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In cattedra con la valigia

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In una recente inchiesta«La Repubblica» ha documentato il pendolarismo Napoli–Roma cui quotidianamente si sottopongono tre docenti (donne) precarie e una lavoratrice del settore amministrativo. Sveglia alle 4 del mattino, 500 km di viaggio complessivi con Frecciarossa, treni locali, autobus, per una durata di circa 7 ore di viaggio tra andata e ritorno. Difficile dire se i giornalisti abbiano letto il volume In cattedra con la valigia. Gli insegnanti tra stabilizzazione e mobilità. Rapporto sulle migrazioni interne in Italia, opera che illustra la presenza di working poors anche nel settore della pubblica amministrazione, tradizionalmente associato a stabilità e garanzia di reddito.

 

Le indagini a disposizione documentano che il contesto migratorio italiano si trova in una fase di transizione caratterizzata dalla fine del boom delle immigrazioni degli anni ’90 e dal contemporaneo aumento delle emigrazioni. Di fronte a cambiamenti così rilevanti, alcune tendenze rimangono stabili, prima fra tutte i flussi migratori che si orientano ancora secondo l’asse Sud Centro-Nord e che, nello specifico, investono con significativa consistenza sia la componente lavoratrice della scuola sia quella studentesca. Il volume, muovendo da diversi approcci scientifici, analizza una particolare forma di migrazione interna, legata ad una specifica qualifica professionale: quella dell’insegnante della scuola pubblica, comparto in cui la componente straniera è pressoché assente. Come chiariscono i curatori dell’opera lo scopo dei contributi è di «ricostruire la consistenza, le origini e le conseguenze della mobilità territoriale degli insegnanti partendo dal suo impatto sulle biografie dei protagonisti, sui territori di partenza e di destinazione e sul sistema scolastico» (p. X)

Il lavoro intreccia analisi quantitative, capaci di restituire i percorsi di mobilità degli insegnanti attraverso lo studio di specifiche fonti seriali, a capitoli dedicati al racconto di storie di vita, raccolte mediante interviste. Tale dimensione qualitativa risulta in grado di evidenziare le trasformazioni culturali e sociali della professione docente: le difficoltà d’inserimento nei contesti d’arrivo, il rapporto con i luoghi d’origine, la costruzione di un progetto migratorio, il tema del ritorno, l’orizzonte della conflittualità e della sindacalizzazione. Opportunamente gli autori sottolineano permanenze e mutamenti di quel ‘mestiere mobile’ che è l’insegnamento. Storicamente la questione della mobilità territoriale degli insegnanti non è una novità all’interno del più generale problema della disoccupazione intellettuale. Stupisce – come osserva Pietro Causarano – «che questo fenomeno sia stato così poco studiato e tematizzato», così come che il ministero non monitori «regolarmente la dimensione territoriale della mobilità esterna (e quindi l’impatto non solo sulle vite personali ma anche sulle dinamiche sociali delle aree interessate nonché sulla qualità dell’offerta didattica), bensì al massimo si limiti a quella funzionale interna, nei passaggi di docenti fra ordini e gradi» (p. 5). Proprio tale elemento sembra l’acquisizione più significativa del volume: la mobilità migratoria dei docenti continua ad essere considerata come un fatto scontato, strettamente connessa alla funzione universalistica svolta dal sistema formativo, corposo ganglo della pubblica amministrazione abitualmente sottoposto al principio della riallocazione territoriale. In realtà questa naturalità presenta alcuni problemi di legittimità in termini di principio e di efficacia in termini di complessiva efficienza del sistema dell’istruzione.

 

Di legittimità in quanto – si chiede Enrico Gargiulo – fino a che punto lo «Stato può richiedere – o addirittura imporre – in maniera legittima a una quota dei suoi cittadini, costituita da dipendenti pubblici, di trasferirsi da una parte all’altra del suo territorio?» (p. 85). Inoltre in che misura può farlo a fronte di continui cambiamenti dei meccanismi di accesso al mercato del lavoro scolastico? Evidente, il riferimento all’importante mutamento legislativo noto come la Buona scuola che, contestualmente alla nuova selezione concorsuale (riservata ai soli abilitati), ha varato un piano di reclutamento straordinario in grado di svuotare le graduatorie ad esaurimento (Gae) mediante la candidatura degli aspiranti docenti in 100 province. Ciò ha avuto come esito l’accentuazione della presenza di insegnanti meridionali nelle province settentrionali, un fenomeno storicamente già significativo. 

 

 

Di efficacia in quanto la distribuzione geografica delle posizioni lavorative aperte determina quel fenomeno di trasferimenti finalizzati ad accumulare anzianità di servizio o acquisizione del ruolo nelle scuole del Settentrione, per poi, in un secondo momento scegliere di uno spostamento inverso per riavvicinarsi alla famiglia o al luogo di partenza. Complessivamente emerge che nelle graduatorie ad esaurimento prevale l’intenzione di spostarsi al Centro-nord; in particolare la regione cui è più alta la percentuale di domande extra-regionale tra il 2011-2014 è la Basilicata (17,2%), seguita dalla Sicilia (15,3%) e dalla Campania (14,7%). Sempre nel medesimo periodo le regioni maggiormente attrattive in ordine sono la Toscana (22,1%), il Piemonte (19,1%) e il Lazio (16,7%). La traiettoria interprovinciale maggiormente frequentata dagli iscritti Gae è Napoli-Roma (4,3%). Il personale di ruolo, invece, preferisce spostarsi dal Centro-nord al Mezzogiorno: in questo caso la traiettoria interprovinciale più seguita è quella dalla provincia di Roma a Napoli (3,1% del totale dei trasferimenti di ruolo tra il 2012 a il 2015). In termini complessivi il fenomeno della mobilità tra regioni interessa il 10,5% dei docenti iscritti nelle Gae; mentre la mobilità interregionale tra docenti di ruolo riguarda il 5,9%. Figure e tabelle di alcuni saggi sono presenti qui.

 

Come segnalato, il volume presenta cinque capitoli organizzati sull’ispezione di singole realtà territoriali (Bergamo, Modena, Reggio Emilia e Roma; Piemonte, Emilia-Romagna) condotte secondo un approccio etnografico fondato su interviste partecipate e ricognizioni sui dati reperiti presso le amministrazioni territoriali scolastiche. L’istantanea restituisce le motivazioni del trasferimento, specialmente di donne provenienti dal sud Italia; le dinamiche di costruzione dell’identità professionale che portano a scoprire un’appartenenza territoriale mentre ci si trova in un altro contesto e con un altro modo di lavorare; sino alle retoriche antimeridionali puntualmente presenti. «In questo processo di definizione e ridefinizione dei confini si attivano meccanismi di solidarietà e distanziamento, condivisione e rifiuto, ma anche utilizzo in chiave strumentale degli stereotipi» (p. 114) che fotografano il «prezzo» della stabilizzazione introdotto dalla legge 107: l’ingresso in ruolo condizionato a una mobilità non controllata nei tempi e nei modi dell’attuazione. Comune da parte delle intervistate la percezione di essere state di fronte «ad una scelta irrinunciabile» ma «obbligata» in quanto scarse sarebbero state le opportunità d’inserimento nel mercato del lavoro in contesti a forte disoccupazione.

Il piano straordinario di assunzioni ha mandato in frantumi proprio quel dispositivo che rendeva l’impiego come insegnante così attrattivo per molte donne meridionali: la possibilità di conciliare lavoro e famiglia, carriera professionale e tempi di sviluppo del nucleo familiare, anche nel caso in cui fosse stata necessaria una mobilità territoriale. A questi insegnanti sono stati imposti i tempi della mobilità geografica rendendo di fatto impossibile conciliare questa transizione con le necessità familiari (la crescita dei figli, il mutuo della casa, l’assistenza a genitori anziani...), senza possibilità concreta di tempi brevi. (p. 115)

 

Sul vissuto personale pesano, spesso in misure maggiore delle condizioni oggettive di difficoltà lavorativa, la presenza di stereotipi sull’insegnante meridionale, qualificato come assenteista, lavativo e inaffidabile. Nella provincia di Bergamo, oggetto dello studio di Paolo Barcella, l’autore registra la tendenza della società civile a spacciare «come verità autoevidenti che ‘tutti hanno avuto un insegnante meridionale che c’era le prime due settimane e poi si metteva in maternità per 18 mesi» oppure la scarsa conoscenza della lingua inglese sia imputabile ad un docente «con l’accento di Barletta» (p. 139). In atto vi è un classico meccanismo di semplificazione che porta «a considerare come caratteristiche culturali e antropologiche dei meridionali comportamenti riconducibili a fattori socio-economici» (p. 154). D’altra parte sono spesso gli stessi insegnanti meridionali che alimentano il diffuso pregiudizio. Domenico Perrotta e Dario Tuorto analizzano le modalità discorsive con cui le maestre meridionali a Reggio Emilia, già insediate, confrontano la propria esperienza di mobilità territoriale con quella delle neo-entrate. Relativamente alle assenze prolungate per malattia, richieste di mobilità con conseguente abbandono del gruppo classe, il ventaglio di reazioni possibile varia dalla ferma condanna (scarsa professionalità e/o scarsa moralità) sino alla giustificazione a certe condizioni (stare vicino alla famiglia). In ogni caso emerge una rappresentazione giocata sul rifiuto dello stereotipo per sé ma attribuito agli altri. 

Chiave di lettura nell’interpretazione del fenomeno è il costrutto di civic stratification che consente di leggere e decodificare anche i cambiamenti del mercato del lavoro. La nozione, utilizzata all’interno degli studi sui fenomeni migratori, intende rendere conto di come, in molte società contemporanee, lo sviluppo della cittadinanza quale status sia andato di pari passo con il consolidamento di relazioni di potere asimmetriche che erodono il principio di eguaglianza formale e sostanziale. Introdotta da David Lockwood in un articolo del 1996, ha orientato e orienta quel complesso di studi che documentano la creazione da parte degli Stati di dispositivi normativi atti a produrre regimi differenziati tra i migranti in relazione alla loro zona di provenienza.

 

Il concetto di civic stratification – ritiene Gargiulo – ha un portato analitico che restituisce la complessità dei meccanismi selettivi del mercato del lavoro scolastico. 

I continui cambiamenti delle regole di transizione, ossia in questo caso – dei criteri che regolano il passaggio dal precariato all’ingresso in ruolo, sebbene siano dichiaratamente ispirati a principi meritocratici e impersonali, producono soggetti che, a prescindere dai loro comportamenti individuali, occupano strati differenti nella scala della collocazione economica e lavorativa, così come in quella del riconoscimento professionale e sociale (p. 83)

In altri termini, le policies attuate tendono ad alimentare il conflitto sociale tra la comunità degli inclusi (i docenti di ruolo) e quella degli esclusi (precari, neo-immessi variamente migranti) generando un percorso ad ostacoli fatto di barriere materiali (di reddito e accesso al welfare) che producono insofferenza anche esistenziale (alienazione). Certo non si tratta di una puntuale discriminazione amministrativa come avviene nei confronti dei migranti; tuttavia non sembra improprio definirla come mobilità coatta che, come emerge dalle interviste, è sentita come ingiusta se non tanto in assoluto quanto se paragonata alla condizione di altri dipendenti pubblici.

 

In conclusione il testo riesce in una sfida particolarmente complessa, cioè incrociare tre ambiti di riflessione: il lavoro nel pubblico impiego, la condizione femminile nel mercato del lavoro e le dinamiche interne al mondo scuola, in un contesto segnato dal decremento demografico che colpisce soprattutto il Mezzogiorno e che, inevitabilmente, avrà ripercussione sulle opportunità lavorative.

 

In cattedra con la valigia. Gli insegnanti tra stabilizzazione e mobilità. Rapporto sulle migrazioni interne in Italia, (a cura di) M. Colucci e S. Gallo, Donzelli, 2017.

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Il ’68 jugoslavo: l'anno tabù

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Avevamo sognato tutto molto diverso con i nostri libri, dietro il muro del nostro giardino fra i mirti e gli oleandri.

Georg Büchner, Leonce e Lena

 

Tre anni dopo il ’68, il Maspok, il movimento della Primavera croata che chiede più autonomia, sei anni dopo la quarta Costituzione del dopoguerra considerata una delle cause del processo di rifeudalizzazione.

Dodici anni dopo, la morte di Tito − il paese si ferma, la folla scandisce: Noi siamo diTito, Tito è nostro, Tito siamo noi. I volti ripresi dalle telecamere rivelano ansia e paura, il pianto è collettivo perché sono in molti a temere che, insieme a quello di Tito, si stia celebrando anche il funerale della Jugoslavia.

Diciassette anni dopo, un’ondata di scioperi, una crisi interminabile, e l’irresistibile ascesa di Slobodan Milošević, leader del «risorto nazionalismo serbo».

Ventidue anni dopo, le prime elezioni pluripartitiche del dopoguerra.

Nel giugno 1991 iniziano le guerre inter-jugoslave di fine Novecento. Appartengono ai «conflitti irrealistici», visti con gli occhi della sociologia politica hanno solo in parte «finalità calcolabili». Eppure, il farsi bellico sarà una carneficina infinita. Il presente rimesta e rivanga: vicende e traumi, mafie e criminalità politica, una «patologia sociale» alimentata dall’ideologia. E che non ama troppo la storiografia.

Un dopo, talmente carico di storia e di significati, di vite vissute e di vite ammazzate, di esistenze strozzate che continuano a nutrire ricostruzioni e narrazioni, diari e memoir, che ogni vicenda accaduta prima rischia di essere interpretata con l’emotività della jugonostalgia, di essere sovradeterminata da quanto accadrà poi, mentre un Giano Bifronte apre e chiude le porte del passato e del futuro del «caso jugoslavo».

 

Un pugno di riso e il caviale

Anche in Jugoslavia quello che unisce il cielo belgradese al resto del mondo è il Vietnam. Ma le difficili condizioni materiali degli studenti − stipati a migliaia in pensionati fatiscenti, isolati dai centri delle città, con mense dal vitto miserrimo − si intrecciano con gli ideali della protesta. Nell’anno scolastico 1967/68 sono 211000, la Jugoslavia è il terzo paese al mondo, dopo Stati Uniti e Unione Sovietica, per quota di iscritti all’università sulla popolazione complessiva. 

A Novi Beograd, nella parte periferica della città, dove la cittadella di circa 6000 giovani convive con pensionati e militari, già nel 1953 si era verificato uno sciopero selvaggio e spontaneo partito dagli studenti tormentati dalla fame. Barricati nei dormitori, colpivano la polizia con pezzi di carbone e di legna da ardere. Dopo un assedio di tre giorni, lo sciopero fu represso. Molti si sono trovati dietro le sbarre. Ma il vitto della mensa è stato migliorato.

Nella primavera del ’68 lo scoppio del movimento arriva improvviso, sorprende i padri comunisti e l’opinione pubblica socialisticamente spoliticizzata. Un comunicato di solidarietà con il popolo vietnamita in lotta era già stato inviato nei mesi precedenti e si erano sentiti slogan come «Via gli americani dalla Jugoslavia» e «Non vogliamo il grano americano», con evidente riferimento al sostegno economico ricevuto dall’Ovest. 

Il casus belli che dà il via al conflitto tra il Comitato universitario della Lega degli studenti e il Comitato della Lega degli studenti della facoltà di Filosofia è rappresentato dalla Polonia. Di fronte agli avvenimenti del marzo polacco, 161 intellettuali serbi, la redazione della rivista «Praxis», un gruppo di professori di Sarajevo e 1520 studenti della facoltà di filosofia di Belgrado esprimono la loro solidarietà con gli studenti polacchi e accusano gli organismi ufficiali di passività. Ma il dibattito tocca immediatamente le questioni interne e il 25 aprile e il 14 maggio si discute «delle disuguaglianze sociali nel socialismo» per stabilire i limiti di disparità «esagerate» mentre si sta formando una «nuova élite di ricchi». 

Da più parti le opinioni degli studenti sono definite «emotive». «Mi sono scritto solo quattro parole», scandisce lo studente Miloš Gvozdenović: «la prima è uguaglianza, la seconda è diversità, la terza è emozione, l’ultima è solidarietà». Il giorno dopo, i giornalisti presenti parleranno di «un dialogo tra emozione e scienza». Tra gli interventi che passeranno alla storia del movimento quello dello studente Bube Rakić: «[…] se non possiamo costruire un sistema che possa distribuire la nostra ricchezza sociale in modo più giusto, allora è meglio che rimaniamo al livello dell’egualitarismo. Meglio un pugno di riso per tutti che il caviale per pochi».

 

Diario della settimana calda

È uno spettacolo, La carovana dell’amicizia, spostato per motivi atmosferici al chiuso, il pretesto per l’inizio degli scontri alla periferia di Belgrado: da una parte il territorio degli studenti, dall’altra la polizia. La sala non è abbastanza capiente per poter contenere tutti quelli arrivati per lo spettacolo, ma gli slogan si fanno subito politici: Lavoro a tutti, Operai-studenti, Tito-partito. A notte fonda reparti della milicija violano l’autonomia della cittadella universitaria, danno la caccia allo studente e ne arrestano alcuni. 

Lunedì 3 giugno inizia la lunga marcia verso il centro. Il corteo sarà bloccato a un sottopassaggio dove la polizia si scatena: picchia i professori, la gente di passaggio, si accanisce soprattutto contro le ragazze chiamandole «puttane». È uno shock collettivo. La ripetizione − alla luce del giorno − di quanto altre volte era avvenuto con il favore delle tenebre suscita incredulità tra alcuni dirigenti comunisti e nell’opinione pubblica. Stralunati appaiono gli stessi studenti: non pensavano certo che lo Stato, che considerano anche loro, potesse accoglierli in questo modo. In un appello ai cittadini si attaccano i privilegi, si parla della disoccupazione, si chiede più democrazia − libertà di riunione e di manifestazione, il miglioramento delle condizioni di vita. Gli slogan, tantissimi e variegati, da Meno automobili, più scuole a Parla come vivi – firmato Lenin, sono accompagnati dai ritratti di Tito, Marx, Lenin, Che Guevara e da un distintivo con un segno rosso, gli studenti, circondato da un cerchio blu, la polizia. 

La «festa della salute, dell’allegria, del lasciarsi andare» ha il suo epicentro alla facoltà di Filosofia ribattezzata il 4 giugno Università rossa Karl Marx. È qui che si stampa un bollettino − «Noi non siamo l’opposizione, ma la negazione di tutto ciò che è menzogna» − e si sta riuniti in assemblea perenne. Il pomeriggio di martedì 4 giugno sale sul palco l’attore Stevo Žigon. Recita il discorso di Robespierre dal primo atto de La morte di Danton. Inizia con: «Aspettavamo soltanto per parlare il grido di indignazione che risuona da ogni parte» e termina con: «Nessun patto, nessuna tregua con gli uomini per i quali la repubblica fu una speculazione e la rivoluzione un mestiere!». Ogni parola del discorso di Robespierre è accompagnata da ovazioni: sarà uno dei momenti più carichi di pathos di un movimento alla ricerca di un leader. 

 

La giornata del 5 giugno è quella della solidarietà che arriva da parte dell’Associazione degli scrittori, gruppi di cittadini sostengono il movimento con le loro offerte. È la prima volta, nella società jugoslava del dopoguerra, che si ha un’attivazione di massa dei giovani insieme alla partecipazione di numerosissimi professori, molti dei quali si sentono contagiati «dall’entusiasmo e dall’audacia». 

Nella montagna di telegrammi e di lettere di sostegno da parte del mondo della cultura, di istituzioni e di singoli, spiccano i comunicati di condanna che arrivano, invece, dai collettivi di fabbrica. L’incontro mancato tra gli operai e gli studenti è uno dei punti più controversi della ricostruzione degli avvenimenti. La polizia, ma anche i dirigenti della Lega dei comunisti, vogliono impedire ai cortei di prendere la città. Costringono gli studenti ad autoisolarsi nel ghetto dell’università e mobilitano gli operai contro la «controrivoluzione», fin da subito si formano comitati di vigilanza fuori dalle fabbriche allo scopo di impedire un contatto diretto tra operai e studenti. Alcuni dei leader di allora sostengono oggi che il rapporto con i lavoratori è la questione intorno alla quale si sono avute le mistificazioni e le manipolazioni maggiori. Il primo giorno, raccontano, siamo riusciti a entrare in alcune fabbriche, già il secondo giorno il Comitato cittadino della Lega dei comunisti ha formato le ronde operaie. La rivista sindacale «Rad» (Lavoro) è l’unica a rompere il blocco dell’informazione e a pubblicare un testo più obiettivo sulle richieste del movimento. 

A metà settimana, isolati dalla repressione poliziesca e dalla disinformazione della stampa, gli studenti belgradesi decidono di rivolgersi a Tito, il cui ritratto sventolava sull’università occupata accanto a quelli di Marx, Lenin, Che Guevara. Gli scrivono per informarlo dei loro obiettivi: «Noi siamo per la totale autogestione in tutti gli strati della società […] Noi siamo contro il sempre maggior arricchimento dei singoli a scapito della classe lavoratrice. Noi siamo per la proprietà sociale e contro i tentativi di creare imprese azionarie capitalistiche. […] Il nostro è il programma delle forze più progressiste della nostra società – il programma della Lega dei comunisti della Jugoslavia e della costituzione. Noi chiediamo la sua coerente attuazione».

Tito risponderà per televisione: il suo discorso del 9 giugno, un momento carico di aspettative e di suspence, coinciderà con la fine dello sciopero studentesco. Alla «gioventù socialista» Tito si rivolge dallo schermo con toni pacati e rassicuranti, parla loro come un padre di famiglia. Dice di sapere che per il 90 per cento sono bravi ragazzi, promette inchieste per i responsabili della repressione, invita chi si sente ormai vecchio a lasciare posto ai giovani. 

Nel suo Ispljuvak pun krvi (Uno sputo pieno di sangue) − il cui sottotitolo è Diario di una sconfitta − Živojin Pavlović lo ricorda così. «Il 9 giugno Tito ha fatto una delle sue più brillanti mosse politiche: ha dato ragione agli studenti. Il risultato è stato eccellente: i ragazzi sono impazziti dall’entusiasmo, il profumo ingannevole della vittoria ha sconvolto gli intellettuali e gli studenti, e questi, completamente ipnotizzati, si sono precipitati a rispondere all’appello del presidente che li aveva invitati a interrompere lo sciopero e a continuare con gli esami». Nel ’68, a 35 anni, lo scrittore e regista Živojin Pavlović si improvvisò cronista: alla fine dell’anno scrisse di getto il diario della settimana di lotta all’Università di Belgrado, che verrà a lungo proibito «per non agitare l’opinione pubblica». Vent’anni dopo Živojin Pavlović pubblica il romanzo Lov na tigrove (Caccia alle tigri), ancora un diario. Il protagonista Aljoša Jotić, nato il 1° aprile 1950, era, nell’anno fatale, studente di etnologia all’Università di Belgrado. Distribuisce volantini, rivendica il diritto a una verità «soggettiva», attacca la «borghesia rossa». Poi, per sfuggire a un eccessivo interessamento della polizia nei suoi confronti, abbandona la città e si rifugia, sotto le anonime vesti di cameriere d’albergo, in cima a una montagna della Serbia orientale. «La mia vita – annota Aljoša – dal tempo della rivolta sta irresistibilmente degradando in durata». Il conflitto dell’ex studente, prima ancora che con l’autorità, è con il proprio padre che era stato un temibile agente dell’Udba (i servizi di sicurezza). Aljoša scappa dal padre, ma fugge soprattutto − e questo è un Leitmotiv del romanzo serbo contemporaneo − davanti alla storia. «In questi giorni – scrive dopo un incontro con un compagno d’armi del padre – la storia si è per la seconda volta scagliata contro di me, mentre io, sazio fino alla nausea, la fuggo da un intero decennio. La prima volta mi è accaduto nel ’68». 

Dopo il discorso di Tito si tiene un meeting a cui partecipano in diecimila, e gli studenti, convinti di aver vinto il «nemico», decidono di rimettersi a studiare. Martedì 11 giugno i giornali annunciano con entusiasmo «la normalizzazione della vita e del lavoro all’Università». Tito parlerà un’altra volta, a fine giugno, a un congresso del sindacato. Sarà l’occasione per un attacco agli «opposti estremismi»: da una parte i servizi di sicurezza, dall’altra i filosofi di «Praxis». L’illusione della vittoria è di brevissima durata. Già a luglio vengono sciolte le organizzazioni giovanili, iniziano le persecuzioni e gli arresti che negli anni successivi colpiranno la facoltà di Filosofia, mentre il Comitato universitario della Lega dei comunisti giudica «inaccettabili le idee sulla necessità di un legame più stretto tra l’intellighenzia e la classe operaia» e critica l’esistenza stessa di un movimento tanto quanto «la tendenza a legalizzare l’opposizione politica». I primi a essere accusati di volere un «ruolo dirigente dell’intellighenzia umanistica» saranno i filosofi riuniti intorno alla rivista «Praxis». L’attacco ai professori è anche l’episodio più noto della repressione contro quel che resta del breve Sessantotto jugoslavo. 

Sulla copertina dell’ultimo numero, uscito nel ’68, della rivista «Student» compare un grande punto nero. È il simbolo della fine del movimento e segna l’inizio delle interpretazioni e delle polemiche. Di ricostruzioni e di racconti di memorie che arrivano fino a oggi. 

 

Tra universalismi socialisti e particolarismi nazionalisti

Il movimento si diffonde nelle altre città capoluogo – Zagabria, Ljubljana, Sarajevo – e tocca anche numerosi centri minori. Solo nel caso di Ljubljana la motivazione delle proteste non è legata agli avvenimenti belgradesi, ma al fatto che, a fine maggio, si decide di coprire il deficit dei pensionati studenteschi con entrate di attività turistiche, dunque in estate i costi dell’affitto sarebbero aumentati e alcuni spazi si sarebbero dovuti liberare. Qui, però, gli studenti, le cui condizioni sono decisamente migliori, continuano a esprimere fiducia nei vertici del partito che li invitano alla calma con la minaccia di un possibile intervento dell’«esercito serbo». La base chiede meno centralizzazione e più «slovenità» – è accolta da fischi la proposta di collaborare con gli organismi degli altri studenti jugoslavi. 

A Zagabria si formano assembramenti spontanei appena arrivano le notizie dei pestaggi (come accade anche a Fiume, Spalato, Zara e Osijek) e le richieste non sono molto diverse da quelle belgradesi. I filosofi di «Praxis», Gajo Petrović e Milan Kangrga, partecipano agli incontri, si mantengono prudenti, preoccupati delle possibili manipolazioni e disinformazioni dei media ufficiali. Anche se parte dell’opinione pubblica e diverse personalità del mondo della cultura osservano con simpatia il movimento, il potere croato riesce a pacificare la situazione. Preoccupata della possibilità di posizioni critiche e richieste di democratizzazione, mentre sono già in corso contrasti e scontri con Belgrado, la Lega dei comunisti croata vuole soprattutto dimostrare di riuscire a controllare la situazione. 

Gli avvenimenti dell’Università di Belgrado agiscono da detonatore anche a Sarajevo, Niš, Kragujevac, ma il copione non si ripete, le proteste vengono facilmente isolate, intanto emergono con sempre maggiore evidenza i «particolarismi» delle sei repubbliche jugoslave. Basti pensare al ’68 ignorato di Priština, capoluogo del Kosovo: se ne riparlerà nell’81, quando la rivolta degli albanesi costringerà a ricordare la militarizzazione della provincia avvenuta dopo le manifestazioni di carattere secessionista degli studenti. Le manifestazioni del ’68 kosovaro iniziano il 28 novembre, data scelta non casualmente. In Jugoslavia il 29 novembre è la festa della Repubblica, il 28 novembre del 1912 è il giorno dell’indipendenza dell’Albania, chiamato anche Giorno della bandiera (rossa con l’aquila a due teste nera). Autorizzata fino al 1946 la bandiera verrà poi proibita, nel settembre del 1968 ridiventa legale, ma vicino all’aquila compare la stella dorata a cinque punte. Tra le parole d’ordine una richiesta di maggiore autonomia, Vogliamo la repubblica, Vogliamo la Costituzione– in quelle settimane erano in discussione gli emendamenti alla Costituzione del 1963 che riguardavano il futuro status del Kosovo –, accanto a slogan irridentisti Viva l’Albania,Viva Enver Hodža, Autodeterminazione e secessione. La repressione è immediata, i politici albanesi condannano senza troppa convinzione la protesta, la componente serba della popolazione (nel censimento del 1961 composta dal 67 per cento di albanesi e dal 27 per cento di serbi) non gradisce troppo gli accenni liberali di chi in quel momento è alla testa del partito serbo. La presenza dei carri armati nelle strade di Priština, a pochi mesi dall’invasione di Praga, conferma che la questione del «caso jugoslavo» sta diventando il nemico interno. 

 

Dunque: il movimento studentesco ha favorito una resa dei conti con le forze più dogmatiche e centralizzatrici o ha aiutato la Lega dei comunisti a rafforzare il suo ruolo? – a fine anno entrano nel partito, che dopo il 1950 continuava a invecchiare, 175000 giovani. Chiedendo più uguaglianza gli studenti si sono schierati, di fatto, a favore di una società statalista e contro la riforma economica del ’65 oppure la «nuova sinistra» ha favorito le spinte centrifughe della «destra nazionalista»? Sono questi gli interrogativi più frequenti che risentono, in parte, di un approccio ancora ideologico della ricostruzione dell’insieme del processo storico della seconda Jugoslavia. 

Un’analisi più articolata è quella di alcuni testimoni e protagonisti. Nata nel 1945, figlia di un alto funzionario dell’«epoca della rivoluzione», studiosa dell’induismo, docente di filosofia all’Università di Zagabria prima e Parigi poi, Rada Iveković è stata una delle fondatrici della sezione femminile della Società di sociologia intorno a cui, nel capoluogo croato, si è costituito il primo gruppo femminista. Nel suo Sporost-oporost (Lentamente, aspramente), dove raccoglie tanti brevi capitoli di taglio autobiografico, uno è dedicato al ’68: «E il Sessantotto? È successo più tardi, continua fino a oggi, sta soprattutto in quello che nelle nostre teste e nei comportamenti successivi attribuiamo a questo anno. È stata la prima volta in cui ho visto mio padre stupirsi ed esitare. Per la prima volta venivano messi in questione valori fino a quel momento intoccabili. […] La loro generazione si è allora chiesta: “Abbiamo combattuto per questo?”. E per la prima volta ci hanno guardato un attimo negli occhi. È stato un lampo, l’istante di un incontro di generazioni: loro che erano i legislatori, e per questo non dovevano dubitare, e noi che servivamo da pasta per la focaccia della Verità Assoluta, noi eravamo il tessuto, il materiale dello Stato, coetanei dello Stato. Si è aperta una crepa molto piccola in quel ’68 e allora non significativa. Ma non si è più potuto rattopparla. Il dubbio si è insinuato irrimediabilmente in noi. Verità e menzogna hanno assunto un altro senso. Quell’anno abbiamo smesso di essere religiosi, io e la mia generazione. Mentre la loro generazione ha cominciato a morire. L’ideologia è diventata vecchia. Monumenti vuoti tutt’intorno. L’anno ’68 arriva pian piano. È lento come la tartaruga».

 

Il filosofo Žarko Puhovski, allora uno dei redattori più giovani della rivista «Praxis», afferma: «La delegittimazione del regime – per mezzo del malcontento studentesco – è arrivata a piena espressione in un periodo in cui il regime stesso aveva iniziato (tacitamente, nel caso di molti leader politici forse in modo poco consapevole, e ciò che è più importante quasi vergognandosene), con la “riforma economica” del ’65, ad allontanarsi parzialmente dal sistema di valori che aveva propagandato per decenni. Il processo di delegittimazione è divenuto, nel ’68, esplicito. I vertici del regime hanno fiutato il pericolo per la propria posizione ancora prima che gli studenti stessi avessero compreso il potenziale della loro iniziativa – proprio per questo, anche in Jugoslavia, l’intervento poliziesco ha avuto un ruolo “pedagogico” controproducente […]. Anche se gli studenti hanno usato parole che non si differenziavano nelle linee essenziali da quelle ufficiali, in pratica gli studenti erano oratori non autorizzati – mai nella tradizione jugoslava del dopoguerra c’era stato un così massiccio apparire sulla scena di discorsi non autorizzati. […] il movimento del ’68 ha reso manifesta la crisi della modernizzazione socialista. Le conseguenze – grazie soprattutto alle questioni non risolte del passato – sono risultate in gran parte pre-moderne». 

 

Una delle opere più approfondite e documentate, che circolerà per anni come un samizdat, e sarà pubblicata integralmente solo nel 1990, è quella del sociologo belgradese Nebojša Popov Društveni sukobiizazov sociologiji. «Beogradski jun» 1968 (Scontri sociali – una sfida per la sociologia. Giugno belgradese 1968) che, insieme ad altri professori attivi durante la protesta, nel 1975 verrà sospeso dall’insegnamento (v. infra, testo 6). È sembrato uno «scontro immaginario», dice Popov, perché le due parti si sono richiamate agli stessi principî e valori, al programma della Lega dei comunisti e della Costituzione. Ma lo scontro tra «movimento e sistema» è stato reale. Parlare in termini di vittoria e di sconfitta – per un movimento che non voleva il potere – è un errore. «È realistico invece sostenere che il movimento studentesco non ha cambiato il mondo, anche se è accaduto qualcosa. Le tracce maggiori sono rimaste nella cultura […] sono state rinnovate le idee di libertà […] sono state create nuove forme di pluralismo ideale e politico (transpolitico e transnazionale) […]. Sono rimasti alcuni insegnamenti per le generazioni future e per le strategie dei nuovi movimenti sociali». Secondo il sociologo, però, il ’68 ha anche – in Jugoslavia e nel mondo – un’altra medaglia: la rivitalizzazione dell’apparato del potere politico e il prevalere di un modello di formazione autoritario che, ridimensionando i contenuti umanistici, «stimola la diffusione di una sottocultura controllata, come sostituto della controcultura giovanile, che coltiva valori privati ed edonistici, l’idea di un’adolescenza permanente, mentre cresce la disoccupazione e la mancanza di prospettive per la gioventù».

 

Un’altra figura intellettuale significativa, la sociologa belgradese Zagorka Golubović, anche lei attiva nella protesta e anche lei allontanata dall’insegnamento sette anni dopo – del suo testo L’uomo e il suo mondo, del 1973, il tribunale proibisce le 52 pagine in cui analizza proprio il ’68 –, sostiene che, più che dalla classe operaia, il movimento degli studenti è stato sconfitto dalla classe media e dalla sua ideologia consumistica. La sua ipotesi cerca di spiegare il complesso degli avvenimenti sociali, economici, culturali di una Jugoslavia in mezzo al guado tra modernità e arretratezza.

Nelle settimane successive al discorso di Tito si hanno i primi effetti della normalizzazione: è vietato usare il termine di «movimento studentesco», saranno censurate, proibite o sospese le riviste studentesche: «Delo», «Susret», «Student» a Belgrado, «Naši dani» a Sarajevo, «Razlog» e «Polet» a Zagabria. Gli studenti cercheranno un terreno più neutrale e iniziano a occuparsi della riforma universitaria, oppure scelgono la satira con La lettera aperta al mio compagno candidato-delegato pubblicata in «Student» come pesce del 1° aprile 1969. Il 3 giugno 1969, a un anno dalle manifestazioni, appare il «Documento delle 3000 parole», che si ispira al «Manifesto delle Duemila parole» degli intellettuali cecoslovacchi. Nel documento si ribadisce che gli studenti erano e sono per un «socialismo democratico», si analizzano i ritardi sociali, si chiede di poter eleggere e non solamente votare i propri rappresentanti. Si avverte, però, una fase di riflusso, tra gli studenti inizia a diffondersi un rifiuto della politica, considerata «pragmatica, inconseguente, immorale».

 

 

Vent’anni di bisbigli per un movimento  di sette giorni

La maggior parte delle fonti – materiale documentario e immagini – che avrebbe permesso di capire e ripercorrere gli avvenimenti dell’anno fatale è stata censurata e proibita a lungo, mentre le poche opere di riflessione e di commento sono state vietate dalle ordinanze dei tribunali e si trasmettono per anni con fotocopie che passano di mano in mano. La documentazione filmica è sequestrata, registi come Želimir Žilnik (autore del documentario I movimenti di giugno ’68) e Dušan Makavejev, che hanno osato riprendere gli avvenimenti, sono andati incontro a non poche difficoltà. Quasi fino al 1990 sono rimasti introvabili molti altri materiali che si riusciva a consultare attingendo alle biblioteche personali dei protagonisti. Il fatto che il ’68 sia rimasto così a lungo una delle «macchie bianche» della storia contemporanea jugoslava trova diverse possibili spiegazioni. Le opere citate cercano di fornire una lettura dei fatti e un’interpretazione. Soprattutto i «cattivi maestri» del ’68 jugoslavo, i professori di Zagabria e di Belgrado che successivamente verranno espulsi dall’università, cercano di analizzare l’insieme del processo storico. E sono figure critiche che rimangono – spesso fino a oggi! – all’opposizione. 

Così, quando la Jugoslavia senza Tito è attraversata dal 1980 in poi da un’«esplosione di verità» e temi tabù che erano sussurrati a voce bassa e a porte ben chiuse assumono in primis la forma della letteratura, il ’68 rimane uno dei tabù che resiste più a lungo. Si parlerà dello Srem, una delle battaglie finali della seconda guerra mondiale, una battaglia militarmente inutile ma dove viene falciata la gioventù belgradese, i figli di quella borghesia che i partigiani arrivati dalle montagne vogliono eliminare. E la dicotomia tra città e campagna, lo scontro tra i «guerriglieri» e gli «amministratori» attraversa la storia del paese fin dalle sue origini e si intreccia con le divisioni, tuttora attuali, tra «modernisti» e «tradizionalisti». Si parlerà di Bleiburg dove, sul confine tra Slovenia e Austria, alla fine della guerra, per ordine di Tito furono massacrati i militari collaborazionisti, ma anche i civili in fuga. Del Goli Otok, l’Isola Nuda o Calva, che si trova nel canale di Velebit, all’uscita del golfo del Quarnero, il gulag di Tito, l’inferno per quanti, accusati dopo la rottura con Stalin del 1948 di filocominformismo, furono deportati in mezzo al mare per essere rieducati. In uno di quei rovesciamenti perversi di cui la (ex) Jugoslavia ha fornito rappresentazioni tragiche fin quasi ai giorni nostri, saranno proprio i comunisti idealisti e gli intellettuali a dover essere rieducati dal popolo. 

 

Finalmente nel 2012 esce uno studio che permette di collocare la settimana di lotta degli studenti belgradesi nel contesto jugoslavo e internazionale. Jugoslavija i svijet 1968 (Jugoslavia e il mondo 1968) dello storico croato Hrvoje Klasić, docente all’Università di Sisak, è una ricerca capillare e approfondita, scritta con ritmo giornalistico, senza quel velo ideologico che a volte impedisce ancora una lettura storicamente convincente delle vicende jugoslave. A partire dalle numerose fonti ora disponibili (stenogrammi delle sedute dei diversi organismi politici, archivi locali e internazionali ecc.), Klasić entra nel dettaglio, ma lascia poco spazio alla teoria della «parentesi», non riduce la storia di quell’anno solo a un episodio di rivolta giovanile e, soprattutto, il ’68 entra nel tempo storico, diventa una data con un prima e un poi. Dalla sua disamina appare evidente il crescere dell’insofferenza tra le diverse componenti nazionali, soprattutto, ma non solo, tra serbi e croati, e quanto l’integrazione tra le diverse anime della federazione fosse contraddittoria. Da un sondaggio condotto, nel 1966, all’Università di Belgrado, emerge che il 40 per cento dei giovani intervistati non vuole avere a che fare con i croati, il 48 per cento non vorrebbe che vivessero in Serbia e il 55 per cento è contrario ai matrimoni misti. Durante le partite di calcio si ripete il copione: i tifosi croati scandiscono «Zingari, zingari», quelli serbi «Ustascia, ustascia». E sarà proprio una partita l’occasione di «eccessi nazionalistici» che annunciano le guerre degli anni novanta del Novecento. 

Dal 1961 al 1965 si compie il processo sfociato nella «riforma economica» che, teoricamente, si proponeva l’ambizioso tentativo di affidare ai produttori associati il controllo sull’intera riproduzione allargata e, in pratica, prevedeva la svalutazione del dinaro, una parziale liberalizzazione dei prezzi e l’introduzione dell’autogestione in settori nuovi come l’amministrazione statale. In un sistema a metà strada tra centralismo e decentramento la riforma produce uno sconquasso, mentre si acuiscono i contrasti tra centri e periferie. Una frenesia da investimento produce disoccupazione e inflazione – nel ’67 crolla la produzione industriale, aumenta la disoccupazione, sono 400000 i lavoratori «temporaneamente» emigrati all’estero –, e provoca l’aumento dei consumi e dei salari. Fino ad allora la legittimità dei quadri dirigenti nell’economia era stata conquistata sul campo, il curriculum era l’aver partecipato alle battaglie della Sutjeska e della Neretva. Ora si poneva l’esigenza di una specializzazione, ma il 50 per cento dei direttori aveva il diploma della scuola dell’obbligo. 

 

Negli anni sessanta «la variante jugoslava dei cento fiori» produce iniziative e dibattiti, trasformazioni e innovazioni non solo nella sfera economica. Nel Plenum del 1° luglio 1966 a Brioni si decide di promuovere anche una riforma sociale e di riorganizzare il partito. È condannata l’attività dei servizi di sicurezza, cade la testa dell’uomo simbolo della repressione, il fino allora potentissimo ministro degli Interni Aleksandar Ranković. Si parla di decentramento anche per le funzioni della Federazione: nel ’67 si iniziano a discutere gli emendamenti alla Costituzione che porteranno, dopo un lungo iter e prove di forza, alla quarta Costituzione del 1974, che rivela fin da subito quanto l’equilibrio dei poteri sia precario. I cambiamenti sociali si riflettono anche nella struttura della Lega dei comunisti. Nel ’66 la metà degli iscritti sono impiegati, il 33,9 per cento operai, il 7,4 per cento sono contadini, i giovani sono solo il 12,6 per cento. E se durante tutto il ’68 la discussione dei vertici è occupata da temi economici e politici, la Dichiarazione sulla denominazione e sulla posizione della lingua letteraria croata, del 1967, indica l’ampiezza della critica all’idea di fratellanza e unità e ben esprime le tendenze separatiste, non solo in ambito culturale, croate. La questione della lingua è specchio di identità, dunque la denominazione di serbocroato-croatoserbo è vissuta come un’intollerabile commistione. 

Anche il processo che porterà alla costruzione di un organismo di presidenza jugoslavo non rafforza ma indebolisce l’insieme della federazione. Formata per ridimensionare il potere di Tito, accresce invece il suo ruolo. Fino alla sua morte Tito rimarrà, con le sue notevoli abilità manipolatorie, il giudice super partes a cui le diverse componenti si rivolgono. L’invasione di Praga permette a Tito di agitare un pericolo simile anche per la Jugoslavia – a oggi non esiste alcuna prova documentaria di una tale eventualità. Sul piano internazionale questo rende plausibili le richieste di aiuto all’Ovest, sul piano interno produce il rafforzamento della difesa territoriale autogestita da cui, all’inizio degli anni novanta, si dispiega il primo nucleo armato delle Repubbliche secessioniste slovene e croate. 

 

Eppure, negli «allegri anni sessanta», il dibattito è davvero vivacissimo e si aprono spazi inediti per le voci di opposizione. Alla critica ufficiale alla burocrazia – leitmotiv dal ’48 in poi della critica al modello sovietico – si aggiungono riflessioni che ripartono dall’analisi de La nuova classe di Milovan Đilas. Tra le particolarità della scena culturale jugoslava, la presenza di una rivista come «Praxis» (1963-1974) e della scuola estiva di Korčula (1963-1974), che riuniscono intellettuali dell’Est e dell’Ovest. Di questo scambio si nutre la «nuova sinistra» jugoslava, influenzata dai simposi che conducono Bloch e Morin, Fromm e Habermas, Goldmann e Marcuse, da quell’«autocritica del socialismo» che portano da Varsavia-Praga-Budapest, Kołakovski, Kosík, Lukács. 

Nell’estate del ’68 – sono anche i 150 anni della nascita di Marx – il tema della scuola estiva è Marx e larivoluzione, a Korčula arrivano studenti e professori jugoslavi e soprattutto stranieri. Sarà Marcuse a infiammare gli animi, convinto che il risveglio della coscienza rivoluzionaria appartiene ora all’intellighenzia e al movimento studentesco. Chi teme la reazione degli apparati, disposti a reprimere il risveglio a ogni costo, è il filosofo Danko Grlić, imprigionato due volte al Goli Otok. Il 21 agosto, invasione di Praga, i lavori sono interrotti, partono telegrammi di protesta. 

 

Il gruppo di intellettuali che si raccoglie intorno alla rivista «Praxis» continuerà a criticare l’idea di un’«economia di mercato socialista», ritenendo possibile solo una critica «socialista» all’economia politica borghese. Nell’articolo Fenomenologia del comportamento della classe media jugoslava – pubblicato su «Praxis» nel ’71 – il filosofo Milan Kangrga scrive che la classe media «è reciprocamente intrecciata e strettamente legata con l’apparato amministrativo, e parzialmente anche con l’élite politica». Secondo questa analisi, tutti coloro a cui la riforma ha permesso un maggior benessere hanno paura della sinistra come se fosse uno spaventapasseri. «Per questo – dice Kangrga – dal punto di vista della classe media essere di sinistra viene considerato come qualcosa di negativo, perché per ogni onesto cittadino è una vergogna essere “un sinistro”, e questa è la pura verità!». 

Lo spostamento dalla quantità alla qualità – in economia – porta a una ridefinizione dell’intera scala dei valori socialisti, a un revisionismo ideale che molto deve alla Dialettica del concreto del filosofo ceco Karel Kosík. «La rivoluzione e la libertà – scrive il filosofo belgradese Ljubomir Tadié nel ’67 – sono intimamente vicine: la rivoluzione significa chiamare la libertà alla luce del giorno; la libertà contiene l’indispensabile pathos e ornamento della rivoluzione, il tremolio della sua anima, il battito del suo cuore. Ambedue sono strettamente legate alla tendenza della gioventù, dato che ai giovani, in quanto tali, appartiene il cambiamento delle condizioni empiriche dell’esistenza come anche l’immanente aspirare al nuovo, al non ancora raggiunto». E proprio in quell’anno, scrive Tony Judt, «Si aveva l’impressione che l’Europa fosse strapiena di giovani». 

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Luciano Bianciardi: gaddiano e classicista

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I nostri scrittori nati negli anni venti, gli ultimi a conoscere una canonizzazione non meramente accademico-editoriale, hanno attraversato in poco tempo un numero straordinario di traumi storici e stagioni culturali. Cresciuti tra prosa d’arte e fascismo, adulti tra neorealismo e dopoguerra, sono maturati poi durante il boom, perdendo le speranze palingenetiche della giovinezza. Spesso hanno trasformato le narrazioni degli esordi in levigati apologhi o in ibride, lutulente opere-mostro, invecchiando tra le ideologie antistoriciste e approdando magari a un maneggevole postmodernismo. È una parabola che si può riconoscere in Pasolini, Sciascia, Calvino: cioè negli autori più celebri di questa generazione. Specie il primo e il terzo, in modi speculari, hanno finto di poter guardare la Storia dall’alto, cavalcando le mode anziché subirle, ed elaborando un sistema stilistico onniattrattivo, coerente come un marchio. Eppure nessuno di loro è dotato di una lingua limpida e prensile come l’assai meno noto Luciano Bianciardi.

 

Bianciardi sa cogliere le metamorfosi dell’epoca senza perdere lo sguardo di chi si sente un uomo qualunque tra gli uomini, né si ritiene mai investito d’insostituibili mandati tecnici o sociali. Un amore inattuale per i buoni studi storico-letterari, e una quotidianità vissuta a lungo in cerca di amici fraterni (non di modelli, o alunni, o chierici-compagni illuminati) sono forse i tratti che lo hanno salvato dalle sclerotizzazioni identitarie dei colleghi, e che al tempo stesso hanno determinato la sua incapacità ad amministrare un proprio fruttuoso Ruolo. Così, questo maremmano bizzarro ma attaccatissimo al senso comune è stato prima dimenticato e poi tradito dai volgarizzatori del suo antagonismo. Speriamo dunque che questa edizione del Saggiatore serva a leggerlo o a rileggerlo al netto del marketing tendenzioso a cui rischia di cedere ogni “operazione outsider”.

Il piccolo borghese Bianciardi, classe 1922, matura il suo liberalsocialismo studiando nella Pisa di Capitini, Russo e Calogero. Dopo la guerra insegna al liceo di Grosseto, la sua città, e lì dirige la Biblioteca Chelliana, inventandosi un Bibliobus per portare i libri nelle campagne. Collabora a Belfagor, Il Mondo, Il Contemporaneo; e nel ’54, per l’Avanti!, stende con Cassola un reportage sui minatori. Quindi s’imbarca nell’impresa Feltrinelli, ma si fa subito scaricare, e da allora sceglie una vita randagia di pubblicista e traduttore (innumerevoli le versioni dall’inglese: London, Faulkner, Steinbeck, Bellow, Huxley, Robbins, Barth…).

 

Tra il ’57 e il ’60 escono i suoi primi romanzi-pamphlet, Il lavoro culturale e L’integrazione. Intanto, precedendo Eco e Warhol, Bianciardi ha già offerto impeccabili analisi semiologiche della “mediocrità” di Mike e del quarto d’ora di celebrità televisivo. Lungo gli anni questa sua vocazione barthesiana, filtrata sempre da un linguaggio chiaro e referenziale, si esercita tra l’altro in una pionieristica rubrica intitolata “Telebianciardi”. Allo scrittore bastano pochi dettagli di costume per raccontare i rapporti che si stabiliscono tra maschi e femmine, o tra realtà e pubblicità, nel mutevole quadro del miracolo economico. Un esempio: “Lo sanno benissimo i fabbricanti di auto, che già in partenza battezzano il prodotto con un nome di donna: la Giulietta, la Giulia, la Primula, la Bianchina, la Topolino. Non sono forse gli stessi nomi che si sentivano prima di quel fatidico 20 settembre, in via Fiori Chiari?”.

Di queste doti epigrammatiche e filologiche trabocca La vita agra, che nel ’62 regala a Bianciardi una gloria inattesa, e viene poi portato sul grande schermo da Lizzani. Montanelli chiama lo scrittore al Corriere, ma invano. Lui sceglie Il Giorno, il quotidiano dell’apertura a sinistra; e anziché sfruttare l’immagine dell’arrabbiato, di cui non aveva previsto il sinistro successo, si mette a sfornare cronache sul Risorgimento. Nel frattempo traduce senza sosta, e scrive centinaia di pezzi per la stampa pop: ABC, Kent, Executive, Playmen, Le Ore, AZ… Dal ’70 tiene anche una corrispondenza sul Guerin Sportivo, proponendo funambolici paragoni tra i fatti del calcio e le vicende politiche, storiche o artistiche. Ma questo poligrafismo frenetico nasconde il progressivo autoesilio dal mondo, la distruzione alcolica di una vita cupissima e umorale. Lo scrittore muore nel 1971, a neanche quarantanove anni.

 

Bianciardi ha saputo essere l’ultimo custode della più forbita tradizione toscana, senza per questo ridursi a linguaiolo. Ed è stato un “arrabbiato” troppo onesto per posare a beat (anzi, a “bitinicco”). È passato per le stanze del potere con l’estraneità allegra e disperata di chi non sa o non vuole né consolidare la posizione acquisita, né costruirsi un’ideologia in grado di giustificare la cattiva coscienza dell’intellettuale che tira avanti tra scritture semigiornalistiche, diritti e “battonaggio” traduttorio. Perciò ha scontato sulla pelle l’alienazione che molti hanno addomesticato coi sofismi, e ha fatto in pratica quel che altri teorizzavano ma non riconoscevano poi nella sua opera: un’opera troppo letteraria e insieme troppo popolare (cioè “dotta e carognona”), troppo concreta e insieme troppo orgogliosa del suo lessico chirurgico per poter piacere ai maîtres à penser di qualunque specie.

In fondo, questo ex azionista e distratto fiancheggiatore del pci è rimasto sempre un anarchico socialisteggiante di fine XIX secolo, costretto suo malgrado a fare i conti col nichilismo del pieno Novecento. Come i fautori della seconda Internazionale, Bianciardi mantiene un’ostinata fiducia nella buona divulgazione da dispensa diderotiana; eppure non ignora che il sapere moderno si è ormai trasformato in approssimazione da rotocalco, e che gli ex analfabeti assetati d’emancipazione sono già una massa omologata. Così, quest’uomo fuori tempo e fuori luogo non può né onorare le sue radici etiche né abbandonarle: e da una tale sfasatura, oltre che da contraddizioni più private, si lascia infine lacerare, consumandosi tra ribellione e pigrizia, tra rimorso e accidia. La sua fragilità e la sua coscienza di provinciale lo costringono a ingaggiare un sempre più mostruoso gioco a nascondino coi progetti di gioventù, e gli impediscono di ideologizzare o di bruciare esteticamente il senso di colpa.

 

Per capire l’ossimoro incarnato da Bianciardi bisogna immaginare l’impossibile. Per esempio, figuratevi un Fortini che, perse le inibizioni di profeta, pubblichi su un settimanale erotico o libertario agili referti krausiani della vita quotidiana degli anni sessanta, o addirittura si mischi a presentatori, sportivi, attori (cioè agli “amici” infilati da Bianciardi in quasi tutti i suoi libri: da Walter Chiari a Carlo Ripa di Meana al portiere Ghezzi). Oppure pensate a un ethos di tipo camusiano, orwelliano o chiaromontiano, ma bagnato nell’acido della satira e screziato da una furia alla Henry Miller (per il goliardico Luciano, “Enrico Molinari”). O ancora, provate a concepire un commediografo all’italiana, un guascone strapaesano che raggiunga di colpo la statura morale di un maestro di scuola d’altri tempi e di un critico della cultura mai arcigno. In poche parole, è come se in Bianciardi lo spirito costruttivo dell’Ottocento e quello distruttivo del Novecento, l’uomo comune e il corsivista scettico, l’utopista e il saturnino fossero polarità mai del tutto scisse, reagenti di continuo l’una sull’altra in una straziata, ironica baruffa.

 

Perfino alle più alte temperature sperimentali, questo scrittore conserva sempre una lingua cristallina: il suo è un paradossale “gaddismo classicista”. Di qualunque cosa parli, Bianciardi rifiuta di eludere l’ingombro irriducibile della propria biografia, trasposta in satura ma mai dissolta in astrazione, e per questo destinata a ferire chi gli sta vicino. Il suo citazionismo è sempre funzionale o esistenzialmente pregnante. Spesso l’intarsio parodico sottolinea lo iato tra un’antica cultura introiettata fin nel subconscio e lo sforzo compiuto per tradurla nel mondo nuovo. Di qui viene l’ossessione metalinguistica, l’orecchio assoluto (diceva Spagnol) per le “deformazioni professionali”, l’abilità nel cogliere tic e gerghi. Un’abilità che allo scrittore costa parecchio, dal punto di vista umano e perfino giudiziario. Già a inizio anni cinquanta, quando sulla Gazzetta di Livorno propone una galleria di tipi locali, alcuni di questi tipi vanno ad aspettarlo sotto casa; e più tardi, una sua rubrica pubblicata dall’Unità viene cassata dopo l’uscita del ritratto di un comunista influente. L’egemonia di questo pci oligarchico è ricordata nel Lavoro culturale, dove Bianciardi dice addio ai tempi del “nella misura in cui” e al mito dell’intellettuale organico aleggiante sulle ingenue assemblee di provincia. Ecco un pezzo che descrive con sardonica puntualità il loro gergo, poi sopravvissuto a se stesso per decenni:

 

Il dibattito, oltre che concreto […] è ampio e profondo, anzi, approfondito, e quasi sempre si propone un’analisi (approfondita anch’essa) della situazione. La giustezza della nostra analisi sarà poi confermata, invariabilmente, dagli avvenimenti. La situazione è sempre nuova e creatasi (da sé, parrebbe) con o dopo. Al dibattito gli interventi portano un utile contributo. Esso può assumere anche la forma di convegno: in questo caso è parlato, gli interventi sono numerosi, e gli intervenuti sono giunti da ogni parte d’Italia […]

Concreto, come si è visto, è il problema, il dibattito, l’intervento e l’indicazione. A memoria d’uomo non si è mai saputo di un problema, dibattito ecc. che si sia potuto definire astratto. Come non si è mai saputo di un problema risolto; semmai superato, dalla situazione creatasi con o dopo. A volte poi si è scoperto che il problema, pur essendo concreto, non esisteva. In casi simili basta affermare che il problema è un altro […]

Accanto al problema, ma un po’ più sotto, c’è l’esigenza. L’esigenza si sente, anzi, si è sentita. A volte sorge, o meglio, è sorta, ed in ambedue i casi occorre andarle incontro. Problema ed esigenza riguardano a volte i rapporti con. Con gli intellettuali, per esempio.

Gli intellettuali possono incontrarsi da soli o accompagnati ad operai e contadini. In questo secondo caso la successione di rigore è la seguente: operai, contadini, intellettuali.

 

Per Bianciardi, il mondo in cui questo gergo conservava un pur vago senso è stato spazzato via dall’esplosione di grisù che il 4 maggio del ’54 ha fatto saltare in aria la miniera di lignite di Ribolla, da lui esplorata con Cassola. Il trauma arriva dieci anni dopo quello subìto durante il bombardamento di Foggia: ma le nuove morti, volute dall’irresponsabile esercito in borghese della Montecatini, sembrano ancora più assurde. Così vengono riepilogati gli eventi nella Vita agra:

 

il caposquadra aveva fatto storie: diceva che dopo due giorni senza ventilazione, giù sotto, era pericoloso scendere, bisognava aspettare altre ventiquattr’ore, far tirare l’aspiratore a vuoto, perché si scaricassero i gas di accumulo. Insomma, pur di non lavorare qualunque pretesto era buono.

[…] Stavolta era stufo: meno storie, disse ai capisquadra, mandate cinque uomini della squadra antincendi a spegnere i fuochi, ma intanto sotto anche la prima gita. La mattina del giorno dopo, alle sette, la miniera esplose.

Rimasi quattro giorni nella piana sotto Montemassi, dallo scoppio fino ai funerali, e li vidi tirare su quarantatré morti, tanti fagotti dentro una coperta militare. Li portavano all’autorimessa per ricomporli e incassarli, mentre il procuratore della repubblica accertava che fossero morti davvero, in caso di contestazione, poi, da parte della sede centrale […]

E quando le bare furono sotto terra […] mi ritrovai solo sugli scalini dello spaccio, che aveva già chiuso, e mi sembrò impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare.

 

 

A Grosseto, ribattezzata Kansas City, tutto sembra di colpo inutile e insopportabile. Così Bianciardi emigra a Milano. Qui lavora alla rivista Cinema Nuovo di Aristarco, e presto passa dalla satira dei cineclub engagés alla satira della nascente industria culturale. È l’epoca in cui sta esaurendosi la spinta propulsiva del ’45, e nella grande città si sente subito. Ogni volta che il protagonista della Vita agra, arrivato lì con la folle idea di far saltare in aria il “torracchione” della Montecatini, prova a parlare dei morti di Ribolla, si scontra con una disattenzione fisiologica. Ecco il dialogo che ha col suo capo, direttore appunto di un quindicinale di spettacolo: ““Vedi, è un buon tema […] ma stai attento, perché c’è il pericolo di cadere nel solito neorealismo.” “Come sarebbe?” gli chiesi. “Sì, tutte quelle gallerie, le case pericolanti, i minatori in attesa fuori del pozzo. C’è il pericolo di cadere nella cronaca di un certo tipo. E ora invece noi ci stiamo battendo per il passaggio dal neorealismo al realismo. Dalla cronaca alla storia. Tu hai visto Senso, vero?””.

Da Cinema Nuovo Bianciardi approda direttamente alla Feltrinelli, la nuova casa editrice comunista nell’ideologia e neocapitalista nei fatti. Qui la riduzione tecnocratica del lavoro culturale è compiuta. Deve confrontarsi ogni giorno con dinamiche di potere insondabili, con mansioni puntigliosamente definite ma in realtà non misurabili. Presto viene licenziato per scarso rendimento e rimane un collaboratore esterno; ma intanto quel microcosmo gli ha suggerito il leitmotiv dei “quartari”. Spiega l’alter ego della Vita agra:

 

E mi licenziarono, soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile. Nel nostro mestiere invece occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli sull’impiantito sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare e fare polvere, una nube di polvere possibilmente, e poi nascondercisi dentro.

Non è come fare il contadino o l’operaio […] il contadino appartiene alle attività primarie, e l’operaio alle secondarie. L’uno produce dal nulla, l’altro trasforma una cosa in un’altra. Il metro di valutazione, per l’operaio e per il contadino, è facile, quantitativo: se la fabbrica sforna tanti pezzi all’ora, se il podere rende. Nei nostri mestieri è diverso, non ci sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un prm? Costoro né producono dal nulla, né trasformano. Non sono né primari né secondari. Terziari sono e anzi oserei dire […] addirittura quartari […] sono vaselina pura.

 

Date le premesse, il loro unico metro di giudizio resta “la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più su”. Metro che vale soprattutto nelle case editrici, sempre “piene di fannulloni frenetici” che fanno un lavoro finto ma si beccano veri esaurimenti nervosi. Il loro universo ci è stato raccontato soprattutto dai critici dell’ideologia, dai marxisti eretici. Ma proprio per questo, lascia ammirati il diverso nitore con cui Bianciardi sa dirci le stesse cose rivitalizzando la forma mentis del letterato d’antan. Si pensi per esempio al rapido epigramma in cui fissa la natura dell’industria culturale moderna, osservando che se prima dell’invenzione della stampa era il lettore che cercava il libro, ora le macchine hanno una tale capacità di diffusione che è il libro a dover inseguire il lettore. Oppure si veda questa definizione dell’engagement, giudicato come un’ultima variante dell’Arcadia che sfocia nella sottocultura: “Al posto dei pastorelli avevano messo i metallurgici […] Ora poi non ci sono neanche più i metallurgici. Ora c’è Charlie Brown, figurati! O James Bond.”

 

Ma la Milano di Bianciardi è una baraccopoli di lusso che avvelena anche le attività

più concrete. Dietro il suo presunto efficientismo si cela un’irrazionalità assoluta, che il narratore riduce spassosamente all’assurdo. Lungo le sue vie si aprono e chiudono di continuo le stesse buche; ma la gente, che protesta se un grammofono trasmette troppo alto Vivaldi, non s’interroga più sull’apparente insensatezza dei lavori: il rumore dei martelli (“vibratili”, come le segretarie aziendali in marcia sopra i tacchi) è un alibi sufficiente. Chi vuole può perfino travestirsi da operaio, scavare o riempire il terreno in una sorta d’insensata parodia keynesiana, e farsi pagare dal Comune senza sollevare sospetti.

Tuttavia al centro dello sguardo bianciardiano resta sempre la metropoli degli intellettuali, sospesa tra ultima bohème e nuove pseudocompetenze. È la Milano dei pittori e del cabaret, della Casa della Cultura e del Derby, un universo urbano che dietro i primi esperimenti del centrosinistra lascia già intravedere le future frivolezze manageriali dei Larini e dei Cardella. Ma soprattutto, quella di Bianciardi rimane la Milano della Feltrinelli. Indimenticabili, a questo proposito, le pagine dell’Integrazione che alludono all’influenzabilissimo editore “giaguaro”, quelle che descrivono le interminabili riunioni sulle regole tipografiche, e quelle che parodiano il dibattito tra storicismo e sociologismo. È il tempo in cui gli eventi internazionali gettano scompiglio a sinistra, evidenziando la divaricazione tra credenze professate e abitudini di vita. I terremoti dell’Est europeo si riducono così ai “fatti di piazza Ungheria”, cioè alle smanie di intellettuali che si fanno venire la febbre solo perché non capiscono più quale comunicato devono firmare, e si scambiano telefonate di questo tipo: “Sei tu, Mariolina? Cosa dice Peppino? È per la ritrattazione? Bene, ma la formula? Anche i Peverini dici? E Antonio? S., lo capisco. Documento e rettifica, no? L’avevo pensato. Pubblichino anche loro il documento, poi segue la dichiarazione che deploriamo l’affare dell’ANSA eccetera. Mi sembra la strada migliore. Benissimo. Tu come stai? Dieci giorni? Addirittura. E i conti dell’Ogino Knaus così vanno per aria, no? Eh vi capisco. La bambina come sta? Bene, mi fa piacere. Un salutino a Peppino, quando rientra. Ciao.”

 

Nell’Integrazione (dove, come nel Lavoro culturale, Bianciardi si sdoppia nelle figure di due fratelli) il personaggio che sconta più a fondo il nuovo clima è Marcello, uno studioso cupo e astratto, machiavellico e masochista. Autoironicamente, l’autore gli prepara un destino di amara solitudine: Marcello finisce a scrivere pastoni da Reader’s digest, e lo fa con la ghignante efficienza di chi nasconde nella piattezza della prosa “venduta” esoterici messaggi in bottiglia. Alla fine lo vediamo preda di una tentazione luddista: come un Rastignac impotente svelle un mattone dal terrazzo, e finge di tirarlo contro la città che si agita lì sotto. Invece il suo erede della Vita agra (un io anonimo e senza fratelli, a fronte di un doppio femminile sempre più marcato) approda a Milano meditando già progetti da bombarolo. Poi però li perde. La verità è che finita l’euforia comunista si ritorna anarchici; ma anarchici sfiduciati, cui resta appena la risorsa dell’inazione: “Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha”. Però il confine tra non-collaborazione e integrazione è molto labile. All’inizio, il personaggio paranoico del ’62 accetta un alienante lavoro “di concetto” solo per preparare con calma la vendetta che crede gli abbiano affidato. Ma poi l’alienazione diventa la sua vera vita, e l’assalto alla Montecatini è rimandato sine die. Il bombarolo s’intruppa nell’esercito dei milanesi che marciano tutto il giorno dentro rigide “scarpe hegeliane”, rischiando a ogni passo d’esser sforbiciati via dal traffico. È risucchiato da una città in cui gli operai sono invisibili e in cui le sezioni del pci, simili a uffici di collocamento, eleggono a capicellula degli estetisti per cani. Lì dove tutto mostra la sua algida facies ippocratica, per salvarsi occorre esercitare un inedito acume semiologico: “La grana sarebbe quella che si prende, i dané quelli che si pagano, mi pare di aver capito”. E se ci si rinchiude in casa a sfornare traduzioni a cottimo, si rischia di fare brutti sogni: per esempio, sogni tutti “interpretati” in un inglese che si è incapaci di voltare in italiano. Quando si lavora nella tana, bisogna stare attenti a che il pastiche di parole altrui non sconvolga perfino la memoria della propria infanzia; e l’unico rifugio sicuro è un sonno vuoto come quello della Ragazza Carla del poema coevo di Pagliarani.

In quest’incubo diurno e notturno, l’“attivismo ateleologico” del lavoro d’ufficio è stato introiettato fin nel cuore di un solitario ménage casalingo assediato da “tafanatori” reali o mentali, e sommatosi perversamente al super-Io sgobbone del piccolo borghese di provincia. Questa condizione coatta viene resa da Bianciardi con una serie di pezzi di bravura che investono il lettore a cascata: si va dalla parodia dei narratori americani a quella degli editoriali sociologizzanti, dalle tirate sulla beffarda defecatio post mortem a quelle contro il coito divenuto mero simbolo e privato della sua salutare inutilità. Sublime è poi il colloquio tra il protagonista e una editor imbecille, che pretendendo traduzioni “letterali”, non “toscaneggianti” lo rimprovera di avere reso “come on boys” con “sotto ragazzi” anziché con “venire su”, e di avere scritto “bottega di falegname” anziché “laboratorio”.

 

L’integrazione e La vita agra, dove il secco sarcasmo diventa quasi un correlativo dell’aridità e della fatuità del reale, sono libri paragonabili forse soltanto alla Vita operosa di Bontempelli (1921), dove viene notomizzata la Milano del primo dopoguerra. Si tratta di approdi (letterari e geografici) da cui non si può tornare indietro senza apparire nostalgici. La capitale lombarda rappresenta una società mostruosa ma dinamica, mentre Grosseto sembra appena un residuo del passato. Nel romanzo del ’60, prefigurando il destino di quella sinistra umanista oggi sempre più simile a una Lega Centro, Marcello avvisa che starsene in Toscana è troppo comodo: significa rifugiarsi in un’Italia “troppo soddisfatta della sua composta perfezione”, che “non riesce a trovare alcun aggancio con quest’altra Italia, balorda quanto vuoi, ma reale e crescente […] e non lo trova nemmeno con l’altra Italia, quella di sotto, quella che fa la fame […] In una zona depressa siamo venuti, credilo pure, e ben più difficile che la Lucania: perché là la depressione salta subito agli occhi, mentre qui si maschera da progresso, da modernità […] Sta a noi batterci per il sollevamento, per il risorgimento, diciamolo pure, di questa Italia”.

 

Già, il Risorgimento. Mentre affronta la sua lotta impari con Milano, Bianciardi dedica un’attenzione crescente a quel periodo glorioso e ambiguo che vorrebbe aver vissuto. Per anni, il “racconto del 1860” e quello “del 1960” procedono paralleli: da una parte Da Quarto a Torino, omaggio all’esercito forse più colto della storia, e dall’altra l’analisi del “lavoro culturale”; da una parte le indagini appassionate sull’Unità, dall’altra la caricatura della politica di provincia e dell’industria mediatica. Poi i due filoni s’intrecciano. Bianciardi inizia a interpretare la cronaca italiana tra il ’45 e il boom col testo a fronte della “resistenza” garibaldina, filtrata attraverso i quadri e le pagine dei “paesani” Fattori e Bandi. Non a caso il borioso capitano che nel romanzo storico-mimetico La battaglia soda sfotte un reduce dei Mille si chiama Bauducco, proprio come il tronfio manager (ed ex ufficiale alpino) che nell’Integrazione amministra la casa editrice. Entrambi incarnano un ritorno all’ordine: l’uno fa il tecnico di guerra, l’altro il tecnico del marketing. Tutti e due si fingono eredi di un patrimonio ideale (il Risorgimento, il comunismo), ma in realtà parlano già come cortigiani piemontesi o americani. Invece i loro avversari, gli alter ego dei romanzi milanesi e il protagonista della Battaglia soda, una volta chiusa la stagione della speranza – con Custoza o con la guerra fredda – finiscono a marcire tra le scartoffie.

 

Ma la mescolanza esplicita tra Ottocento e Novecento arriva poco prima del fatidico ’68. È il periodo in cui i nati negli anni venti traggono i primi bilanci: e simbolicamente, mentre Calvino trionfa a Parigi, Bianciardi si ritira a Rapallo. Ora la passione risorgimentale, incanalata al livello più basso in politi testi divulgativi (Daghela avanti un passo!, Garibaldi), al livello più alto confluisce in un antiromanzo ucronico e guerrigliero, che è insieme un esercizio di virtuosismo ossessivo, introverso, catafratto. Aprire il fuoco, uscito nel ’69, resta un unicum nella nostra letteratura. Per concezione può ricordare la Storiadi domani di Malaparte o Roma senza papa di Morselli; solo che qui, in più, c’è la vertiginosa oscillazione formale tra flusso di coscienza e referto narrativo – o meglio, come ha scritto Paolo Maccari, tra “dialogo interiore” e stile “americano”. Bianciardi osa mischiare le Cinque Giornate del 1848 milanese, filtrate dai ricordi di Giovanni Visconti Venosta, con la cornice storica del 1959. Tra barricate di bus e molotov, Bocca va sfrontatamente a braccetto con Cattaneo, un cantante di nome Gabersic incontra Correnti, Hitler s’affianca a Radetzky, e Pio IX si confonde con Giovanni XXIII. Per eludere la censura dei “giuseppini”, ritornati dopo il fascismo, i ribelli inneggiano fiduciosi al pontefice buono firmando le schede del totocalcio col nome Giovanni Papa e marcando solo i primi cinque risultati: due X e tre I. A raccontare ex post questa follia è l’aio dei Venosta, che una volta falliti i moti è andato in esilio a Nesci (eloquente travestimento di Rapallo).

 

Per dare un’idea del clima, basti pensare che tra le fazioni degli insorti si conta “la cosiddetta linea emme”, che s’ispira insieme a “il Mazzini, il Marx, il Mao, il Min e il Marcuse” (gli avversari ci aggiungono il Mussolini). C’è poi chi confida nel re Tentenna e nei francesi, e ci sono “i seguaci del Togliatti”, secondo cui “a fare l’Italia si sarebbe arrivati con la semplice scheda elettorale, gradualmente e progressivamente”, e bisognerebbe dunque allearsi con la Chiesa: “Li vedevi spesso frequentare le sagrestie […] ma era tutta fatica sprecata perché il clero li sbeffeggiava regolarmente”. Il famoso sciopero del fumo, invece, viene legato alla nonviolenza dei capitiniani, che intendevano “rifiutarsi di pagare le imposte” e “abbandonare i posti di lavoro per dedicarsi soltanto ai piaceri della carne […] Venivano costoro chiamati i rivoluzionari del non, ma a me sembrava che intanto predicassero bene e razzolassero, come suol dirsi, male, perché li vedevo laboriosissimi, rispettosi degli orari, faticatori anche al sabato Sera”. Tutt’intorno, i martinitt convivono con le protofemministe, e la rivolta diventa una copula continua. È il sogno anarchico di Bianciardi, molto diverso da quello dei sessantottini, ai quali infatti suggerisce di non sdilinquirsi davanti al Dottor Guevara e di studiare piuttosto il Pisacane, “che è anche più bravo”.

 

Dopo la sconfitta, il protagonista di Aprire il fuoco s’è convinto che bisogna fomentare una insurrezione senza fine – un disordine tranquillo, continuo e dunque non imbrigliabile dai capetti quartari travestiti da rivoluzionari. E soprattutto, non è più tempo di buttarsi sulle sedi istituzionali: “Bisogna occupare le banche e spegnere la televisione”. Purtroppo, però, perfino la fantasia più sfrenata riesce a inquadrare i frammenti utopici del presente solo in contesti di senso ottocenteschi. Nota Maccari: “Il passato non torna, e l’utopia non poggia su una realtà in grado di alimentarla”. Eppure l’aio dei Venosta, come un teologo negativo, conta sempre su questa rivoluzione inconcepibile. “Son dovuto fuggire quaggiù” dice alla fine “e ancora aspetto il segno, dal finestrone che affaccia, nella camera a pianta pentagonale, sul Manico del Lume. Guardo sempre laggiù, verso il gabellino”.

E dal gabellino autostradale di Rapallo, mentre l’alcol lo consuma, lo scrittore insiste su una rivolta sempre più lontana da quella dei capelloni urlanti o underground, cui oppone la maggioranza silenziosa dei concerti di Bach. Il futuro, comunque, ormai non lo riguarda. A lui resta la sapiente ma fioca gestione dei motivi più cari: quello risorgimentale, certo, ma anche quello antisessuofobico trionfante nel racconto “La solita zuppa”, dove s’immagina una società che ha il cibo come tabù e il coito come dovere, e si arriva fino alla blasfema invenzione di una Chiesa che nasconde per secoli la natura culinaria della moltiplicazione dei pesci e dell’ultima cena, interpretandole rispettivamente in senso “napoletano” e omofilo.

 

Per concludere, però, vorrei citare da un’altra rêverie fantapolitica del ’68, l’articolo “Marines a Rapallo”. Vi si mette in scena uno sbarco statunitense, a ridosso di elezioni sospese tra utopia frivola e incubo grottesco. Il pezzo contiene tra l’altro una perfida parodia della gestualità poetica pasoliniana: “Fra gli uomini di cultura uno dei pochi che prendessero posizione chiara fu il poeta Pasolini, il quale scrisse una poesia sulle tute mimetiche dei reparti sbarcati. “Cari”, cominciava l’ode, “cari ragazzi in tuta mimetica – memoria del rozzo overall – indosso al negro – coglitore di cotone […] Eletta schiera che tre volte – travalicaste l’Atlantico. – Nel diciassette ai tempi – di mio padre tenente – e Pershing v’era guida. Nel – quarantadue ai tempi – di me riformato e vi guidava il grande Ike – whom I like […] Via – dalla porca Italia, che – ai vostri avi terroni – non diede – né pane né – libertà.” I commenti furono i più vari, ci furono riunioni in casa Bellonci, Pasolini precisò che la poesia era brutta, ma che andava letta in un’altra maniera. Non disse quale. Se la prese coi quarantenni e passa, i quali profittavano dello sbarco dei marines per rifarsi una verginità ideologica e morale, si ritirò dal Premio Campiello, partecipò invece al Festival di Castrocaro, come paroliere. Poi mi svegliai”.

Un agrodolce risveglio da un agrodolce sonno: due stati di coscienza negati a molti scrittori coetanei di Bianciardi, di lui troppo più noti e strumentalizzabili.

 

Prefazione al volume Luciano Bianciardi, il cattivo profeta, il Saggiatore 2018.

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Harun Farocki. Pensare con gli occhi

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Harun Farocki è un artista poco conosciuto in Italia, a parte l’omaggio dedicatogli un anno dopo la morte dalla Biennale di Venezia del 2015, intitolato Atlante di Harun Farocki, con rimando al grande tema dell’atlante, da Aby Warburg a Gerhard Richter e oltre, e poco dopo il seminario internazionale a lui dedicato allo Iuav. Figura singolare e al tempo stesso paradigmatica di un modo di fare cinema che è approdato nelle gallerie e nei musei d’arte, meritava uno sforzo ulteriore come quello che ha visto il convegno dedicatogli a Torino nel novembre del 2016 e ora il volume che ne riprende il titolo e lo amplia per ricchezza di materiali e di interventi, curato da Luisella Farinotti, Barbara Grespi e Federica Villa per i tipi di Mimesis: Harun Farocki. Pensare con gli occhi.

 

Nato nel 1944 in una cittadina allora tedesca oggi ceca, debutta nel cinema a metà degli anni ’60 con film di impostazione situazionista, di critica politica e della cultura: “cinema come forza antagonista e militante, strumento di lotta e di controinformazione, antidoto critico alla sua stessa fascinazione”, scrive Farinotti. Insegna, scrive, milita. Negli anni ’80 mette a punto il suo modo personale: le definizioni che ne sono state date, film d’osservazione e film-saggio, sono indicative della direzione e dell’originalità. Non si tratta di un cinema di finzione, ma neppure di documentario, dei due insieme quasi che essi si contrappongano è dire ancora troppo poco. Certo la provenienza è il cinema –  lo sguardo antropologico di Bresson, l’arte del montaggio in Godard, il cinema speculativo di Straub e Huillet, è stato sintetizzato – ma un cinema che condivide le preoccupazioni dell’arte – della cultura – contemporanea. Molti ne hanno tentato una descrizione sintetica: “poco riducibile alle definizioni, oscillante costantemente fra poesia e teoria, scherzo e gravitas, come fra fiction e documentario” (Christa Blümlinger); cinema “diagramma” (nel senso di Deleuze), per il modo in cui le immagini assumono progressivamente senso nel loro ripresentarsi, nel continuo riapparire entro nuove catene per incastri, deviazioni, continui ritorni (Raymond Bellour); cinema collage, sottolineando la varietà dei materiali usati e insieme l’aspetto di discontinuità nel montaggio (Farinotti). È stato definito “antropologo del presente”, Grespi giustamente sottolinea gli aspetti che ne fanno un campione della “cultura visuale”.

 

 

I suoi film, di lunghezze e carattere diverso, a volte ricostruiscono la storia di singole immagini in altri casi ne mettono a fuoco l’esistenza di classi, warburghianamente spaziando dal documento all’arte alle immagini di massa a quelle tecniche. L’aspetto di riflessione sull’immagine, sulla sua natura, la genealogia, le funzioni, i risvolti tecnici e il lavoro che comporta la realizzazione è centrale, ma non esaurisce né centra l’originalità di Farocki. Ora si fa appello al “gesto dell’immagine”, con riferimento a Horst Bredekamp, ora le si definisce immagini “operative”, la cui natura non è tanto riproduttiva quanto quella di “strumenti, e finanche soggetti dell’azione”. I film, tra i suoi più famosi e su cui diversi testi del volume si soffermano, sulle immagini di guerra, quella del Golfo o quelle simulate nei videogame o nei video di addestramento militare, hanno fatto parlare di “immagini-bombe”, rovesciando le bombe di sola immagine di quelli. L’operatività è senza dubbio anche uno dei concetti centrali per la riflessione sui rivolti politici sempre rimasti centrali nel lavoro e nella riflessione di Farocki: il cinema, l’opera, non come espressione del proprio pensiero personale, ma come “restituzione”, per usare la formula che Georges Didi-Huberman ha ripreso da Jacques Derrida, che acquista un duplice, se non triplice significato: restituzione alla collettività, resa pubblica e disponibile alla conoscenza di tutti, e resa visibile, nonché restituzione al visibile di ciò che vi si sottraeva o ne era rimosso.

 

Divisi in tre sezioni – precedute da una preziosa antologia di testi dell’artista – intitolate significativamente “Il cinema e oltre”, “Il lavoro con le immagini” e “L’iscrizione della guerra”, i testi del volume riprendono tutte queste tematiche e altre ancora, nonché l’analisi di singoli film, video o installazioni. Elenchiamone gli autori: oltre alle curatrici, Thomas Elsaesser, Rembert Hueser, Chiara Grizzaffi, Volker Pantenburg, Antje Ehmann, Pietro Montani, Christa Bluemlinger, Luca Malavasi, Maurizio Guerri, Alessia Cervini, Massimiliano Coviello, Riccardo Fassone, Clio Nicastro.

Il cinema, come giustamente ribadisce Villa, è il centro intorno a cui ruota tutta l’operazione complessiva di Farocki – altra “restituzione” –, il ruolo che svolge nei processi creativi altri, quelli del video, delle installazioni, ecc., il punto di ritorno costante dell’opera di Farocki, il suo “medium”, potremmo dire oggi nel senso più pregnante del termine, quello dell’insieme di regole che determinano il processo creativo. Proprio su quest’ultima questione mi si lasci deviare un momento per poi tornare e concludere.

 

È negli anni ’90 che Farocki effettua la svolta a cui si è accennato all’inizio, quella cioè che lo ha portato dalle sale cinematografiche alle gallerie e musei d’arte. Che cosa è successo? La questione non può essere risolta notando che in fondo tutti i media hanno azzardato tale svolta nello stesso giro d’anni; casomai questo evidenzia il carattere generale che può avere una risposta effettiva. E dunque: la prima opera che Farocki ha presentato come “opera d’arte”, in galleria piuttosto che in sala, è stata Interface, nel 1995, opera basata sulla presenza sullo schermo di due immagini invece di una sola, come si vede quando si fa il montaggio, dice Farocki, non come nella proiezione di un prodotto finito. Due, dunque non il flusso dell’uno, bensì di mano in mano i loro rapporti. Ebbene, non si tratta solo di metarappresentazione, di immagine nell’immagine, di discorso interno sull’immagine, sulla tecnica, sul linguaggio, ma di qualcos’altro. Sta qui anche l’importanza allargata di questo volume, che si aggiunge all’interesse specifico sulla figura di Farocki e sul cinema. Questo qualcos’altro sta nel titolo del volume stesso: Pensare con gli occhi.

 

Mi permetto di sintetizzare partendo da un’autrice che, mi pare, nessuno degli autori cita e quindi può forse essere interessante aggiungere. Farocki è infatti uno degli ultimi autori annessi da Rosalind Krauss, in Sotto la tazza blu (Bruno Mondadori, Milano 2012), alla sua rosa di artisti preferiti, che per l’occasione chiama “cavalieri del medium”. Li chiama “cavalieri” con riferimento alla mossa del cavallo degli scacchi, perché sostiene che il rapporto con il medium, con la sua specificità, vada oggi non più impugnato in termini di autoreferenzialità come nel Modernismo (greenberghiano in particolare), ma per effettuare appunto una mossa complessa, che comporta un passo laterale, uno scavalcamento, o, con altra metafora su cui Krauss insiste, per darsi la spinta come fa il nuotatore con il bordo della piscina. La doppia immagine, la metarappresentazione vanno per Krauss intese in questo senso, con tutta la forza del medium ma per andare oltre, ovvero, qui, per fare diversamente, cioè specificamente per pensare visivamente.

 

Che cosa significhi, lo estraiamo ancora dai testi del volume, ma in questa chiave, a partire dai testi di Farocki stesso. L’intenzione, ma è anche una chiave, la prendiamo da Campo-controcampo: “la presenza dell’Identico nel Diverso. Ciò dà forza al linguaggio: non ci si limita a inventare, ma comunica veramente”. È un rovesciamento determinante: non il Diverso nell’Identico, come ci ha abituato il pensiero della differenza, dello straniamento, dell’eterogeneo, ma l’Identico nel Diverso, ovvero ciò che è in comune, ricorre, slitta, si sposta, si trasforma, rimanda ad altro, tra oggetti apparentemente anche molto distanti tra loro. Il metodo lo prendiamo da un’altra distinzione introdotta in A proposito di documentario: “Nel film di finzione – nel film di finzione classico – la macchina da presa anticipa. Nel film documentario segue”. Che cosa significa “seguire”? A me sembra che significhi prima di tutto non precedere, non avere tutto stabilito in precedenza, di cui il film diventa la traduzione, la trasposizione in immagine (per restare al visivo, ma vale anche per la componente del sonoro), quindi, conseguentemente, procedere sviluppando di mano in mano, riflettendo mentre si realizza, interrogare in atto, pensare appunto, mentre si fa, sulle immagini, con le immagini, a causa delle immagini. Le immagini infatti inducono questa forma di pensiero, di osservazione, non predeterminato, non lineare, discontinuo – non montaggio senza smontaggio, direbbe Didi-Huberman –, nel suo svolgersi; verrebbe da dire: da dentro l’immagine, per questo è doppia, per questo Farocki si include così spesso. È il loro funzionamento “reale”.

 

Dunque, per concludere: che sia questa mossa del cavallo il “passaggio” all’arte, dalle sale cinematografiche alle gallerie? Che questo abbia a che vedere anche con il significato politico di questo tipo di arte?

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Dedichereste una strada al geocentrismo tolemaico?

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Mi sembra che la vicenda dell’ANPI del 25 aprile, nella quale i partigiani “veri” (cioè quelli defunti o vecchissimi) apprezzerebbero la Brigata ebraica del 1944-45, mentre invece i partigiani “nuovi” (cioè quelli giovani e male informati) si schiererebbero per Hamas, costituisca un bell’esempio di conta delle mele con le pere. C’è da sperare che un simile equivoco non si presenti più in futuro.

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Società

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La sociologia ha inventato nella seconda metà dell’Ottocento il concetto di società. Ha dato vita cioè all’idea che le persone trascorrono la loro esistenza all’interno di un sistema sociale che è organizzato da precise regole e dotato della capacità di durare nel tempo. Ma ci ha anche fatto comprendere che una società funziona al meglio quando è in grado di offrire alle persone che vivono al suo interno la possibilità di disporre di modelli interpretativi.

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Giovani, mettete su una start up!

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Ha riscosso successo il film Il vegetale di Gennaro Nunziante, una sorta di parabola rivolta ai giovani. Il film racconta le traversie di un giovane milanese che fa di tutto per farsi assumere da qualche grande azienda, ma che di fatto viene menato come un can per l’aia: stage che sono di fatto lavoro sottopagato, promesse mai mantenute, cavilli burocratici ed evasivi (delle tasse). Alla fine però il giovane mette su un’azienda che produce cibo biologico, e questo – si tratta di una favola edificante – senza ricorrere a lavoro nero, a braccianti sottopagati, ma tutto onestamente rendicontato. Messaggio lampante: giovani, smettetela di puntare al miraggio del posto fisso da dipendente in una Corporation, inventatevi voi un mestiere, mettete su una start up!

 

Il film illustra in modo gnomico il cambiamento di paradigma nel lavoro in corso nelle nostre società industriali avanzate. Un cambiamento di paradigma che mette in crisi quella che oggi si chiama – non più teoria ma – narrazione di sinistra, marxista o liberal che sia. Una messa in crisi che spiega il declino anche elettorale delle sinistre occidentali. In sintesi: andiamo verso un’organizzazione del lavoro in cui ciascuno è imprenditore di se stesso. Non più il dipendente ma l’imprenditore diviene la figura-cardine della vita lavorativa oggi.

Ora, da tempo il liberalismo americano – in particolare la scuola di Chicago – ha proposto il paradigma detto del “capitale umano”; termine entrato ormai nel discorso comune, anche se per lo più viene frainteso. Secondo questa narrazione, chiunque non viva di rendita è un imprenditore, anche chi lavora come operaio in fabbrica. L’operaio è qualcuno che investe così il proprio capitale umano, che ha costituito nel tempo. Una ragazza che anziché fare l’operaia preferisce fare la prostituta, ad esempio, investe così il proprio capitale diciamo biologico. Si investe il proprio capitale umano non solo per guadagnare, ma per avere soddisfazioni in generale. I genitori, che sono in gran parte artefici del capitale umano dei loro figli, puntano anch’essi alla propria soddisfazione, anche se altruistica: avere figli con un elevato capitale umano. Questo certamente non significa più eguaglianza: chi ha uno scarso capitale umano, o lo investe male, sarà più povero di chi ha un cospicuo capitale umano e sa investirlo bene. Insomma, esistono imprenditori ricchi e imprenditori poveri; e in effetti, “il popolo delle partite IVA” è composto per la maggior parte da poveracci (anche se l’allargamento delle partite IVA è un fenomeno di per sé positivo). La maggioranza delle ditte sono misere. Non dico che questa teoria o narrazione sia più vera di quella marxista o di sinistra in generale, dico solo che essa oggi appare più verosimile, sembra rendere meglio conto della realtà. Come Il vegetale mostra.

 

Capisco che si tratti di una realtà che la sinistra detesta. Ma il mio compito non è giudicare e denunciare, e tanto meno proporre soluzioni, è di capire le cose, anche se non vanno per il verso che vorremmo.

Oggi si ripete come cosa scontata il fatto che il ceto medio si sta impoverendo. Ma se per ceto medio intendiamo tutti quelli che appartengono alla fascia di reddito media, allora c’è sempre un ceto medio non impoverito. Il punto è che oggi si impoveriscono persone che in passato classificavamo nel ceto medio: insegnanti, colletti bianchi. In effetti, quando andava per la maggiore la narrazione marxista o liberal, tendevamo ad associare a ogni mestiere un determinato livello di introiti e di forma di vita: se si era operai si era per lo più poveri, se si era insegnanti si aveva un reddito medio, se si era industriali si era ricchi… Oggi la nostra posizione nella struttura del lavoro non implica affatto un dato livello di reddito. È come se oggi tendesse a universalizzarsi quel che un tempo significava essere cantante o venditore di scarpe. C’era la cantante scalcagnata che andava avanti a ingaggi alle feste popolari e c’era Luciano Pavarotti; c’era l’umile scarpaio di un villaggio e c’era Salvatore Ferragamo. Anche essere filosofi, per dirne una, non garantisce oggi una specifica quantità di introiti: ci sono tanti laureati in filosofia che insegnano per tutta la vita nelle scuole medie, e filosofi ricchi e famosi, autori di bestseller, come Umberto Eco. Tutto dipende dal nostro capitale umano e dal nostro modo di farlo fruttare.

 

E la famiglia da cui si proviene è uno dei principali fattori del capitale umano. Da qui la scarsa mobilità sociale: ciascuno tende a perpetuare lo status della propria famiglia di origine. Tranne una frangia mobile, che va non solo in su ma anche in giù. Tutti conosciamo ereditieri che col tempo sono finiti in miseria.

Se tutti ci percepiamo come imprenditori – anche se siamo dipendenti di un ente – vien meno la filosofia che promuove il sindacalismo. Questo si regge sul fatto che tutti i lavoratori di una certa categoria si sentono più o meno alla pari, ovvero con redditi tra loro simili. Ma questo è sempre meno il caso oggi. Prendiamo i contadini: alcuni hanno ereditato un terreno misero e sono rimasti miseri, e altri si sono arricchiti. C’è sempre meno solidarietà all’interno di una categoria, perché i destini individuali si divaricano.

Non è che oggi ci siano più poveri che nel passato, solo che i poveri oggi sono chiamati “perdenti”; come imprenditori, appunto, che abbiano fallito.

 

 

Si sa che più una società è industrializzata, più si gonfia il terziario, ovvero i servizi. Questo è dovuto al fatto che nei primi due settori – industria e agricoltura-allevamento – la produttività è enormemente cresciuta, e crescerà ancora di più. Ovvero, la meccanizzazione, la robotizzazione, riduce sempre più la forza-lavoro impiegata, e la forza-lavoro potenziale troverà sbocco solo nel terziario. Certo anche in certe aree del terziario la produttività è molto aumentata; così chi è dedito a un lavoro intellettuale, come il sottoscritto, svolge da solo un lavoro che prima veniva fatto da tre segretari. Ma il tempo che un parrucchiere impiega per mettere a posto una capigliatura è lo stesso oggi come cento anni fa. Molti servizi restano a bassa produttività, e quindi assorbono molta mano d’opera. Ma anche nei servizi c’è chi sa far rendere il proprio capitale umano, e chi meno. Le sperequazioni sono interne a ogni tipo di attività. Anche se resta una sorta di identificazione quasi castale: tanti piccoli imprenditori sempre sull’orlo del fallimento votano compatti per Berlusconi perché si sentono rappresentati da un imprenditore come loro.

 

Il modello Chicagoan che vede ciascuno di noi come un imprenditore aumenta insomma la sua credibilità oggi perché di fatto la parte del lavoro dipendente con contratti a tempo indeterminato si assottiglia, e sempre più persone diventano imprenditori, anche se poveri. La sinistra protesta: “si allarga l’area del precariato”. Ma il precariato è la conseguenza del fatto che diventiamo sempre più, ciascuno di noi, freelance. È la gig economy, l’economia dei lavoretti. Call centers, piccolo commercio, Airbnb, consegne a domicilio, trasporti tipo Uber, ecc. Nel 2016 in Italia un milione e 800.000 persone lavoravano in questo modo; ma si calcola che nel 2020 il 40% dei lavoratori americani saranno di questo tipo. È interessante che il termine gig venga dal jazz: era l’ingaggio ad hoc di musicisti per una serata. Tutti tendiamo a essere come i jazzmen. Ovvero, il modello non è più l’operaio o l’impiegato di stato, ma l’artista. L’artista di solito è precario, ma appunto, ci sono artisti poverissimi e artisti milionari. 

Contrastare la gig economy è arduo. Lo vedo nel mio piccolo; anch’io sono uno sfruttatore per forza di cose. Spesso ho bisogno di traduzioni per il mio lavoro, che affido a pagamento ad amici. Mi colpisce il fatto che quasi sempre costoro vogliano essere pagati in nero, di solito per ragioni fiscali. Ma se si imponesse una legge per cui devo assumere i miei traduttori, non sarei mai in grado di far fronte a una spesa simile. Sarei io allora a chiedere a questi amici di lavorare in nero. O rinuncerei tout court alle traduzioni… Di solito l’alternativa al gig non è l’assunzione, ma niente lavoro. Questa è una morsa nella quale tutti siamo presi, anche se votiamo per LeU. 

 

La sinistra, marxista o quasi, si basa su un presupposto: che si deve andare avanti assieme agli altri, assieme a chi sta in una condizione simile alla propria. Se una fabbrica licenzia – predica la sinistra – meglio battersi assieme agli altri operai piuttosto che trovare una soluzione individuale, ad esempio farsi assumere altrove, o magari sedurre una manager della fabbrica che decide i licenziamenti… Ma in un mondo di lavoro frammentato, non garantito, effimero, fluttuante, la solidarietà di classe o corporativa perde senso. Sono le strategie individuali di sopravvivenza quelle che alla fine si mostrano decisive.

 

Tony Blair, e quella parte di sinistra che la pensava come lui, si rendeva ben conto di quello che abbiamo detto. Perciò Blair lanciò negli anni 90 il famoso slogan “Education, education, education”. Era la teoria di Anthony Giddens: nel mondo globalizzato di oggi la produzione dei beni di base verrà sempre più effettuata da paesi più poveri, come India e Cina, dato che là la manodopera costa molto meno. L’unica chance per i paesi altamente industrializzati è puntare sulla crescita del capitale umano, e l’istruzione è il principale fattore di crescita di questo capitale. Da una parte un mondo-operaio asiatico-africano, dall’altra un mondo-manager che coincide con il mondo iper-industrializzato. Gli europei dovranno lasciare la produzione dell’hardware (funzione operaia e contadina) agli extra-europei, per puntare tutto sul software (sapere e cultura). Bella teoria. Solo che in un paese occidentale non tutti possono essere creativi, informatici, dirigenti, manager, esperti: ci sono alcuni lavori a bassa produttività, connessi ai servizi, che vanno comunque svolti. I lavori gig, appunto. Svolti da immigrati, in parte, ma anche da autoctoni. Avremo quindi ampie fasce di popolazione colta ma povera, diciamo super-istruita rispetto al modesto lavoro che fanno e che sempre più faranno. Ma se tutti sono colti, i titoli di studio cesseranno di essere una risorsa in sé.

Allora meglio non studiare, meglio arrabattarsi sin da subito: meglio votare per Salvini, Fratelli d’Italia, M5S...

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Sulla peste digitale e il libro di carta

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Sul “Sole 24 ore” del 24 marzo (ma alcuni spunti erano già sul “Foglio” del 6 febbraio) Alfonso Berardinelli parla della crisi dell’editoria e della critica letteraria, che per lui vanno di pari passo: nello scenario editoriale degli ultimi anni il libro è diventato un’entità intoccabile e indiscutibile, e in questo cieco protezionismo la critica che non ha paura di criticare vede ridotti i suoi spazi fin quasi a nulla, mentre l’unica critica lecita è quella, del tutto inoffensiva, che fa in sostanza pubblicità fingendo di essere altro. In questa analisi, grosso modo condivisibile, attira l’attenzione un’affermazione apodittica posta al principio di tutto il ragionamento: "Quando il mercato librario cominciò a entrare in crisi con l’arrivo dei media elettronici, il problema diventò quello di vendere e di vendere molto". Dunque la causa del declino che da circa otto anni interessa l’editoria italiana sarebbe questo soggetto indistinto e indefinito, i “media elettronici”, nel quale, si può intuire, rientra tutto il caleidoscopio di opportunità digitali che sta erodendo il tempo dedicato ai consumi culturali nobili, e in primo luogo la lettura. 

 

Nella sua convinzione Berardinelli non è solo: direi anzi che questa forma di brutale determinismo tecnologico è condivisa, in modi più o meno sfumati, da una parte importante e influente di critici, opinionisti, giornalisti e dirigenti editoriali (del resto anche le vittime meno inconsapevoli dell’intossicazione digitale sono spesso le prime a rimpiangere i sé stessi di qualche anno fa, liberi dalla schiavitù dello smartphone). Viene da pensare a quel Ludovico Settala del XXXI capitolo dei Promessi sposi, protofisico autorevole, che durante la peste vide bene il pericolo e si adoperò a salvare vite, ma al tempo stesso contribuì a far accusare, torturare e bruciare come strega una cameriera, il cui padrone pativa strani dolori di stomaco. Quel medico, scrive Manzoni, “partecipava de’ pregiudizi più comuni e più funesti dei suoi contemporanei: era più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera”. Così questi uomini di cultura che riflettono sullo stato dei costumi, prodotti e consumi culturali italiani sono avanti a tutti (per intelligenza, esperienza, arguzia) e dicono molto di vero, ma sono incapaci di liberarsi dai pregiudizi che derivano, in sostanza, dall’essersi formati dentro un sistema culturale poco adatto a comprendere quello che sta accadendo in una parte di mondo sempre più invadente e sempre meno virtuale, e reagiscono spesso con un massimalismo antitecnologico che è di fatto una forma di populismo. La nuova strega sono i “media elettronici”, causa pressoché unica della peste digitale che sbriciola i cervelli e rischia di lasciare senza lavoro i critici e gli editori. 

 

Credo che il problema principale dell’assunto di Berardinelli e di molti altri assunti analoghi stia, prima ancora che nella loro verità, nell’approssimazione con cui vengono definiti i contorni del “nemico”. E questo proprio nel momento in cui tutti coloro che, per ragioni professionali o personali, hanno qualcosa da dire riguardo le sorti del libro e della lettura dovrebbero sentire la responsabilità di vietarsi ogni vaghezza e affilare lo sguardo in merito a ciò che accade in rete, a maggior ragione se si pensa che stia lì il nodo del problema (questa richiesta, mi sembra, non è troppo diversa da quella che Berardinelli fa per l’ambito letterario). Parlare di “media elettronici” come causa della crisi del mercato librario non ha più senso di quanto ne abbia il dire che la guerra in Siria è provocata dagli esseri umani. La rete non è un continente unitario, ma un insieme di continenti che si creano, si uniscono e si separano in una metamorfosi continua, dove agiscono tendenze in parte sinergiche e in parte opposte, e dove “lettore” e “non lettore”, “libro” e “non libro” possono significare, anche contemporaneamente, cose diverse fra loro e diverse da quelle a cui siamo abituati. L’altro corno del problema è che gli strumenti tradizionali di osservazione sistematica dei comportamenti sono sempre meno in grado di restituire un quadro oggettivo dei fenomeni della rete, che accadono in tempi, modi e dimensioni in gran parte fuori dalla nostra possibilità di monitoraggio e controllo (la gran mole di tracce che lasciamo nel corso della nostra vita digitale è gestita in maniera non trasparente, e dunque è come se non esistesse, o è fuorviante). Eppure tutte queste difficoltà non esimono dall’impegno di capirne di più, ma anzi lo rendono più urgente e necessario.

 

È vero dunque che negli ultimi anni il libro è diventato (più di quanto già non fosse) un idolo laico, ipostasi di un sistema di valori minacciato da una nuova barbarie ipertecnologica, patria dell’uomo di cultura e in quanto tale oggetto da difendere a tutti i costi e al di là del merito. Come sempre, prima si vince la guerra e poi si discute del perché, con chi e contro chi si è combattuta. L’argomento che continua a essere il più convincente per una larga fascia di pubblico riguarda i pregi del libro di carta come interfaccia materiale, come contenitore; ma non tanto per i motivi specifici che rendono ancora oggi la lettura su carta più appagante e funzionale della lettura a schermo (e ce ne sono diversi); il punto è la percezione soggettiva del valore, la possibilità di stabilire con lo strumento di lettura un rapporto emotivo prima ancora che intellettuale. Il carisma del supporto prevarica il contenuto, fino a renderlo quasi un pretesto.

 

 

Un articolo di Paula Cocozza (How eBooks lost their shine) uscito poco meno di un anno fa sul “Guardian” commenta l’arretramento della lettura digitale negli USA (in realtà discutibile) e la parallela ripresa del cartaceo con queste parole (il corsivo è mio): “Another thing that has happened is that books have become celebrated again as objects of beauty […] Once upon a time, people bought books because they liked reading. Now they buy books because they like books”. Un tempo si compravano i libri per leggerli, ora si comprano perché sono belli, e gli editori si impegnano a farli sempre più belli e seducenti alla vista e al tatto, anche per segnare la distanza dal ben più rozzo libro digitale: questa, che l’articolista celebra come una rivincita del cartaceo dopo tanti anni di ripiegamenti forzati, a guardar bene rischia di essere una gloria effimera, e dovrebbe suonare come un segnale di allarme per tutti coloro che fanno libri non soltanto per decorare gli scaffali. Nel XV secolo molti copisti reagirono alla minaccia del libro a stampa calcando la mano sulle caratteristiche che la nuova tecnologia non riusciva a eguagliare: miniature elaborate e coloratissime, calligrafia esasperata: in una parola, allora come oggi, l’alta definizione rispetto la bassa definizione del nuovo medium, per citare un recente libro di Massimo Mantellini; i codici erano senza dubbio più belli, più preziosi, più piacevoli da guardare e sfogliare dei primi incunaboli; ma non bastò: non sempre, e non in tutte le fasi di passaggio fra tecnologie l’alta definizione è un valore assoluto, o sufficiente a determinare una scelta.

 

Peraltro, se ogni medium è la rimediazione di un altro medium (ovvero il nuovo medium imita il precedente per incorporarlo e progressivamente sostituirlo), nel primo periodo il confronto è a portata di mano ed è piuttosto semplice per i detrattori evidenziare i limiti della nuova tecnologia e nasconderne, sminuirne o svalutarne i vantaggi; ma nel medio termine i vantaggi emergono, e i limiti vengono superati, o ci si abitua perché i vantaggi sono, comunque, superiori agli svantaggi. Come ai tempi di Gutenberg, anche oggi si tende a far leva su elementi estrinseci, lasciando in ombra la prima ragione d’essere del libro: il contenuto. È come se per amare un libro non fosse più necessario leggerlo, ma bastasse averlo, oppure leggerlo male, o solo in parte (e leggere libri mediocri o pessimi fa parte dello stesso quadro). Più la nostra vita intellettuale si impoverisce, più si cerca di reagire nascondendo a noi stessi prima ancora che agli altri questo impoverimento, e il libro (ma il libro di carta, ben piantato sulle mensole) è ancora oggi lo strumento più efficace per affermare uno status intellettuale. Al contrario (è fin troppo banale dirlo) per il lettore vero, per chi, cioè, acquista o comunque si procura un libro in base a priorità di contenuto, la scelta di dove leggerlo, se su carta o in digitale, non è certo irrilevante, ma è comunque secondaria rispetto alla possibilità di leggerlo (possibilità economica, disponibilità materiale, comodità d’acquisto, di conservazione, di consultazione; ma anche senso di responsabilità per l’ambiente e le risorse, che attualmente pesa poco o nulla, ma dovrebbe).

 

La modesta ripresa, in Italia, della vendita di libri nei canali trade (+ 2,5% a valore nel 2017, + 1,2% a copie secondo i dati AIE), accanto al calo del numero dei lettori, che continua (40,5% nel 2016 secondo i dati Istat) è, io credo, e con un paradosso solo apparente, un ulteriore indicatore della marginalizzazione della forma libro, e quindi di crisi strutturale delle forme di lettura tradizionali. In altre parole, il libro si sta progressivamente spostando in zone sempre più lontane dal proprio originario centro di senso, nelle quali potrà essere facilmente sostituito da altro senza percezione di perdita: questo movimento può dare l’impressione di un dinamismo positivo, ma è il contrario. Allo stesso modo lo stallo, il rallentamento o l’arretramento che più o meno ovunque sta avendo il libro digitale, perlomeno quello distribuito dai grandi editori (in Italia + 3,2 nel 2017, rispetto al + 21,6 del 2016: dati AIE) non è da festeggiare con un trionfalistico Print is back, come se fosse la dimostrazione che l’eBook è un fenomeno transitorio (ovvero nel modo in cui l’hanno commentato pressoché tutti i Ludovico Settala dell’editoria). La maggior parte dei libri elettronici che formano oggi l’esiguo 5,2% del mercato sono incunaboli digitali che cercano di ripetere da vicino il libro tradizionale: sono a tutti gli effetti libri, anzi moltissimi sono libri cartacei digitalizzati, e del resto il carattere primitivo dei formati più diffusi renderebbe difficile fare qualcosa di troppo diverso; il passaggio dalla carta al supporto elettronico è nella maggior parte dei casi un processo banale, a ribadire il fatto che sono entrambi parte dello stesso universo teorico, e l’esperienza di lettura migliore si ha su strumenti dedicati (eReader) con una tipologia di schermo (eInk) che pur col grande limite del bianco e nero cerca di replicare nella maniera più fedele possibile le caratteristiche della carta (non è retroilluminato, non stanca la vista nella lettura protratta).

 

La maggioranza di quanti leggono libri digitali legge anche libri cartacei, scegliendo a seconda della convenienza, della tipologia di libro, di fattori certamente anche emotivi, ma non soltanto emotivi. Insomma sono lettori veri, certo più veri dei lettori per i quali la carta è ormai poco più di un feticcio: il problema è che sono sempre meno. Se nel XV secolo la forma libro era in ottima salute e proprio la rivoluzione tipografica contribuì in maniera determinante a diffonderla e quindi ad aumentare la richiesta, la rivoluzione digitale si colloca al contrario in un periodo in cui il libro vede il proprio ruolo notevolmente ridimensionato, parallelamente al crescere di una pigrizia intellettuale che cerca ovunque il più comodo sfogo. Eppure è sbagliato affrettarsi a collegare le due cose in maniera meccanica, e dare per scontato che la crisi del libro sia provocata dai media digitali: prima di tutto, lo si è già detto, perché i media digitali, senza ulteriori specificazioni, non sono una categoria utilizzabile per costruirci sopra dei ragionamenti. Tutti i fenomeni esaminati fin qui, per l’ambito del cartaceo e del digitale tecnicamente ma non ontologicamente disruptive, partecipano della crisi, organica e di lunga durata, della forma libro, non come supporto, ma come modalità privilegiata di creazione e di trasmissione del sapere. Il libro digitale, quel 5,2% di cui si è detto, fa ancora parte della stessa tradizione culturale e di questo mercato editoriale; eppure, nello stesso momento, appartiene a una dimensione “altra”, nella quale si sta sempre più ridefinendo la lettura e in generale il consumo di contenuti, in modalità quasi del tutto fuori dal controllo degli operatori tradizionali, e soprattutto sempre più frammentate, sempre più lontane dalla cultura della complessità di cui parla Gino Roncaglia nel suo ultimo lavoro, e di cui il libro è stato e in parte è ancora l’espressione più alta: perdere di vista il libro digitale significa, per un editore, perdere di vista il proprio core business e pregiudicare il proprio futuro; frenarne artificiosamente la crescita, come molti fanno e alcuni orgogliosamente rivendicano, significa contribuire per la propria parte alla crisi del mercato, di un modello culturale, di un tipo di lettore; e proprio del lettore più vero e sincero, che andrebbe studiato e corteggiato e non colpito col fuoco amico, perché è l’unico che può aiutare chi pubblica libri a non imbalsamarsi nel presente, e a connettersi a nuovi possibili spazi di progetto, se ancora sono possibili. 

 

Mentre lo scrivo, mi fa un po’ impressione che si debba ripetere ancora oggi quello che già era chiaro cinque anni fa; rispetto ad allora, possiamo forse lasciarci alle spalle con minori ansie un ultimo specioso assioma: come il libro è altro dal contenitore, allo stesso modo il libro non è l’editore, e meno che mai quel pugno di cinque editori che da soli fanno oltre il 60% di questo mercato stanco e fragile. La maggior parte di loro ha già completato una sanguinosa resa dei conti interna per adattarsi al nuovo contesto economico, o sono sulla buona strada; ma raramente questo processo di ridimensionamento e ricambio ha toccato i piani alti. Sempre disponibili a fraintendere segnali ambigui e a ignorare segnali chiari, scarsamente inclini alla critica e ancor meno all’autocritica, credono che il peggio sia passato, e si godono il loro personale ritorno all’ordine. In Fiesta di Hemingway c’è questo interessante dialogo: “‘Come sei finito in bancarotta?’ domandò Bill. ‘In due modi’ disse Mike. ‘A poco a poco e poi all'improvviso’”. 

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L’Italia vista dalla moda 1971-2001

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Rendere evidente un universo di senso, cristallizzare e interpretare lo spirito del tempo: ecco ciò che costituisce il fine ultimo di una mostra.

Generalmente una mostra viene discussa in fieri, vale a dire prima dell’inaugurazione, oppure per annunciarne il catalogo, ma, come mi ha suggerito Maria Luisa Frisa, curatrice di Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001 insieme a Stefano Tonchi, è necessario riflettere sulla sua specificità di dispositivo testuale, in quanto si tratta di una narrazione tridimensionale che richiede di andare oltre i singoli pezzi esposti e valutare le impressioni, le esperienze generate al suo interno. 

Mi piace pensare a Italiana come un organismo vivente, una donna, un essere di e alla moda che osserva la sua immagine riflessa nello specchio Ultrafragola (Ettore Sottsass per Poltronova, 1970), strategicamente posizionato in una delle nove stanze della mostra, quella delle meraviglie, un diorama mediante il quale sono state ricostruite e realizzate le suggestioni abitative di «Domus» e «Domus moda».

 

Da questa camera incantata Italiana, l’incarnazione della moda, osserva l'Italia da una prospettiva peculiare e privilegiata, anche se, per ricalcare la citazione pasoliniana del sottotitolo scelto dai curatori, per quanto ne possa avere una visione d'insieme, si rivela comunque parziale, poiché mossa da spirito di parte a causa del suo essere immersa, imbevuta della sua cultura, similmente a come accade alla terra vista dalla luna, il cui aspetto cambia a seconda dell’angolazione dei raggi del sole. 

Anche Italiana è cangiante, tanto che su Vogue di aprile del 1971 la moda di quell’anno viene espressa attraverso le 4V di viva, violenta, vistosa e variabile, aggettivi che ben si accordano con il sostantivo Italiana poiché i suoi tratti caratterizzanti sono ancora visibili, viventi, nelle collezioni contemporanee, nonostante le ovvie fluttuazioni dovute al passare del tempo.

In quegli anni prende forma un fenomeno di costume che ancora oggi viene presentato come innovazione e sovvertimento del processo di nascita delle mode, cioè lo street style, lo stile che gemma spontaneamente dal basso, quello del senso comune. Le 4V elencate da Vogue abitano la strada, non la passerella, perché ormai il buon gusto è per tutti grazie a Walter Albini e al prêt-à-porter, la prima forma di democratizzazione della moda, giunta a noi molto prima di Zara e compagnia. 

 

 

In quegli anni ci si rende conto che sono gli spazi a influenzare la moda poiché il loro investimento semantico equivale al ruolo tematico assunto tramite l’abbigliamento: yuppies, valchirie aziendali, paninari, e via discorrendo, ovvero la dimostrazione che non ci si veste per coprirsi, ma per significare, per trasmettere un messaggio, poiché all'epoca, come ora, l'appartenenza a un gruppo andava esplicitata ed era di fondamentale importanza per la rappresentazione identitaria. La narrazione tridimensionale di Italiana illustra la costituzione di un sistema di valori a partire da una manipolazione ragionata dei tratti e dei motivi dominanti di una cultura. Non si tratta di un semplice processo di stereotipizzazione, ma di concrete pratiche di manipolazione dell’immagine finalizzate al dover-essere di un corpo in una cultura, in cui le varie silhouette assunte da Italiana sono il risultato visibile e percorribile della summa di prescrizioni di forme e dimensioni, di modificazioni del corpo, di un codice universale con cui comunicarsi.

 

Il racconto di Italiana continua nel catalogo della mostra (Marsilio 2018), molto complesso e all’insegna della contaminazione tra generi testuali, che restituisce in maniera impeccabile le tappe del viaggio di ricerca compiuto dai curatori, accompagnati da giornalisti, ricercatori, scrittori, in cui emerge la chiave di lettura polifonica e multidisciplinare volta a chiarire il processo di referenzializzazione dei vari modelli interpretativi, da considerare paradigmatici per qualsiasi tipo di indagine. Dunque non solo un volume a commento dell’esposizione, ma un vero proprio manuale delle pratiche curatoriali e di ricerca, utile per imparare un metodo, o meglio ancora un atteggiamento scientifico che Frisa definisce come postura attivista, improntata al fare e ispirata alla figura del critico militante. 

La prima parte del catalogo è organizzata in forma di atlante iconografico dove, insieme agli scritti che approfondiscono i temi portanti del percorso espositivo e alcuni marchi, sono state selezionate e raccolte le doppie pagine dei periodici di quei trent’anni, latrici di un “racconto visuale della moda, in quanto dispositivi che simultaneamente fotografano e determinano gli stili, attraverso un mix di moda, attualità, cinema, televisione, arte e attingendo a più registri”, come ben descrive Gabriele Monti.

 

 

Le immagini selezionate ed esposte, non solo omaggiano i fotografi italiani di quei decenni – Gian Paolo Barbieri, Alfa Castaldi, Aldo Fallai, Giovanni Gastel, Paolo Roversi, Oliviero Toscani – ma rappresentano il corpo come una unità espressiva compiuta attraverso la gestualità, un veicolo di significati che guidano il percorso di lettura del destinatario del testo, accordandosi allo stile e all'intentio operis.

La riproduzione ostensiva e manualistica del corpo e delle sue forme, da osservare e in cui osservarsi, genera effetti di rispecchiamento, raddoppiamento per omologazione, e di uniformazione delle diversità individuali, puntualmente immortalate negli scatti pubblicati sulle doppie pagine.

Dalle doppie pagine alla Moda scritta, quella barthesiana, il passo è breve, e l’atlante iconografico fa spazio all’antologia della pubblicistica sulla moda italiana, dove troviamo contributi di addetti ai lavori e di esponenti della cultura, tra cui Umberto Eco con “L’abito parla il monaco” (1976-77) e l’appena scomparso Gillo Dorfles che titola il suo articolo con un’affermazione forte e utilissima: “Ma la moda è una cosa seria” (1981). Entrambi scrivono di significati, monaci e grassi commendatori perché hanno compreso che l’abbigliamento, gli accessori, l’arredamento, il portamento, non solo parlano una lingua, ma esprimono anche ideologie, influendo sugli scambi, sulle relazioni, sulla percezione che gli altri hanno di noi. 

 

Eco e Dorfles, proprio a partire dal vecchio adagio, giungono alla stessa conclusione: chi non ha intenzione di appropriarsi o di comprendere tale linguaggio compromette la sua partecipazione alla Cosa Pubblica, rimanendone fuori, impossibilitato a modificarla.

A proposito di res publica – il lettore mi perdonerà l’azzardo di questo flusso di coscienza – ho trovato uno spunto di riflessione interessante nella sezione del catalogo L’Italia degli oggetti, illustrata da Riccardo Miotto, dove viene proposta una lista delle icone del 1971-2001, tra cui troviamo anche il Goggle jacket C.P Company che mi ha riportato alla memoria la versione piumino indossata nel 2013 da Beppe Grillo, durante una sessione di jogging a Marina di Bibbona, usata per schermarsi completamente dall’assalto dei giornalisti, tramutandosi in uomo-mosca. Il goggle jacket ha la particolarità di avere delle lenti scure incastonate nel prolungamento del cappuccio, a coprire completamente il volto, e il suo ideatore Massimo Osti ha tratto ispirazione dall’abbigliamento militare e sportivo per progettare un capospalla adatto alla sopravvivenza nella giungla urbana, in grado di assicurare completa protezione dagli agenti atmosferici e dai paparazzi. Elda Danese, nella scheda dedicata al giubbotto, definisce il suo design steampunk, e se, grazie a Eco e Dorfles, ormai abbiamo accettato di buon grado che l’abbigliamento identifica posizioni ideologiche, l’abbinamento tra Grillo e il goggle jacket acquisisce ancora più senso, dato che parliamo del fondatore di un partito con velleità innovative regolate da un organo d’antan come il direttorio. 

 

Politica a parte, tra gli oggetti di Italiana ce ne sono alcuni tornati in auge proprio negli ultimi tempi, come la felpa Best Company, tanto amata dai paninari, probabilmente all’oscuro della presenza dei preziosi ricami in seta e cachemire pensati da Olmes Carretti, che dopo 35 anni torna sul mercato con una filosofia immutata dei filati, lasciando inalterati anche i prezzi, con relativa conversione lire-euro al centesimo.

 

 

Continuando la rassegna, mi ha colpito, per riallacciarmi al discorso sullo street style di cui sopra, la fascia da tennis marcata Fila, gruppo italiano diventato di proprietà sudcoreana, vista prima a Björn Borg e poi a Richie Tenenbaum, germe della risemantizzazione dello stile preppy operata dallo dai rapper americani che, come scrive Silvia Schirinzi, ne hanno consolidato la coolness. Cosa altro indossano oggi i rapper? Su tutti Gucci, che ritroviamo negli oggetti di Italiana con i mocassini, analizzati da Alessandra Vaccari, caratterizzati dalla tomaia impunturata a U e la miniatura metallica del morsetto da cavallo, inventati da Aldo Gucci, recuperati dagli yuppie, rilanciati da Tom Ford, e riscritti completamente da Alessandro Michele che è riuscito a farli indossare a chi non aveva conosciuto altra scarpa al di fuori delle sneakers. 

Tutti gli elementi della mostra servono a creare un’atmosfera attraverso una serie di oggetti, di immagini, di opere o di outfit tematizzati, ispirati a un paese, a una persona, a una corrente culturale, da non intendere come un contenitore vuoto la cui forma significa solo in unione con la sostanza corporea, bensì da mettere a sistema con i rimandi intertestuali forniti dal dispositivo curatoriale. In questo modo un capo o un total look esposto assume una natura triadica che può essere interpretata solo condividendo una cultura di riferimento, un’enciclopedia. 

 

La mostra è un punto di partenza – afferma Frisa – per restituire la mitologia alla moda italiana che corre il rischio di non preservare la sua memoria, donandole un aspetto programmatico volto a rafforzarne lo stato dell’arte e l’immaginario.

Il dinamismo della moda e la sua efficacia dipende anche dal sistema di traduzioni/citazioni di motivi appartenenti alla storia del costume, e al loro conseguente adeguamento allo spirito dell'epoca contemporanea. Perciò voglio considerare Italiana, nel suo essere dispositivo mostra e dispositivo catalogo, come un peculiare esercizio di memoria collettiva, orientata alla riscrittura e alla “creolizzazione” delle tradizioni del trentennio di riferimento. La riformulazione dei sistemi semiotici del passato serve a appropriarsi di esso e a semplificarlo dando luogo a nuove strutture ed effetti di senso prima sconosciuti, in questo caso ravvisabili nelle nove stanze tematiche. Il visitatore entra in contatto con la memoria del passato che ha plasmato la moda presente asservendosi a essa come strumento di rinnovamento, prendendo spunto da distinti ambiti e molteplici ispirazioni culturali. 

 

Italiana è un archivio di citazioni non nostalgico, la cui linea curatoriale ha privilegiato la costruzione di un dialogo tra gli oggetti, preservandone l’identità e l’autorialità, in modo da dare vita a un percorso di visita durante il quale a ogni passo si aggiunge un tassello alla visione d’insieme della moda 1971-2001. Pertanto i curatori, come ha giustamente sottolineato Maria Luisa Frisa, hanno fortemente voluto un allestimento semplice – solo in apparenza – per privilegiare i concetti e i contenuti, ossia i vertici del reticolo di temi, alla cui spalle c’è una complessa riflessione sul design dell’illuminazione, per preservare gli oggetti esposti e offrirli ai visitatori valorizzando la loro “bellezza naturale”, per non alterare cromie e testure, e soprattutto evitando quell’effetto di abbagliamento, spesso provocati da faretti troppo forti. 

Italiana affascina senza ammaliare, rifuggendo da quelle spettacolarizzazioni asservite al fattore di instagrammabilità, sempre più frequenti nel panorama delle mostre mondiali. 

 

Ed è proprio Instagram a far parlare l’istanza collettiva dei visitatori, aggregata tramite l’hashtag #italianaexhibition, grazie a cui possiamo risalire agli oggetti in mostra più impattanti: oltre al diorama citato in apertura, troviamo un outfit di Versace caratterizzato dalla stampa barocco riportata in auge nella recentissima collezione tributo, il completo crop top e short di Dolce&Gabbana con la macrostampa “Made in Italy”, e l’opera “Tutto” (1992-94) di Alighiero Boetti, uno zibaldone coloratissimo dove impera la diversità che acquisisce senso nel montaggio di vari elementi, uniti da una comunicazione dinamica. 

L’interazione del tutto con le sue parti presentifica simultaneamente in un solo oggetto i vari tasselli dell’affresco corale della moda 1971-2001 chiamato Italiana.

 

 

Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001, a cura di Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi (Palazzo Reale, Milano, fino al 06 meggio 2018).

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Palazzo Reale (MI) fino al 06 meggio 2018
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Europa e globalizzazione: cosa ci mostra Brexit?

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I paragoni tra le epoche storiche sono occasionali: quando studiamo un’epoca lo facciamo perché siamo attratti da un’inconsapevole rispecchiamento in essa e conseguentemente la rileggiamo attraverso quello che vorremmo capire di quello che siamo. In questo modo il passato ci aiuta a orientarci e per questa ragione non si finisce mai di studiarlo, perché nella misura in cui si sposta il nostro punto di vista mentre viviamo, anche il passato rivela aspetti che prima non ci erano visibili.

 

La crisi dei sistemi di governo, ieri di ducati come Parma e Piacenza, Guastalla, Toscana, le vecchie repubbliche di Genova e Venezia prima dell’arrivo di Napoleone, oggi l’inadeguatezza degli stati nazione alle domande della contemporaneità, che in gran parte li esauterano. Le nostalgie della destra, dalla Francia all’Ungheria ma che oggi nella Brexit trovano la più seria delle realizzazioni, lo rendono estremamente evidente. Fuori dall’Europa esiste solo un’involuzione economica, sociale, culturale che non può che avere nostalgia di vecchi passaporti e di retoriche evocazioni della seconda guerra mondiale, dalla Darkest hour di Winston Churchill del film di Joe Wright all’evacuazione di Dunkirk nel film di Christopher Nolan. L’altra sera, girando da un canale all’altro della televisione inglese, mi ha fatto un’impressione tristissima vedere tanti programmi dedicati alla seconda guerra mondiale: uno sulla figlia di Churchill, un altro su documenti appena scoperti che rivelano la vera storia di Dunkirk e così via. Anche se fosse involontario, questo tentativo di corroborare un’identità ne rivela fragilità. Come un vecchio signore che inizia a elencare i suoi passati successi,  prima o poi inizia ad apparire un vecchio trombone.

 

 

Al di là dell’Europa, il vero problema è la globalizzazione: né per gli inglesi né per nessun altro è possibile immaginare un destino fuori dalla crescente globalizzazione. Dovremmo disinventare internet, i voli aerei, il flusso di beni, persone e soprattutto informazioni a una società al di fuori da qualunque controllo non solo statale, ma di chiunque. Siamo in una crisi delle democrazie, in generale una crisi proprio della governance in cui la politica diviene solo uno degli attori, e neppure il più potente, delle vicende sociali. Paradossalmente, rivolgendosi alla perduta sovranità, i cosidetti populismi ne mostrano e accellerano la crisi, come si vede appunto in Brexit. Perché indietro non si torna mai e quello che è stato presentato come un “riprendere il controllo” (take back controls) precipita le dinamiche disintegrative. La politica inglese è paralizzata in questa discussione da un anno e mezzo, non riesce a far emergere nessuno dei temi di cui di solito si occupano le amministrazioni statali, comunale, europee, mondiali. Dalle scuole agli ospedali, dalla spazzatura alla distribuzione delle ricchezze tutto è passato in secondo piano rispetto a una discussione ideologica sull’identità. Così è regredita a un rapporto con Scozia, Galles e Irlanda prenovecentesco in cui le altre nazioni sono trattate come colonie o possedimenti inglesi e l’autorevolezza del governo di Westminster si erode quotidianamente in uno spettacolo piuttosto triste. Aluni incolpano la debolezza di Theresa May, ma la crisi la supera (ed è per questo che non si fanno avanti altri candidati). 

 

Allo stesso modo è difficile capire in quale modo si possa sanzionare Facebook per il poco controllo che esercita sulle informazioni che raccoglie dai suoi utilizzatori: si è tentato di trattarlo come un editore, ma le leggi del vecchio mondo non sono imponibili dagli stati nazioni, come dimostra il caso della evasione fiscale di Google in Irlanda di cui si è infatti incaricata l’EU, la natura rizomatica del capitalismo che sposta risorse, beni e persone dove trova ostacoli e prolifera dove trova terreno fertile. 

In generale ci è chiaro, è la vita di tutti noi: la globalizzazione spinge le trasformazioni che descrivo dai cicli economici ai sistemi universitari, dalle informazioni alle biografie dei cittadini, tanto che è difficile capire cosa sia davvero un contesto nazionale. Io faccio avanti e indietro con Londra da tutta la vita e 35 anni fa viaggiare in aereo costava molto, c’erano un paio di voli al giorno, gli aerei erano semivuoti. Oggi tra Venezia e Londra ci sono una quindicina di voli al giorno, costano meno di un treno Venezia Roma, sono tutti pieni di gente che lavora. Questo senza prendere in cosiderazione Google e Facebook, la facilità con cui si può spostare il denaro in Europa (una volta bisognava svuotare le tasche alle frontiere, oggi all’interno di Schengen non ci sono più neppure quelle). 

 

L’Europa tenta di esercitare una funzione plasmatrice dei flussi migratori e delle crisi finanziarie, ma forse è lei stessa un’approssimazione, sospesa tra l’imitazione di un superstato federale e il futuro che cerca ma non riesce davvero a inventare, e quindi non arriva ancora a supplire al ruolo sempre più deficitario degli stati nazione. Forse questo non è un male. Soprattutto se guardiamo il settecento. Immaginare che il Granducato di Toscana, la Repubblica di Venezia o di Genova, Parma e Guastalla o lo Stato della Chiesa riuscissero a intravedere l’Europa dopo Napoleone è assurdo. Brexit ci mostra anche questo: con tutta la tenerezza, la gratitudine e l’affetto che si può avere per la storia inglese, riesce difficile immaginare che dal gruppo di populisti nostalgici che ha preso in mano il partito conservatore con il Referendum, possa emergere una visione per il futuro loro o di chiunque altro. Annaspano rifriggendo le stesse frittate senza riuscire a fare alcun progresso, dall’Irlanda al Mercato Comune o l’unione doganale, dai diritti dei cittadini europei in Gran Bretagna a quelli Britannici in Europa. Anzi, proprio nel cupio dissolvi della nostalgia identitaria, riappaiono tutte le ferite dell’Impero.

 

Quanto tempo ci vorrà ai vincitori delle elezioni italiane, che hanno flirtato con tanta leggerezza con un’agenda antieuropea, spesso generosamente sostenuti da quelle forze che dal crollo dell’Europa avrebbero diversi vantaggi, per rendersi conto che non è colpa di una classe dirigente che li ha preceduti o della corruzione se la crisi riguarda un po’ tutti, Venezia e Guastalla, i comuni liberi della Lega Anseatica e l’Europa medioevale? Certo che l’Europa non basta: ha infiniti problemi, ma certamente protegge chi vi partecipa in modo incomparabilmente superiore a quanto possano fare gli stati nazione. Matteo Salvini, che dall’alto delle sue competenze economiche ci avverte che l’Euro è condannato, non ha per la sua giovane età memoria di cosa fosse la lira, quando da un giorno all’altro venivano spazzati dai conti correnti e dalle proprietà immobiliari degli italiani il valore reale dei loro risparmi, che vuol dire che una casa che vale 100 la mattina dopo vale 50. Se lo ricorda invece bene la Grecia, che nonostante i prezzi terribili che le sono stati imposti ha cercato di tenersi aggregata a questa moneta. Lo sanno bene i paesi che dai margini dell’Unione si sforzano diligentemente di adeguarsi ai parametri economici per entrare nell’Euro e in Europa, lo dicono la Crimea e la guerra in Ucraina, i milioni di africani che cercano di attraversare il mediterraneo e a cui l’Europa, che vive una crisi demografica che la minaccia anche più di quella democratica, deve far spazio se vuole sopravvivere nei prossimi vent’anni.

 

In questo mondo travolto da crisi, in cui con genio e risolutezza si affacciano anche innovazioni e soluzioni meravigliose e non solo crolli e crisi, i cosidetti intellettuali hanno un ruolo diverso dal passato. Come durante l’illuminismo, godiamo di un’epoca solarmente razionale, illuminata, dove il sapere scientifico ha portato innovazioni tecniche in tutti gli aspetti della vita privata e sociale. Dalla medicina ai trasporti, dalle comunicazioni alla robottizzazione, sono proprio le innovazioni a determinare profondamente le trasformazioni dei territori e dei sistemi politici. Per non far rivoltare nella tomba Leopardi cerchiamo di distinguere bene queste trasformazioni da qualunque illusione di progresso. Non andiamo verso la felicità più di quanto non andiamo verso la catastrofe. Avviene tutto e il contrario di tutto. Noi lo abitiamo, siamo qui, ci sforziamo di attraversarlo. Ma proprio rifacendoci al paragone con il settecento, alcune cose ritornano. Alla figura dell’intellettuale romantico, parodiato dalla Palinodia a Gino Capponi e fino alle mosche cocchiere di Gramsci, si è negli anni sostituita una figura simile a quella degli avventurieri settecenteschi, in una declinazione deleuziana di intellettuali deterritorializzati. Piuttosto che identificarsi con una classe sociale o un territorio, proprio come Da Ponte e Casanova, Rousseau o Goldoni, Mozart o Mendhelsson, Canaletto ecc. ecc., gli autori, i pittori e soprattutto gli scienziati vivono attraversando i territori. Questo è contraddittoriamente parte del profilo accademico, che premia l’internazionalizzazione, e quindi delle varie forme di sostegno allo studio che fin dal programma Erasmus e poi attraverso tutta la carriera, promuove mobilità. Inevitabilmente questa mobilità separa le società nazionali in due: chi ha un’educazione universitaria (in Inghilterra il 40% contro il 2% del primo dopoguerra, in Italia 26%) ha una prospettiva diversa dagli ampi strati della popolazione che a questa mobilità non ha accesso. C’è naturalmente grandissima mobilità anche nel lavoro manuale, e proprio questa spesso produce una trasformazione sociale ieri impensabile. Chi è andato a lavorare in un bar a Londra o a Berlino, spesso lì inizia a studiare o anche se torna a casa senza una qualifica ma conoscendo l’inglese o il tedesco può fare un salto professionale. Lo stesso panorama delle istituzioni che erogano istruzione superiore si è articolato in direzioni diverse cercando di incontrare queste trasformazioni.

 

La disaffiliazione sociale e territoriale dei soggetti è l’inevitabile conseguenza di questa separazione: si svolge nei matrimoni e nelle amicizie, è lì che si radica l’antinazionalismo e l’antifascismo dei giovani a cui le nostalgie identitarie appaiono spesso quasi surreali, parlano di un mondo che corrisponde all’inadeguatezza della loro formazione rispetto alla dinamicità della loro esperienza. In fondo un processo positivo, che permette di sviluppare competenze. Ma questo è un problema che diviene periferico di fronte alle profonde trasformazioni della vita associata. Se prevarranno le impennate nazionaliste oggi agitate contro il buon senso da nuovi politici di inquietante incompetenza, se in altre parole prevalgono i vecchi ducati in cui era divisa l’Italia, ci prepariamo a essere il territorio di una nuova sanguinosa scorribanda, che sia Napoleone, Trump o Putin. Non c’è da stupirsi che Bannon giri per l’Europa come il profeta di questo disastro. Se invece l’Europa saprà continuare a costruirsi, non ci sarà certo l’Eldorado, ma forse un’epoca che ha la dolcezza di prima della rivoluzione, in cui nascono l’Encyclopedie e in cui lavorano Haydn e Mozart, un mondo in cui saremo progressivamente più estranei ad antiche identità, ma almeno continueremo a cercare la libertà, l’eguaglianza, la fraternità che dal 1789 guida il percorso di tanti europei.

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“Tonya”: una passione violenta

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La prima volta che il “Triple Axel”, un triplo salto del pattinaggio, è stato eseguito in una competizione americana, risale al 1991, quando una donna di ventun anni, nata a Portland, si è esibita ai Campionati nazionali statunitensi di pattinaggio sul ghiaccio, a Minneapolis. Tonya Harding ha conquistato il podio, sorridendo in un costume verde acqua fluorescente, con applicazioni di paillettes. Nelle immagini originali dell’evento, quel body somiglia a un abito cucito in casa (secondo un sistema di esperienze per cui l’abito fatto a mano non è espressione di haute couture, ma di  povertà di mezzi); sa di sintetico: nel colore, nel tessuto, nella confezione. Eppure comunica anche, e in un certo senso commuovendoci, una tensione sforzata per un effetto massimo di apparenza telegenica. Quel costume, infatti, ci restituisce la tinta di un’epoca in cui si era ormai diffusa, arrivando dall’estetica televisiva anni Ottanta, la moda di usare la parola “look” per definire il progetto di espressione appariscente del sé legato al modo in cui si indossava, si truccava, insomma si rendeva più vistoso possibile il corpo. 

 

Tonya, in quegli scatti del suo successo, mostra un aspetto fisico che certo parla di una macchina di muscoli all’opera, ma esprime anche una cultura ingenua, vale a dire disabituata alla posa elegante come codice di distinzione tanto sociale quanto spettacolare. Dalle foto scattate nel 1991 quella ragazzona che ha appena raggiunto un record mondiale in una disciplina abituata a usare la bellezza come dispositivo di performance, saluta il pubblico come se fosse a un ballo della scuola, sotto al ciuffo di capelli laccati, l’ombretto celeste steso in maniera pesante sulle palpebre; senza avere niente di quello che convenzionalmente si intende per “grazia”. Sembra incredibile, meraviglioso, a guardarla, che quella figura così poco aerea, anzi così tenuta a terra da una vita evidentemente pesante, abbia eseguito, per la prima volta, un triplo volo.

 

 

Non è soltanto una questione di resistenza fisica. Per fare un triplo Axel bisogna essere particolarmente forti, ma soprattutto “coraggiosi”, perché l’Axel è l’unico numero che parte slanciando il corpo in avanti; per eseguirlo devi fare mezzo giro in più e hai più paura, perché vedi quello che fai. L’Axel è un salto che funziona per gradi di difficoltà progressiva: la condizione per farlo è perdere la paura di saltare.

 

Tonya (2017), del regista australiano Craig Gillespie – Il vampiro della porta accanto (2011), L’ultima tempesta (2016) – ispirato alla storia dell’omonima campionessa, interpretata da Margot Robbie, apparentemente è l’adattamento cinematografico di una biografia (un biopic); in realtà, per come è realizzato il film (scritto da Steven Rogers), gli elementi che più ci impressionano non riguardano la ricostruzione di episodi della vita di Tonya, né la violenza che esplode in un singolo ed eccezionale snodo (il ferimento di una rivale nel 1994, ad opera di un balordo assoldato dal marito). La violenza interessante è quella che abita l’intera vita della protagonista: l’elemento per lei più famigliare, letteralmente e simbolicamente. Come indica il titolo originale (I, Tonya), il film intende metterci, finalmente, davanti alla verità di Tonya. Che non è più soltanto colei che vola sotto i riflettori o che ha fatto aggredire la sua avversaria, ma è un corpo che entra in scena, quando ancora il fondo è nero, sporcando il silenzio con un colpo di tosse, per prendere evidenza dentro una comune cucina, da cui la donna, come se si trattasse di un’intervista autentica filmata nel 2014, comincia a raccontarci la propria storia.

 

 

 

Da qui comincia a svolgersi il filo che andrà avanti per tutto il film, intrecciando i due livelli della testimonianza (di Tonya, della madre, del marito e degli altri personaggi principali) intorno ai fatti  divulgati; e quello della storia fatta rivivere in presa diretta:

 

Tonya Harding, 1991. Margot Robbie in Tonya, 2017.

 

Per come è costruito (vale a dire per il modo in cui si riproducono falsi documenti storici sotto forma simulata di interviste o immagini di repertorio, secondo gli usi del mockumentary),  per i dettagli della storia su cui decide di portare lo sguardo, Tonya ci chiede di restituire profondità narrativa a un evento di cui il sapere comune aveva conservato soltanto le immagini e i passaggi più impressionanti e vistosi. Il film ci fa attraversare un episodio di cronaca nera per mostrare quanto la violenza sia stata non l’eccezione ma la norma, nell’ambiente in cui è cresciuta questa campionessa di pattinaggio così anomala, così antipatetica, eppure così in sintonia con la musica anni Ottanta (una delle cose migliori di quegli anni) che fa da colonna sonora al film.

 

Tutto, in lei, è strano, non conforme all’immagine dell’America «sana» che i selezionatori di una gara internazionale di solito vogliono dare. Non solo, dunque, il crimine di cui è stata complice, ma il modo scomposto di vestirsi, di fumare, di trattare male le persone, di protestare contro i punteggi, di far male le figure obbligatorie. Tonya è in protesta perpetua e prende le botte da tutti: non solo dalle rivali con cui, una volta smesso il pattinaggio, combatterà la boxe, ma dalla madre, dal marito, e in un certo senso pure da chi, durante le gare, non ammette di farla vincere perché non corrisponde ai canoni di “bella presenza” o non indossa un costume da cinquemila dollari. Tutto è scorretto nella sua vita, compreso il triplo Axel, un salto “fuori dalla norma” che di solito nemmeno si fa. 

 

 

Non esiste talento laddove non esista anche qualcosa o qualcuno che, fosse pure per contrasto e opposizione, non ti “incoraggi”. Ma se tutti i talenti felici si somigliano, di solito sono i talenti infelici che conoscono una fortuna narrativa, perché è allora che il talento diventa, se non c’è cura, risposta disperata e creativa all’assenza, oppure ansia da prestazione per scongiurare un abbandono, una solitudine, una fame di attenzione. Lì nasce e prospera il racconto. Quasi tutte le storie di sport che il cinema ha rappresentato mettono in scena non soltanto una biografia individuale, ma la storia potente di una relazione: con un genitore, un allenatore, un magnate ossessionato, un parente, un amico, insomma qualcuno, o qualcuna (più di tutte una madre), che ti dia, anche evocandolo in assenza, il cuore, il “coraggio”, per l’appunto, di riuscire a oltrepassare i tuoi limiti, per gridare, prima di tutto a lui, o a lei, “ce l’ho fatta!”.

 

Hilary Swank (Maggie) e Clint Eastwood (Frankie), in Million Dollar Baby (Eastwood, 2004).


In questa tensione, di solito, si gioca il nucleo forte del film: nella relazione. La maggior parte delle storie più riuscite di vicende sportive messe in scena dal cinema hanno reso memorabili grandi interpreti di questo percorso di motivazione (solo un esempio: «Adriana!» il grido emblematico e iconico di Rocky); oppure, viceversa, sono film diventati indimenticabili grazie a figure che agiscono, più che da interpreti di una storia complessiva, come grandi solisti. Come accade anche nel caso di Tonya, che in realtà è il film di due grandi numeri primi della solitudine.

 

Da una parte una madre, LaVona (una strepitosa Allison Janney, vincitrice di un meritato Oscar come attrice non protagonista), che cerca riscatto dalla miseria, lavorando disperatamente per cucire un destino di successo addosso alla propria figlia, con certe forme di dedizione assoluta che potrebbero ricordare, nelle differenze, la determinazione monomaniacale della madre di Bellissima (1951) - se non fosse che nel film di Visconti la protagonista (Anna Magnani) compie attraverso la storia una parabola tragica di riconquista del materno.

 

 

Dall’altra parte, come contraltare drammaturgico e simbolico, una figlia, addestrata fin da piccola alla rabbia per diventare una bimba prodigiosa del pattinaggio artistico: «Lei è il tuo nemico, non dovete essere amiche!», le grida davanti alle altre ragazzine.

 

Quando ho visto Tonya per la prima volta ho pensato che fosse un lavoro interessante, ispirato a una vicenda davvero significativa, ma che fosse, al tempo stesso, un’opera a tratti faticosa. Un film sgangherato (talvolta per scelta, in altri casi senza intenzione), che tiene assieme almeno tre storie di violenza. Riguardandolo, però, ho apprezzato maggiormente questo effetto di scucitura, perché non è soltanto un risultato d’insieme, ma un espediente all’opera per mostrarci la compresenza faticosa, nel personaggio di Tonya, di tre linee narrative che squilibrano di continuo il suo destino, quasi fosse un abito dai colori sbagliati e dalle proporzioni troppo corte, che tirano da tutte le parti: «I want to look pretty. Tulle’s classy, no?».

 

In primo luogo, infatti, c’è la storia del rapporto ossessivo con il proprio talento, l’unica cosa che Tonya possiede e può possedere. La macchina da presa, con i carrelli, i primi piani sui sorrisi sforzati alla fine della performance, non la molla mai nel racconto di questa tensione. Tonya ci mostra e ci fa vivere la rabbia di affermazione di chi non ha niente da perdere perché nessuno, a parte la madre, aveva previsto che lei potesse arrivare fin lì. Il pattinaggio, le dice il marito, funziona come un superpotere, alimentato dalle ansie da prestazione e di riuscita continuamente indotte dai messaggi anaffettivi e dittatoriali della madre – per certi aspetti la vera protagonista del racconto. «You fuck dumb, you don’t marry dumb!» protesta LaVona, alla festa di nozze della figlia, rimproverandole di aver sposato giusto il primo che le aveva detto che era carina.

 

Allison Janney nei panni di LaVona Golden.


In secondo luogo, Tonya è una black comedy, la storia di un crimine legato a una competizione: l’aggressione all’avversaria Nancy Kerrigan, nel 1994, alla vigilia dei Giochi Olimpici invernali di Lillehammer. Ma soprattutto, e in terzo luogo, Tonyaè un film dagli esiti disordinatamente riusciti perché usa una parabola di affermazione legata allo sport – e in particolare il topos della “vecchia gloria decaduta” – per raccontare una storia “sporca”, non convenzionale, degli Stati Uniti. Come ne Lo spaccone (Robert Rossen, 1961), o in Toro scatenato (Martin Scorsese, 1980), per fare solo un paio di esempi tratti dalla cinematografia storica; o come nei più recenti The Wrestler (Darren Aronofsky, 2008), e Foxcatcher- Una storia americana (Bennett Miller, 2014), uno dei film più belli di questi ultimi anni.  

 

Channing Tatum (Mark Schultz), Mark Ruffalo (Dave), Steve Carell (John du Pont), in Foxcatcher - Una storia americana.


«Tonya was totally America», dice di lei la sua allenatrice, la prima volta che appare intervistata. Per questo Tonya è tenuta ai margini dal sistema delle gare, che non vuole che sia lei a rappresentare gli Stati Uniti. Con i suoi cappotti di coniglio spellato nel cortile, con il suo white trash, con la sua assoluta mancanza di buone maniere, Tonya è il ritratto vivente, ma non patetico, dell’America di provincia, della vita in periferia, delle violenze domestiche che si consumano nelle case dove i nostri sguardi entrano solo quando accade un fatto di cronaca nera; dell’impasto di sogno e rabbia che fermenta sotto la maschera sforzata del sorriso, dentro un costume di scena troppo stretto, troppo colorato per farti davvero prendere il volo. Anche se sei stata la prima a eseguire un triplo Axel.

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Piero Sraffa. Ritratto del grande economista attraverso le lettere editoriali

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Il libro. Einaudi ha pubblicato 97 lettere editoriali di Piero Sraffa: la gran parte spedite a Giulio Einaudi, le restanti a Raffaele Mattioli e altri intellettuali italiani. Le lettere vanno dal 1947 al 1975 e consentono di fare qualche passo in avanti per affrontare quello che Luigi Pasinetti ha chiamato l’“enigma Sraffa”.

 

Chi era Piero Sraffa alla fine degli anni Quaranta del Novecento. Come ricorda Tommaso Munari nell’introduzione, quando inizia la corrispondenza qui raccolta Sraffa aveva una fama leggendaria. Il mito era il frutto dell’intrecciarsi di esperienze personali e scientifiche uniche. Dell’opera di Sraffa sappiamo sempre di più grazie ai lavori di Nerio Naldi, Cristina Marcuzzo, Alessandro Roncaglia e altri, nonché alla disponibilità dei suoi archivi custoditi al Trinity  College di Cambridge.

Sraffa, nato nel 1898, si era laureato nel 1920 con Luigi Einaudi, con una tesi su “L’inflazione in Italia durante e dopo la guerra”. Nel 1919 aveva conosciuto Antonio Gramsci, che sarebbe diventato il suo più grande amico. Dal 1921 Sraffa aveva pubblicato articoli su “Ordine Nuovo”, la rivista di Gramsci, e su “Rivoluzione liberale”, la rivista di Piero Gobetti. Attraverso Gaetano Salvemini aveva conosciuto John Maynard Keynes, che gli caldeggiò due articoli sulla situazione delle banche italiane. Nel giugno del 1922 Sraffa pubblicò sull’“Economic Journal” “The Bank Crisis in Italy”, denunciando con asprezza le responsabilità del Governo nella crisi della Banca Italiana di Sconto. Nel dicembre dello stesso anno uscì “L’attuale situazione delle banche italiane” sul Manchester Journal. L’articolo era più innocente del precedente ma il testo in italiano ne favorì la segnalazione a Mussolini, da pochi mesi Capo del Governo. Mussolini inviò un telegramma al padre di Piero, Angelo Sraffa, rettore della Bocconi, intimandogli di far ritrattare l’articolo, giudicato “un atto di puro e semplice disfattismo nei confronti del settore bancario”. Il padre si rifiutò di esercitare pressioni sul figlio, rispondendo che Piero si era limitato a riassumere fatti. Seguito dalla polizia politica, Sraffa era diventato professore di Economia Politica in Italia. Nel 1925 pubblicò, negli Annali di economia, l’articolo “Sulle relazioni tra costo e quantità prodotta”. L’articolo fu apprezzato da Francis Ysidro Edgeworth, poliglotta condirettore con Keynes dell’“Economic Journal”; Sraffa fu invitato a produrre una versione inglese del paper, che fu pubblicato nel 1926 (“The Laws of Returns under Competitive Conditions”). I due contributi furono l’inizio della letteratura sulle forme di mercato diverse dalla concorrenza perfetta. Nel 1927 il clima di intimidazione politica in Italia contribuì a far accettare a Sraffa l’offerta di Keynes di diventare lecturer all’Università di Cambridge. 

La ricerca di Sraffa attaccava le fondamenta dell’impostazione di Alfred Marshall (1842-1924), l’economista il cui testo Principi di Economia, del 1890, era ancora il manuale di riferimento a Cambridge e in tutto il Regno Unito. La personalità di Sraffa si impose subito, così come il suo programma di ricerca, volto alla critica del paradigma di Marshall. È come se un giovane studioso straniero piombasse oggi all’Università di Bologna, invitato da colleghi italiani, con un programma di ricerca destinato a demolire i lavori di Umberto Eco. 

 

Sraffa manifestò una scarsa attitudine all’insegnamento. Dopo imbarazzanti rinvii delle lezioni, tenne corsi solo dal 1928 al 1931 (con l’eccezione di poche altre lezioni durante la guerra, nel 1941-1942). Resosi conto delle idiosincrasie dell’amico, in particolare del terrore di fronteggiare gli studenti, Keynes lo nominò bibliotecario della Marshall Library di Cambridge. Il nuovo lavoro permise a Sraffa di sviluppare la passione, condivisa con Keynes, di bibliofilo. Keynes ritrovò un testo del 1740, An Abstract of a Treatise of Human Nature, considerato una sintesi anonima del testo di David Hume. Furono Keynes e Sraffa ad attribuire allo stesso Hume il volume, ripubblicandolo nel 1938, con una loro introduzione.

Sin dai primi anni Trenta Sraffa si dedicò all’edizione critica delle opere di David Ricardo, commissionatagli dalla Royal Economic Society su iniziativa dell’impagabile Keynes. Il primo volume, con un’introduzione destinata ad avere una forte influenza sulle interpretazioni successive del pensiero di Ricardo, sarebbe apparso nel 1951. Luigi Einaudi, un economista dalle idee diametralmente opposte a quelle di Sraffa, avrebbe salutato l’opera con una recensione intitolata “Dalla leggenda al monumento”. La consacrazione di Sraffa sarebbe avvenuta nel 1961, con l’attribuzione della medaglia Söderström della Royal Swedish Academy of Sciences, un premio che anticipava il premio Nobel per l’economia, introdotto solo nel 1969. La medaglia gli fu attribuita per l’edizione di Ricardo. 

Alla fine degli anni Quaranta del Novecento Sraffa era il più importante economista italiano al mondo. Ma era anche uno studioso caratterizzato da un forte impegno politico e dalle discussioni, spesso ambigue e irrisolte, con personalità tanto diverse come Antonio Gramsci, Ludwig Wittengstein, John Maynard Keynes, Arthur Cecil Pigou, Richard Kahn, Joan Robinson, Nicholas Kaldor, Michael Kalecki.

 

Il mistero Sraffa. In tutta la sua vita Sraffa ha pubblicato 250 pagine di articoli, più le 120 pagine del libro Produzione di merci a mezzo di merci, uscito nel 1960. Amartya Sen ha scritto, con ironia ma verosimiglianza, che Sraffa considerava immorale scrivere più di una pagina al mese. Luigi Einaudi ha parlato della “misurata rarità” delle scritture di Sraffa. Nel 1927, in una lettera alla moglie, Lydia Lopokova, Keynes scriveva “Sabato ho avuto una lunga discussione con Sraffa sul suo lavoro. È molto interessante e originale ma mi chiedo se i suoi studenti lo capiranno a lezione”. Nel 1932 Richard Kahn gli scrisse “Piero, tu sei un assoluto messaggio cifrato per il mondo esterno”. Ludwig Wittengestein, che ha avuto un’amicizia prolungata con Sraffa, gli ha attribuito un ruolo decisivo nel passaggio dal Tractatus logicus philosophicus (1921) alle Ricerche filosofiche (1953), aggiungendo che dopo le conversazioni con lui si sentiva come “un albero al quale fossero stati tagliati tutti i rami”. Ma quando Amartya Sen gli chiese quali fossero i contenuti delle conversazioni con Wittengestein, Sraffa rispose che si trattava di cose “piuttosto ovvie” (per la cronaca: Sraffa nel 1946 decise di non avere più discussioni con Wittengstein; la corrispondenza tra i due è spesso di una durezza disturbante). Cristina Marcuzzo ha parlato della figura elusiva di Sraffa; ha sottolineato come non si sia mai identificato con un’istituzione (non fu mai iscritto a un partito politico), non abbia mai sopportato l’idea di concorrere per riconoscimenti accademici (fu nominato reader solo nel 1964, due anni prima del pensionamento); ha sostenuto che l’isolamento di Sraffa potrebbe essere derivato, oltre che dagli impulsi personali, dalla congerie dei suoi interessi e dallo smodato amore per il collezionismo librario: Sraffa ha lasciato al Trinity College di Cambridge una biblioteca di quasi 8.000 volumi. 

Altri hanno sostenuto che l’assoluta riservatezza di Sraffa, la sua prudenza nell’esprimere posizioni in pubblico siano da attribuire all’essere stato seguito da anni dall’OVRA e dalla polizia inglese. Ancora nel 1951 una segnalazione della polizia italiana parla di Sraffa come “sospettato di essere un delegato clandestino del P.C.I.”.     

Le lettere editoriali aiutano a ricostruire alcuni tasselli del puzzle Sraffa.

 

Di che cosa parlano le lettere. Le lettere riguardano quattro progetti: la traduzione in inglese delle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci; la collaborazione di Sraffa con la casa editrice Einaudi; le vicende della pubblicazione di Produzione di merci a mezzo di merci; l’ipotesi di traduzione in italiano degli 11 volumi delle opere di Ricardo.

 

 

I tentativi di far tradurre Gramsci in inglese. Anche dopo il trasferimento in Inghilterra, Sraffa non dimenticò mai Antonio Gramsci. Sul rapporto tra i due, come scrive Munari, conosciamo ormai tutto. Molte lettere scritte a Giulio Einaudi raccontano dei tentativi di trovare un editore inglese disposto a pubblicare le Lettere dal carcere. Il libro aveva vinto nel 1947 il premio Viareggio, sconfiggendo il favorito Alberto Moravia, in concorso con La romana

L’impresa della traduzione in inglese si risolse in un fallimento (le lettere di Gramsci sarebbero apparse in inglese solo nel 1974, su una rivista). Sraffa contattò sei editori, ottenendo rifiuti. Con il passare degli anni Sraffa si rese conto che nel Regno Unito c’era uno scarso interesse per la figura di Gramsci. Questa consapevolezza lo rattristò. Ci sono scatti di rabbia che aiutano a confermare la sua visione del mondo. A un certo punto, quando la traduzione delle Lettere dal carcere sembrava cosa fatta, Giulio Einaudi propose Benedetto Croce come autore della prefazione per il lettore inglese. Croce, infatti, aveva apprezzato le Lettere dal carcere in una recensione del luglio del 1947. Ma Sraffa tuonò contro l’ipotesi, tagliando corto che sarebbe stato come chiedere una prefazione di Gramsci a Churchill. 

 

I consigli a Giulio Einaudi e le stroncature. La visione del mondo di Sraffa emerge guardando ai titoli consigliati a Giulio Einaudi per la traduzione in italiano. Ecco una lista incompleta: Engels, Anti-During; Rosa Luxemburg, Accumulazione del Capitale; Hilferding, Capitale finanziario; Hobson, Imperialism; Sidney e Beatrice Webb, Soviet Communism: A New Civilitization?; Christopher Hill, Lenin and the Russian Revolution; Francis Klingender, Art and the Industrial Revolution; Alexander Baykov, Lo sviluppo del sistema economico sovietico; R. Schlesinger Soviet Ideology; Rothstein, Man and Plan in Soviet Economy.

Giulio Einaudi seguì molti dei consigli di Sraffa, non tutti. Einaudi aveva una visione diversa, condivisa anche da Antonio Giolitti, allora collaboratore della casa editrice e interlocutore dello stesso Sraffa nell’ideazione della collana “Classici dell’economia”. L’Italia era uscita dalla dittatura; bisognava formare una nuova classe dirigente, un nuovo pubblico, esercitando un’egemonia culturale, in concorrenza con altri circoli intellettuali italiani. Per raggiungere questi obiettivi Giulio Einaudi e Giolitti pensavano che accanto ai testi marxisti bisognasse pubblicare lavori di diverso orientamento. Sraffa era invece inflessibile. Nel Regno Unito liberali e conservatori propinavano libri e forme di divulgazione dove non c’era spazio per Marx e il marxismo. Bisognava quindi rispondere con scelte altrettanto unilaterali.  

Ecco allora le stroncature di Sraffa: Werner Stark è un “imbecille oltre che un convertito al cattolicesimo”; Ludvig von Mises è un “reazionario antidiluviano”; Friedrich von Hayek è un “ultrareazionario”; un libro di Georges Bataille è di “scarsissimo valore”; Giovanni Demaria è fra gli economisti italiani “uno dei meno reazionari – non che sia un grande elogio”. 

La polemica più ricorrente è quella con Hayek (che avrebbe ricevuto il premio Nobel nel 1974). Ciò avveniva per due motivi. Hayek era l’autore di Road to Serfdom (1944), un grande successo editoriale che denunciava il pericolo del dirigismo economico, non solo in Russia ma anche nei paesi di economia liberale: possiamo immaginare che cosa Sraffa pensasse del libro. Ma soprattutto non si era mai sopita una polemica tra Hayek e Sraffa avvenuta nel 1931-1932, centrata sulla natura del tasso di interesse e sulle caratteristiche di un’economia monetaria (temi sui quali la discussione economica è sempre aperta). Hayek aveva criticato il Trattato della moneta di Keynes. Sraffa era intervenuto dicendo che la critica era sbagliata. Hayek aveva replicato che Sraffa non aveva capito né la sua critica né Keynes. Sraffa aveva controreplicato. Keynes aveva chiuso la polemica dicendo a Hayek che l’interpretazione di Sraffa del suo pensiero era giusta e che lui non aveva nulla da aggiungere. Va detto, di passaggio, che Hayek ha scatenato giudizi estremi da parte di altri studiosi. Oskar  Morgenstern, uno dei padri della teoria dei giochi, ha annotato nel suo diario del 2 novembre 1935 “Wald is really clever. I regard these works as very significant. They shed new light on the application of mathematics in economics…  — Hayek, by the way, is a dullard”.

 

Il rapporto con Giulio Einaudi è corretto ma pieno di rimproveri, da vecchio zio che si rivolge a un giovane nipote un po’ scapestrato. Sraffa rimprovera Einaudi di aver sbagliato indirizzo in una lettera spedita a Cambridge, non aggiungendo United Kingdom e causando così l’arrivo della lettera a Cambridge nel Massachussets. In un’altra occasione Einaudi ha scritto sulla busta solo Trinity College, e Sraffa lo rimbrotta perché la lettera è arrivata al Trinity College di Dublino. Arriva poi a rimproverarlo per il cattivo inglese (9 dicembre del 1949); e poi a rinfacciagli ritardi nelle risposte alle lettere. Einaudi confonde due edizioni di un libro e Sraffa gli dice “Un’altra volta spiegati meglio” (27 novembre 1972). Anche Gaia Servadio, che ha scritto il più bel ritratto intimo di Sraffa, ha ricordato gli improperi che le arrivarono dopo avergli scritto una lettera al Trinity College, dimenticando, sulla busta, una effe del cognome.

Giulio Einaudi non reagì mai alle invettive, considerando Sraffa un punto di riferimento per la casa editrice e trattandolo con il rispetto dovuto a un Maestro di 14 anni più anziano. Le lettere confermano l’idiosincrasia di Sraffa ad assumere qualsiasi incarico: rifiutò infatti la proposta di dirigere la collana dei “Classici dell’economia”. A onor del vero, con il passare degli anni i consigli di traduzione di Sraffa diventarono più diversificati; tra i filosofi suggerì Wittengstein; tra gli economisti arrivarono Hicks, Klein, Kaldor e altri. 

Pensare i libri. Pubblicare i libri migliori. Pubblicarli senza errori, con una veste tipografica perfetta. Curare i minimi particolari, le note a piè di pagina, le appendici, gli spazi tra i paragrafi, gli spazi tra le lettere delle parole che compongono i titoli. Su questo terreno tra Giulio Einaudi e Sraffa c’era unità d’intenti. Ma il secondo sfiorava la malattia. Un errore di stampa o la dimenticanza di un nome in un indice analitico sono per Sraffa crimini ingiustificabili.

La passione per i libri è assoluta e attraversa tutte le lettere. Nell’aprile del 1948 Sraffa incontra a Roma Luigi Einaudi che gli chiede l’acquisto di alcuni libri inglesi. Nel maggio del 1948 Einaudi diventa Presidente della Repubblica. A fine mese Sraffa chiede a Giulio a quale indirizzo inviare i libri comprati per il padre, chiedendogli se nella nuova situazione “abbia ancora voglia e tempo per queste cose”. Sraffa ha paura che i libri finiscano “nella caserma dei Corazzieri”. Con tenerezza Giulio Einaudi risponde che i libri possono essere mandati all’indirizzo del Quirinale e che “non ci siano né segreterie né corazzieri che tengano”. Ed è tragicomico osservare che chi comprava libri inglesi per il Presidente della Repubblica era contemporaneamente sotto osservazione da parte della polizia.

 

La nascita di Produzione di merci a mezzo di merci. Come ricordato, l’unico libro di Sraffa è Produzione di merci a mezzo di merci, pubblicato contemporaneamente da Cambridge University Press e da Einaudi nel 1960. Nella prefazione Sraffa scrisse che la stesura delle tesi fondamentali risaliva alla fine degli anni Venti, ringraziando, tra gli altri, Frank Ramsey, un geniale matematico scomparso nel 1930. La maturazione più che trentennale del libro è stata poi confermata da diversi studiosi. 

Una lettera dell’11 febbraio 1955 a Raffaele Mattioli ribadisce l’incredibile gestazione del libro. Sraffa scrive di essere impegnato nel ruolo dell’auto-esecutore letterario, portandosi dietro circa 20 chili di note scritte in circa trenta anni e abbandonate del tutto quando si era messo a lavorare sul serio a Ricardo. Il 7 dicembre del 1955 racconta a Mattioli che gli è venuta in mente un’idea che cercava da trent’anni. Il 1° agosto del 1957 scrive di aver pianto – e non gli accadeva dal funerale della madre – perché un economista inglese ha pubblicato un articolo “che anticipa una parte importante del mio lavoro”. Le lettere a Mattioli sono più affettuose di quelle scritte a Einaudi. Sraffa era molto legato al banchiere bibliofilo che nel 1937, dopo la morte di Gramsci, aveva salvato i Quaderni dal carcere nascondendoli nella cassaforte della Banca Commerciale Italiana. 

 

Per la stampa di Produzione di merci a mezzo di merci, Sraffa ottiene da Giulio Einaudi il diritto di poter interloquire direttamente con la tipografia della casa editrice. Ordina che la composizione sia a monotype (o comunque a caratteri mobili) e non a lynotype (13 gennaio 1960). Scrive al tipografo soffermandosi sulla visibilità dei numeri dei paragrafi, delle testate di pagina, dei titoli dei capitoli, delle virgolette. È insoddisfatto del risultato finale, ma si rassegna, protestando anche contro la fascetta del libro. Segue il lancio del volume, dominato dalla maniacalità. Sraffa ordina a Einaudi di stamparne 1.500 copie; impone il prezzo non superiore alle 1.000 lire; si riserva la proprietà letteraria e i diritti esteri, nonché “la facoltà di ritirare l’edizione in qualunque momento, comprando il rimanente stock a prezzo di costo”. 

Mattioli aiutò Sraffa nella stesura italiana di “Produzione di merci a mezzo di merci”, incontrandolo con regolarità a Milano e facendo da tramite per i rapporti con i primi lettori e recensori. Le lettere confermano che Sraffa mantenne sempre un legame con l’Italia, dove tornò periodicamente fino ai primi anni Settanta. Fu, ad esempio, membro delle commissioni per l’assegnazione delle borse di studio “Bonaldo Stringher” della Banca d’Italia. 

 

Come naufragò il progetto di tradurre in italiane le opere di Ricardo. Sraffa aveva raggiunto un accordo con la casa editrice Il Saggiatore per una traduzione in italiano delle Opere di Ricardo. Ma l’editore italiano non si era più fatto vivo. Dopo l’uscita dell’ultimo volume nel 1972, iniziò una cavillosa corrispondenza per cercare di arrivare a una traduzione con Einaudi. Il progetto naufragò. Sraffa era sulla linea del “tutto o niente”, respingendo l’ipotesi di una selezione del materiale dei volumi di Ricardo per l’uscita in italiano. Ma un’altra causa importante fu il peggioramento delle condizioni di salute. Negli ultimi anni di vita Sraffa perse progressivamente le facoltà mentali. Si spense a Cambridge il 3 settembre del 1983. Un amico presente al funerale ricorda che alla funzione funebre parteciparono una decina di persone.

 

Il puzzle Sraffa. Settario; intollerante; perfezionista; puntiglioso; coltissimo; abituato alla solitudine e restio a farsi coinvolgere in qualsiasi iniziativa pubblica, un po’ come il Gadda del “Per favore, mi lasci nell’ombra”; indisponibile a parlare di fronte a grandi udienze; propenso a condurre l’understatement inglese alla soglia estrema dell’autocensura; oscillante tra insicurezza, da un lato, e assoluto estremismo, dall’altro; collezionista di libri, filologo e tipografo insuperabile; indifferente a ogni forma di potere e di ricerca del successo, come ha ricordato Sergio Steve; generosissimo e disinteressato con gli amici. Forse, come ha detto Eraclito, “il carattere di un uomo è il suo destino”.

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In cattedra con la valigia

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In una recente inchiesta«La Repubblica» ha documentato il pendolarismo Napoli–Roma cui quotidianamente si sottopongono tre docenti (donne) precarie e una lavoratrice del settore amministrativo. Sveglia alle 4 del mattino, 500 km di viaggio complessivi con Frecciarossa, treni locali, autobus, per una durata di circa 7 ore di viaggio tra andata e ritorno. Difficile dire se i giornalisti abbiano letto il volume In cattedra con la valigia. Gli insegnanti tra stabilizzazione e mobilità. Rapporto sulle migrazioni interne in Italia, opera che illustra la presenza di working poors anche nel settore della pubblica amministrazione, tradizionalmente associato a stabilità e garanzia di reddito.

 

Le indagini a disposizione documentano che il contesto migratorio italiano si trova in una fase di transizione caratterizzata dalla fine del boom delle immigrazioni degli anni ’90 e dal contemporaneo aumento delle emigrazioni. Di fronte a cambiamenti così rilevanti, alcune tendenze rimangono stabili, prima fra tutte i flussi migratori che si orientano ancora secondo l’asse Sud Centro-Nord e che, nello specifico, investono con significativa consistenza sia la componente lavoratrice della scuola sia quella studentesca. Il volume, muovendo da diversi approcci scientifici, analizza una particolare forma di migrazione interna, legata ad una specifica qualifica professionale: quella dell’insegnante della scuola pubblica, comparto in cui la componente straniera è pressoché assente. Come chiariscono i curatori dell’opera lo scopo dei contributi è di «ricostruire la consistenza, le origini e le conseguenze della mobilità territoriale degli insegnanti partendo dal suo impatto sulle biografie dei protagonisti, sui territori di partenza e di destinazione e sul sistema scolastico» (p. X)

Il lavoro intreccia analisi quantitative, capaci di restituire i percorsi di mobilità degli insegnanti attraverso lo studio di specifiche fonti seriali, a capitoli dedicati al racconto di storie di vita, raccolte mediante interviste. Tale dimensione qualitativa risulta in grado di evidenziare le trasformazioni culturali e sociali della professione docente: le difficoltà d’inserimento nei contesti d’arrivo, il rapporto con i luoghi d’origine, la costruzione di un progetto migratorio, il tema del ritorno, l’orizzonte della conflittualità e della sindacalizzazione. Opportunamente gli autori sottolineano permanenze e mutamenti di quel ‘mestiere mobile’ che è l’insegnamento. Storicamente la questione della mobilità territoriale degli insegnanti non è una novità all’interno del più generale problema della disoccupazione intellettuale. Stupisce – come osserva Pietro Causarano – «che questo fenomeno sia stato così poco studiato e tematizzato», così come che il ministero non monitori «regolarmente la dimensione territoriale della mobilità esterna (e quindi l’impatto non solo sulle vite personali ma anche sulle dinamiche sociali delle aree interessate nonché sulla qualità dell’offerta didattica), bensì al massimo si limiti a quella funzionale interna, nei passaggi di docenti fra ordini e gradi» (p. 5). Proprio tale elemento sembra l’acquisizione più significativa del volume: la mobilità migratoria dei docenti continua ad essere considerata come un fatto scontato, strettamente connessa alla funzione universalistica svolta dal sistema formativo, corposo ganglo della pubblica amministrazione abitualmente sottoposto al principio della riallocazione territoriale. In realtà questa naturalità presenta alcuni problemi di legittimità in termini di principio e di efficacia in termini di complessiva efficienza del sistema dell’istruzione.

 

Di legittimità in quanto – si chiede Enrico Gargiulo – fino a che punto lo «Stato può richiedere – o addirittura imporre – in maniera legittima a una quota dei suoi cittadini, costituita da dipendenti pubblici, di trasferirsi da una parte all’altra del suo territorio?» (p. 85). Inoltre in che misura può farlo a fronte di continui cambiamenti dei meccanismi di accesso al mercato del lavoro scolastico? Evidente, il riferimento all’importante mutamento legislativo noto come la Buona scuola che, contestualmente alla nuova selezione concorsuale (riservata ai soli abilitati), ha varato un piano di reclutamento straordinario in grado di svuotare le graduatorie ad esaurimento (Gae) mediante la candidatura degli aspiranti docenti in 100 province. Ciò ha avuto come esito l’accentuazione della presenza di insegnanti meridionali nelle province settentrionali, un fenomeno storicamente già significativo. 

 

 

Di efficacia in quanto la distribuzione geografica delle posizioni lavorative aperte determina quel fenomeno di trasferimenti finalizzati ad accumulare anzianità di servizio o acquisizione del ruolo nelle scuole del Settentrione, per poi, in un secondo momento scegliere di uno spostamento inverso per riavvicinarsi alla famiglia o al luogo di partenza. Complessivamente emerge che nelle graduatorie ad esaurimento prevale l’intenzione di spostarsi al Centro-nord; in particolare la regione cui è più alta la percentuale di domande extra-regionale tra il 2011-2014 è la Basilicata (17,2%), seguita dalla Sicilia (15,3%) e dalla Campania (14,7%). Sempre nel medesimo periodo le regioni maggiormente attrattive in ordine sono la Toscana (22,1%), il Piemonte (19,1%) e il Lazio (16,7%). La traiettoria interprovinciale maggiormente frequentata dagli iscritti Gae è Napoli-Roma (4,3%). Il personale di ruolo, invece, preferisce spostarsi dal Centro-nord al Mezzogiorno: in questo caso la traiettoria interprovinciale più seguita è quella dalla provincia di Roma a Napoli (3,1% del totale dei trasferimenti di ruolo tra il 2012 a il 2015). In termini complessivi il fenomeno della mobilità tra regioni interessa il 10,5% dei docenti iscritti nelle Gae; mentre la mobilità interregionale tra docenti di ruolo riguarda il 5,9%. Figure e tabelle di alcuni saggi sono presenti qui.

 

Come segnalato, il volume presenta cinque capitoli organizzati sull’ispezione di singole realtà territoriali (Bergamo, Modena, Reggio Emilia e Roma; Piemonte, Emilia-Romagna) condotte secondo un approccio etnografico fondato su interviste partecipate e ricognizioni sui dati reperiti presso le amministrazioni territoriali scolastiche. L’istantanea restituisce le motivazioni del trasferimento, specialmente di donne provenienti dal sud Italia; le dinamiche di costruzione dell’identità professionale che portano a scoprire un’appartenenza territoriale mentre ci si trova in un altro contesto e con un altro modo di lavorare; sino alle retoriche antimeridionali puntualmente presenti. «In questo processo di definizione e ridefinizione dei confini si attivano meccanismi di solidarietà e distanziamento, condivisione e rifiuto, ma anche utilizzo in chiave strumentale degli stereotipi» (p. 114) che fotografano il «prezzo» della stabilizzazione introdotto dalla legge 107: l’ingresso in ruolo condizionato a una mobilità non controllata nei tempi e nei modi dell’attuazione. Comune da parte delle intervistate la percezione di essere state di fronte «ad una scelta irrinunciabile» ma «obbligata» in quanto scarse sarebbero state le opportunità d’inserimento nel mercato del lavoro in contesti a forte disoccupazione.

Il piano straordinario di assunzioni ha mandato in frantumi proprio quel dispositivo che rendeva l’impiego come insegnante così attrattivo per molte donne meridionali: la possibilità di conciliare lavoro e famiglia, carriera professionale e tempi di sviluppo del nucleo familiare, anche nel caso in cui fosse stata necessaria una mobilità territoriale. A questi insegnanti sono stati imposti i tempi della mobilità geografica rendendo di fatto impossibile conciliare questa transizione con le necessità familiari (la crescita dei figli, il mutuo della casa, l’assistenza a genitori anziani...), senza possibilità concreta di tempi brevi. (p. 115)

 

Sul vissuto personale pesano, spesso in misure maggiore delle condizioni oggettive di difficoltà lavorativa, la presenza di stereotipi sull’insegnante meridionale, qualificato come assenteista, lavativo e inaffidabile. Nella provincia di Bergamo, oggetto dello studio di Paolo Barcella, l’autore registra la tendenza della società civile a spacciare «come verità autoevidenti che ‘tutti hanno avuto un insegnante meridionale che c’era le prime due settimane e poi si metteva in maternità per 18 mesi» oppure la scarsa conoscenza della lingua inglese sia imputabile ad un docente «con l’accento di Barletta» (p. 139). In atto vi è un classico meccanismo di semplificazione che porta «a considerare come caratteristiche culturali e antropologiche dei meridionali comportamenti riconducibili a fattori socio-economici» (p. 154). D’altra parte sono spesso gli stessi insegnanti meridionali che alimentano il diffuso pregiudizio. Domenico Perrotta e Dario Tuorto analizzano le modalità discorsive con cui le maestre meridionali a Reggio Emilia, già insediate, confrontano la propria esperienza di mobilità territoriale con quella delle neo-entrate. Relativamente alle assenze prolungate per malattia, richieste di mobilità con conseguente abbandono del gruppo classe, il ventaglio di reazioni possibile varia dalla ferma condanna (scarsa professionalità e/o scarsa moralità) sino alla giustificazione a certe condizioni (stare vicino alla famiglia). In ogni caso emerge una rappresentazione giocata sul rifiuto dello stereotipo per sé ma attribuito agli altri. 

Chiave di lettura nell’interpretazione del fenomeno è il costrutto di civic stratification che consente di leggere e decodificare anche i cambiamenti del mercato del lavoro. La nozione, utilizzata all’interno degli studi sui fenomeni migratori, intende rendere conto di come, in molte società contemporanee, lo sviluppo della cittadinanza quale status sia andato di pari passo con il consolidamento di relazioni di potere asimmetriche che erodono il principio di eguaglianza formale e sostanziale. Introdotta da David Lockwood in un articolo del 1996, ha orientato e orienta quel complesso di studi che documentano la creazione da parte degli Stati di dispositivi normativi atti a produrre regimi differenziati tra i migranti in relazione alla loro zona di provenienza.

 

Il concetto di civic stratification – ritiene Gargiulo – ha un portato analitico che restituisce la complessità dei meccanismi selettivi del mercato del lavoro scolastico. 

I continui cambiamenti delle regole di transizione, ossia in questo caso – dei criteri che regolano il passaggio dal precariato all’ingresso in ruolo, sebbene siano dichiaratamente ispirati a principi meritocratici e impersonali, producono soggetti che, a prescindere dai loro comportamenti individuali, occupano strati differenti nella scala della collocazione economica e lavorativa, così come in quella del riconoscimento professionale e sociale (p. 83)

In altri termini, le policies attuate tendono ad alimentare il conflitto sociale tra la comunità degli inclusi (i docenti di ruolo) e quella degli esclusi (precari, neo-immessi variamente migranti) generando un percorso ad ostacoli fatto di barriere materiali (di reddito e accesso al welfare) che producono insofferenza anche esistenziale (alienazione). Certo non si tratta di una puntuale discriminazione amministrativa come avviene nei confronti dei migranti; tuttavia non sembra improprio definirla come mobilità coatta che, come emerge dalle interviste, è sentita come ingiusta se non tanto in assoluto quanto se paragonata alla condizione di altri dipendenti pubblici.

 

In conclusione il testo riesce in una sfida particolarmente complessa, cioè incrociare tre ambiti di riflessione: il lavoro nel pubblico impiego, la condizione femminile nel mercato del lavoro e le dinamiche interne al mondo scuola, in un contesto segnato dal decremento demografico che colpisce soprattutto il Mezzogiorno e che, inevitabilmente, avrà ripercussione sulle opportunità lavorative.

 

In cattedra con la valigia. Gli insegnanti tra stabilizzazione e mobilità. Rapporto sulle migrazioni interne in Italia, (a cura di) M. Colucci e S. Gallo, Donzelli, 2017.

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Il ’68 jugoslavo: l'anno tabù

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Avevamo sognato tutto molto diverso con i nostri libri, dietro il muro del nostro giardino fra i mirti e gli oleandri.

Georg Büchner, Leonce e Lena

 

Tre anni dopo il ’68, il Maspok, il movimento della Primavera croata che chiede più autonomia, sei anni dopo la quarta Costituzione del dopoguerra considerata una delle cause del processo di rifeudalizzazione.

Dodici anni dopo, la morte di Tito − il paese si ferma, la folla scandisce: Noi siamo diTito, Tito è nostro, Tito siamo noi. I volti ripresi dalle telecamere rivelano ansia e paura, il pianto è collettivo perché sono in molti a temere che, insieme a quello di Tito, si stia celebrando anche il funerale della Jugoslavia.

Diciassette anni dopo, un’ondata di scioperi, una crisi interminabile, e l’irresistibile ascesa di Slobodan Milošević, leader del «risorto nazionalismo serbo».

Ventidue anni dopo, le prime elezioni pluripartitiche del dopoguerra.

Nel giugno 1991 iniziano le guerre inter-jugoslave di fine Novecento. Appartengono ai «conflitti irrealistici», visti con gli occhi della sociologia politica hanno solo in parte «finalità calcolabili». Eppure, il farsi bellico sarà una carneficina infinita. Il presente rimesta e rivanga: vicende e traumi, mafie e criminalità politica, una «patologia sociale» alimentata dall’ideologia. E che non ama troppo la storiografia.

Un dopo, talmente carico di storia e di significati, di vite vissute e di vite ammazzate, di esistenze strozzate che continuano a nutrire ricostruzioni e narrazioni, diari e memoir, che ogni vicenda accaduta prima rischia di essere interpretata con l’emotività della jugonostalgia, di essere sovradeterminata da quanto accadrà poi, mentre un Giano Bifronte apre e chiude le porte del passato e del futuro del «caso jugoslavo».

 

Un pugno di riso e il caviale

Anche in Jugoslavia quello che unisce il cielo belgradese al resto del mondo è il Vietnam. Ma le difficili condizioni materiali degli studenti − stipati a migliaia in pensionati fatiscenti, isolati dai centri delle città, con mense dal vitto miserrimo − si intrecciano con gli ideali della protesta. Nell’anno scolastico 1967/68 sono 211000, la Jugoslavia è il terzo paese al mondo, dopo Stati Uniti e Unione Sovietica, per quota di iscritti all’università sulla popolazione complessiva. 

A Novi Beograd, nella parte periferica della città, dove la cittadella di circa 6000 giovani convive con pensionati e militari, già nel 1953 si era verificato uno sciopero selvaggio e spontaneo partito dagli studenti tormentati dalla fame. Barricati nei dormitori, colpivano la polizia con pezzi di carbone e di legna da ardere. Dopo un assedio di tre giorni, lo sciopero fu represso. Molti si sono trovati dietro le sbarre. Ma il vitto della mensa è stato migliorato.

Nella primavera del ’68 lo scoppio del movimento arriva improvviso, sorprende i padri comunisti e l’opinione pubblica socialisticamente spoliticizzata. Un comunicato di solidarietà con il popolo vietnamita in lotta era già stato inviato nei mesi precedenti e si erano sentiti slogan come «Via gli americani dalla Jugoslavia» e «Non vogliamo il grano americano», con evidente riferimento al sostegno economico ricevuto dall’Ovest. 

Il casus belli che dà il via al conflitto tra il Comitato universitario della Lega degli studenti e il Comitato della Lega degli studenti della facoltà di Filosofia è rappresentato dalla Polonia. Di fronte agli avvenimenti del marzo polacco, 161 intellettuali serbi, la redazione della rivista «Praxis», un gruppo di professori di Sarajevo e 1520 studenti della facoltà di filosofia di Belgrado esprimono la loro solidarietà con gli studenti polacchi e accusano gli organismi ufficiali di passività. Ma il dibattito tocca immediatamente le questioni interne e il 25 aprile e il 14 maggio si discute «delle disuguaglianze sociali nel socialismo» per stabilire i limiti di disparità «esagerate» mentre si sta formando una «nuova élite di ricchi». 

Da più parti le opinioni degli studenti sono definite «emotive». «Mi sono scritto solo quattro parole», scandisce lo studente Miloš Gvozdenović: «la prima è uguaglianza, la seconda è diversità, la terza è emozione, l’ultima è solidarietà». Il giorno dopo, i giornalisti presenti parleranno di «un dialogo tra emozione e scienza». Tra gli interventi che passeranno alla storia del movimento quello dello studente Bube Rakić: «[…] se non possiamo costruire un sistema che possa distribuire la nostra ricchezza sociale in modo più giusto, allora è meglio che rimaniamo al livello dell’egualitarismo. Meglio un pugno di riso per tutti che il caviale per pochi».

 

Diario della settimana calda

È uno spettacolo, La carovana dell’amicizia, spostato per motivi atmosferici al chiuso, il pretesto per l’inizio degli scontri alla periferia di Belgrado: da una parte il territorio degli studenti, dall’altra la polizia. La sala non è abbastanza capiente per poter contenere tutti quelli arrivati per lo spettacolo, ma gli slogan si fanno subito politici: Lavoro a tutti, Operai-studenti, Tito-partito. A notte fonda reparti della milicija violano l’autonomia della cittadella universitaria, danno la caccia allo studente e ne arrestano alcuni. 

Lunedì 3 giugno inizia la lunga marcia verso il centro. Il corteo sarà bloccato a un sottopassaggio dove la polizia si scatena: picchia i professori, la gente di passaggio, si accanisce soprattutto contro le ragazze chiamandole «puttane». È uno shock collettivo. La ripetizione − alla luce del giorno − di quanto altre volte era avvenuto con il favore delle tenebre suscita incredulità tra alcuni dirigenti comunisti e nell’opinione pubblica. Stralunati appaiono gli stessi studenti: non pensavano certo che lo Stato, che considerano anche loro, potesse accoglierli in questo modo. In un appello ai cittadini si attaccano i privilegi, si parla della disoccupazione, si chiede più democrazia − libertà di riunione e di manifestazione, il miglioramento delle condizioni di vita. Gli slogan, tantissimi e variegati, da Meno automobili, più scuole a Parla come vivi – firmato Lenin, sono accompagnati dai ritratti di Tito, Marx, Lenin, Che Guevara e da un distintivo con un segno rosso, gli studenti, circondato da un cerchio blu, la polizia. 

La «festa della salute, dell’allegria, del lasciarsi andare» ha il suo epicentro alla facoltà di Filosofia ribattezzata il 4 giugno Università rossa Karl Marx. È qui che si stampa un bollettino − «Noi non siamo l’opposizione, ma la negazione di tutto ciò che è menzogna» − e si sta riuniti in assemblea perenne. Il pomeriggio di martedì 4 giugno sale sul palco l’attore Stevo Žigon. Recita il discorso di Robespierre dal primo atto de La morte di Danton. Inizia con: «Aspettavamo soltanto per parlare il grido di indignazione che risuona da ogni parte» e termina con: «Nessun patto, nessuna tregua con gli uomini per i quali la repubblica fu una speculazione e la rivoluzione un mestiere!». Ogni parola del discorso di Robespierre è accompagnata da ovazioni: sarà uno dei momenti più carichi di pathos di un movimento alla ricerca di un leader. 

 

La giornata del 5 giugno è quella della solidarietà che arriva da parte dell’Associazione degli scrittori, gruppi di cittadini sostengono il movimento con le loro offerte. È la prima volta, nella società jugoslava del dopoguerra, che si ha un’attivazione di massa dei giovani insieme alla partecipazione di numerosissimi professori, molti dei quali si sentono contagiati «dall’entusiasmo e dall’audacia». 

Nella montagna di telegrammi e di lettere di sostegno da parte del mondo della cultura, di istituzioni e di singoli, spiccano i comunicati di condanna che arrivano, invece, dai collettivi di fabbrica. L’incontro mancato tra gli operai e gli studenti è uno dei punti più controversi della ricostruzione degli avvenimenti. La polizia, ma anche i dirigenti della Lega dei comunisti, vogliono impedire ai cortei di prendere la città. Costringono gli studenti ad autoisolarsi nel ghetto dell’università e mobilitano gli operai contro la «controrivoluzione», fin da subito si formano comitati di vigilanza fuori dalle fabbriche allo scopo di impedire un contatto diretto tra operai e studenti. Alcuni dei leader di allora sostengono oggi che il rapporto con i lavoratori è la questione intorno alla quale si sono avute le mistificazioni e le manipolazioni maggiori. Il primo giorno, raccontano, siamo riusciti a entrare in alcune fabbriche, già il secondo giorno il Comitato cittadino della Lega dei comunisti ha formato le ronde operaie. La rivista sindacale «Rad» (Lavoro) è l’unica a rompere il blocco dell’informazione e a pubblicare un testo più obiettivo sulle richieste del movimento. 

A metà settimana, isolati dalla repressione poliziesca e dalla disinformazione della stampa, gli studenti belgradesi decidono di rivolgersi a Tito, il cui ritratto sventolava sull’università occupata accanto a quelli di Marx, Lenin, Che Guevara. Gli scrivono per informarlo dei loro obiettivi: «Noi siamo per la totale autogestione in tutti gli strati della società […] Noi siamo contro il sempre maggior arricchimento dei singoli a scapito della classe lavoratrice. Noi siamo per la proprietà sociale e contro i tentativi di creare imprese azionarie capitalistiche. […] Il nostro è il programma delle forze più progressiste della nostra società – il programma della Lega dei comunisti della Jugoslavia e della costituzione. Noi chiediamo la sua coerente attuazione».

Tito risponderà per televisione: il suo discorso del 9 giugno, un momento carico di aspettative e di suspence, coinciderà con la fine dello sciopero studentesco. Alla «gioventù socialista» Tito si rivolge dallo schermo con toni pacati e rassicuranti, parla loro come un padre di famiglia. Dice di sapere che per il 90 per cento sono bravi ragazzi, promette inchieste per i responsabili della repressione, invita chi si sente ormai vecchio a lasciare posto ai giovani. 

Nel suo Ispljuvak pun krvi (Uno sputo pieno di sangue) − il cui sottotitolo è Diario di una sconfitta − Živojin Pavlović lo ricorda così. «Il 9 giugno Tito ha fatto una delle sue più brillanti mosse politiche: ha dato ragione agli studenti. Il risultato è stato eccellente: i ragazzi sono impazziti dall’entusiasmo, il profumo ingannevole della vittoria ha sconvolto gli intellettuali e gli studenti, e questi, completamente ipnotizzati, si sono precipitati a rispondere all’appello del presidente che li aveva invitati a interrompere lo sciopero e a continuare con gli esami». Nel ’68, a 35 anni, lo scrittore e regista Živojin Pavlović si improvvisò cronista: alla fine dell’anno scrisse di getto il diario della settimana di lotta all’Università di Belgrado, che verrà a lungo proibito «per non agitare l’opinione pubblica». Vent’anni dopo Živojin Pavlović pubblica il romanzo Lov na tigrove (Caccia alle tigri), ancora un diario. Il protagonista Aljoša Jotić, nato il 1° aprile 1950, era, nell’anno fatale, studente di etnologia all’Università di Belgrado. Distribuisce volantini, rivendica il diritto a una verità «soggettiva», attacca la «borghesia rossa». Poi, per sfuggire a un eccessivo interessamento della polizia nei suoi confronti, abbandona la città e si rifugia, sotto le anonime vesti di cameriere d’albergo, in cima a una montagna della Serbia orientale. «La mia vita – annota Aljoša – dal tempo della rivolta sta irresistibilmente degradando in durata». Il conflitto dell’ex studente, prima ancora che con l’autorità, è con il proprio padre che era stato un temibile agente dell’Udba (i servizi di sicurezza). Aljoša scappa dal padre, ma fugge soprattutto − e questo è un Leitmotiv del romanzo serbo contemporaneo − davanti alla storia. «In questi giorni – scrive dopo un incontro con un compagno d’armi del padre – la storia si è per la seconda volta scagliata contro di me, mentre io, sazio fino alla nausea, la fuggo da un intero decennio. La prima volta mi è accaduto nel ’68». 

Dopo il discorso di Tito si tiene un meeting a cui partecipano in diecimila, e gli studenti, convinti di aver vinto il «nemico», decidono di rimettersi a studiare. Martedì 11 giugno i giornali annunciano con entusiasmo «la normalizzazione della vita e del lavoro all’Università». Tito parlerà un’altra volta, a fine giugno, a un congresso del sindacato. Sarà l’occasione per un attacco agli «opposti estremismi»: da una parte i servizi di sicurezza, dall’altra i filosofi di «Praxis». L’illusione della vittoria è di brevissima durata. Già a luglio vengono sciolte le organizzazioni giovanili, iniziano le persecuzioni e gli arresti che negli anni successivi colpiranno la facoltà di Filosofia, mentre il Comitato universitario della Lega dei comunisti giudica «inaccettabili le idee sulla necessità di un legame più stretto tra l’intellighenzia e la classe operaia» e critica l’esistenza stessa di un movimento tanto quanto «la tendenza a legalizzare l’opposizione politica». I primi a essere accusati di volere un «ruolo dirigente dell’intellighenzia umanistica» saranno i filosofi riuniti intorno alla rivista «Praxis». L’attacco ai professori è anche l’episodio più noto della repressione contro quel che resta del breve Sessantotto jugoslavo. 

Sulla copertina dell’ultimo numero, uscito nel ’68, della rivista «Student» compare un grande punto nero. È il simbolo della fine del movimento e segna l’inizio delle interpretazioni e delle polemiche. Di ricostruzioni e di racconti di memorie che arrivano fino a oggi. 

 

Tra universalismi socialisti e particolarismi nazionalisti

Il movimento si diffonde nelle altre città capoluogo – Zagabria, Ljubljana, Sarajevo – e tocca anche numerosi centri minori. Solo nel caso di Ljubljana la motivazione delle proteste non è legata agli avvenimenti belgradesi, ma al fatto che, a fine maggio, si decide di coprire il deficit dei pensionati studenteschi con entrate di attività turistiche, dunque in estate i costi dell’affitto sarebbero aumentati e alcuni spazi si sarebbero dovuti liberare. Qui, però, gli studenti, le cui condizioni sono decisamente migliori, continuano a esprimere fiducia nei vertici del partito che li invitano alla calma con la minaccia di un possibile intervento dell’«esercito serbo». La base chiede meno centralizzazione e più «slovenità» – è accolta da fischi la proposta di collaborare con gli organismi degli altri studenti jugoslavi. 

A Zagabria si formano assembramenti spontanei appena arrivano le notizie dei pestaggi (come accade anche a Fiume, Spalato, Zara e Osijek) e le richieste non sono molto diverse da quelle belgradesi. I filosofi di «Praxis», Gajo Petrović e Milan Kangrga, partecipano agli incontri, si mantengono prudenti, preoccupati delle possibili manipolazioni e disinformazioni dei media ufficiali. Anche se parte dell’opinione pubblica e diverse personalità del mondo della cultura osservano con simpatia il movimento, il potere croato riesce a pacificare la situazione. Preoccupata della possibilità di posizioni critiche e richieste di democratizzazione, mentre sono già in corso contrasti e scontri con Belgrado, la Lega dei comunisti croata vuole soprattutto dimostrare di riuscire a controllare la situazione. 

Gli avvenimenti dell’Università di Belgrado agiscono da detonatore anche a Sarajevo, Niš, Kragujevac, ma il copione non si ripete, le proteste vengono facilmente isolate, intanto emergono con sempre maggiore evidenza i «particolarismi» delle sei repubbliche jugoslave. Basti pensare al ’68 ignorato di Priština, capoluogo del Kosovo: se ne riparlerà nell’81, quando la rivolta degli albanesi costringerà a ricordare la militarizzazione della provincia avvenuta dopo le manifestazioni di carattere secessionista degli studenti. Le manifestazioni del ’68 kosovaro iniziano il 28 novembre, data scelta non casualmente. In Jugoslavia il 29 novembre è la festa della Repubblica, il 28 novembre del 1912 è il giorno dell’indipendenza dell’Albania, chiamato anche Giorno della bandiera (rossa con l’aquila a due teste nera). Autorizzata fino al 1946 la bandiera verrà poi proibita, nel settembre del 1968 ridiventa legale, ma vicino all’aquila compare la stella dorata a cinque punte. Tra le parole d’ordine una richiesta di maggiore autonomia, Vogliamo la repubblica, Vogliamo la Costituzione– in quelle settimane erano in discussione gli emendamenti alla Costituzione del 1963 che riguardavano il futuro status del Kosovo –, accanto a slogan irridentisti Viva l’Albania,Viva Enver Hodža, Autodeterminazione e secessione. La repressione è immediata, i politici albanesi condannano senza troppa convinzione la protesta, la componente serba della popolazione (nel censimento del 1961 composta dal 67 per cento di albanesi e dal 27 per cento di serbi) non gradisce troppo gli accenni liberali di chi in quel momento è alla testa del partito serbo. La presenza dei carri armati nelle strade di Priština, a pochi mesi dall’invasione di Praga, conferma che la questione del «caso jugoslavo» sta diventando il nemico interno. 

 

Dunque: il movimento studentesco ha favorito una resa dei conti con le forze più dogmatiche e centralizzatrici o ha aiutato la Lega dei comunisti a rafforzare il suo ruolo? – a fine anno entrano nel partito, che dopo il 1950 continuava a invecchiare, 175000 giovani. Chiedendo più uguaglianza gli studenti si sono schierati, di fatto, a favore di una società statalista e contro la riforma economica del ’65 oppure la «nuova sinistra» ha favorito le spinte centrifughe della «destra nazionalista»? Sono questi gli interrogativi più frequenti che risentono, in parte, di un approccio ancora ideologico della ricostruzione dell’insieme del processo storico della seconda Jugoslavia. 

Un’analisi più articolata è quella di alcuni testimoni e protagonisti. Nata nel 1945, figlia di un alto funzionario dell’«epoca della rivoluzione», studiosa dell’induismo, docente di filosofia all’Università di Zagabria prima e Parigi poi, Rada Iveković è stata una delle fondatrici della sezione femminile della Società di sociologia intorno a cui, nel capoluogo croato, si è costituito il primo gruppo femminista. Nel suo Sporost-oporost (Lentamente, aspramente), dove raccoglie tanti brevi capitoli di taglio autobiografico, uno è dedicato al ’68: «E il Sessantotto? È successo più tardi, continua fino a oggi, sta soprattutto in quello che nelle nostre teste e nei comportamenti successivi attribuiamo a questo anno. È stata la prima volta in cui ho visto mio padre stupirsi ed esitare. Per la prima volta venivano messi in questione valori fino a quel momento intoccabili. […] La loro generazione si è allora chiesta: “Abbiamo combattuto per questo?”. E per la prima volta ci hanno guardato un attimo negli occhi. È stato un lampo, l’istante di un incontro di generazioni: loro che erano i legislatori, e per questo non dovevano dubitare, e noi che servivamo da pasta per la focaccia della Verità Assoluta, noi eravamo il tessuto, il materiale dello Stato, coetanei dello Stato. Si è aperta una crepa molto piccola in quel ’68 e allora non significativa. Ma non si è più potuto rattopparla. Il dubbio si è insinuato irrimediabilmente in noi. Verità e menzogna hanno assunto un altro senso. Quell’anno abbiamo smesso di essere religiosi, io e la mia generazione. Mentre la loro generazione ha cominciato a morire. L’ideologia è diventata vecchia. Monumenti vuoti tutt’intorno. L’anno ’68 arriva pian piano. È lento come la tartaruga».

 

Il filosofo Žarko Puhovski, allora uno dei redattori più giovani della rivista «Praxis», afferma: «La delegittimazione del regime – per mezzo del malcontento studentesco – è arrivata a piena espressione in un periodo in cui il regime stesso aveva iniziato (tacitamente, nel caso di molti leader politici forse in modo poco consapevole, e ciò che è più importante quasi vergognandosene), con la “riforma economica” del ’65, ad allontanarsi parzialmente dal sistema di valori che aveva propagandato per decenni. Il processo di delegittimazione è divenuto, nel ’68, esplicito. I vertici del regime hanno fiutato il pericolo per la propria posizione ancora prima che gli studenti stessi avessero compreso il potenziale della loro iniziativa – proprio per questo, anche in Jugoslavia, l’intervento poliziesco ha avuto un ruolo “pedagogico” controproducente […]. Anche se gli studenti hanno usato parole che non si differenziavano nelle linee essenziali da quelle ufficiali, in pratica gli studenti erano oratori non autorizzati – mai nella tradizione jugoslava del dopoguerra c’era stato un così massiccio apparire sulla scena di discorsi non autorizzati. […] il movimento del ’68 ha reso manifesta la crisi della modernizzazione socialista. Le conseguenze – grazie soprattutto alle questioni non risolte del passato – sono risultate in gran parte pre-moderne». 

 

Una delle opere più approfondite e documentate, che circolerà per anni come un samizdat, e sarà pubblicata integralmente solo nel 1990, è quella del sociologo belgradese Nebojša Popov Društveni sukobiizazov sociologiji. «Beogradski jun» 1968 (Scontri sociali – una sfida per la sociologia. Giugno belgradese 1968) che, insieme ad altri professori attivi durante la protesta, nel 1975 verrà sospeso dall’insegnamento (v. infra, testo 6). È sembrato uno «scontro immaginario», dice Popov, perché le due parti si sono richiamate agli stessi principî e valori, al programma della Lega dei comunisti e della Costituzione. Ma lo scontro tra «movimento e sistema» è stato reale. Parlare in termini di vittoria e di sconfitta – per un movimento che non voleva il potere – è un errore. «È realistico invece sostenere che il movimento studentesco non ha cambiato il mondo, anche se è accaduto qualcosa. Le tracce maggiori sono rimaste nella cultura […] sono state rinnovate le idee di libertà […] sono state create nuove forme di pluralismo ideale e politico (transpolitico e transnazionale) […]. Sono rimasti alcuni insegnamenti per le generazioni future e per le strategie dei nuovi movimenti sociali». Secondo il sociologo, però, il ’68 ha anche – in Jugoslavia e nel mondo – un’altra medaglia: la rivitalizzazione dell’apparato del potere politico e il prevalere di un modello di formazione autoritario che, ridimensionando i contenuti umanistici, «stimola la diffusione di una sottocultura controllata, come sostituto della controcultura giovanile, che coltiva valori privati ed edonistici, l’idea di un’adolescenza permanente, mentre cresce la disoccupazione e la mancanza di prospettive per la gioventù».

 

Un’altra figura intellettuale significativa, la sociologa belgradese Zagorka Golubović, anche lei attiva nella protesta e anche lei allontanata dall’insegnamento sette anni dopo – del suo testo L’uomo e il suo mondo, del 1973, il tribunale proibisce le 52 pagine in cui analizza proprio il ’68 –, sostiene che, più che dalla classe operaia, il movimento degli studenti è stato sconfitto dalla classe media e dalla sua ideologia consumistica. La sua ipotesi cerca di spiegare il complesso degli avvenimenti sociali, economici, culturali di una Jugoslavia in mezzo al guado tra modernità e arretratezza.

Nelle settimane successive al discorso di Tito si hanno i primi effetti della normalizzazione: è vietato usare il termine di «movimento studentesco», saranno censurate, proibite o sospese le riviste studentesche: «Delo», «Susret», «Student» a Belgrado, «Naši dani» a Sarajevo, «Razlog» e «Polet» a Zagabria. Gli studenti cercheranno un terreno più neutrale e iniziano a occuparsi della riforma universitaria, oppure scelgono la satira con La lettera aperta al mio compagno candidato-delegato pubblicata in «Student» come pesce del 1° aprile 1969. Il 3 giugno 1969, a un anno dalle manifestazioni, appare il «Documento delle 3000 parole», che si ispira al «Manifesto delle Duemila parole» degli intellettuali cecoslovacchi. Nel documento si ribadisce che gli studenti erano e sono per un «socialismo democratico», si analizzano i ritardi sociali, si chiede di poter eleggere e non solamente votare i propri rappresentanti. Si avverte, però, una fase di riflusso, tra gli studenti inizia a diffondersi un rifiuto della politica, considerata «pragmatica, inconseguente, immorale».

 

 

Vent’anni di bisbigli per un movimento  di sette giorni

La maggior parte delle fonti – materiale documentario e immagini – che avrebbe permesso di capire e ripercorrere gli avvenimenti dell’anno fatale è stata censurata e proibita a lungo, mentre le poche opere di riflessione e di commento sono state vietate dalle ordinanze dei tribunali e si trasmettono per anni con fotocopie che passano di mano in mano. La documentazione filmica è sequestrata, registi come Želimir Žilnik (autore del documentario I movimenti di giugno ’68) e Dušan Makavejev, che hanno osato riprendere gli avvenimenti, sono andati incontro a non poche difficoltà. Quasi fino al 1990 sono rimasti introvabili molti altri materiali che si riusciva a consultare attingendo alle biblioteche personali dei protagonisti. Il fatto che il ’68 sia rimasto così a lungo una delle «macchie bianche» della storia contemporanea jugoslava trova diverse possibili spiegazioni. Le opere citate cercano di fornire una lettura dei fatti e un’interpretazione. Soprattutto i «cattivi maestri» del ’68 jugoslavo, i professori di Zagabria e di Belgrado che successivamente verranno espulsi dall’università, cercano di analizzare l’insieme del processo storico. E sono figure critiche che rimangono – spesso fino a oggi! – all’opposizione. 

Così, quando la Jugoslavia senza Tito è attraversata dal 1980 in poi da un’«esplosione di verità» e temi tabù che erano sussurrati a voce bassa e a porte ben chiuse assumono in primis la forma della letteratura, il ’68 rimane uno dei tabù che resiste più a lungo. Si parlerà dello Srem, una delle battaglie finali della seconda guerra mondiale, una battaglia militarmente inutile ma dove viene falciata la gioventù belgradese, i figli di quella borghesia che i partigiani arrivati dalle montagne vogliono eliminare. E la dicotomia tra città e campagna, lo scontro tra i «guerriglieri» e gli «amministratori» attraversa la storia del paese fin dalle sue origini e si intreccia con le divisioni, tuttora attuali, tra «modernisti» e «tradizionalisti». Si parlerà di Bleiburg dove, sul confine tra Slovenia e Austria, alla fine della guerra, per ordine di Tito furono massacrati i militari collaborazionisti, ma anche i civili in fuga. Del Goli Otok, l’Isola Nuda o Calva, che si trova nel canale di Velebit, all’uscita del golfo del Quarnero, il gulag di Tito, l’inferno per quanti, accusati dopo la rottura con Stalin del 1948 di filocominformismo, furono deportati in mezzo al mare per essere rieducati. In uno di quei rovesciamenti perversi di cui la (ex) Jugoslavia ha fornito rappresentazioni tragiche fin quasi ai giorni nostri, saranno proprio i comunisti idealisti e gli intellettuali a dover essere rieducati dal popolo. 

 

Finalmente nel 2012 esce uno studio che permette di collocare la settimana di lotta degli studenti belgradesi nel contesto jugoslavo e internazionale. Jugoslavija i svijet 1968 (Jugoslavia e il mondo 1968) dello storico croato Hrvoje Klasić, docente all’Università di Sisak, è una ricerca capillare e approfondita, scritta con ritmo giornalistico, senza quel velo ideologico che a volte impedisce ancora una lettura storicamente convincente delle vicende jugoslave. A partire dalle numerose fonti ora disponibili (stenogrammi delle sedute dei diversi organismi politici, archivi locali e internazionali ecc.), Klasić entra nel dettaglio, ma lascia poco spazio alla teoria della «parentesi», non riduce la storia di quell’anno solo a un episodio di rivolta giovanile e, soprattutto, il ’68 entra nel tempo storico, diventa una data con un prima e un poi. Dalla sua disamina appare evidente il crescere dell’insofferenza tra le diverse componenti nazionali, soprattutto, ma non solo, tra serbi e croati, e quanto l’integrazione tra le diverse anime della federazione fosse contraddittoria. Da un sondaggio condotto, nel 1966, all’Università di Belgrado, emerge che il 40 per cento dei giovani intervistati non vuole avere a che fare con i croati, il 48 per cento non vorrebbe che vivessero in Serbia e il 55 per cento è contrario ai matrimoni misti. Durante le partite di calcio si ripete il copione: i tifosi croati scandiscono «Zingari, zingari», quelli serbi «Ustascia, ustascia». E sarà proprio una partita l’occasione di «eccessi nazionalistici» che annunciano le guerre degli anni novanta del Novecento. 

Dal 1961 al 1965 si compie il processo sfociato nella «riforma economica» che, teoricamente, si proponeva l’ambizioso tentativo di affidare ai produttori associati il controllo sull’intera riproduzione allargata e, in pratica, prevedeva la svalutazione del dinaro, una parziale liberalizzazione dei prezzi e l’introduzione dell’autogestione in settori nuovi come l’amministrazione statale. In un sistema a metà strada tra centralismo e decentramento la riforma produce uno sconquasso, mentre si acuiscono i contrasti tra centri e periferie. Una frenesia da investimento produce disoccupazione e inflazione – nel ’67 crolla la produzione industriale, aumenta la disoccupazione, sono 400000 i lavoratori «temporaneamente» emigrati all’estero –, e provoca l’aumento dei consumi e dei salari. Fino ad allora la legittimità dei quadri dirigenti nell’economia era stata conquistata sul campo, il curriculum era l’aver partecipato alle battaglie della Sutjeska e della Neretva. Ora si poneva l’esigenza di una specializzazione, ma il 50 per cento dei direttori aveva il diploma della scuola dell’obbligo. 

 

Negli anni sessanta «la variante jugoslava dei cento fiori» produce iniziative e dibattiti, trasformazioni e innovazioni non solo nella sfera economica. Nel Plenum del 1° luglio 1966 a Brioni si decide di promuovere anche una riforma sociale e di riorganizzare il partito. È condannata l’attività dei servizi di sicurezza, cade la testa dell’uomo simbolo della repressione, il fino allora potentissimo ministro degli Interni Aleksandar Ranković. Si parla di decentramento anche per le funzioni della Federazione: nel ’67 si iniziano a discutere gli emendamenti alla Costituzione che porteranno, dopo un lungo iter e prove di forza, alla quarta Costituzione del 1974, che rivela fin da subito quanto l’equilibrio dei poteri sia precario. I cambiamenti sociali si riflettono anche nella struttura della Lega dei comunisti. Nel ’66 la metà degli iscritti sono impiegati, il 33,9 per cento operai, il 7,4 per cento sono contadini, i giovani sono solo il 12,6 per cento. E se durante tutto il ’68 la discussione dei vertici è occupata da temi economici e politici, la Dichiarazione sulla denominazione e sulla posizione della lingua letteraria croata, del 1967, indica l’ampiezza della critica all’idea di fratellanza e unità e ben esprime le tendenze separatiste, non solo in ambito culturale, croate. La questione della lingua è specchio di identità, dunque la denominazione di serbocroato-croatoserbo è vissuta come un’intollerabile commistione. 

Anche il processo che porterà alla costruzione di un organismo di presidenza jugoslavo non rafforza ma indebolisce l’insieme della federazione. Formata per ridimensionare il potere di Tito, accresce invece il suo ruolo. Fino alla sua morte Tito rimarrà, con le sue notevoli abilità manipolatorie, il giudice super partes a cui le diverse componenti si rivolgono. L’invasione di Praga permette a Tito di agitare un pericolo simile anche per la Jugoslavia – a oggi non esiste alcuna prova documentaria di una tale eventualità. Sul piano internazionale questo rende plausibili le richieste di aiuto all’Ovest, sul piano interno produce il rafforzamento della difesa territoriale autogestita da cui, all’inizio degli anni novanta, si dispiega il primo nucleo armato delle Repubbliche secessioniste slovene e croate. 

 

Eppure, negli «allegri anni sessanta», il dibattito è davvero vivacissimo e si aprono spazi inediti per le voci di opposizione. Alla critica ufficiale alla burocrazia – leitmotiv dal ’48 in poi della critica al modello sovietico – si aggiungono riflessioni che ripartono dall’analisi de La nuova classe di Milovan Đilas. Tra le particolarità della scena culturale jugoslava, la presenza di una rivista come «Praxis» (1963-1974) e della scuola estiva di Korčula (1963-1974), che riuniscono intellettuali dell’Est e dell’Ovest. Di questo scambio si nutre la «nuova sinistra» jugoslava, influenzata dai simposi che conducono Bloch e Morin, Fromm e Habermas, Goldmann e Marcuse, da quell’«autocritica del socialismo» che portano da Varsavia-Praga-Budapest, Kołakovski, Kosík, Lukács. 

Nell’estate del ’68 – sono anche i 150 anni della nascita di Marx – il tema della scuola estiva è Marx e larivoluzione, a Korčula arrivano studenti e professori jugoslavi e soprattutto stranieri. Sarà Marcuse a infiammare gli animi, convinto che il risveglio della coscienza rivoluzionaria appartiene ora all’intellighenzia e al movimento studentesco. Chi teme la reazione degli apparati, disposti a reprimere il risveglio a ogni costo, è il filosofo Danko Grlić, imprigionato due volte al Goli Otok. Il 21 agosto, invasione di Praga, i lavori sono interrotti, partono telegrammi di protesta. 

 

Il gruppo di intellettuali che si raccoglie intorno alla rivista «Praxis» continuerà a criticare l’idea di un’«economia di mercato socialista», ritenendo possibile solo una critica «socialista» all’economia politica borghese. Nell’articolo Fenomenologia del comportamento della classe media jugoslava – pubblicato su «Praxis» nel ’71 – il filosofo Milan Kangrga scrive che la classe media «è reciprocamente intrecciata e strettamente legata con l’apparato amministrativo, e parzialmente anche con l’élite politica». Secondo questa analisi, tutti coloro a cui la riforma ha permesso un maggior benessere hanno paura della sinistra come se fosse uno spaventapasseri. «Per questo – dice Kangrga – dal punto di vista della classe media essere di sinistra viene considerato come qualcosa di negativo, perché per ogni onesto cittadino è una vergogna essere “un sinistro”, e questa è la pura verità!». 

Lo spostamento dalla quantità alla qualità – in economia – porta a una ridefinizione dell’intera scala dei valori socialisti, a un revisionismo ideale che molto deve alla Dialettica del concreto del filosofo ceco Karel Kosík. «La rivoluzione e la libertà – scrive il filosofo belgradese Ljubomir Tadié nel ’67 – sono intimamente vicine: la rivoluzione significa chiamare la libertà alla luce del giorno; la libertà contiene l’indispensabile pathos e ornamento della rivoluzione, il tremolio della sua anima, il battito del suo cuore. Ambedue sono strettamente legate alla tendenza della gioventù, dato che ai giovani, in quanto tali, appartiene il cambiamento delle condizioni empiriche dell’esistenza come anche l’immanente aspirare al nuovo, al non ancora raggiunto». E proprio in quell’anno, scrive Tony Judt, «Si aveva l’impressione che l’Europa fosse strapiena di giovani». 

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Luciano Bianciardi: gaddiano e classicista

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I nostri scrittori nati negli anni venti, gli ultimi a conoscere una canonizzazione non meramente accademico-editoriale, hanno attraversato in poco tempo un numero straordinario di traumi storici e stagioni culturali. Cresciuti tra prosa d’arte e fascismo, adulti tra neorealismo e dopoguerra, sono maturati poi durante il boom, perdendo le speranze palingenetiche della giovinezza. Spesso hanno trasformato le narrazioni degli esordi in levigati apologhi o in ibride, lutulente opere-mostro, invecchiando tra le ideologie antistoriciste e approdando magari a un maneggevole postmodernismo. È una parabola che si può riconoscere in Pasolini, Sciascia, Calvino: cioè negli autori più celebri di questa generazione. Specie il primo e il terzo, in modi speculari, hanno finto di poter guardare la Storia dall’alto, cavalcando le mode anziché subirle, ed elaborando un sistema stilistico onniattrattivo, coerente come un marchio. Eppure nessuno di loro è dotato di una lingua limpida e prensile come l’assai meno noto Luciano Bianciardi.

 

Bianciardi sa cogliere le metamorfosi dell’epoca senza perdere lo sguardo di chi si sente un uomo qualunque tra gli uomini, né si ritiene mai investito d’insostituibili mandati tecnici o sociali. Un amore inattuale per i buoni studi storico-letterari, e una quotidianità vissuta a lungo in cerca di amici fraterni (non di modelli, o alunni, o chierici-compagni illuminati) sono forse i tratti che lo hanno salvato dalle sclerotizzazioni identitarie dei colleghi, e che al tempo stesso hanno determinato la sua incapacità ad amministrare un proprio fruttuoso Ruolo. Così, questo maremmano bizzarro ma attaccatissimo al senso comune è stato prima dimenticato e poi tradito dai volgarizzatori del suo antagonismo. Speriamo dunque che questa edizione del Saggiatore serva a leggerlo o a rileggerlo al netto del marketing tendenzioso a cui rischia di cedere ogni “operazione outsider”.

Il piccolo borghese Bianciardi, classe 1922, matura il suo liberalsocialismo studiando nella Pisa di Capitini, Russo e Calogero. Dopo la guerra insegna al liceo di Grosseto, la sua città, e lì dirige la Biblioteca Chelliana, inventandosi un Bibliobus per portare i libri nelle campagne. Collabora a Belfagor, Il Mondo, Il Contemporaneo; e nel ’54, per l’Avanti!, stende con Cassola un reportage sui minatori. Quindi s’imbarca nell’impresa Feltrinelli, ma si fa subito scaricare, e da allora sceglie una vita randagia di pubblicista e traduttore (innumerevoli le versioni dall’inglese: London, Faulkner, Steinbeck, Bellow, Huxley, Robbins, Barth…).

 

Tra il ’57 e il ’60 escono i suoi primi romanzi-pamphlet, Il lavoro culturale e L’integrazione. Intanto, precedendo Eco e Warhol, Bianciardi ha già offerto impeccabili analisi semiologiche della “mediocrità” di Mike e del quarto d’ora di celebrità televisivo. Lungo gli anni questa sua vocazione barthesiana, filtrata sempre da un linguaggio chiaro e referenziale, si esercita tra l’altro in una pionieristica rubrica intitolata “Telebianciardi”. Allo scrittore bastano pochi dettagli di costume per raccontare i rapporti che si stabiliscono tra maschi e femmine, o tra realtà e pubblicità, nel mutevole quadro del miracolo economico. Un esempio: “Lo sanno benissimo i fabbricanti di auto, che già in partenza battezzano il prodotto con un nome di donna: la Giulietta, la Giulia, la Primula, la Bianchina, la Topolino. Non sono forse gli stessi nomi che si sentivano prima di quel fatidico 20 settembre, in via Fiori Chiari?”.

Di queste doti epigrammatiche e filologiche trabocca La vita agra, che nel ’62 regala a Bianciardi una gloria inattesa, e viene poi portato sul grande schermo da Lizzani. Montanelli chiama lo scrittore al Corriere, ma invano. Lui sceglie Il Giorno, il quotidiano dell’apertura a sinistra; e anziché sfruttare l’immagine dell’arrabbiato, di cui non aveva previsto il sinistro successo, si mette a sfornare cronache sul Risorgimento. Nel frattempo traduce senza sosta, e scrive centinaia di pezzi per la stampa pop: ABC, Kent, Executive, Playmen, Le Ore, AZ… Dal ’70 tiene anche una corrispondenza sul Guerin Sportivo, proponendo funambolici paragoni tra i fatti del calcio e le vicende politiche, storiche o artistiche. Ma questo poligrafismo frenetico nasconde il progressivo autoesilio dal mondo, la distruzione alcolica di una vita cupissima e umorale. Lo scrittore muore nel 1971, a neanche quarantanove anni.

 

Bianciardi ha saputo essere l’ultimo custode della più forbita tradizione toscana, senza per questo ridursi a linguaiolo. Ed è stato un “arrabbiato” troppo onesto per posare a beat (anzi, a “bitinicco”). È passato per le stanze del potere con l’estraneità allegra e disperata di chi non sa o non vuole né consolidare la posizione acquisita, né costruirsi un’ideologia in grado di giustificare la cattiva coscienza dell’intellettuale che tira avanti tra scritture semigiornalistiche, diritti e “battonaggio” traduttorio. Perciò ha scontato sulla pelle l’alienazione che molti hanno addomesticato coi sofismi, e ha fatto in pratica quel che altri teorizzavano ma non riconoscevano poi nella sua opera: un’opera troppo letteraria e insieme troppo popolare (cioè “dotta e carognona”), troppo concreta e insieme troppo orgogliosa del suo lessico chirurgico per poter piacere ai maîtres à penser di qualunque specie.

In fondo, questo ex azionista e distratto fiancheggiatore del pci è rimasto sempre un anarchico socialisteggiante di fine XIX secolo, costretto suo malgrado a fare i conti col nichilismo del pieno Novecento. Come i fautori della seconda Internazionale, Bianciardi mantiene un’ostinata fiducia nella buona divulgazione da dispensa diderotiana; eppure non ignora che il sapere moderno si è ormai trasformato in approssimazione da rotocalco, e che gli ex analfabeti assetati d’emancipazione sono già una massa omologata. Così, quest’uomo fuori tempo e fuori luogo non può né onorare le sue radici etiche né abbandonarle: e da una tale sfasatura, oltre che da contraddizioni più private, si lascia infine lacerare, consumandosi tra ribellione e pigrizia, tra rimorso e accidia. La sua fragilità e la sua coscienza di provinciale lo costringono a ingaggiare un sempre più mostruoso gioco a nascondino coi progetti di gioventù, e gli impediscono di ideologizzare o di bruciare esteticamente il senso di colpa.

 

Per capire l’ossimoro incarnato da Bianciardi bisogna immaginare l’impossibile. Per esempio, figuratevi un Fortini che, perse le inibizioni di profeta, pubblichi su un settimanale erotico o libertario agili referti krausiani della vita quotidiana degli anni sessanta, o addirittura si mischi a presentatori, sportivi, attori (cioè agli “amici” infilati da Bianciardi in quasi tutti i suoi libri: da Walter Chiari a Carlo Ripa di Meana al portiere Ghezzi). Oppure pensate a un ethos di tipo camusiano, orwelliano o chiaromontiano, ma bagnato nell’acido della satira e screziato da una furia alla Henry Miller (per il goliardico Luciano, “Enrico Molinari”). O ancora, provate a concepire un commediografo all’italiana, un guascone strapaesano che raggiunga di colpo la statura morale di un maestro di scuola d’altri tempi e di un critico della cultura mai arcigno. In poche parole, è come se in Bianciardi lo spirito costruttivo dell’Ottocento e quello distruttivo del Novecento, l’uomo comune e il corsivista scettico, l’utopista e il saturnino fossero polarità mai del tutto scisse, reagenti di continuo l’una sull’altra in una straziata, ironica baruffa.

 

Perfino alle più alte temperature sperimentali, questo scrittore conserva sempre una lingua cristallina: il suo è un paradossale “gaddismo classicista”. Di qualunque cosa parli, Bianciardi rifiuta di eludere l’ingombro irriducibile della propria biografia, trasposta in satura ma mai dissolta in astrazione, e per questo destinata a ferire chi gli sta vicino. Il suo citazionismo è sempre funzionale o esistenzialmente pregnante. Spesso l’intarsio parodico sottolinea lo iato tra un’antica cultura introiettata fin nel subconscio e lo sforzo compiuto per tradurla nel mondo nuovo. Di qui viene l’ossessione metalinguistica, l’orecchio assoluto (diceva Spagnol) per le “deformazioni professionali”, l’abilità nel cogliere tic e gerghi. Un’abilità che allo scrittore costa parecchio, dal punto di vista umano e perfino giudiziario. Già a inizio anni cinquanta, quando sulla Gazzetta di Livorno propone una galleria di tipi locali, alcuni di questi tipi vanno ad aspettarlo sotto casa; e più tardi, una sua rubrica pubblicata dall’Unità viene cassata dopo l’uscita del ritratto di un comunista influente. L’egemonia di questo pci oligarchico è ricordata nel Lavoro culturale, dove Bianciardi dice addio ai tempi del “nella misura in cui” e al mito dell’intellettuale organico aleggiante sulle ingenue assemblee di provincia. Ecco un pezzo che descrive con sardonica puntualità il loro gergo, poi sopravvissuto a se stesso per decenni:

 

Il dibattito, oltre che concreto […] è ampio e profondo, anzi, approfondito, e quasi sempre si propone un’analisi (approfondita anch’essa) della situazione. La giustezza della nostra analisi sarà poi confermata, invariabilmente, dagli avvenimenti. La situazione è sempre nuova e creatasi (da sé, parrebbe) con o dopo. Al dibattito gli interventi portano un utile contributo. Esso può assumere anche la forma di convegno: in questo caso è parlato, gli interventi sono numerosi, e gli intervenuti sono giunti da ogni parte d’Italia […]

Concreto, come si è visto, è il problema, il dibattito, l’intervento e l’indicazione. A memoria d’uomo non si è mai saputo di un problema, dibattito ecc. che si sia potuto definire astratto. Come non si è mai saputo di un problema risolto; semmai superato, dalla situazione creatasi con o dopo. A volte poi si è scoperto che il problema, pur essendo concreto, non esisteva. In casi simili basta affermare che il problema è un altro […]

Accanto al problema, ma un po’ più sotto, c’è l’esigenza. L’esigenza si sente, anzi, si è sentita. A volte sorge, o meglio, è sorta, ed in ambedue i casi occorre andarle incontro. Problema ed esigenza riguardano a volte i rapporti con. Con gli intellettuali, per esempio.

Gli intellettuali possono incontrarsi da soli o accompagnati ad operai e contadini. In questo secondo caso la successione di rigore è la seguente: operai, contadini, intellettuali.

 

Per Bianciardi, il mondo in cui questo gergo conservava un pur vago senso è stato spazzato via dall’esplosione di grisù che il 4 maggio del ’54 ha fatto saltare in aria la miniera di lignite di Ribolla, da lui esplorata con Cassola. Il trauma arriva dieci anni dopo quello subìto durante il bombardamento di Foggia: ma le nuove morti, volute dall’irresponsabile esercito in borghese della Montecatini, sembrano ancora più assurde. Così vengono riepilogati gli eventi nella Vita agra:

 

il caposquadra aveva fatto storie: diceva che dopo due giorni senza ventilazione, giù sotto, era pericoloso scendere, bisognava aspettare altre ventiquattr’ore, far tirare l’aspiratore a vuoto, perché si scaricassero i gas di accumulo. Insomma, pur di non lavorare qualunque pretesto era buono.

[…] Stavolta era stufo: meno storie, disse ai capisquadra, mandate cinque uomini della squadra antincendi a spegnere i fuochi, ma intanto sotto anche la prima gita. La mattina del giorno dopo, alle sette, la miniera esplose.

Rimasi quattro giorni nella piana sotto Montemassi, dallo scoppio fino ai funerali, e li vidi tirare su quarantatré morti, tanti fagotti dentro una coperta militare. Li portavano all’autorimessa per ricomporli e incassarli, mentre il procuratore della repubblica accertava che fossero morti davvero, in caso di contestazione, poi, da parte della sede centrale […]

E quando le bare furono sotto terra […] mi ritrovai solo sugli scalini dello spaccio, che aveva già chiuso, e mi sembrò impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare.

 

 

A Grosseto, ribattezzata Kansas City, tutto sembra di colpo inutile e insopportabile. Così Bianciardi emigra a Milano. Qui lavora alla rivista Cinema Nuovo di Aristarco, e presto passa dalla satira dei cineclub engagés alla satira della nascente industria culturale. È l’epoca in cui sta esaurendosi la spinta propulsiva del ’45, e nella grande città si sente subito. Ogni volta che il protagonista della Vita agra, arrivato lì con la folle idea di far saltare in aria il “torracchione” della Montecatini, prova a parlare dei morti di Ribolla, si scontra con una disattenzione fisiologica. Ecco il dialogo che ha col suo capo, direttore appunto di un quindicinale di spettacolo: ““Vedi, è un buon tema […] ma stai attento, perché c’è il pericolo di cadere nel solito neorealismo.” “Come sarebbe?” gli chiesi. “Sì, tutte quelle gallerie, le case pericolanti, i minatori in attesa fuori del pozzo. C’è il pericolo di cadere nella cronaca di un certo tipo. E ora invece noi ci stiamo battendo per il passaggio dal neorealismo al realismo. Dalla cronaca alla storia. Tu hai visto Senso, vero?””.

Da Cinema Nuovo Bianciardi approda direttamente alla Feltrinelli, la nuova casa editrice comunista nell’ideologia e neocapitalista nei fatti. Qui la riduzione tecnocratica del lavoro culturale è compiuta. Deve confrontarsi ogni giorno con dinamiche di potere insondabili, con mansioni puntigliosamente definite ma in realtà non misurabili. Presto viene licenziato per scarso rendimento e rimane un collaboratore esterno; ma intanto quel microcosmo gli ha suggerito il leitmotiv dei “quartari”. Spiega l’alter ego della Vita agra:

 

E mi licenziarono, soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile. Nel nostro mestiere invece occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli sull’impiantito sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare e fare polvere, una nube di polvere possibilmente, e poi nascondercisi dentro.

Non è come fare il contadino o l’operaio […] il contadino appartiene alle attività primarie, e l’operaio alle secondarie. L’uno produce dal nulla, l’altro trasforma una cosa in un’altra. Il metro di valutazione, per l’operaio e per il contadino, è facile, quantitativo: se la fabbrica sforna tanti pezzi all’ora, se il podere rende. Nei nostri mestieri è diverso, non ci sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un prm? Costoro né producono dal nulla, né trasformano. Non sono né primari né secondari. Terziari sono e anzi oserei dire […] addirittura quartari […] sono vaselina pura.

 

Date le premesse, il loro unico metro di giudizio resta “la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più su”. Metro che vale soprattutto nelle case editrici, sempre “piene di fannulloni frenetici” che fanno un lavoro finto ma si beccano veri esaurimenti nervosi. Il loro universo ci è stato raccontato soprattutto dai critici dell’ideologia, dai marxisti eretici. Ma proprio per questo, lascia ammirati il diverso nitore con cui Bianciardi sa dirci le stesse cose rivitalizzando la forma mentis del letterato d’antan. Si pensi per esempio al rapido epigramma in cui fissa la natura dell’industria culturale moderna, osservando che se prima dell’invenzione della stampa era il lettore che cercava il libro, ora le macchine hanno una tale capacità di diffusione che è il libro a dover inseguire il lettore. Oppure si veda questa definizione dell’engagement, giudicato come un’ultima variante dell’Arcadia che sfocia nella sottocultura: “Al posto dei pastorelli avevano messo i metallurgici […] Ora poi non ci sono neanche più i metallurgici. Ora c’è Charlie Brown, figurati! O James Bond.”

 

Ma la Milano di Bianciardi è una baraccopoli di lusso che avvelena anche le attività

più concrete. Dietro il suo presunto efficientismo si cela un’irrazionalità assoluta, che il narratore riduce spassosamente all’assurdo. Lungo le sue vie si aprono e chiudono di continuo le stesse buche; ma la gente, che protesta se un grammofono trasmette troppo alto Vivaldi, non s’interroga più sull’apparente insensatezza dei lavori: il rumore dei martelli (“vibratili”, come le segretarie aziendali in marcia sopra i tacchi) è un alibi sufficiente. Chi vuole può perfino travestirsi da operaio, scavare o riempire il terreno in una sorta d’insensata parodia keynesiana, e farsi pagare dal Comune senza sollevare sospetti.

Tuttavia al centro dello sguardo bianciardiano resta sempre la metropoli degli intellettuali, sospesa tra ultima bohème e nuove pseudocompetenze. È la Milano dei pittori e del cabaret, della Casa della Cultura e del Derby, un universo urbano che dietro i primi esperimenti del centrosinistra lascia già intravedere le future frivolezze manageriali dei Larini e dei Cardella. Ma soprattutto, quella di Bianciardi rimane la Milano della Feltrinelli. Indimenticabili, a questo proposito, le pagine dell’Integrazione che alludono all’influenzabilissimo editore “giaguaro”, quelle che descrivono le interminabili riunioni sulle regole tipografiche, e quelle che parodiano il dibattito tra storicismo e sociologismo. È il tempo in cui gli eventi internazionali gettano scompiglio a sinistra, evidenziando la divaricazione tra credenze professate e abitudini di vita. I terremoti dell’Est europeo si riducono così ai “fatti di piazza Ungheria”, cioè alle smanie di intellettuali che si fanno venire la febbre solo perché non capiscono più quale comunicato devono firmare, e si scambiano telefonate di questo tipo: “Sei tu, Mariolina? Cosa dice Peppino? È per la ritrattazione? Bene, ma la formula? Anche i Peverini dici? E Antonio? S., lo capisco. Documento e rettifica, no? L’avevo pensato. Pubblichino anche loro il documento, poi segue la dichiarazione che deploriamo l’affare dell’ANSA eccetera. Mi sembra la strada migliore. Benissimo. Tu come stai? Dieci giorni? Addirittura. E i conti dell’Ogino Knaus così vanno per aria, no? Eh vi capisco. La bambina come sta? Bene, mi fa piacere. Un salutino a Peppino, quando rientra. Ciao.”

 

Nell’Integrazione (dove, come nel Lavoro culturale, Bianciardi si sdoppia nelle figure di due fratelli) il personaggio che sconta più a fondo il nuovo clima è Marcello, uno studioso cupo e astratto, machiavellico e masochista. Autoironicamente, l’autore gli prepara un destino di amara solitudine: Marcello finisce a scrivere pastoni da Reader’s digest, e lo fa con la ghignante efficienza di chi nasconde nella piattezza della prosa “venduta” esoterici messaggi in bottiglia. Alla fine lo vediamo preda di una tentazione luddista: come un Rastignac impotente svelle un mattone dal terrazzo, e finge di tirarlo contro la città che si agita lì sotto. Invece il suo erede della Vita agra (un io anonimo e senza fratelli, a fronte di un doppio femminile sempre più marcato) approda a Milano meditando già progetti da bombarolo. Poi però li perde. La verità è che finita l’euforia comunista si ritorna anarchici; ma anarchici sfiduciati, cui resta appena la risorsa dell’inazione: “Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha”. Però il confine tra non-collaborazione e integrazione è molto labile. All’inizio, il personaggio paranoico del ’62 accetta un alienante lavoro “di concetto” solo per preparare con calma la vendetta che crede gli abbiano affidato. Ma poi l’alienazione diventa la sua vera vita, e l’assalto alla Montecatini è rimandato sine die. Il bombarolo s’intruppa nell’esercito dei milanesi che marciano tutto il giorno dentro rigide “scarpe hegeliane”, rischiando a ogni passo d’esser sforbiciati via dal traffico. È risucchiato da una città in cui gli operai sono invisibili e in cui le sezioni del pci, simili a uffici di collocamento, eleggono a capicellula degli estetisti per cani. Lì dove tutto mostra la sua algida facies ippocratica, per salvarsi occorre esercitare un inedito acume semiologico: “La grana sarebbe quella che si prende, i dané quelli che si pagano, mi pare di aver capito”. E se ci si rinchiude in casa a sfornare traduzioni a cottimo, si rischia di fare brutti sogni: per esempio, sogni tutti “interpretati” in un inglese che si è incapaci di voltare in italiano. Quando si lavora nella tana, bisogna stare attenti a che il pastiche di parole altrui non sconvolga perfino la memoria della propria infanzia; e l’unico rifugio sicuro è un sonno vuoto come quello della Ragazza Carla del poema coevo di Pagliarani.

In quest’incubo diurno e notturno, l’“attivismo ateleologico” del lavoro d’ufficio è stato introiettato fin nel cuore di un solitario ménage casalingo assediato da “tafanatori” reali o mentali, e sommatosi perversamente al super-Io sgobbone del piccolo borghese di provincia. Questa condizione coatta viene resa da Bianciardi con una serie di pezzi di bravura che investono il lettore a cascata: si va dalla parodia dei narratori americani a quella degli editoriali sociologizzanti, dalle tirate sulla beffarda defecatio post mortem a quelle contro il coito divenuto mero simbolo e privato della sua salutare inutilità. Sublime è poi il colloquio tra il protagonista e una editor imbecille, che pretendendo traduzioni “letterali”, non “toscaneggianti” lo rimprovera di avere reso “come on boys” con “sotto ragazzi” anziché con “venire su”, e di avere scritto “bottega di falegname” anziché “laboratorio”.

 

L’integrazione e La vita agra, dove il secco sarcasmo diventa quasi un correlativo dell’aridità e della fatuità del reale, sono libri paragonabili forse soltanto alla Vita operosa di Bontempelli (1921), dove viene notomizzata la Milano del primo dopoguerra. Si tratta di approdi (letterari e geografici) da cui non si può tornare indietro senza apparire nostalgici. La capitale lombarda rappresenta una società mostruosa ma dinamica, mentre Grosseto sembra appena un residuo del passato. Nel romanzo del ’60, prefigurando il destino di quella sinistra umanista oggi sempre più simile a una Lega Centro, Marcello avvisa che starsene in Toscana è troppo comodo: significa rifugiarsi in un’Italia “troppo soddisfatta della sua composta perfezione”, che “non riesce a trovare alcun aggancio con quest’altra Italia, balorda quanto vuoi, ma reale e crescente […] e non lo trova nemmeno con l’altra Italia, quella di sotto, quella che fa la fame […] In una zona depressa siamo venuti, credilo pure, e ben più difficile che la Lucania: perché là la depressione salta subito agli occhi, mentre qui si maschera da progresso, da modernità […] Sta a noi batterci per il sollevamento, per il risorgimento, diciamolo pure, di questa Italia”.

 

Già, il Risorgimento. Mentre affronta la sua lotta impari con Milano, Bianciardi dedica un’attenzione crescente a quel periodo glorioso e ambiguo che vorrebbe aver vissuto. Per anni, il “racconto del 1860” e quello “del 1960” procedono paralleli: da una parte Da Quarto a Torino, omaggio all’esercito forse più colto della storia, e dall’altra l’analisi del “lavoro culturale”; da una parte le indagini appassionate sull’Unità, dall’altra la caricatura della politica di provincia e dell’industria mediatica. Poi i due filoni s’intrecciano. Bianciardi inizia a interpretare la cronaca italiana tra il ’45 e il boom col testo a fronte della “resistenza” garibaldina, filtrata attraverso i quadri e le pagine dei “paesani” Fattori e Bandi. Non a caso il borioso capitano che nel romanzo storico-mimetico La battaglia soda sfotte un reduce dei Mille si chiama Bauducco, proprio come il tronfio manager (ed ex ufficiale alpino) che nell’Integrazione amministra la casa editrice. Entrambi incarnano un ritorno all’ordine: l’uno fa il tecnico di guerra, l’altro il tecnico del marketing. Tutti e due si fingono eredi di un patrimonio ideale (il Risorgimento, il comunismo), ma in realtà parlano già come cortigiani piemontesi o americani. Invece i loro avversari, gli alter ego dei romanzi milanesi e il protagonista della Battaglia soda, una volta chiusa la stagione della speranza – con Custoza o con la guerra fredda – finiscono a marcire tra le scartoffie.

 

Ma la mescolanza esplicita tra Ottocento e Novecento arriva poco prima del fatidico ’68. È il periodo in cui i nati negli anni venti traggono i primi bilanci: e simbolicamente, mentre Calvino trionfa a Parigi, Bianciardi si ritira a Rapallo. Ora la passione risorgimentale, incanalata al livello più basso in politi testi divulgativi (Daghela avanti un passo!, Garibaldi), al livello più alto confluisce in un antiromanzo ucronico e guerrigliero, che è insieme un esercizio di virtuosismo ossessivo, introverso, catafratto. Aprire il fuoco, uscito nel ’69, resta un unicum nella nostra letteratura. Per concezione può ricordare la Storiadi domani di Malaparte o Roma senza papa di Morselli; solo che qui, in più, c’è la vertiginosa oscillazione formale tra flusso di coscienza e referto narrativo – o meglio, come ha scritto Paolo Maccari, tra “dialogo interiore” e stile “americano”. Bianciardi osa mischiare le Cinque Giornate del 1848 milanese, filtrate dai ricordi di Giovanni Visconti Venosta, con la cornice storica del 1959. Tra barricate di bus e molotov, Bocca va sfrontatamente a braccetto con Cattaneo, un cantante di nome Gabersic incontra Correnti, Hitler s’affianca a Radetzky, e Pio IX si confonde con Giovanni XXIII. Per eludere la censura dei “giuseppini”, ritornati dopo il fascismo, i ribelli inneggiano fiduciosi al pontefice buono firmando le schede del totocalcio col nome Giovanni Papa e marcando solo i primi cinque risultati: due X e tre I. A raccontare ex post questa follia è l’aio dei Venosta, che una volta falliti i moti è andato in esilio a Nesci (eloquente travestimento di Rapallo).

 

Per dare un’idea del clima, basti pensare che tra le fazioni degli insorti si conta “la cosiddetta linea emme”, che s’ispira insieme a “il Mazzini, il Marx, il Mao, il Min e il Marcuse” (gli avversari ci aggiungono il Mussolini). C’è poi chi confida nel re Tentenna e nei francesi, e ci sono “i seguaci del Togliatti”, secondo cui “a fare l’Italia si sarebbe arrivati con la semplice scheda elettorale, gradualmente e progressivamente”, e bisognerebbe dunque allearsi con la Chiesa: “Li vedevi spesso frequentare le sagrestie […] ma era tutta fatica sprecata perché il clero li sbeffeggiava regolarmente”. Il famoso sciopero del fumo, invece, viene legato alla nonviolenza dei capitiniani, che intendevano “rifiutarsi di pagare le imposte” e “abbandonare i posti di lavoro per dedicarsi soltanto ai piaceri della carne […] Venivano costoro chiamati i rivoluzionari del non, ma a me sembrava che intanto predicassero bene e razzolassero, come suol dirsi, male, perché li vedevo laboriosissimi, rispettosi degli orari, faticatori anche al sabato Sera”. Tutt’intorno, i martinitt convivono con le protofemministe, e la rivolta diventa una copula continua. È il sogno anarchico di Bianciardi, molto diverso da quello dei sessantottini, ai quali infatti suggerisce di non sdilinquirsi davanti al Dottor Guevara e di studiare piuttosto il Pisacane, “che è anche più bravo”.

 

Dopo la sconfitta, il protagonista di Aprire il fuoco s’è convinto che bisogna fomentare una insurrezione senza fine – un disordine tranquillo, continuo e dunque non imbrigliabile dai capetti quartari travestiti da rivoluzionari. E soprattutto, non è più tempo di buttarsi sulle sedi istituzionali: “Bisogna occupare le banche e spegnere la televisione”. Purtroppo, però, perfino la fantasia più sfrenata riesce a inquadrare i frammenti utopici del presente solo in contesti di senso ottocenteschi. Nota Maccari: “Il passato non torna, e l’utopia non poggia su una realtà in grado di alimentarla”. Eppure l’aio dei Venosta, come un teologo negativo, conta sempre su questa rivoluzione inconcepibile. “Son dovuto fuggire quaggiù” dice alla fine “e ancora aspetto il segno, dal finestrone che affaccia, nella camera a pianta pentagonale, sul Manico del Lume. Guardo sempre laggiù, verso il gabellino”.

E dal gabellino autostradale di Rapallo, mentre l’alcol lo consuma, lo scrittore insiste su una rivolta sempre più lontana da quella dei capelloni urlanti o underground, cui oppone la maggioranza silenziosa dei concerti di Bach. Il futuro, comunque, ormai non lo riguarda. A lui resta la sapiente ma fioca gestione dei motivi più cari: quello risorgimentale, certo, ma anche quello antisessuofobico trionfante nel racconto “La solita zuppa”, dove s’immagina una società che ha il cibo come tabù e il coito come dovere, e si arriva fino alla blasfema invenzione di una Chiesa che nasconde per secoli la natura culinaria della moltiplicazione dei pesci e dell’ultima cena, interpretandole rispettivamente in senso “napoletano” e omofilo.

 

Per concludere, però, vorrei citare da un’altra rêverie fantapolitica del ’68, l’articolo “Marines a Rapallo”. Vi si mette in scena uno sbarco statunitense, a ridosso di elezioni sospese tra utopia frivola e incubo grottesco. Il pezzo contiene tra l’altro una perfida parodia della gestualità poetica pasoliniana: “Fra gli uomini di cultura uno dei pochi che prendessero posizione chiara fu il poeta Pasolini, il quale scrisse una poesia sulle tute mimetiche dei reparti sbarcati. “Cari”, cominciava l’ode, “cari ragazzi in tuta mimetica – memoria del rozzo overall – indosso al negro – coglitore di cotone […] Eletta schiera che tre volte – travalicaste l’Atlantico. – Nel diciassette ai tempi – di mio padre tenente – e Pershing v’era guida. Nel – quarantadue ai tempi – di me riformato e vi guidava il grande Ike – whom I like […] Via – dalla porca Italia, che – ai vostri avi terroni – non diede – né pane né – libertà.” I commenti furono i più vari, ci furono riunioni in casa Bellonci, Pasolini precisò che la poesia era brutta, ma che andava letta in un’altra maniera. Non disse quale. Se la prese coi quarantenni e passa, i quali profittavano dello sbarco dei marines per rifarsi una verginità ideologica e morale, si ritirò dal Premio Campiello, partecipò invece al Festival di Castrocaro, come paroliere. Poi mi svegliai”.

Un agrodolce risveglio da un agrodolce sonno: due stati di coscienza negati a molti scrittori coetanei di Bianciardi, di lui troppo più noti e strumentalizzabili.

 

Prefazione al volume Luciano Bianciardi, il cattivo profeta, il Saggiatore 2018.

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Harun Farocki. Pensare con gli occhi

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Harun Farocki è un artista poco conosciuto in Italia, a parte l’omaggio dedicatogli un anno dopo la morte dalla Biennale di Venezia del 2015, intitolato Atlante di Harun Farocki, con rimando al grande tema dell’atlante, da Aby Warburg a Gerhard Richter e oltre, e poco dopo il seminario internazionale a lui dedicato allo Iuav. Figura singolare e al tempo stesso paradigmatica di un modo di fare cinema che è approdato nelle gallerie e nei musei d’arte, meritava uno sforzo ulteriore come quello che ha visto il convegno dedicatogli a Torino nel novembre del 2016 e ora il volume che ne riprende il titolo e lo amplia per ricchezza di materiali e di interventi, curato da Luisella Farinotti, Barbara Grespi e Federica Villa per i tipi di Mimesis: Harun Farocki. Pensare con gli occhi.

 

Nato nel 1944 in una cittadina allora tedesca oggi ceca, debutta nel cinema a metà degli anni ’60 con film di impostazione situazionista, di critica politica e della cultura: “cinema come forza antagonista e militante, strumento di lotta e di controinformazione, antidoto critico alla sua stessa fascinazione”, scrive Farinotti. Insegna, scrive, milita. Negli anni ’80 mette a punto il suo modo personale: le definizioni che ne sono state date, film d’osservazione e film-saggio, sono indicative della direzione e dell’originalità. Non si tratta di un cinema di finzione, ma neppure di documentario, dei due insieme quasi che essi si contrappongano è dire ancora troppo poco. Certo la provenienza è il cinema –  lo sguardo antropologico di Bresson, l’arte del montaggio in Godard, il cinema speculativo di Straub e Huillet, è stato sintetizzato – ma un cinema che condivide le preoccupazioni dell’arte – della cultura – contemporanea. Molti ne hanno tentato una descrizione sintetica: “poco riducibile alle definizioni, oscillante costantemente fra poesia e teoria, scherzo e gravitas, come fra fiction e documentario” (Christa Blümlinger); cinema “diagramma” (nel senso di Deleuze), per il modo in cui le immagini assumono progressivamente senso nel loro ripresentarsi, nel continuo riapparire entro nuove catene per incastri, deviazioni, continui ritorni (Raymond Bellour); cinema collage, sottolineando la varietà dei materiali usati e insieme l’aspetto di discontinuità nel montaggio (Farinotti). È stato definito “antropologo del presente”, Grespi giustamente sottolinea gli aspetti che ne fanno un campione della “cultura visuale”.

 

 

I suoi film, di lunghezze e carattere diverso, a volte ricostruiscono la storia di singole immagini in altri casi ne mettono a fuoco l’esistenza di classi, warburghianamente spaziando dal documento all’arte alle immagini di massa a quelle tecniche. L’aspetto di riflessione sull’immagine, sulla sua natura, la genealogia, le funzioni, i risvolti tecnici e il lavoro che comporta la realizzazione è centrale, ma non esaurisce né centra l’originalità di Farocki. Ora si fa appello al “gesto dell’immagine”, con riferimento a Horst Bredekamp, ora le si definisce immagini “operative”, la cui natura non è tanto riproduttiva quanto quella di “strumenti, e finanche soggetti dell’azione”. I film, tra i suoi più famosi e su cui diversi testi del volume si soffermano, sulle immagini di guerra, quella del Golfo o quelle simulate nei videogame o nei video di addestramento militare, hanno fatto parlare di “immagini-bombe”, rovesciando le bombe di sola immagine di quelli. L’operatività è senza dubbio anche uno dei concetti centrali per la riflessione sui rivolti politici sempre rimasti centrali nel lavoro e nella riflessione di Farocki: il cinema, l’opera, non come espressione del proprio pensiero personale, ma come “restituzione”, per usare la formula che Georges Didi-Huberman ha ripreso da Jacques Derrida, che acquista un duplice, se non triplice significato: restituzione alla collettività, resa pubblica e disponibile alla conoscenza di tutti, e resa visibile, nonché restituzione al visibile di ciò che vi si sottraeva o ne era rimosso.

 

Divisi in tre sezioni – precedute da una preziosa antologia di testi dell’artista – intitolate significativamente “Il cinema e oltre”, “Il lavoro con le immagini” e “L’iscrizione della guerra”, i testi del volume riprendono tutte queste tematiche e altre ancora, nonché l’analisi di singoli film, video o installazioni. Elenchiamone gli autori: oltre alle curatrici, Thomas Elsaesser, Rembert Hueser, Chiara Grizzaffi, Volker Pantenburg, Antje Ehmann, Pietro Montani, Christa Bluemlinger, Luca Malavasi, Maurizio Guerri, Alessia Cervini, Massimiliano Coviello, Riccardo Fassone, Clio Nicastro.

Il cinema, come giustamente ribadisce Villa, è il centro intorno a cui ruota tutta l’operazione complessiva di Farocki – altra “restituzione” –, il ruolo che svolge nei processi creativi altri, quelli del video, delle installazioni, ecc., il punto di ritorno costante dell’opera di Farocki, il suo “medium”, potremmo dire oggi nel senso più pregnante del termine, quello dell’insieme di regole che determinano il processo creativo. Proprio su quest’ultima questione mi si lasci deviare un momento per poi tornare e concludere.

 

È negli anni ’90 che Farocki effettua la svolta a cui si è accennato all’inizio, quella cioè che lo ha portato dalle sale cinematografiche alle gallerie e musei d’arte. Che cosa è successo? La questione non può essere risolta notando che in fondo tutti i media hanno azzardato tale svolta nello stesso giro d’anni; casomai questo evidenzia il carattere generale che può avere una risposta effettiva. E dunque: la prima opera che Farocki ha presentato come “opera d’arte”, in galleria piuttosto che in sala, è stata Interface, nel 1995, opera basata sulla presenza sullo schermo di due immagini invece di una sola, come si vede quando si fa il montaggio, dice Farocki, non come nella proiezione di un prodotto finito. Due, dunque non il flusso dell’uno, bensì di mano in mano i loro rapporti. Ebbene, non si tratta solo di metarappresentazione, di immagine nell’immagine, di discorso interno sull’immagine, sulla tecnica, sul linguaggio, ma di qualcos’altro. Sta qui anche l’importanza allargata di questo volume, che si aggiunge all’interesse specifico sulla figura di Farocki e sul cinema. Questo qualcos’altro sta nel titolo del volume stesso: Pensare con gli occhi.

 

Mi permetto di sintetizzare partendo da un’autrice che, mi pare, nessuno degli autori cita e quindi può forse essere interessante aggiungere. Farocki è infatti uno degli ultimi autori annessi da Rosalind Krauss, in Sotto la tazza blu (Bruno Mondadori, Milano 2012), alla sua rosa di artisti preferiti, che per l’occasione chiama “cavalieri del medium”. Li chiama “cavalieri” con riferimento alla mossa del cavallo degli scacchi, perché sostiene che il rapporto con il medium, con la sua specificità, vada oggi non più impugnato in termini di autoreferenzialità come nel Modernismo (greenberghiano in particolare), ma per effettuare appunto una mossa complessa, che comporta un passo laterale, uno scavalcamento, o, con altra metafora su cui Krauss insiste, per darsi la spinta come fa il nuotatore con il bordo della piscina. La doppia immagine, la metarappresentazione vanno per Krauss intese in questo senso, con tutta la forza del medium ma per andare oltre, ovvero, qui, per fare diversamente, cioè specificamente per pensare visivamente.

 

Che cosa significhi, lo estraiamo ancora dai testi del volume, ma in questa chiave, a partire dai testi di Farocki stesso. L’intenzione, ma è anche una chiave, la prendiamo da Campo-controcampo: “la presenza dell’Identico nel Diverso. Ciò dà forza al linguaggio: non ci si limita a inventare, ma comunica veramente”. È un rovesciamento determinante: non il Diverso nell’Identico, come ci ha abituato il pensiero della differenza, dello straniamento, dell’eterogeneo, ma l’Identico nel Diverso, ovvero ciò che è in comune, ricorre, slitta, si sposta, si trasforma, rimanda ad altro, tra oggetti apparentemente anche molto distanti tra loro. Il metodo lo prendiamo da un’altra distinzione introdotta in A proposito di documentario: “Nel film di finzione – nel film di finzione classico – la macchina da presa anticipa. Nel film documentario segue”. Che cosa significa “seguire”? A me sembra che significhi prima di tutto non precedere, non avere tutto stabilito in precedenza, di cui il film diventa la traduzione, la trasposizione in immagine (per restare al visivo, ma vale anche per la componente del sonoro), quindi, conseguentemente, procedere sviluppando di mano in mano, riflettendo mentre si realizza, interrogare in atto, pensare appunto, mentre si fa, sulle immagini, con le immagini, a causa delle immagini. Le immagini infatti inducono questa forma di pensiero, di osservazione, non predeterminato, non lineare, discontinuo – non montaggio senza smontaggio, direbbe Didi-Huberman –, nel suo svolgersi; verrebbe da dire: da dentro l’immagine, per questo è doppia, per questo Farocki si include così spesso. È il loro funzionamento “reale”.

 

Dunque, per concludere: che sia questa mossa del cavallo il “passaggio” all’arte, dalle sale cinematografiche alle gallerie? Che questo abbia a che vedere anche con il significato politico di questo tipo di arte?

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Dedichereste una strada al geocentrismo tolemaico?

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Mi sembra che la vicenda dell’ANPI del 25 aprile, nella quale i partigiani “veri” (cioè quelli defunti o vecchissimi) apprezzerebbero la Brigata ebraica del 1944-45, mentre invece i partigiani “nuovi” (cioè quelli giovani e male informati) si schiererebbero per Hamas, costituisca un bell’esempio di conta delle mele con le pere. C’è da sperare che un simile equivoco non si presenti più in futuro.

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Società

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La sociologia ha inventato nella seconda metà dell’Ottocento il concetto di società. Ha dato vita cioè all’idea che le persone trascorrono la loro esistenza all’interno di un sistema sociale che è organizzato da precise regole e dotato della capacità di durare nel tempo. Ma ci ha anche fatto comprendere che una società funziona al meglio quando è in grado di offrire alle persone che vivono al suo interno la possibilità di disporre di modelli interpretativi.

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Giovani, mettete su una start up!

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Ha riscosso successo il film Il vegetale di Gennaro Nunziante, una sorta di parabola rivolta ai giovani. Il film racconta le traversie di un giovane milanese che fa di tutto per farsi assumere da qualche grande azienda, ma che di fatto viene menato come un can per l’aia: stage che sono di fatto lavoro sottopagato, promesse mai mantenute, cavilli burocratici ed evasivi (delle tasse). Alla fine però il giovane mette su un’azienda che produce cibo biologico, e questo – si tratta di una favola edificante – senza ricorrere a lavoro nero, a braccianti sottopagati, ma tutto onestamente rendicontato. Messaggio lampante: giovani, smettetela di puntare al miraggio del posto fisso da dipendente in una Corporation, inventatevi voi un mestiere, mettete su una start up!

 

Il film illustra in modo gnomico il cambiamento di paradigma nel lavoro in corso nelle nostre società industriali avanzate. Un cambiamento di paradigma che mette in crisi quella che oggi si chiama – non più teoria ma – narrazione di sinistra, marxista o liberal che sia. Una messa in crisi che spiega il declino anche elettorale delle sinistre occidentali. In sintesi: andiamo verso un’organizzazione del lavoro in cui ciascuno è imprenditore di se stesso. Non più il dipendente ma l’imprenditore diviene la figura-cardine della vita lavorativa oggi.

Ora, da tempo il liberalismo americano – in particolare la scuola di Chicago – ha proposto il paradigma detto del “capitale umano”; termine entrato ormai nel discorso comune, anche se per lo più viene frainteso. Secondo questa narrazione, chiunque non viva di rendita è un imprenditore, anche chi lavora come operaio in fabbrica. L’operaio è qualcuno che investe così il proprio capitale umano, che ha costituito nel tempo. Una ragazza che anziché fare l’operaia preferisce fare la prostituta, ad esempio, investe così il proprio capitale diciamo biologico. Si investe il proprio capitale umano non solo per guadagnare, ma per avere soddisfazioni in generale. I genitori, che sono in gran parte artefici del capitale umano dei loro figli, puntano anch’essi alla propria soddisfazione, anche se altruistica: avere figli con un elevato capitale umano. Questo certamente non significa più eguaglianza: chi ha uno scarso capitale umano, o lo investe male, sarà più povero di chi ha un cospicuo capitale umano e sa investirlo bene. Insomma, esistono imprenditori ricchi e imprenditori poveri; e in effetti, “il popolo delle partite IVA” è composto per la maggior parte da poveracci (anche se l’allargamento delle partite IVA è un fenomeno di per sé positivo). La maggioranza delle ditte sono misere. Non dico che questa teoria o narrazione sia più vera di quella marxista o di sinistra in generale, dico solo che essa oggi appare più verosimile, sembra rendere meglio conto della realtà. Come Il vegetale mostra.

 

Capisco che si tratti di una realtà che la sinistra detesta. Ma il mio compito non è giudicare e denunciare, e tanto meno proporre soluzioni, è di capire le cose, anche se non vanno per il verso che vorremmo.

Oggi si ripete come cosa scontata il fatto che il ceto medio si sta impoverendo. Ma se per ceto medio intendiamo tutti quelli che appartengono alla fascia di reddito media, allora c’è sempre un ceto medio non impoverito. Il punto è che oggi si impoveriscono persone che in passato classificavamo nel ceto medio: insegnanti, colletti bianchi. In effetti, quando andava per la maggiore la narrazione marxista o liberal, tendevamo ad associare a ogni mestiere un determinato livello di introiti e di forma di vita: se si era operai si era per lo più poveri, se si era insegnanti si aveva un reddito medio, se si era industriali si era ricchi… Oggi la nostra posizione nella struttura del lavoro non implica affatto un dato livello di reddito. È come se oggi tendesse a universalizzarsi quel che un tempo significava essere cantante o venditore di scarpe. C’era la cantante scalcagnata che andava avanti a ingaggi alle feste popolari e c’era Luciano Pavarotti; c’era l’umile scarpaio di un villaggio e c’era Salvatore Ferragamo. Anche essere filosofi, per dirne una, non garantisce oggi una specifica quantità di introiti: ci sono tanti laureati in filosofia che insegnano per tutta la vita nelle scuole medie, e filosofi ricchi e famosi, autori di bestseller, come Umberto Eco. Tutto dipende dal nostro capitale umano e dal nostro modo di farlo fruttare.

 

E la famiglia da cui si proviene è uno dei principali fattori del capitale umano. Da qui la scarsa mobilità sociale: ciascuno tende a perpetuare lo status della propria famiglia di origine. Tranne una frangia mobile, che va non solo in su ma anche in giù. Tutti conosciamo ereditieri che col tempo sono finiti in miseria.

Se tutti ci percepiamo come imprenditori – anche se siamo dipendenti di un ente – vien meno la filosofia che promuove il sindacalismo. Questo si regge sul fatto che tutti i lavoratori di una certa categoria si sentono più o meno alla pari, ovvero con redditi tra loro simili. Ma questo è sempre meno il caso oggi. Prendiamo i contadini: alcuni hanno ereditato un terreno misero e sono rimasti miseri, e altri si sono arricchiti. C’è sempre meno solidarietà all’interno di una categoria, perché i destini individuali si divaricano.

Non è che oggi ci siano più poveri che nel passato, solo che i poveri oggi sono chiamati “perdenti”; come imprenditori, appunto, che abbiano fallito.

 

 

Si sa che più una società è industrializzata, più si gonfia il terziario, ovvero i servizi. Questo è dovuto al fatto che nei primi due settori – industria e agricoltura-allevamento – la produttività è enormemente cresciuta, e crescerà ancora di più. Ovvero, la meccanizzazione, la robotizzazione, riduce sempre più la forza-lavoro impiegata, e la forza-lavoro potenziale troverà sbocco solo nel terziario. Certo anche in certe aree del terziario la produttività è molto aumentata; così chi è dedito a un lavoro intellettuale, come il sottoscritto, svolge da solo un lavoro che prima veniva fatto da tre segretari. Ma il tempo che un parrucchiere impiega per mettere a posto una capigliatura è lo stesso oggi come cento anni fa. Molti servizi restano a bassa produttività, e quindi assorbono molta mano d’opera. Ma anche nei servizi c’è chi sa far rendere il proprio capitale umano, e chi meno. Le sperequazioni sono interne a ogni tipo di attività. Anche se resta una sorta di identificazione quasi castale: tanti piccoli imprenditori sempre sull’orlo del fallimento votano compatti per Berlusconi perché si sentono rappresentati da un imprenditore come loro.

 

Il modello Chicagoan che vede ciascuno di noi come un imprenditore aumenta insomma la sua credibilità oggi perché di fatto la parte del lavoro dipendente con contratti a tempo indeterminato si assottiglia, e sempre più persone diventano imprenditori, anche se poveri. La sinistra protesta: “si allarga l’area del precariato”. Ma il precariato è la conseguenza del fatto che diventiamo sempre più, ciascuno di noi, freelance. È la gig economy, l’economia dei lavoretti. Call centers, piccolo commercio, Airbnb, consegne a domicilio, trasporti tipo Uber, ecc. Nel 2016 in Italia un milione e 800.000 persone lavoravano in questo modo; ma si calcola che nel 2020 il 40% dei lavoratori americani saranno di questo tipo. È interessante che il termine gig venga dal jazz: era l’ingaggio ad hoc di musicisti per una serata. Tutti tendiamo a essere come i jazzmen. Ovvero, il modello non è più l’operaio o l’impiegato di stato, ma l’artista. L’artista di solito è precario, ma appunto, ci sono artisti poverissimi e artisti milionari. 

Contrastare la gig economy è arduo. Lo vedo nel mio piccolo; anch’io sono uno sfruttatore per forza di cose. Spesso ho bisogno di traduzioni per il mio lavoro, che affido a pagamento ad amici. Mi colpisce il fatto che quasi sempre costoro vogliano essere pagati in nero, di solito per ragioni fiscali. Ma se si imponesse una legge per cui devo assumere i miei traduttori, non sarei mai in grado di far fronte a una spesa simile. Sarei io allora a chiedere a questi amici di lavorare in nero. O rinuncerei tout court alle traduzioni… Di solito l’alternativa al gig non è l’assunzione, ma niente lavoro. Questa è una morsa nella quale tutti siamo presi, anche se votiamo per LeU. 

 

La sinistra, marxista o quasi, si basa su un presupposto: che si deve andare avanti assieme agli altri, assieme a chi sta in una condizione simile alla propria. Se una fabbrica licenzia – predica la sinistra – meglio battersi assieme agli altri operai piuttosto che trovare una soluzione individuale, ad esempio farsi assumere altrove, o magari sedurre una manager della fabbrica che decide i licenziamenti… Ma in un mondo di lavoro frammentato, non garantito, effimero, fluttuante, la solidarietà di classe o corporativa perde senso. Sono le strategie individuali di sopravvivenza quelle che alla fine si mostrano decisive.

 

Tony Blair, e quella parte di sinistra che la pensava come lui, si rendeva ben conto di quello che abbiamo detto. Perciò Blair lanciò negli anni 90 il famoso slogan “Education, education, education”. Era la teoria di Anthony Giddens: nel mondo globalizzato di oggi la produzione dei beni di base verrà sempre più effettuata da paesi più poveri, come India e Cina, dato che là la manodopera costa molto meno. L’unica chance per i paesi altamente industrializzati è puntare sulla crescita del capitale umano, e l’istruzione è il principale fattore di crescita di questo capitale. Da una parte un mondo-operaio asiatico-africano, dall’altra un mondo-manager che coincide con il mondo iper-industrializzato. Gli europei dovranno lasciare la produzione dell’hardware (funzione operaia e contadina) agli extra-europei, per puntare tutto sul software (sapere e cultura). Bella teoria. Solo che in un paese occidentale non tutti possono essere creativi, informatici, dirigenti, manager, esperti: ci sono alcuni lavori a bassa produttività, connessi ai servizi, che vanno comunque svolti. I lavori gig, appunto. Svolti da immigrati, in parte, ma anche da autoctoni. Avremo quindi ampie fasce di popolazione colta ma povera, diciamo super-istruita rispetto al modesto lavoro che fanno e che sempre più faranno. Ma se tutti sono colti, i titoli di studio cesseranno di essere una risorsa in sé.

Allora meglio non studiare, meglio arrabattarsi sin da subito: meglio votare per Salvini, Fratelli d’Italia, M5S...

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Sulla peste digitale e il libro di carta

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Sul “Sole 24 ore” del 24 marzo (ma alcuni spunti erano già sul “Foglio” del 6 febbraio) Alfonso Berardinelli parla della crisi dell’editoria e della critica letteraria, che per lui vanno di pari passo: nello scenario editoriale degli ultimi anni il libro è diventato un’entità intoccabile e indiscutibile, e in questo cieco protezionismo la critica che non ha paura di criticare vede ridotti i suoi spazi fin quasi a nulla, mentre l’unica critica lecita è quella, del tutto inoffensiva, che fa in sostanza pubblicità fingendo di essere altro. In questa analisi, grosso modo condivisibile, attira l’attenzione un’affermazione apodittica posta al principio di tutto il ragionamento: "Quando il mercato librario cominciò a entrare in crisi con l’arrivo dei media elettronici, il problema diventò quello di vendere e di vendere molto". Dunque la causa del declino che da circa otto anni interessa l’editoria italiana sarebbe questo soggetto indistinto e indefinito, i “media elettronici”, nel quale, si può intuire, rientra tutto il caleidoscopio di opportunità digitali che sta erodendo il tempo dedicato ai consumi culturali nobili, e in primo luogo la lettura. 

 

Nella sua convinzione Berardinelli non è solo: direi anzi che questa forma di brutale determinismo tecnologico è condivisa, in modi più o meno sfumati, da una parte importante e influente di critici, opinionisti, giornalisti e dirigenti editoriali (del resto anche le vittime meno inconsapevoli dell’intossicazione digitale sono spesso le prime a rimpiangere i sé stessi di qualche anno fa, liberi dalla schiavitù dello smartphone). Viene da pensare a quel Ludovico Settala del XXXI capitolo dei Promessi sposi, protofisico autorevole, che durante la peste vide bene il pericolo e si adoperò a salvare vite, ma al tempo stesso contribuì a far accusare, torturare e bruciare come strega una cameriera, il cui padrone pativa strani dolori di stomaco. Quel medico, scrive Manzoni, “partecipava de’ pregiudizi più comuni e più funesti dei suoi contemporanei: era più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera”. Così questi uomini di cultura che riflettono sullo stato dei costumi, prodotti e consumi culturali italiani sono avanti a tutti (per intelligenza, esperienza, arguzia) e dicono molto di vero, ma sono incapaci di liberarsi dai pregiudizi che derivano, in sostanza, dall’essersi formati dentro un sistema culturale poco adatto a comprendere quello che sta accadendo in una parte di mondo sempre più invadente e sempre meno virtuale, e reagiscono spesso con un massimalismo antitecnologico che è di fatto una forma di populismo. La nuova strega sono i “media elettronici”, causa pressoché unica della peste digitale che sbriciola i cervelli e rischia di lasciare senza lavoro i critici e gli editori. 

 

Credo che il problema principale dell’assunto di Berardinelli e di molti altri assunti analoghi stia, prima ancora che nella loro verità, nell’approssimazione con cui vengono definiti i contorni del “nemico”. E questo proprio nel momento in cui tutti coloro che, per ragioni professionali o personali, hanno qualcosa da dire riguardo le sorti del libro e della lettura dovrebbero sentire la responsabilità di vietarsi ogni vaghezza e affilare lo sguardo in merito a ciò che accade in rete, a maggior ragione se si pensa che stia lì il nodo del problema (questa richiesta, mi sembra, non è troppo diversa da quella che Berardinelli fa per l’ambito letterario). Parlare di “media elettronici” come causa della crisi del mercato librario non ha più senso di quanto ne abbia il dire che la guerra in Siria è provocata dagli esseri umani. La rete non è un continente unitario, ma un insieme di continenti che si creano, si uniscono e si separano in una metamorfosi continua, dove agiscono tendenze in parte sinergiche e in parte opposte, e dove “lettore” e “non lettore”, “libro” e “non libro” possono significare, anche contemporaneamente, cose diverse fra loro e diverse da quelle a cui siamo abituati. L’altro corno del problema è che gli strumenti tradizionali di osservazione sistematica dei comportamenti sono sempre meno in grado di restituire un quadro oggettivo dei fenomeni della rete, che accadono in tempi, modi e dimensioni in gran parte fuori dalla nostra possibilità di monitoraggio e controllo (la gran mole di tracce che lasciamo nel corso della nostra vita digitale è gestita in maniera non trasparente, e dunque è come se non esistesse, o è fuorviante). Eppure tutte queste difficoltà non esimono dall’impegno di capirne di più, ma anzi lo rendono più urgente e necessario.

 

È vero dunque che negli ultimi anni il libro è diventato (più di quanto già non fosse) un idolo laico, ipostasi di un sistema di valori minacciato da una nuova barbarie ipertecnologica, patria dell’uomo di cultura e in quanto tale oggetto da difendere a tutti i costi e al di là del merito. Come sempre, prima si vince la guerra e poi si discute del perché, con chi e contro chi si è combattuta. L’argomento che continua a essere il più convincente per una larga fascia di pubblico riguarda i pregi del libro di carta come interfaccia materiale, come contenitore; ma non tanto per i motivi specifici che rendono ancora oggi la lettura su carta più appagante e funzionale della lettura a schermo (e ce ne sono diversi); il punto è la percezione soggettiva del valore, la possibilità di stabilire con lo strumento di lettura un rapporto emotivo prima ancora che intellettuale. Il carisma del supporto prevarica il contenuto, fino a renderlo quasi un pretesto.

 

 

Un articolo di Paula Cocozza (How eBooks lost their shine) uscito poco meno di un anno fa sul “Guardian” commenta l’arretramento della lettura digitale negli USA (in realtà discutibile) e la parallela ripresa del cartaceo con queste parole (il corsivo è mio): “Another thing that has happened is that books have become celebrated again as objects of beauty […] Once upon a time, people bought books because they liked reading. Now they buy books because they like books”. Un tempo si compravano i libri per leggerli, ora si comprano perché sono belli, e gli editori si impegnano a farli sempre più belli e seducenti alla vista e al tatto, anche per segnare la distanza dal ben più rozzo libro digitale: questa, che l’articolista celebra come una rivincita del cartaceo dopo tanti anni di ripiegamenti forzati, a guardar bene rischia di essere una gloria effimera, e dovrebbe suonare come un segnale di allarme per tutti coloro che fanno libri non soltanto per decorare gli scaffali. Nel XV secolo molti copisti reagirono alla minaccia del libro a stampa calcando la mano sulle caratteristiche che la nuova tecnologia non riusciva a eguagliare: miniature elaborate e coloratissime, calligrafia esasperata: in una parola, allora come oggi, l’alta definizione rispetto la bassa definizione del nuovo medium, per citare un recente libro di Massimo Mantellini; i codici erano senza dubbio più belli, più preziosi, più piacevoli da guardare e sfogliare dei primi incunaboli; ma non bastò: non sempre, e non in tutte le fasi di passaggio fra tecnologie l’alta definizione è un valore assoluto, o sufficiente a determinare una scelta.

 

Peraltro, se ogni medium è la rimediazione di un altro medium (ovvero il nuovo medium imita il precedente per incorporarlo e progressivamente sostituirlo), nel primo periodo il confronto è a portata di mano ed è piuttosto semplice per i detrattori evidenziare i limiti della nuova tecnologia e nasconderne, sminuirne o svalutarne i vantaggi; ma nel medio termine i vantaggi emergono, e i limiti vengono superati, o ci si abitua perché i vantaggi sono, comunque, superiori agli svantaggi. Come ai tempi di Gutenberg, anche oggi si tende a far leva su elementi estrinseci, lasciando in ombra la prima ragione d’essere del libro: il contenuto. È come se per amare un libro non fosse più necessario leggerlo, ma bastasse averlo, oppure leggerlo male, o solo in parte (e leggere libri mediocri o pessimi fa parte dello stesso quadro). Più la nostra vita intellettuale si impoverisce, più si cerca di reagire nascondendo a noi stessi prima ancora che agli altri questo impoverimento, e il libro (ma il libro di carta, ben piantato sulle mensole) è ancora oggi lo strumento più efficace per affermare uno status intellettuale. Al contrario (è fin troppo banale dirlo) per il lettore vero, per chi, cioè, acquista o comunque si procura un libro in base a priorità di contenuto, la scelta di dove leggerlo, se su carta o in digitale, non è certo irrilevante, ma è comunque secondaria rispetto alla possibilità di leggerlo (possibilità economica, disponibilità materiale, comodità d’acquisto, di conservazione, di consultazione; ma anche senso di responsabilità per l’ambiente e le risorse, che attualmente pesa poco o nulla, ma dovrebbe).

 

La modesta ripresa, in Italia, della vendita di libri nei canali trade (+ 2,5% a valore nel 2017, + 1,2% a copie secondo i dati AIE), accanto al calo del numero dei lettori, che continua (40,5% nel 2016 secondo i dati Istat) è, io credo, e con un paradosso solo apparente, un ulteriore indicatore della marginalizzazione della forma libro, e quindi di crisi strutturale delle forme di lettura tradizionali. In altre parole, il libro si sta progressivamente spostando in zone sempre più lontane dal proprio originario centro di senso, nelle quali potrà essere facilmente sostituito da altro senza percezione di perdita: questo movimento può dare l’impressione di un dinamismo positivo, ma è il contrario. Allo stesso modo lo stallo, il rallentamento o l’arretramento che più o meno ovunque sta avendo il libro digitale, perlomeno quello distribuito dai grandi editori (in Italia + 3,2 nel 2017, rispetto al + 21,6 del 2016: dati AIE) non è da festeggiare con un trionfalistico Print is back, come se fosse la dimostrazione che l’eBook è un fenomeno transitorio (ovvero nel modo in cui l’hanno commentato pressoché tutti i Ludovico Settala dell’editoria). La maggior parte dei libri elettronici che formano oggi l’esiguo 5,2% del mercato sono incunaboli digitali che cercano di ripetere da vicino il libro tradizionale: sono a tutti gli effetti libri, anzi moltissimi sono libri cartacei digitalizzati, e del resto il carattere primitivo dei formati più diffusi renderebbe difficile fare qualcosa di troppo diverso; il passaggio dalla carta al supporto elettronico è nella maggior parte dei casi un processo banale, a ribadire il fatto che sono entrambi parte dello stesso universo teorico, e l’esperienza di lettura migliore si ha su strumenti dedicati (eReader) con una tipologia di schermo (eInk) che pur col grande limite del bianco e nero cerca di replicare nella maniera più fedele possibile le caratteristiche della carta (non è retroilluminato, non stanca la vista nella lettura protratta).

 

La maggioranza di quanti leggono libri digitali legge anche libri cartacei, scegliendo a seconda della convenienza, della tipologia di libro, di fattori certamente anche emotivi, ma non soltanto emotivi. Insomma sono lettori veri, certo più veri dei lettori per i quali la carta è ormai poco più di un feticcio: il problema è che sono sempre meno. Se nel XV secolo la forma libro era in ottima salute e proprio la rivoluzione tipografica contribuì in maniera determinante a diffonderla e quindi ad aumentare la richiesta, la rivoluzione digitale si colloca al contrario in un periodo in cui il libro vede il proprio ruolo notevolmente ridimensionato, parallelamente al crescere di una pigrizia intellettuale che cerca ovunque il più comodo sfogo. Eppure è sbagliato affrettarsi a collegare le due cose in maniera meccanica, e dare per scontato che la crisi del libro sia provocata dai media digitali: prima di tutto, lo si è già detto, perché i media digitali, senza ulteriori specificazioni, non sono una categoria utilizzabile per costruirci sopra dei ragionamenti. Tutti i fenomeni esaminati fin qui, per l’ambito del cartaceo e del digitale tecnicamente ma non ontologicamente disruptive, partecipano della crisi, organica e di lunga durata, della forma libro, non come supporto, ma come modalità privilegiata di creazione e di trasmissione del sapere. Il libro digitale, quel 5,2% di cui si è detto, fa ancora parte della stessa tradizione culturale e di questo mercato editoriale; eppure, nello stesso momento, appartiene a una dimensione “altra”, nella quale si sta sempre più ridefinendo la lettura e in generale il consumo di contenuti, in modalità quasi del tutto fuori dal controllo degli operatori tradizionali, e soprattutto sempre più frammentate, sempre più lontane dalla cultura della complessità di cui parla Gino Roncaglia nel suo ultimo lavoro, e di cui il libro è stato e in parte è ancora l’espressione più alta: perdere di vista il libro digitale significa, per un editore, perdere di vista il proprio core business e pregiudicare il proprio futuro; frenarne artificiosamente la crescita, come molti fanno e alcuni orgogliosamente rivendicano, significa contribuire per la propria parte alla crisi del mercato, di un modello culturale, di un tipo di lettore; e proprio del lettore più vero e sincero, che andrebbe studiato e corteggiato e non colpito col fuoco amico, perché è l’unico che può aiutare chi pubblica libri a non imbalsamarsi nel presente, e a connettersi a nuovi possibili spazi di progetto, se ancora sono possibili. 

 

Mentre lo scrivo, mi fa un po’ impressione che si debba ripetere ancora oggi quello che già era chiaro cinque anni fa; rispetto ad allora, possiamo forse lasciarci alle spalle con minori ansie un ultimo specioso assioma: come il libro è altro dal contenitore, allo stesso modo il libro non è l’editore, e meno che mai quel pugno di cinque editori che da soli fanno oltre il 60% di questo mercato stanco e fragile. La maggior parte di loro ha già completato una sanguinosa resa dei conti interna per adattarsi al nuovo contesto economico, o sono sulla buona strada; ma raramente questo processo di ridimensionamento e ricambio ha toccato i piani alti. Sempre disponibili a fraintendere segnali ambigui e a ignorare segnali chiari, scarsamente inclini alla critica e ancor meno all’autocritica, credono che il peggio sia passato, e si godono il loro personale ritorno all’ordine. In Fiesta di Hemingway c’è questo interessante dialogo: “‘Come sei finito in bancarotta?’ domandò Bill. ‘In due modi’ disse Mike. ‘A poco a poco e poi all'improvviso’”. 

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