 

 

Parliamo del tuo rapporto con Leo de Berardinis? 

 

Leo e Perla erano dei miti, tutti noi li seguivamo. Due maledetti della scena. Maledetti davvero. C’era un malessere della vita che loro cercavano di elaborare in scena. Ho conosciuto Leo dopo che si erano lasciati. Erano grandissimi. Non c’era convenzione teatrale. Quello che era la conflittualità del loro amore la posavano direttamente in scena, con violenza. E poi c’era tutta la sapienza del mettere en scene. Ero al San Carluccio a fare proprio Occhi gettati. Leo era molto amico di Igina di Napoli [fondatrice del Teatro Nuovo e attuale direttrice di Casa del Contemporaneo, da sempre segue e produce i lavori di Moscato, figura cruciale del teatro d’avanguardia napoletano dagli anni ’80, ndr]. Lei lo portò a vedermi. Da lì tra di noi nacque un rapporto. Era l’86, mi pare. Ci scrivevamo, andai a trovarlo al teatro Testoni e al Teatro San Leonardo che lui diresse. Poi divenne direttore di Santarcangelo. Venne a trovarmi a Napoli. Allora non c’era più Perla. Stava con Valentina Capone. Mi chiamò e mi disse: “Senti, io devo fare Santarcangelo e tu sì Amleto!” Mi disse proprio così: “Tu sì Amleto. Te lo devi scrivere tu. Perché tu hai la malinconia di Amleto, hai questa sibillinità”. Mi aveva visto a teatro qualche volta, mi aveva sentito cantare. Diceva: “Quando canti c’è tutto il teatro, dentro”. Io presi questa consegna e così venne fuori Mal d’Amlè, il primo anno. Mi ha chiamato per quattro anni. Anche questo c’è da dire. Non è che tu fai uno spettacolo e poi muore: c’è bisogno di una progettualità. Così nel 1994 feci Mal d’Amlè, da Shakespeare. Poi Recidiva, da Copì. Lingua Carne Soffio, da Artaud. E Aquarium Ardent, da Rimbaud, il quarto anno. Tutti autori stranieri. Inizia così il mio rapporto con la “tradinvenzione” drammaturgica. Ci vogliono gli artisti che capiscono altri artisti. Il più giovane nei confronti del più grande deve avere umiltà. Magari Leo mi avesse detto più di quello che mi ha detto. Oggi non c’è questo. Oggi chiunque vuole arrivare. Io sono sempre stato nell’orfananza. Abbiamo perso Leo, Annibale, Antonio. Ci troviamo davanti a questo stato di cose odierno anche perché i grandi che potevano accompagnarci fino a oggi non ci sono più. Certo per fortuna ne sono rimasti, penso a Morganti, a Santagata, ma sono pochi. 

 

Una scena di Raccogliere e bruciare / Ingresso a Spentaluce.


Ritorniamo alla scrittura. È di recente uscita dall’editore Cronopio Ritornanti, una sceneggiatura filmica tratta da Spiritilli, uno dei tuoi primi testi teatrali. In questi giorni sei in scena con Raccogliere e bruciare, un adattamento partenopeo di Spoon River che avevi scritto tempo fa. Hai un vero e proprio universo di scrittura su cui torni e ritorni, di cui una parte sommersa. 

 

Prima di tutto le scritture sono diverse, così come le fonti e gli approdi. La mia scrittura è composita: riflessioni sulla teoria del teatro, racconti. Quella preponderante è stata la scrittura del teatro. Molte cose sono andate in scena, quasi la totalità. Altre sono inespresse. Poi c’è un particolare rapporto con le cose già andate in scena: o me lo chiedono o sono io che sento l’esigenza di ritornarci. Il ritornare è importante. Se devo rimettere in scena oggi un testo del passato – ovviamente per me l’aspetto del presente, passato, futuro non ha senso in teatro, è una convenzione – lo puoi fare anche tale e quale. Rendiamoci conto che il tale e quale, in teatro, non esiste. C’è una grande illusione che la gente coltiva e nella quale vuole stare. Anche quando fai una replica, hai una settimana di tempo. Poi la rifai dopo un mese. La replica non è la stessa. La replica cambia per spazio, per pulviscolo atmosferico, per la testa che hai. Il teatro è eterna replicanza: non del medesimo ma dell’altro. Anche se non si è consapevoli di questo, è così. Il teatro è sempre altro, anche quando sei nella replicanza. Se poi questa cosa la vai a teorizzare diventa…come lo stato dello specchio di Lacan. Il teatro secondo me avrebbe bisogno di tanto in tanto che qualcuno lo ri-teorizzasse. Prima di tutto in pratica. Poi dalla pratica nasce una nuova teoria. Penso a Leo. Gli attori li faceva innanzi tutto divertire. C’erano delle invenzioni sceniche continue, anche rispetto a un copione dato. E da qui si diceva: cosa abbiamo fatto? Siamo andati sul classico a riscriverlo. Io parlo di “tradinvenzione”. Hai a che fare con uno statuto che è tradizionale, che appartiene al passato, alla classicità, ma non c’è niente da fare: lo devi riscrivere, continuamente. Allora, o lo riscrivi in scena ed è un lavoro sugli attori, o lo passi addirittura in scrittura e poi sugli attori. Il classico non è una cosa morta. È una provocazione continua a essere ridetto, riscritto. E oggi chi lo fa questo discorso? Il teatro è una pizzeria. Vieni tu vieni, tu vieni tu: nella più totale ignavia di quello che stanno facendo. Penso a Il balcone di Genet. Parla della rivoluzione. Quello che deve accadere fuori, se non accade dentro, non può esistere. Ci dev’essere un rapporto molto stretto tra quello che fai e quello che accade dentro e fuori di te. Questo è essere rivoluzionari. Quando c’è un combaciamento. Non sempre questo succede. Se non c’è una consapevolezza della necessità sociale di quello che stai facendo, sei destinato a morire. Se mi chiedi adesso quali sono le mie opinioni sul teatro, ti dico che il teatro, se non è già morto, ha ancora pochi anni da respirare. Vedo come vanno le cose. Non sono mai stato amante dei narcisismi teatrali. Non si può parlare di sé senza parlare dell’altro da sé. Non può essere. Le même et l’autre. Non l’ho inventato io. 

 

Cosa stai leggendo in questo momento?

 

Leggo in continuazione, non sto solo su una cosa. Passo dal saggio storico al romanzo. A volte trovo l’esigenza di ritornare anche nella lettura. Recentemente ho ripreso in mano Il vangelo secondo Gesù Cristo di Saramago: trovo che ci sarebbe molto da dire sul sacro oggi. Per l’ennesima volta ho sentito l’esigenza di riprendere qualche pagina del Diario del curato di campagna di Bernanos. Uno scrittore cattolico e di sinistra, eretico. Gli scrittori, quelli buoni, ti correggono, t’insegnano la sottrazione, la composizione. Se hai un figlio e lo devi crescere, ti preoccupi che si prenda del latte buono, non latte avvelenato. 

 

Progetti prossimi in cantiere?

 

Ci sarà una riedizione di Festa al celeste nubile santuario diretta me. Una delle due protagoniste sarà Cristina Donadio. Poi ho scritto un nuovo spettacolo di cui preferisco ancora non parlare: ha molti punti di contatto con Il mare non si mangia, la terza raccolta di racconti che dovrebbe uscire a breve. Questi due lavori sono connessi tra loro dalla guerra. “O polemos”, diceva Eraclito. Nella guerra c’è tutto. 

 

Il compleanno.


È passata oltre un’ora. È tempo di provare. Fuori ha smesso di piovere. Nel vicolo scende la sera e penso che non vedo l’ora di tornare a teatro. Leo de Berardinis di Moscato ha scritto, nell’introduzione alla Quadrilogia di Santarcangelo (Ubulibri, 1999):

“Ma prima del silenzio c’è la tragedia del linguaggio, la tragedia di Shakespeare, la nostra tragedia, la vocazione scismatica dell’Occidente. E pensai a te come corpo in cui s’incarnano quelle tensioni prima del silenzio, quelle tensioni che sono qui e ora, ma che ci fanno vagamente desiderare il prima e l’oltre […]. Il desiderio del tuo fragile corpo di attore è il desiderio di una canzone nuova, di un canto nuovo, spremuto dalle macerie, dal dolore e dal sorriso; un desiderio che è oltre a ciò che avviene sulla scena, è intorno al tuo corpo, e in quei momenti in cui fai in modo che anche gli altri, gli spettatori, si pongano in ascolto / in prossimità del silenzio.” 

 

Enzo Moscato sarà a Bologna nella stagione della Soffitta e di Ert, il 2 maggio al Laboratorio delle arti con Compleanno e il 4 maggio all’Arena del Sole con Patria puttana.

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Conversazione con Enzo Moscato
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“Tonya”: una passione violenta

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La prima volta che il “Triple Axel”, un triplo salto del pattinaggio, è stato eseguito in una competizione americana, risale al 1991, quando una donna di ventun anni, nata a Portland, si è esibita ai Campionati nazionali statunitensi di pattinaggio sul ghiaccio, a Minneapolis. Tonya Harding ha conquistato il podio, sorridendo in un costume verde acqua fluorescente, con applicazioni di paillettes. Nelle immagini originali dell’evento, quel body somiglia a un abito cucito in casa (secondo un sistema di esperienze per cui l’abito fatto a mano non è espressione di haute couture, ma di  povertà di mezzi); sa di sintetico: nel colore, nel tessuto, nella confezione. Eppure comunica anche, e in un certo senso commuovendoci, una tensione sforzata per un effetto massimo di apparenza telegenica. Quel costume, infatti, ci restituisce la tinta di un’epoca in cui si era ormai diffusa, arrivando dall’estetica televisiva anni Ottanta, la moda di usare la parola “look” per definire il progetto di espressione appariscente del sé legato al modo in cui si indossava, si truccava, insomma si rendeva più vistoso possibile il corpo. 

 

Tonya, in quegli scatti del suo successo, mostra un aspetto fisico che certo parla di una macchina di muscoli all’opera, ma esprime anche una cultura ingenua, vale a dire disabituata alla posa elegante come codice di distinzione tanto sociale quanto spettacolare. Dalle foto scattate nel 1991 quella ragazzona che ha appena raggiunto un record mondiale in una disciplina abituata a usare la bellezza come dispositivo di performance, saluta il pubblico come se fosse a un ballo della scuola, sotto al ciuffo di capelli laccati, l’ombretto celeste steso in maniera pesante sulle palpebre; senza avere niente di quello che convenzionalmente si intende per “grazia”. Sembra incredibile, meraviglioso, a guardarla, che quella figura così poco aerea, anzi così tenuta a terra da una vita evidentemente pesante, abbia eseguito, per la prima volta, un triplo volo.

 

 

Non è soltanto una questione di resistenza fisica. Per fare un triplo Axel bisogna essere particolarmente forti, ma soprattutto “coraggiosi”, perché l’Axel è l’unico numero che parte slanciando il corpo in avanti; per eseguirlo devi fare mezzo giro in più e hai più paura, perché vedi quello che fai. L’Axel è un salto che funziona per gradi di difficoltà progressiva: la condizione per farlo è perdere la paura di saltare.

 

Tonya (2017), del regista australiano Craig Gillespie – Il vampiro della porta accanto (2011), L’ultima tempesta (2016) – ispirato alla storia dell’omonima campionessa, interpretata da Margot Robbie, apparentemente è l’adattamento cinematografico di una biografia (un biopic); in realtà, per come è realizzato il film (scritto da Steven Rogers), gli elementi che più ci impressionano non riguardano la ricostruzione di episodi della vita di Tonya, né la violenza che esplode in un singolo ed eccezionale snodo (il ferimento di una rivale nel 1994, ad opera di un balordo assoldato dal marito). La violenza interessante è quella che abita l’intera vita della protagonista: l’elemento per lei più famigliare, letteralmente e simbolicamente. Come indica il titolo originale (I, Tonya), il film intende metterci, finalmente, davanti alla verità di Tonya. Che non è più soltanto colei che vola sotto i riflettori o che ha fatto aggredire la sua avversaria, ma è un corpo che entra in scena, quando ancora il fondo è nero, sporcando il silenzio con un colpo di tosse, per prendere evidenza dentro una comune cucina, da cui la donna, come se si trattasse di un’intervista autentica filmata nel 2014, comincia a raccontarci la propria storia.

 

 

 

Da qui comincia a svolgersi il filo che andrà avanti per tutto il film, intrecciando i due livelli della testimonianza (di Tonya, della madre, del marito e degli altri personaggi principali) intorno ai fatti  divulgati; e quello della storia fatta rivivere in presa diretta:

 

Tonya Harding, 1991. Margot Robbie in Tonya, 2017.

 

Per come è costruito (vale a dire per il modo in cui si riproducono falsi documenti storici sotto forma simulata di interviste o immagini di repertorio, secondo gli usi del mockumentary),  per i dettagli della storia su cui decide di portare lo sguardo, Tonya ci chiede di restituire profondità narrativa a un evento di cui il sapere comune aveva conservato soltanto le immagini e i passaggi più impressionanti e vistosi. Il film ci fa attraversare un episodio di cronaca nera per mostrare quanto la violenza sia stata non l’eccezione ma la norma, nell’ambiente in cui è cresciuta questa campionessa di pattinaggio così anomala, così antipatetica, eppure così in sintonia con la musica anni Ottanta (una delle cose migliori di quegli anni) che fa da colonna sonora al film.

 

Tutto, in lei, è strano, non conforme all’immagine dell’America «sana» che i selezionatori di una gara internazionale di solito vogliono dare. Non solo, dunque, il crimine di cui è stata complice, ma il modo scomposto di vestirsi, di fumare, di trattare male le persone, di protestare contro i punteggi, di far male le figure obbligatorie. Tonya è in protesta perpetua e prende le botte da tutti: non solo dalle rivali con cui, una volta smesso il pattinaggio, combatterà la boxe, ma dalla madre, dal marito, e in un certo senso pure da chi, durante le gare, non ammette di farla vincere perché non corrisponde ai canoni di “bella presenza” o non indossa un costume da cinquemila dollari. Tutto è scorretto nella sua vita, compreso il triplo Axel, un salto “fuori dalla norma” che di solito nemmeno si fa. 

 

 

Non esiste talento laddove non esista anche qualcosa o qualcuno che, fosse pure per contrasto e opposizione, non ti “incoraggi”. Ma se tutti i talenti felici si somigliano, di solito sono i talenti infelici che conoscono una fortuna narrativa, perché è allora che il talento diventa, se non c’è cura, risposta disperata e creativa all’assenza, oppure ansia da prestazione per scongiurare un abbandono, una solitudine, una fame di attenzione. Lì nasce e prospera il racconto. Quasi tutte le storie di sport che il cinema ha rappresentato mettono in scena non soltanto una biografia individuale, ma la storia potente di una relazione: con un genitore, un allenatore, un magnate ossessionato, un parente, un amico, insomma qualcuno, o qualcuna (più di tutte una madre), che ti dia, anche evocandolo in assenza, il cuore, il “coraggio”, per l’appunto, di riuscire a oltrepassare i tuoi limiti, per gridare, prima di tutto a lui, o a lei, “ce l’ho fatta!”.

 

Hilary Swank (Maggie) e Clint Eastwood (Frankie), in Million Dollar Baby (Eastwood, 2004).


In questa tensione, di solito, si gioca il nucleo forte del film: nella relazione. La maggior parte delle storie più riuscite di vicende sportive messe in scena dal cinema hanno reso memorabili grandi interpreti di questo percorso di motivazione (solo un esempio: «Adriana!» il grido emblematico e iconico di Rocky); oppure, viceversa, sono film diventati indimenticabili grazie a figure che agiscono, più che da interpreti di una storia complessiva, come grandi solisti. Come accade anche nel caso di Tonya, che in realtà è il film di due grandi numeri primi della solitudine.

 

Da una parte una madre, LaVona (una strepitosa Allison Janney, vincitrice di un meritato Oscar come attrice non protagonista), che cerca riscatto dalla miseria, lavorando disperatamente per cucire un destino di successo addosso alla propria figlia, con certe forme di dedizione assoluta che potrebbero ricordare, nelle differenze, la determinazione monomaniacale della madre di Bellissima (1951) - se non fosse che nel film di Visconti la protagonista (Anna Magnani) compie attraverso la storia una parabola tragica di riconquista del materno.

 

 

Dall’altra parte, come contraltare drammaturgico e simbolico, una figlia, addestrata fin da piccola alla rabbia per diventare una bimba prodigiosa del pattinaggio artistico: «Lei è il tuo nemico, non dovete essere amiche!», le grida davanti alle altre ragazzine.

 

Quando ho visto Tonya per la prima volta ho pensato che fosse un lavoro interessante, ispirato a una vicenda davvero significativa, ma che fosse, al tempo stesso, un’opera a tratti faticosa. Un film sgangherato (talvolta per scelta, in altri casi senza intenzione), che tiene assieme almeno tre storie di violenza. Riguardandolo, però, ho apprezzato maggiormente questo effetto di scucitura, perché non è soltanto un risultato d’insieme, ma un espediente all’opera per mostrarci la compresenza faticosa, nel personaggio di Tonya, di tre linee narrative che squilibrano di continuo il suo destino, quasi fosse un abito dai colori sbagliati e dalle proporzioni troppo corte, che tirano da tutte le parti: «I want to look pretty. Tulle’s classy, no?».

 

In primo luogo, infatti, c’è la storia del rapporto ossessivo con il proprio talento, l’unica cosa che Tonya possiede e può possedere. La macchina da presa, con i carrelli, i primi piani sui sorrisi sforzati alla fine della performance, non la molla mai nel racconto di questa tensione. Tonya ci mostra e ci fa vivere la rabbia di affermazione di chi non ha niente da perdere perché nessuno, a parte la madre, aveva previsto che lei potesse arrivare fin lì. Il pattinaggio, le dice il marito, funziona come un superpotere, alimentato dalle ansie da prestazione e di riuscita continuamente indotte dai messaggi anaffettivi e dittatoriali della madre – per certi aspetti la vera protagonista del racconto. «You fuck dumb, you don’t marry dumb!» protesta LaVona, alla festa di nozze della figlia, rimproverandole di aver sposato giusto il primo che le aveva detto che era carina.

 

Allison Janney nei panni di LaVona Golden.


In secondo luogo, Tonya è una black comedy, la storia di un crimine legato a una competizione: l’aggressione all’avversaria Nancy Kerrigan, nel 1994, alla vigilia dei Giochi Olimpici invernali di Lillehammer. Ma soprattutto, e in terzo luogo, Tonyaè un film dagli esiti disordinatamente riusciti perché usa una parabola di affermazione legata allo sport – e in particolare il topos della “vecchia gloria decaduta” – per raccontare una storia “sporca”, non convenzionale, degli Stati Uniti. Come ne Lo spaccone (Robert Rossen, 1961), o in Toro scatenato (Martin Scorsese, 1980), per fare solo un paio di esempi tratti dalla cinematografia storica; o come nei più recenti The Wrestler (Darren Aronofsky, 2008), e Foxcatcher- Una storia americana (Bennett Miller, 2014), uno dei film più belli di questi ultimi anni.  

 

Channing Tatum (Mark Schultz), Mark Ruffalo (Dave), Steve Carell (John du Pont), in Foxcatcher - Una storia americana.


«Tonya was totally America», dice di lei la sua allenatrice, la prima volta che appare intervistata. Per questo Tonya è tenuta ai margini dal sistema delle gare, che non vuole che sia lei a rappresentare gli Stati Uniti. Con i suoi cappotti di coniglio spellato nel cortile, con il suo white trash, con la sua assoluta mancanza di buone maniere, Tonya è il ritratto vivente, ma non patetico, dell’America di provincia, della vita in periferia, delle violenze domestiche che si consumano nelle case dove i nostri sguardi entrano solo quando accade un fatto di cronaca nera; dell’impasto di sogno e rabbia che fermenta sotto la maschera sforzata del sorriso, dentro un costume di scena troppo stretto, troppo colorato per farti davvero prendere il volo. Anche se sei stata la prima a eseguire un triplo Axel.

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Piero Sraffa. Ritratto del grande economista attraverso le lettere editoriali

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Il libro. Einaudi ha pubblicato 97 lettere editoriali di Piero Sraffa: la gran parte spedite a Giulio Einaudi, le restanti a Raffaele Mattioli e altri intellettuali italiani. Le lettere vanno dal 1947 al 1975 e consentono di fare qualche passo in avanti per affrontare quello che Luigi Pasinetti ha chiamato l’“enigma Sraffa”.

 

Chi era Piero Sraffa alla fine degli anni Quaranta del Novecento. Come ricorda Tommaso Munari nell’introduzione, quando inizia la corrispondenza qui raccolta Sraffa aveva una fama leggendaria. Il mito era il frutto dell’intrecciarsi di esperienze personali e scientifiche uniche. Dell’opera di Sraffa sappiamo sempre di più grazie ai lavori di Nerio Naldi, Cristina Marcuzzo, Alessandro Roncaglia e altri, nonché alla disponibilità dei suoi archivi custoditi al Trinity  College di Cambridge.

Sraffa, nato nel 1898, si era laureato nel 1920 con Luigi Einaudi, con una tesi su “L’inflazione in Italia durante e dopo la guerra”. Nel 1919 aveva conosciuto Antonio Gramsci, che sarebbe diventato il suo più grande amico. Dal 1921 Sraffa aveva pubblicato articoli su “Ordine Nuovo”, la rivista di Gramsci, e su “Rivoluzione liberale”, la rivista di Piero Gobetti. Attraverso Gaetano Salvemini aveva conosciuto John Maynard Keynes, che gli caldeggiò due articoli sulla situazione delle banche italiane. Nel giugno del 1922 Sraffa pubblicò sull’“Economic Journal” “The Bank Crisis in Italy”, denunciando con asprezza le responsabilità del Governo nella crisi della Banca Italiana di Sconto. Nel dicembre dello stesso anno uscì “L’attuale situazione delle banche italiane” sul Manchester Journal. L’articolo era più innocente del precedente ma il testo in italiano ne favorì la segnalazione a Mussolini, da pochi mesi Capo del Governo. Mussolini inviò un telegramma al padre di Piero, Angelo Sraffa, rettore della Bocconi, intimandogli di far ritrattare l’articolo, giudicato “un atto di puro e semplice disfattismo nei confronti del settore bancario”. Il padre si rifiutò di esercitare pressioni sul figlio, rispondendo che Piero si era limitato a riassumere fatti. Seguito dalla polizia politica, Sraffa era diventato professore di Economia Politica in Italia. Nel 1925 pubblicò, negli Annali di economia, l’articolo “Sulle relazioni tra costo e quantità prodotta”. L’articolo fu apprezzato da Francis Ysidro Edgeworth, poliglotta condirettore con Keynes dell’“Economic Journal”; Sraffa fu invitato a produrre una versione inglese del paper, che fu pubblicato nel 1926 (“The Laws of Returns under Competitive Conditions”). I due contributi furono l’inizio della letteratura sulle forme di mercato diverse dalla concorrenza perfetta. Nel 1927 il clima di intimidazione politica in Italia contribuì a far accettare a Sraffa l’offerta di Keynes di diventare lecturer all’Università di Cambridge. 

La ricerca di Sraffa attaccava le fondamenta dell’impostazione di Alfred Marshall (1842-1924), l’economista il cui testo Principi di Economia, del 1890, era ancora il manuale di riferimento a Cambridge e in tutto il Regno Unito. La personalità di Sraffa si impose subito, così come il suo programma di ricerca, volto alla critica del paradigma di Marshall. È come se un giovane studioso straniero piombasse oggi all’Università di Bologna, invitato da colleghi italiani, con un programma di ricerca destinato a demolire i lavori di Umberto Eco. 

 

Sraffa manifestò una scarsa attitudine all’insegnamento. Dopo imbarazzanti rinvii delle lezioni, tenne corsi solo dal 1928 al 1931 (con l’eccezione di poche altre lezioni durante la guerra, nel 1941-1942). Resosi conto delle idiosincrasie dell’amico, in particolare del terrore di fronteggiare gli studenti, Keynes lo nominò bibliotecario della Marshall Library di Cambridge. Il nuovo lavoro permise a Sraffa di sviluppare la passione, condivisa con Keynes, di bibliofilo. Keynes ritrovò un testo del 1740, An Abstract of a Treatise of Human Nature, considerato una sintesi anonima del testo di David Hume. Furono Keynes e Sraffa ad attribuire allo stesso Hume il volume, ripubblicandolo nel 1938, con una loro introduzione.

Sin dai primi anni Trenta Sraffa si dedicò all’edizione critica delle opere di David Ricardo, commissionatagli dalla Royal Economic Society su iniziativa dell’impagabile Keynes. Il primo volume, con un’introduzione destinata ad avere una forte influenza sulle interpretazioni successive del pensiero di Ricardo, sarebbe apparso nel 1951. Luigi Einaudi, un economista dalle idee diametralmente opposte a quelle di Sraffa, avrebbe salutato l’opera con una recensione intitolata “Dalla leggenda al monumento”. La consacrazione di Sraffa sarebbe avvenuta nel 1961, con l’attribuzione della medaglia Söderström della Royal Swedish Academy of Sciences, un premio che anticipava il premio Nobel per l’economia, introdotto solo nel 1969. La medaglia gli fu attribuita per l’edizione di Ricardo. 

Alla fine degli anni Quaranta del Novecento Sraffa era il più importante economista italiano al mondo. Ma era anche uno studioso caratterizzato da un forte impegno politico e dalle discussioni, spesso ambigue e irrisolte, con personalità tanto diverse come Antonio Gramsci, Ludwig Wittengstein, John Maynard Keynes, Arthur Cecil Pigou, Richard Kahn, Joan Robinson, Nicholas Kaldor, Michael Kalecki.

 

Il mistero Sraffa. In tutta la sua vita Sraffa ha pubblicato 250 pagine di articoli, più le 120 pagine del libro Produzione di merci a mezzo di merci, uscito nel 1960. Amartya Sen ha scritto, con ironia ma verosimiglianza, che Sraffa considerava immorale scrivere più di una pagina al mese. Luigi Einaudi ha parlato della “misurata rarità” delle scritture di Sraffa. Nel 1927, in una lettera alla moglie, Lydia Lopokova, Keynes scriveva “Sabato ho avuto una lunga discussione con Sraffa sul suo lavoro. È molto interessante e originale ma mi chiedo se i suoi studenti lo capiranno a lezione”. Nel 1932 Richard Kahn gli scrisse “Piero, tu sei un assoluto messaggio cifrato per il mondo esterno”. Ludwig Wittengestein, che ha avuto un’amicizia prolungata con Sraffa, gli ha attribuito un ruolo decisivo nel passaggio dal Tractatus logicus philosophicus (1921) alle Ricerche filosofiche (1953), aggiungendo che dopo le conversazioni con lui si sentiva come “un albero al quale fossero stati tagliati tutti i rami”. Ma quando Amartya Sen gli chiese quali fossero i contenuti delle conversazioni con Wittengestein, Sraffa rispose che si trattava di cose “piuttosto ovvie” (per la cronaca: Sraffa nel 1946 decise di non avere più discussioni con Wittengstein; la corrispondenza tra i due è spesso di una durezza disturbante). Cristina Marcuzzo ha parlato della figura elusiva di Sraffa; ha sottolineato come non si sia mai identificato con un’istituzione (non fu mai iscritto a un partito politico), non abbia mai sopportato l’idea di concorrere per riconoscimenti accademici (fu nominato reader solo nel 1964, due anni prima del pensionamento); ha sostenuto che l’isolamento di Sraffa potrebbe essere derivato, oltre che dagli impulsi personali, dalla congerie dei suoi interessi e dallo smodato amore per il collezionismo librario: Sraffa ha lasciato al Trinity College di Cambridge una biblioteca di quasi 8.000 volumi. 

Altri hanno sostenuto che l’assoluta riservatezza di Sraffa, la sua prudenza nell’esprimere posizioni in pubblico siano da attribuire all’essere stato seguito da anni dall’OVRA e dalla polizia inglese. Ancora nel 1951 una segnalazione della polizia italiana parla di Sraffa come “sospettato di essere un delegato clandestino del P.C.I.”.     

Le lettere editoriali aiutano a ricostruire alcuni tasselli del puzzle Sraffa.

 

Di che cosa parlano le lettere. Le lettere riguardano quattro progetti: la traduzione in inglese delle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci; la collaborazione di Sraffa con la casa editrice Einaudi; le vicende della pubblicazione di Produzione di merci a mezzo di merci; l’ipotesi di traduzione in italiano degli 11 volumi delle opere di Ricardo.

 

 

I tentativi di far tradurre Gramsci in inglese. Anche dopo il trasferimento in Inghilterra, Sraffa non dimenticò mai Antonio Gramsci. Sul rapporto tra i due, come scrive Munari, conosciamo ormai tutto. Molte lettere scritte a Giulio Einaudi raccontano dei tentativi di trovare un editore inglese disposto a pubblicare le Lettere dal carcere. Il libro aveva vinto nel 1947 il premio Viareggio, sconfiggendo il favorito Alberto Moravia, in concorso con La romana

L’impresa della traduzione in inglese si risolse in un fallimento (le lettere di Gramsci sarebbero apparse in inglese solo nel 1974, su una rivista). Sraffa contattò sei editori, ottenendo rifiuti. Con il passare degli anni Sraffa si rese conto che nel Regno Unito c’era uno scarso interesse per la figura di Gramsci. Questa consapevolezza lo rattristò. Ci sono scatti di rabbia che aiutano a confermare la sua visione del mondo. A un certo punto, quando la traduzione delle Lettere dal carcere sembrava cosa fatta, Giulio Einaudi propose Benedetto Croce come autore della prefazione per il lettore inglese. Croce, infatti, aveva apprezzato le Lettere dal carcere in una recensione del luglio del 1947. Ma Sraffa tuonò contro l’ipotesi, tagliando corto che sarebbe stato come chiedere una prefazione di Gramsci a Churchill. 

 

I consigli a Giulio Einaudi e le stroncature. La visione del mondo di Sraffa emerge guardando ai titoli consigliati a Giulio Einaudi per la traduzione in italiano. Ecco una lista incompleta: Engels, Anti-During; Rosa Luxemburg, Accumulazione del Capitale; Hilferding, Capitale finanziario; Hobson, Imperialism; Sidney e Beatrice Webb, Soviet Communism: A New Civilitization?; Christopher Hill, Lenin and the Russian Revolution; Francis Klingender, Art and the Industrial Revolution; Alexander Baykov, Lo sviluppo del sistema economico sovietico; R. Schlesinger Soviet Ideology; Rothstein, Man and Plan in Soviet Economy.

Giulio Einaudi seguì molti dei consigli di Sraffa, non tutti. Einaudi aveva una visione diversa, condivisa anche da Antonio Giolitti, allora collaboratore della casa editrice e interlocutore dello stesso Sraffa nell’ideazione della collana “Classici dell’economia”. L’Italia era uscita dalla dittatura; bisognava formare una nuova classe dirigente, un nuovo pubblico, esercitando un’egemonia culturale, in concorrenza con altri circoli intellettuali italiani. Per raggiungere questi obiettivi Giulio Einaudi e Giolitti pensavano che accanto ai testi marxisti bisognasse pubblicare lavori di diverso orientamento. Sraffa era invece inflessibile. Nel Regno Unito liberali e conservatori propinavano libri e forme di divulgazione dove non c’era spazio per Marx e il marxismo. Bisognava quindi rispondere con scelte altrettanto unilaterali.  

Ecco allora le stroncature di Sraffa: Werner Stark è un “imbecille oltre che un convertito al cattolicesimo”; Ludvig von Mises è un “reazionario antidiluviano”; Friedrich von Hayek è un “ultrareazionario”; un libro di Georges Bataille è di “scarsissimo valore”; Giovanni Demaria è fra gli economisti italiani “uno dei meno reazionari – non che sia un grande elogio”. 

La polemica più ricorrente è quella con Hayek (che avrebbe ricevuto il premio Nobel nel 1974). Ciò avveniva per due motivi. Hayek era l’autore di Road to Serfdom (1944), un grande successo editoriale che denunciava il pericolo del dirigismo economico, non solo in Russia ma anche nei paesi di economia liberale: possiamo immaginare che cosa Sraffa pensasse del libro. Ma soprattutto non si era mai sopita una polemica tra Hayek e Sraffa avvenuta nel 1931-1932, centrata sulla natura del tasso di interesse e sulle caratteristiche di un’economia monetaria (temi sui quali la discussione economica è sempre aperta). Hayek aveva criticato il Trattato della moneta di Keynes. Sraffa era intervenuto dicendo che la critica era sbagliata. Hayek aveva replicato che Sraffa non aveva capito né la sua critica né Keynes. Sraffa aveva controreplicato. Keynes aveva chiuso la polemica dicendo a Hayek che l’interpretazione di Sraffa del suo pensiero era giusta e che lui non aveva nulla da aggiungere. Va detto, di passaggio, che Hayek ha scatenato giudizi estremi da parte di altri studiosi. Oskar  Morgenstern, uno dei padri della teoria dei giochi, ha annotato nel suo diario del 2 novembre 1935 “Wald is really clever. I regard these works as very significant. They shed new light on the application of mathematics in economics…  — Hayek, by the way, is a dullard”.

 

Il rapporto con Giulio Einaudi è corretto ma pieno di rimproveri, da vecchio zio che si rivolge a un giovane nipote un po’ scapestrato. Sraffa rimprovera Einaudi di aver sbagliato indirizzo in una lettera spedita a Cambridge, non aggiungendo United Kingdom e causando così l’arrivo della lettera a Cambridge nel Massachussets. In un’altra occasione Einaudi ha scritto sulla busta solo Trinity College, e Sraffa lo rimbrotta perché la lettera è arrivata al Trinity College di Dublino. Arriva poi a rimproverarlo per il cattivo inglese (9 dicembre del 1949); e poi a rinfacciagli ritardi nelle risposte alle lettere. Einaudi confonde due edizioni di un libro e Sraffa gli dice “Un’altra volta spiegati meglio” (27 novembre 1972). Anche Gaia Servadio, che ha scritto il più bel ritratto intimo di Sraffa, ha ricordato gli improperi che le arrivarono dopo avergli scritto una lettera al Trinity College, dimenticando, sulla busta, una effe del cognome.

Giulio Einaudi non reagì mai alle invettive, considerando Sraffa un punto di riferimento per la casa editrice e trattandolo con il rispetto dovuto a un Maestro di 14 anni più anziano. Le lettere confermano l’idiosincrasia di Sraffa ad assumere qualsiasi incarico: rifiutò infatti la proposta di dirigere la collana dei “Classici dell’economia”. A onor del vero, con il passare degli anni i consigli di traduzione di Sraffa diventarono più diversificati; tra i filosofi suggerì Wittengstein; tra gli economisti arrivarono Hicks, Klein, Kaldor e altri. 

Pensare i libri. Pubblicare i libri migliori. Pubblicarli senza errori, con una veste tipografica perfetta. Curare i minimi particolari, le note a piè di pagina, le appendici, gli spazi tra i paragrafi, gli spazi tra le lettere delle parole che compongono i titoli. Su questo terreno tra Giulio Einaudi e Sraffa c’era unità d’intenti. Ma il secondo sfiorava la malattia. Un errore di stampa o la dimenticanza di un nome in un indice analitico sono per Sraffa crimini ingiustificabili.

La passione per i libri è assoluta e attraversa tutte le lettere. Nell’aprile del 1948 Sraffa incontra a Roma Luigi Einaudi che gli chiede l’acquisto di alcuni libri inglesi. Nel maggio del 1948 Einaudi diventa Presidente della Repubblica. A fine mese Sraffa chiede a Giulio a quale indirizzo inviare i libri comprati per il padre, chiedendogli se nella nuova situazione “abbia ancora voglia e tempo per queste cose”. Sraffa ha paura che i libri finiscano “nella caserma dei Corazzieri”. Con tenerezza Giulio Einaudi risponde che i libri possono essere mandati all’indirizzo del Quirinale e che “non ci siano né segreterie né corazzieri che tengano”. Ed è tragicomico osservare che chi comprava libri inglesi per il Presidente della Repubblica era contemporaneamente sotto osservazione da parte della polizia.

 

La nascita di Produzione di merci a mezzo di merci. Come ricordato, l’unico libro di Sraffa è Produzione di merci a mezzo di merci, pubblicato contemporaneamente da Cambridge University Press e da Einaudi nel 1960. Nella prefazione Sraffa scrisse che la stesura delle tesi fondamentali risaliva alla fine degli anni Venti, ringraziando, tra gli altri, Frank Ramsey, un geniale matematico scomparso nel 1930. La maturazione più che trentennale del libro è stata poi confermata da diversi studiosi. 

Una lettera dell’11 febbraio 1955 a Raffaele Mattioli ribadisce l’incredibile gestazione del libro. Sraffa scrive di essere impegnato nel ruolo dell’auto-esecutore letterario, portandosi dietro circa 20 chili di note scritte in circa trenta anni e abbandonate del tutto quando si era messo a lavorare sul serio a Ricardo. Il 7 dicembre del 1955 racconta a Mattioli che gli è venuta in mente un’idea che cercava da trent’anni. Il 1° agosto del 1957 scrive di aver pianto – e non gli accadeva dal funerale della madre – perché un economista inglese ha pubblicato un articolo “che anticipa una parte importante del mio lavoro”. Le lettere a Mattioli sono più affettuose di quelle scritte a Einaudi. Sraffa era molto legato al banchiere bibliofilo che nel 1937, dopo la morte di Gramsci, aveva salvato i Quaderni dal carcere nascondendoli nella cassaforte della Banca Commerciale Italiana. 

 

Per la stampa di Produzione di merci a mezzo di merci, Sraffa ottiene da Giulio Einaudi il diritto di poter interloquire direttamente con la tipografia della casa editrice. Ordina che la composizione sia a monotype (o comunque a caratteri mobili) e non a lynotype (13 gennaio 1960). Scrive al tipografo soffermandosi sulla visibilità dei numeri dei paragrafi, delle testate di pagina, dei titoli dei capitoli, delle virgolette. È insoddisfatto del risultato finale, ma si rassegna, protestando anche contro la fascetta del libro. Segue il lancio del volume, dominato dalla maniacalità. Sraffa ordina a Einaudi di stamparne 1.500 copie; impone il prezzo non superiore alle 1.000 lire; si riserva la proprietà letteraria e i diritti esteri, nonché “la facoltà di ritirare l’edizione in qualunque momento, comprando il rimanente stock a prezzo di costo”. 

Mattioli aiutò Sraffa nella stesura italiana di “Produzione di merci a mezzo di merci”, incontrandolo con regolarità a Milano e facendo da tramite per i rapporti con i primi lettori e recensori. Le lettere confermano che Sraffa mantenne sempre un legame con l’Italia, dove tornò periodicamente fino ai primi anni Settanta. Fu, ad esempio, membro delle commissioni per l’assegnazione delle borse di studio “Bonaldo Stringher” della Banca d’Italia. 

 

Come naufragò il progetto di tradurre in italiane le opere di Ricardo. Sraffa aveva raggiunto un accordo con la casa editrice Il Saggiatore per una traduzione in italiano delle Opere di Ricardo. Ma l’editore italiano non si era più fatto vivo. Dopo l’uscita dell’ultimo volume nel 1972, iniziò una cavillosa corrispondenza per cercare di arrivare a una traduzione con Einaudi. Il progetto naufragò. Sraffa era sulla linea del “tutto o niente”, respingendo l’ipotesi di una selezione del materiale dei volumi di Ricardo per l’uscita in italiano. Ma un’altra causa importante fu il peggioramento delle condizioni di salute. Negli ultimi anni di vita Sraffa perse progressivamente le facoltà mentali. Si spense a Cambridge il 3 settembre del 1983. Un amico presente al funerale ricorda che alla funzione funebre parteciparono una decina di persone.

 

Il puzzle Sraffa. Settario; intollerante; perfezionista; puntiglioso; coltissimo; abituato alla solitudine e restio a farsi coinvolgere in qualsiasi iniziativa pubblica, un po’ come il Gadda del “Per favore, mi lasci nell’ombra”; indisponibile a parlare di fronte a grandi udienze; propenso a condurre l’understatement inglese alla soglia estrema dell’autocensura; oscillante tra insicurezza, da un lato, e assoluto estremismo, dall’altro; collezionista di libri, filologo e tipografo insuperabile; indifferente a ogni forma di potere e di ricerca del successo, come ha ricordato Sergio Steve; generosissimo e disinteressato con gli amici. Forse, come ha detto Eraclito, “il carattere di un uomo è il suo destino”.

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